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Il Papa con san Paolo: SCRITTURA E TRADIZIONE INSEPARABILI

Ultimo Aggiornamento: 24/10/2012 19:03
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All'udienza generale Benedetto XVI parla delle ultime lettere dell'epistolario paolino

Scrittura e Tradizione
Ecco la struttura cattolica



"Preghiamo il Signore e san Paolo perché anche noi, come cristiani, possiamo sempre più caratterizzarci, in rapporto alla società in cui viviamo, come membri della "famiglia di Dio"". È quanto auspicato da Benedetto XVI al termine della catechesi di mercoledì mattina, 28 gennaio. Commentando con i fedeli presenti all'udienza generale nell'Aula Paolo VI le ultime lettere dell'epistolario paolin0 - quelle a Timoteo e a Tito - il Papa ha invitato a leggere la Scrittura come parola dello Spirito, non solo come oggetto di curiosità storica.

Cari fratelli e sorelle,

le ultime Lettere dell'epistolario paolino, delle quali vorrei parlare oggi, vengono chiamate Lettere Pastorali, perché sono state inviate a singole figure di Pastori della Chiesa:  due a Timoteo e una a Tito, collaboratori stretti di san Paolo.

In Timoteo l'Apostolo vedeva quasi un alter ego; infatti gli affidò delle missioni importanti (in Macedonia:  cfr. At 19, 22; a Tessalonica:  cfr. 1 Ts 3, 6-7; a Corinto:  cfr. 1 Cor 4, 17; 16, 10-11), e poi scrisse di lui un elogio lusinghiero:  "Io non ho nessuno di animo uguale come lui, che sappia occuparsi così di cuore delle cose che vi riguardano" (Fil 2, 20). Secondo la Storia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea, del iv secolo, Timoteo fu poi il primo Vescovo di Efeso (cfr. 3, 4).

Quanto a Tito, anch'egli doveva essere stato molto caro all'Apostolo, che lo definisce esplicitamente "pieno di zelo... mio compagno e collaboratore" (2 Cor 8, 17.23), anzi "mio vero figlio nella fede comune" (Tt 1, 4). Egli era stato incaricato di un paio di missioni molto delicate nella Chiesa di Corinto, il cui risultato rincuorò Paolo (cfr. 2 Cor 7, 6-7.13; 8, 6). In seguito, per quanto ci è tramandato, Tito raggiunse Paolo a Nicopoli nell'Epiro, in Grecia (cfr. Tt 3, 12), e fu poi da lui inviato in Dalmazia (cfr. 2 Tm 4, 10). Secondo la Lettera a lui indirizzata, egli risulta poi essere stato Vescovo di Creta (cfr. Tt 1, 5).

Le Lettere indirizzate a questi due Pastori occupano un posto tutto particolare all'interno del Nuovo Testamento. La maggioranza degli esegeti è oggi del parere che queste Lettere non sarebbero state scritte da Paolo stesso, ma la loro origine sarebbe nella "scuola di Paolo", e rifletterebbe la sua eredità per una nuova generazione, forse integrando qualche breve scritto o parola dell'Apostolo stesso.
Ad esempio, alcune parole della Seconda Lettera a Timoteo appaiono talmente autentiche da poter venire solo dal cuore e dalla bocca dell'Apostolo.

Senza dubbio la situazione ecclesiale che emerge da queste Lettere è diversa da quella degli anni centrali della vita di Paolo. Egli, adesso, in retrospettiva si autodefinisce "araldo, apostolo, e maestro" dei pagani nella fede e nella verità, (cfr. 1 Tm 2, 7; 2 Tm 1, 11); si presenta come uno che ha ottenuto misericordia, perché Gesù Cristo - così scrive - "ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta la sua magnanimità, perché io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna". (1 Tm 1, 16).

Quindi essenziale è che realmente in Paolo, persecutore convertito dalla presenza del Risorto, appare la magnanimità del Signore a incoraggiamento per noi, per indurci a sperare e ad avere fiducia nella misericordia del Signore che, nonostante la nostra piccolezza, può fare cose grandi. Oltre gli anni centrali della vita di Paolo vanno anche i nuovi contesti culturali qui presupposti. Infatti si fa allusione all'insorgenza di insegnamenti da considerare del tutto errati e falsi (cfr. 1 Tm 4, 1-2; 2 Tm 3, 1-5), come quelli di chi pretendeva che il matrimonio non fosse buono (cfr. 1 Tm 4, 3a).

Vediamo come sia moderna questa preoccupazione, perché anche oggi si legge a volte la Scrittura come oggetto di curiosità storica e non come parola dello Spirito Santo, nella quale possiamo sentire la stessa voce del Signore e conoscere la sua presenza nella storia. Potremmo dire che, con questo breve elenco di errori presenti nelle tre Lettere, appaiono anticipati alcuni tratti di quel successivo orientamento erroneo che va sotto il nome di Gnosticismo (cfr. 1 Tm 2, 5-6; 2 Tm 3, 6-8).
 
A queste dottrine l'autore fa fronte con due richiami di fondo. L'uno consiste nel rimando a una lettura spirituale della Sacra Scrittura (cfr. 2 Tm 3, 14-17), cioè a una lettura che la considera realmente come "ispirata" e proveniente dallo Spirito Santo, così che da essa si può essere "istruiti per la salvezza". Si legge la Scrittura giustamente ponendosi in colloquio con lo Spirito Santo, così da trarne luce "per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia" (2 Tm 3, 16). In questo senso aggiunge la Lettera:  "Perché l'uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona" (2 Tm 3, 17).

L'altro richiamo consiste nell'accenno al buon "deposito" (parathéke):  è una parola speciale delle Lettere pastorali con cui si indica la tradizione della fede apostolica da custodire con l'aiuto dello Spirito Santo che abita in noi. Questo cosiddetto "deposito" è quindi da considerare come la somma della Tradizione apostolica e come criterio di fedeltà all'annuncio del Vangelo. [SM=g1740721]

E qui dobbiamo tenere presente che nelle Lettere pastorali come in tutto il Nuovo Testamento, il termine "Scritture" significa esplicitamente l'Antico Testamento, perché gli scritti del Nuovo Testamento o non c'erano ancora o non facevano ancora parte di un canone delle Scritture. Quindi la Tradizione dell'annuncio apostolico, questo "deposito", è la chiave di lettura per capire la Scrittura, il Nuovo Testamento. [SM=g1740721]

In questo senso, Scrittura e Tradizione, Scrittura e annuncio apostolico come chiave di lettura, vengono accostate e quasi si fondono, per formare insieme il "fondamento saldo gettato da Dio" (2 Tm 2, 19). L'annuncio apostolico, cioè la Tradizione, è necessario per introdursi nella comprensione della Scrittura e cogliervi la voce di Cristo. Occorre infatti essere "tenacemente ancorati alla parola degna di fede, quella conforme agli insegnamenti ricevuti" (Tt 1, 9).

Alla base di tutto c'è appunto la fede nella rivelazione storica della bontà di Dio, il quale in Gesù Cristo ha manifestato concretamente il suo "amore per gli uomini", un amore che nel testo originale greco è significativamente qualificato come filanthropía (Tt 3, 4; cfr. 2 Tm 1, 9-10); Dio ama l'umanità.

Nell'insieme, si vede bene che la comunità cristiana va configurandosi in termini molto netti, secondo una identità che non solo prende le distanze da interpretazioni incongrue, ma soprattutto afferma il proprio ancoraggio ai punti essenziali della fede, che qui è sinonimo di "verità" (1 Tm 2, 4.7; 4, 3; 6, 5; 2 Tm 2, 15.18.25; 3, 7.8; 4, 4; Tt 1, 1.14). Nella fede appare la verità essenziale di chi siamo noi, chi è Dio, come dobbiamo vivere. E di questa verità (la verità della fede) la Chiesa è definita "colonna e sostegno" (1 Tm 3, 15).

In ogni caso, essa resta una comunità aperta, dal respiro universale, la quale prega per tutti gli uomini di ogni ordine e grado, perché giungano alla conoscenza della verità:  "Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità", perché "Gesù Cristo ha dato se stesso in riscatto per tutti" (1 Tm 2, 4-5).

Quindi il senso dell'universalità, anche se le comunità sono ancora piccole, è forte e determinante per queste Lettere. Inoltre tale comunità cristiana "non parla male di nessuno" e "mostra ogni dolcezza verso tutti gli uomini" (Tt 3, 2). Questa è una prima componente importante di queste Lettere:  l'universalità e la fede come verità, come chiave di lettura della Sacra Scrittura, dell'Antico Testamento e così si delinea una unità di annuncio e di Scrittura e una fede viva aperta a tutti e testimone dell'amore di Dio per tutti.

Un'altra componente tipica di queste Lettere è la loro riflessione sulla struttura ministeriale della Chiesa. Sono esse che per la prima volta presentano la triplice suddivisione di episcopi, presbiteri e diaconi (cfr. 1 Tm 3, 1-13; 4, 13; 2 Tm 1, 6; Tt 1, 5-9). Possiamo osservare nelle Lettere pastorali il confluire di due diverse strutture ministeriali e così la costituzione della forma definitiva del ministero nella Chiesa.

Nelle Lettere paoline degli anni centrali della sua vita, Paolo parla di "episcopi" (Fil 1, 1), e di "diaconi":  questa è la struttura tipica della Chiesa formatasi all'epoca nel mondo pagano. Rimane pertanto dominante la figura dell'apostolo stesso e perciò solo man mano si sviluppano gli altri ministeri.
 
Se, come detto, nelle Chiese formate nel mondo pagano abbiamo episcopi e diaconi, e non presbiteri, nelle Chiese formate nel mondo giudeo-cristiano i presbiteri sono la struttura dominante.

Alla fine nelle Lettere pastorali, le due strutture si uniscono:  appare adesso "l'episcopo" (il vescovo; cfr. 1 Tm 3, 2; Tt 1, 7), sempre al singolare, accompagnato dall'articolo determinativo "l'episcopo". E accanto a "l'episcopo" troviamo i presbiteri e i diaconi. Sempre ancora è determinante la figura dell'Apostolo, ma le tre Lettere, come ho già detto, sono indirizzate non più a comunità, ma a persone:  Timoteo e Tito, i quali da una parte appaiono come Vescovi, dall'altra cominciano a stare al posto dell'Apostolo.

Si nota così inizialmente la realtà che più tardi si chiamerà "successione apostolica". Paolo dice con tono di grande solennità a Timoteo:  "Non trascurare il dono che è in te e che ti è stato conferito, mediante una parola profetica, con l'imposizione delle mani da parte dei presbiteri" (1 Tim 4, 14).


Possiamo dire che in queste parole appare inizialmente anche il carattere sacramentale del ministero. E così abbiamo l'essenziale della struttura cattolica:  Scrittura e Tradizione, Scrittura e annuncio, formano un insieme, ma a questa struttura, per così dire dottrinale, deve aggiungersi la struttura personale, i successori degli Apostoli, come testimoni dell'annuncio apostolico. [SM=g1740721]

Importante infine notare che in queste Lettere la Chiesa comprende se stessa in termini molto umani, in analogia con la casa e la famiglia. Particolarmente in 1 Tm 3, 2-7 si leggono istruzioni molto dettagliate sull'episcopo, come queste:  egli dev'essere "irreprensibile, non sposato che una sola volta, sobrio, prudente, dignitoso, ospitale, capace di insegnare, non dedito al vino, non violento ma benevolo, non litigioso, non attaccato al denaro. Sappia dirigere bene la propria famiglia e abbia figli sottomessi con ogni dignità, perché se uno non sa dirigere la propria casa, come potrà aver cura della Chiesa di Dio? Inoltre... è necessario che egli goda buona testimonianza presso quelli di fuori".

Si devono notare qui soprattutto l'importante attitudine all'insegnamento (cfr. anche 1 Tm 5, 17), di cui si trovano echi anche in altri passi (cfr. 1 Tm 6, 2c; 2 Tm 3, 10; Tt 2, 1), e poi una speciale caratteristica personale, quella della "paternità". L'episcopo infatti è considerato padre della comunità cristiana (cfr. anche 1 Tm 3, 15). Del resto l'idea di Chiesa come "casa di Dio" affonda le sue radici nell'Antico Testamento (cfr. Nm 12, 7) e si trova riformulata in Eb 3, 2.6, mentre altrove si legge che tutti i cristiani non sono più stranieri né ospiti, ma concittadini dei santi e familiari della casa di Dio (cfr. Ef 2, 19).

Preghiamo il Signore e san Paolo perché anche noi, come cristiani, possiamo sempre più caratterizzarci, in rapporto alla società in cui viviamo, come membri della "famiglia di Dio". E preghiamo anche perché i pastori della Chiesa acquisiscano sempre più sentimenti paterni, insieme teneri e forti, nella formazione della Casa di Dio, della comunità, della Chiesa.



(©L'Osservatore Romano - 29 gennaio 2009)
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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VATICANO
- LE PAROLE DELLA DOTTRINA a cura di don Nicola Bux e don Salvatore Vitiello

- Due teorie nate dal biblicismo
Città del Vaticano (Agenzia Fides)

- Si sostiene che il rito postconciliare della Santa Messa sia più ricco di Letture, di Preghiere Eucaristiche, mentre il Messale detto di Pio V sarebbe povero e poco accurato. E’ una tesi anacronistica perché non tiene conto della distanza di quattro secoli; sarebbe come accusare, analogamente, i “Sacramentari” anteriori di alcuni secoli a quello di Pio V. Inoltre si dimentica che le pericopi di questo Messale si sono formate sulla base degli antichi capitolari con epistole, come il “Liber comitis” di San Girolamo – datato al 471 - o con pericopi evangeliche; una tradizione comune con l’Oriente, come attesta ancora oggi la liturgia bizantina.

In secondo luogo, le letture brevi aiutano a memorizzare l’essenziale ed esprimono la sobrietà del rito romano.

Si arriva poi ad affermare che, la forma straordinaria dell’unico Rito latino, non sottolineerebbe sufficientemente la presenza di Cristo nella Parola, quando questa si proclama nell'assemblea; in tal modo verrebbe meno l'essenza stessa dell'azione liturgica che è costituita dalle “due mense” – in “Dei Verbum” n. 21 sembra “una” sola - che formano un solo atto di culto!

Il Messale del Concilio di Trento si muoverebbe in una prospettiva lontana dalla tradizione dei Padri della Chiesa; sarebbe un Messale nato esclusivamente per il prete, e non prevederebbe la partecipazione dell'assemblea perché il popolo è semplicemente pleonastico. Infatti il prete celebrerebbe per conto proprio e il popolo altrettanto; altra cosa sarebbe la Messa detta “di Paolo VI” nella quale non celebrerebbe il sacerdote ma la Chiesa, presente sacramentalmente nell'assemblea, di cui il sacerdote, in forza dell'ordine, è presidente naturale.

Non è così.

E’ un discorso che, in modo piuttosto problematico, riduce tutto a Parola e Assemblea. Ma “Gesù non è solo maestro, ma redentore dell’uomo nella sua interezza. Il Gesù che ammaestra è anche colui che guarisce” (J.Ratzinger-Benedetto XVI, “Gesù di Nazaret”, p. 88) e questo avviene efficacemente solo con il Sacramento Eucaristico.


Un’altra teoria diffusa, a causa del consueto fenomeno di sostituzione e di scambio di una cosa per l'altra, è l’equiparazione della presenza di Gesù Cristo nel Santissimo Sacramento alla presenza della Parola nel libro delle Scritture: questa c’è solo “quando nella chiesa si legge la Sacra Scrittura” (“Sacrosanctum Concilium” n. 7).

È necessario ribadire che la presenza di Cristo nella Parola c’è, a due condizioni: quando la lettura si fa “nella chiesa”, non privatamente, e quando “si legge” la Sacra Scrittura.

Dunque non basta che ci sia il libro sacro sull’ambone o sull’altare, perché ci sia la presenza. (Cf. Le parole della dottrina: “La presenza del Signore Gesù precede e permane oltre l’assemblea liturgica”, del 10/07/08).

Infine, è quanto mai urgente che la predicazione e la catechesi tornino a ribadire la giusta distinzione tra Rivelazione, Parola di Dio e Sacra Scrittura che, seppur intimamente connesse, non sono equivalenti. Talora, infatti, non senza sorpresa, si riscontra a tale riguardo, notevole confusione e non solo tra i fedeli laici. Si è giunti a ritenere che la Bibbia si interpreti con la Bibbia, e non, come sempre nella Chiesa Cattolica, nella Tradizione e in fedele ascolto del Magistero.

(Agenzia Fides 2/10/2008)



[SM=g1740733]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Identikit del Messia di Giacomo Biffi

 




«Chi dice la gente che io sia?» domanda anche oggi Gesù
 

IDENTIKIT DEL MESSIA
 
 
di Giacomo Biffi
Cardinale arcivescovo emerito di Bologna
 



 
Ciò che primariamente colpisce nel magistero di Gesù è la straordinaria chiarezza di idee. Tutto è lucidamente enunciato senza ambiguità o tentennamenti. Le esitazioni, il rifugio nel soggettivismo, le formule dubitative («forse», «secondo me», «mi parrebbe»), così frequenti nel nostro dire, non si incontrano mai nei suoi discorsi, dai quali sono lontanissimi i vezzi, le civetterie,l’apparente arrendevolezza del “pensiero debole”. Gesù manifesta anzi una sicurezza che sarebbe persino irritante, se non fossimo contestualmente conquistati dall’oggettiva elevatezza e luminosità del suo insegnamento. 
 
Pur nella grande varietà degli argomenti toccati, non c’è frammentazione o incoerenza nella visione di Cristo. Tutto è raccolto e unificato attorno a due temi fondamentali sempre ricorrenti: quello del Padre (un padre che sta all’origine di qualsivoglia esistenza) e quello del Regno, traguardo di ogni tensione delle creature e del loro peregrinare nella storia. In lui però non c’è nulla né del pensatore distratto, così assorto nelle sue alte elucubrazioni da non accorgersi nemmeno più delle piccole cose, né del superuomo che disdegna di lasciarsi impigliare negli accadimenti senza rilevanza e senza gloria. Al contrario: Gesù si dimostra un osservatore attento — anzi interessato e compiaciuto — della realtà “feriale” nella quale siamo tutti immersi. 
 
Le cose più umili vengono utilizzate nei suoi paragoni: i bicchieri e i piatti da lavare, la lucerna e il lucerniere, il sale da usare in cucina, il bicchiere d’acqua fresca, il vino vecchio che è più buono, il vestito rattoppato, la pagliuzza e la trave, la cruna degli aghi, i danni provocati dalle tarme e dalla ruggine, gli effimeri fiori del campo, le prime foglie del fico, l’arbusto di senape, il seme che cade in terreni diversamente accoglienti e produttivi, la rete dei pescatori che raccoglie al tempo stesso pesci commestibili e pesci da buttare, la pecora che si allontana dal gregge e si perde. E questo è un elenco che si potrebbe molto allungare. 
 
Quanto s’è detto dovrebbe bastare a persuaderci che Gesù non ha somiglianza alcuna con l’ideologo che — tutto preso dalle sue grandiose teorie — non riesce più a vedere e a prendere in considerazione le vicissitudini spicciole della gente comune. E proprio questa sua sensibilità per le piccole cose concrete e l’arte sua inimitabile di incastonarle nei ragionamenti più alti gli consentono di parlare a tutti, anche ai semplici, delle verità più sublimi con la mediazione di un linguaggio limpido e originale; un linguaggio che ci appare ben diverso da quello di molti pensatori professionisti e di non pochi attori della scena politica. 
 
Gesù si dimostra poi sempre un uomo sovranamente libero. Nessuno riesce a distoglierlo dai suoi intenti. È libero di fronte a quelli del suo clan, i quali, dopo averlo preso per matto (cfr. Marco, 3, 21), si immaginano di poter ricavare qualche vantaggio dal suo successo e dalla sua notorietà e cercano di riprendere i rapporti (cfr. Marco, 3, 31-34). 
 
È libero di fronte ai capi del suo popolo e ai suoi avversari, che cercano di ostacolarlo nel suo ministero, e ai quali risponde seccamente: «Il Padre mio lavora sempre e anch’io lavoro» (Giovanni, 5, 17). Egli riconosce e rispetta l’autorità, ma non ha timori reverenziali nei confronti delle persone che ne sono investite. Basti pensare alle invettive rivolte ai farisei e agli scribi (cfr. Matteo, 23, 32). Ai sadducei, che ricoprivano le più alte cariche sacerdotali, non esita a manifestare il suo dissenso nei termini più decisi: «Voi vi ingannate, poiché non conoscete né le Scritture né la potenza di Dio» (Matteo, 22, 29). Con il tetrarca di Galilea, Erode, non fa proprio complimenti: «Andate a dire a quella volpe...» (cfr. Luca, 13, 32). 
 
Del resto, la sua franchezza è esplicitamente riconosciuta anche da quelli che gli sono ostili, come i farisei e gli erodiani che una volta così gli si rivolgono: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e non ti curi di nessuno; infatti non guardi in faccia agli uomini, ma secondo verità insegni la via di Dio» (Marc o , 12, 14). Gesù è libero perfino dalla «apparenza della virtù»; vale a dire, non lo preoccupano affatto i giudizi malevoli e manifestamente infondati che la gente può formulare su di lui. Egli va avanti per la sua strada, anche a prezzo del deterioramento della sua buona fama: «È venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e dicono: “Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori”» (Matteo, 11, 19). Si direbbe che ritenga valido anche per sé l’ammonimento che rivolge agli altri: «Guai a voi quando tutti gli uomini diranno bene di voi» (cfr. Luca, 6, 26). 
 
Sono eccezionali in Gesù la solidità psicologica e il dominio di sé. È tranquillo e impavido nel bel mezzo di una tempesta che rischia di rovesciargli la barca (cfr.Marco, 4, 35-41), così come con impressionante forza d’animo affronta e quasi ipnotizza la folla inferocita di Nazaret che si propone di ucciderlo: «Tutti nella sinagoga furono pieni di sdegno; si levarono, lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte sul quale la loro città era situata, per gettarlo giù dal precipizio. Ma egli, passando in mezzo a loro, se ne andò» (Luca, 4, 28-30). 
 
Non è però un imperturbabile gentleman della società vittoriana, che si fa un punto d’onore di non lasciar trapelare all’esterno le proprie emozioni. Al contrario, Gesù non ha alcun ritegno a mostrarsi sconvolto, come per esempio davanti alle lacrime di Maria, la sorella di Lazzaro: «Quando la vide piangere (...) si commosse profondamente»; anzi «si turbò», precisa l’evangelista (cfr. Giovanni, 11, 33). E al pensiero della morte dell’amico, «scoppiò in pianto» anche lui; tanto che i presenti commentano: «Vedi come l’amava» (cfr. Giovanni, 11, 35-36). Contemplando dall’alto Gerusalemme, alla prospettiva della sua distruzione non sa frenare le lacrime: «Quando fu vicino, alla vista della città, pianse su di essa, dicendo: “Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, la via della pace”» (cfr. Luca, 10, 41-42).
 
Ma sa anche entusiasmarsi, lasciandosi contagiare dalla gioia dei discepoli, felici di aver portato a termine la loro prima esperienza di evangelizzazione: «I settantadue tornarono pieni di gioia (...) In quello stesso istante Gesù esultò nello Spirito Santo e disse: “Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra”» (cfr. Luca, 10, 17-21). 
 
Gesù era dunque un uomo che sapeva piangere e sapeva stare allegro. Che sapesse piangere è esplicitamente documentato, come s’è visto; che sapesse anche stare lietamente in compagnia, lo si deduce se non altro dal piacere con cui i pubblicani — che erano di solito gaudenti e bontemponi — l’accoglievano alla loro mensa. Quando aveva di fronte della gente affaticata ed esausta, provvedeva fattivamente a sostentarla. Ma certo non doveva avere l’abitudine di rovinare la serenità e la giocondità di un convito con riflessioni troppo malinconiche o con richiami intempestivi alla fame nel mondo. 
 
Leggiamo ora un famoso episodio della sua vita, secondo la narrazione di Matteo: «Essendo giunto Gesù nella regione di Cesarea di Filippo, chiese ai suoi discepoli: “La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo?”. Risposero: “Alcuni Giovanni il Battista, altri Elia o qualcuno dei profeti”. Disse loro: “Voi chi dite che io sia?”. Rispose Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. E Gesù: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli”» (Matteo, 16, 13-17). 
 
Come si vede, Gesù stesso propone qui il “problema di Cristo”. Ed è stimolante rilevare come Gesù sia interessato a un duplice tipo di investigazione: innanzitutto: La gente chi dice che io sia? Quali sono su di me le opinioni del mondo? Poi: Voi chi dite che io sia? Voi che siete la mia Chiesa, voi che vi esprimete ufficialmente per bocca di Pietro, che cosa dite agli uomini di me? 
 
Ad ascoltare la «gente» non si raccoglie, a proposito di Cristo, una certezza, ma piuttosto una molteplicità di opinioni. Passiamole un po’ in rassegna, facendone in qualche modo tre gruppi, così da semplificare il discorso. 
 
Gesù è per molti un mito, che ha arricchito e adornato l’esistenza, senza aver lui l’esistenza; qualcosa come Orfeo nell’antico mondo greco e, più modestamente, come Babbo Natale nel moderno Occidente secolarizzato. Oppure è un uomo leggendario che, proprio perché non è mai esistito, ha potuto essere rivestito a poco a poco dei caratteri della divinità. O, se si vuole, è un’idea divina, una fede, uno slancio dello spirito, che ha assunto progressivamente nella coscienza di una comunità di uomini sembianza e natura di uomo. Insomma, una grandezza sovrumana, ma irreale. 
 
Gesù — dicono altri — è un uomo, straordinariamente ma semplicemente uomo, che con il suo fascino eccezionale, la sua intelligenza sublime, la sua meravigliosa personalità, ha impresso un corso nuovo alla storia universale: in una parola, un genio. C’è chi dice: un genio religioso, che, avendo intuito con chiarezza e intensità inarrivabili l’ultima verità delle cose, ha scoperto la paternità di Dio, il culto «in spirito e verità», la legge della carità. C’è chi dice: un genio filosofico, che ha rivelato il valore della coscienza soggettiva e il primato del mondo interiore su quello esteriore. C’è chi dice: un genio sociale, che ha affermato la sostanziale uguaglianza tra gli uomini e ha esaltato la ricerca della giustizia. C’è chi dice: un genio politico, che ha introdotto nella storia umana l’impegno e l’ideale della liberazione da tutte le prepotenze e da tutte le oppressioni esteriori. Insomma, una grandezza reale, ma non sovrumana. 
 
Gesù — dice una terza opinione — è un uomo certamente esistito, ma del quale non è possibile sapere niente di certo: i documenti in nostro possesso ci parlano tutti del Cristo che è stato oggetto della fede, dell’amore, dell’adorazione della comunità primitiva, ma non ci mettono in condizione di chiarire chi sia stato veramente in se stesso il Gesù della storia. Insomma, un enigma storico che non sarà mai risolto. 
 
C’è da notare che, in genere, i giudizi che circolano tra la «gente» sono intenzionalmente positivi e benevoli: nessuno, o quasi nessuno, parla male di lui. Istituire la critica di queste opinioni, mostrandone sia il bagliore di verità che c’è in ciascuna sia i suoi limiti e la sua globale inconsistenza, è un lavoro di analisi lungo, ma non difficile, e in altra sede anche doveroso per il cristiano che vuol vivere la sua fede in modo intellettualmente maturo. Ma noi non ce lo proponiamo, in questa che vuol essere una meditazione e si prefigge solo il confronto tra le due posizioni (quella della gente e quella della Chiesa), per rilevare i due diversi modi di accostare il mistero di Cristo e prendere consapevolezza della loro totale e assoluta incompatibilità. 
 
Questa riflessione vuol solo inquietare, fino a estinguere, se possibile, la coesistenza nel nostro spirito di mondo e Chiesa, delle opinioni della gente e della conoscenza donataci dal Padre, per crescere nella limpidità della fede e nella coerenza della vita. 
 
Anche se molto diverse tra loro, le opinioni della «gente» hanno in comune il ritenere Gesù di Nazaret un “caso classificabile”: «uno dei profeti». È un mito? La storia è piena di miti. È un’idea che ha segnato la vicenda umana? Sarebbe paragonabile alla gnosi del mondo antico o al marxismo del mondo moderno. Un genio religioso? Possiamo annoverarlo con Buddha, con Mosè, con Maometto. Un filosofo? Platone e Aristotele lo possono prendere in loro compagnia. Un indagatore del sociale? Potrebbe stare con gli Enciclopedisti del XVIII secolo e con Marx. Un agitatore? Come lui e più efficaci di lui, ci sarebbero Spartaco, Masaniello, Bakunin. Un liberatore? Mettiamolo con Simón Bolivar e con Giuseppe Garibaldi. Un uomo di cui non si può sapere nulla di certo? Se ne danno altri esempi: Omero, Pitagora, lo stesso Socrate sarebbero a lui assimilabili. 
 
Sembrerebbe di capire che lo sforzo inconscio della «gente», pur manifestandosi in ipotesi molto disparate e pur esprimendosi in giudizi solitamente benigni, sia quello di ridurre Gesù di Nazaret a qualcosa di già contemplato, di risaputo, di “normale”: l’importante è metterlo in qualche scompartimento previsto dalla esperienza umana; così, quando è sistemato in un cassetto ed etichettato, non è più un caso unico e non può turbare più. 
 
Se la caratteristica del parere della «gente» è la pluralità delle opinioni, la connotazione della risposta ecclesiale è l’unità. Non c’è pluralismo nella Chiesa a proposito di Gesù Cristo: la risposta di Pietro è la risposta di tutti. L’identità della convinzione di ciascuno di noi con la fede di Pietro è la “pietra” di paragone che giudica la legittimità dell’appartenenza ecclesiale. Chi altera questa fede non può avere posto nella Chiesa. La comunità apostolica non conosce su questo punto alcuna propensione all’irenismo. «Se qualcuno viene a voi e non porta questo insegnamento, non ricevetelo in casa e non salutatelo» (2 Giovanni, 10). «Vi metto in guardia dalle bestie in forma d’uomo, che non solo voi non dovete accogliere, ma, se è possibile, neppure incontrare. Solo dovete pregare per loro perché si convertano, il che è difficile » (Ignazio, Agli Smirnesi IV, 1). «Sono cani rabbiosi, che mordono di nascosto; voi dovete guardarvi da costoro, che sono difficilmente curabili» (Ignazio, Agli Efesini VII, 1). 
 
E mentre le “opinioni” mondane su Gesù di Nazaret tendono, come si è visto, a renderlo classificabile, la fede ecclesiale, che si esprime per bocca di Pietro, sottolinea la sua assoluta unicità: Gesù di Nazaret è «il Cristo, il figlio del Vivente, il figlio di Dio». Gesù di Nazaret è «il»: un caso a sé del tutto imparagonabile. 
 
Come si è potuto vedere, il nocciolo del problema cristologico sta proprio qui: Gesù è “uno dei...” o “il”?; è catalogabile o è un caso a sé? la sua comparsa nel mondo è un fatto importante, ma commisurabile con i nostri metri di giudizio, o è un evento unico, decisivo, irripetibile? 
 
Questa è la questione. Essere “cristiani” significa avere capito che Gesù è “il”, che non ci sono qualifiche adeguate a lui, che è una singolarità assoluta. Ne viene come conseguenza esistenziale che anche il nostro rapporto con lui non sopporta altre connotazioni che la “unicità”. La nostra conoscenza di lui non può essere quella che vale per le altre cose e le altre persone, ma è una luce che ci è data dall’alto: «Né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli». Il riconoscimento della sua signoria non è la conclusione di un teorema, ma una docilità allo Spirito Santo: «Nessuno può dire: Gesù è Signore, se non nello Spirito Santo» (1 Corinzi, 12, 3). Il nostro amore per lui non può tollerare confronti: «Chi ama il padre o la madre più di me, non è degno di me» (Matteo, 10, 37). Il nostro puntare la vita per lui non può che essere totale, assoluto, definitivo, come nessuna militanza è ragionevole che sia: «Chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà» (Matteo, 10, 39).
 
 
© L'Osservatore Romano 20 gennaio 2012
 
foto e articolo tratto da: www.Maranatha.it

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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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