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10.2.1939 "70 anni fa Pio XI" Il Papa della dignità Ecclesiale

Ultimo Aggiornamento: 14/02/2009 18:34
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In memoria di Pio XI
Un Papa forte e grande


    All'alba del 10 febbraio 1939, settanta anni fa, moriva Pio XI. La fibra di questo Papa forte e grande cedette infine a una malattia che il Pontefice combatté sino all'ultimo, anche perché dal giorno seguente avrebbe voluto celebrare con solennità, davanti a tutto l'episcopato italiano convocato in Vaticano, il decennale dei Patti del Laterano tra Italia e Santa Sede, firmati appunto l'11 febbraio 1929. A causa delle leggi razziali volute da Mussolini, la tensione con il regime fascista si era acuita al punto che si diffuse il timore che Pio XI avrebbe approfittato del solenne anniversario per criticare il Duce.

    Si spiega in questo contesto la diceria che il capo del fascismo sarebbe riuscito a fare assassinare il Papa, malato ormai da molti mesi. Vent'anni dopo, nel 1959, facendo pubblicare uno dei discorsi incompiuti scritti per l'occasione dal morente Pontefice, fu Giovanni XXIII a togliere la base a queste rappresentazioni romanzesche (ma a volte travasate nella storiografia); ricorrenti e infondate come la supposta volontà papale di denunciare il Concordato con l'Italia o come la contrapposizione tra Pio XI e il suo segretario di Stato Eugenio Pacelli, che gli sarebbe succeduto con il nome di Pio XII.

    Nato nel cuore della Brianza, a Desio, il 31 maggio 1857, Achille Ratti fu ordinato prete nel 1879 a Roma e - grazie a una solida formazione intellettuale e all'energico senso pratico - resse in successione e con prestigio crescente due tra le maggiori istituzioni culturali del mondo, le biblioteche Ambrosiana e Vaticana. Da qui, a sorpresa, nel 1918 fu inviato come rappresentante pontificio a Varsavia, dove l'anno dopo fu nominato nunzio e consacrato arcivescovo. La missione diplomatica e pastorale si rivelò difficile, tra guerra e nazionalismi, ai confini dello sconvolgimento bolscevico. Rivestito della porpora romana nel 1921, fu arcivescovo di Milano solo per pochi mesi, quasi predestinato dal suo motto, biblico, raptim transit:  nel conclave  del  1922, il 6  febbraio venne infatti  eletto  successore  di  Benedetto XV.

    Iniziava così uno dei pontificati più difficili del Novecento, che con un coraggioso, sofferto e necessario realismo - grazie anche a un'estesa politica concordataria, sostenuta da due grandi segretari di Stato come Pietro Gasparri e, dal 1930, Pacelli - fece fronte ai montanti totalitarismi europei (comunismo, fascismo, nazismo). Affrontando anche il nuovo antisemitismo, la grande crisi economica, la tragedia della guerra di Spagna e le altre persecuzioni contro i cristiani, dalla Russia sovietica al Messico.

    E davanti alla propaganda dei regimi totalitari e del paganesimo moderno Pio XI reagì:  governando con vigore la Chiesa, guardando con occhi nuovi alle missioni e al radicamento cattolico al di fuori dell'Europa, affrontando per primo la questione della sessualità umana, rafforzando l'impegno e la cultura dei cattolici. Ma anche moltiplicando beatificazioni, canonizzazioni (tra gli altri, di Teresa di Lisieux, don Bosco e Tommaso Moro), devozioni, giubilei, celebrazioni. E introducendo l'uso del mezzo radiofonico, che per la prima volta permise al Romano Pontefice di fare udire la sua voce in tutto il mondo.

    Sin dall'esordio del pontificato, affacciandosi per la benedizione alla città e al mondo dalla loggia di San Pietro per la prima volta dopo molti decenni, Pio XI fece capire che sarebbe stato il Pontefice della Conciliazione. Questa arrivò con i Patti lateranensi, subito salutati con accenti di esultanza da Angelo Giuseppe Roncalli (il futuro Giovanni XXIII), con lungimirante realismo da Alcide De Gasperi, pur reduce da molti mesi di carcere per l'opposizione politica al fascismo, e con qualche amarezza da Giovanni Battista Montini, che avrebbe modificato in senso positivo il suo giudizio già da cardinale e poi come Paolo VI.

    Con il Trattato, il Concordato e la Convenzione finanziaria tra Italia e Santa Sede venne così chiusa la questione romana e nasceva lo Stato vaticano, base territoriale quasi simbolica eppure reale dell'indipendenza della Santa Sede. Tutto questo non impedì crisi e tensioni, già nel 1931 per l'offensiva fascista contro le organizzazioni cattoliche e nel 1938 a causa delle leggi razziali. Il bene complessivo della pace religiosa fu però riconosciuto nel 1947 dalla stessa assemblea costituente che introdusse, con una maggioranza molto più larga di quella necessaria, i Patti lateranensi nella Costituzione della Repubblica italiana.

    La stessa intesa positiva tra Stato e Chiesa, nonostante le naturali diversità e alcuni punti di divergenza, resta solida proprio perché è radicata nella storia italiana, finalizzata al bene di tutti e rivolta alla dignità di ogni persona umana. Così questa volontà comune di amicizia ha ispirato l'accordo di revisione del 1984 e, più in generale, ha caratterizzato negli anni e caratterizza oggi i rapporti tra Italia e Santa Sede, così buoni da poter essere considerati esemplari. Grazie allo sforzo comune e alla collaborazione di tanti, credenti e non credenti. E senza dubbio, all'origine, per merito del coraggio lungimirante di Pio XI.

    g. m. v.



(©L'Osservatore Romano - 9-10 febbraio 2009)

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Amici, vorrei dedicare con voi questo thread alla figura e all'opera di questo Pontefice conosciuto "solo" per i Patti Lateranensi ma spesso nel modo peggiore....
Aiutiamo i lettori del web a conoscere la missione del Successore di Pietro e di come ogni Pontefice abbia dovuto lottare per mantenere inalterata la TRADIZIONE che tutti qui si vuole difendere, ma spessso nel modo sbagliato...

Se leggiamo attentamente anche la vita di Pio XI comprenderemo bene quante difficoltà egli abbia dovuto affrontare sia all'interno....quanto all'esterno della Chiesa.... Occhi al cielo

Fraternamente CaterinaLD

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A settant'anni dalla morte di Pio XI le difficoltà e le scelte del suo pontificato
Avanti con lucidità fra i drammi del secolo breve

di Gianpaolo Romanato

    I pontificati di Pio XI e Pio XII - due lunghi pontificati, che si protrassero complessivamente per trentasei anni - sono proprio al centro del dramma del Novecento. Achille Ratti fu eletto nel febbraio del 1922, quando la crisi postbellica stava per trovare la propria conclusione con il consolidamento della rivoluzione comunista in Russia e l'avvio in Italia del regime fascista, presto seguito da regimi analoghi in quasi tutti i maggiori Paesi europei; il suo successore, Pio XII, morì verso la fine del 1958, nel momento in cui cominciava il disgelo fra Usa e Urss e l'Europa, uscita dal dramma della seconda guerra mondiale, si avviava verso quella stagione di prosperità e benessere che sarà poi definita "l'età dell'oro". Non deve stupire, allora, l'attenzione tutta particolare con cui la storiografia guarda a questi due Papi, né devono meravigliare certi aspri giudizi su Eugenio Pacelli, che non ha ancora finito di scontare la coincidenza del suo regno con il periodo delle passioni ideologiche più infuocate.

    Fra i due Pontefici c'è una continuità che va ben al di là della ripetizione del nome e del fatto che Pio XII, al momento dell'elezione, fosse il segretario di Stato di Ratti, ciò che pure costituisce un'anomalia nella prassi delle elezioni papali. La continuità è imposta dal cumulo di tragici eventi che essi dovettero affrontare, inventando di giorno in giorno la strada da seguire, scegliendo tra alternative angosciose, dovendo contemperare realismo e moralità, politica e profezia, essendo a capo di un'istituzione che mai come in quegli anni scontò la drammatica sproporzione tra prestigio e potere reale, tra aspettative e possibilità concrete, tra mezzi e fini. Gli storici, cioè i depositari della scienza del poi, non dovrebbero mai dimenticare che gli attori della storia agiscono prima e non poi, ignorando ciò che avverrà e dove andranno a parare gli eventi. La comodità del giudizio che è consentita a posteriori, a chi studia i fatti del passato, non è permessa a chi invece vive quei fatti e contribuisce a crearli, a orientarli con le proprie scelte e con le proprie azioni. Usare la storia come un tribunale non è mai stato un buon criterio, né sul piano metodologico né su quello interpretativo.

    Achille Ratti, eletto il 6 febbraio del 1922, al quattordicesimo scrutinio, dopo quattro giorni di conclave e con una maggioranza, sembra, di poco superiore al quorum richiesto, non era una sorpresa ma era certamente un personaggio nuovo e imprevedibile, come erano stati prima di lui, e sarebbero stati dopo, altri grandi pontefici del Novecento. Basti pensare a Pio x, che nessuno aveva pronosticato Papa, o a Karol Wojtyla, la cui elezione colse tutti di sorpresa. Ratti era un grande erudito, uno sperimentato, infaticabile studioso che aveva trascorso gran parte dei suoi sessantacinque anni (nacque a Desio, in Brianza, nel 1857) prima alla Biblioteca Ambrosiana di Milano, della quale divenne responsabile nel 1907, e poi alla Biblioteca Apostolica Vaticana, della quale fu nominato prefetto nel 1914.

Da questa operosa ma defilata carriera scientifica fu tratto improvvisamente da Benedetto XV, che nel 1918 lo mandò a fare il diplomatico in una delle zone più calde e infuocate della terra:  la Polonia. Qui fu prima visitatore apostolico e poi, dal mese di giugno del 1919, nunzio apostolico. Dovette destreggiarsi fra i mille problemi di conflitti nazionali e confessionali che travagliarono la rinascita dello stato polacco, fino all'invasione bolscevica dell'estate del 1920. Una strettoia, fra opposti nazionalismi e vescovi tutt'altro che disarmati, che lasciava pochi spazi di manovra, soprattutto quando si presentò la questione del plebiscito per l'Alta Slesia e il nunzio, costretto a spostarsi freneticamente fra Varsavia e Opole, dovette arginare da un lato l'intransigenza del cardinale Bertram e dall'altro le rivendicazioni polacche. Giudicato filotedesco dai polacchi e filopolacco dai tedeschi, rischiò addirittura di essere espulso dal Paese.

    Questa sua prima esperienza politica era stata tutt'altro che un successo, ma la Santa Sede, che sapeva bene in quale polveriera avesse dovuto operare, giudicò molto più positivamente il suo lavoro e lo promosse arcivescovo di Milano, in sostituzione del cardinale Ferrari. Prese possesso della sede ambrosiana l'8 settembre del 1921. Nella città dove si era formato e dove aveva svolto gran parte del suo ministero rimase poco, giusto il tempo per inaugurare l'Università Cattolica, fondata da Agostino Gemelli, amico di vecchia data del neoarcivescovo. Un evento fausto per tutta la cattolicità italiana, che egli, uomo di sterminata cultura, salutò con gioia e trepidazione. Due mesi dopo venne eletto al papato, in seguito alla prematura scomparsa di Benedetto XV. Nel corso dei quattordici scrutini del conclave caddero via via le candidature di Merry del Val, l'antico segretario di Stato di Pio x, di Pietro La Fontane, patriarca di Venezia e di Pietro Gasparri, segretario di Stato del Papa defunto. Probabilmente troppo intransigenti i primi due e troppo "liberale" il terzo. Ratti, uomo di studio, con un profilo smarcato rispetto alle contese di inizio secolo, accontentò invece gli uni e gli altri, anche se la scelta del nome, Pio, significò probabilmente l'intenzione di porsi in continuità con Pio X, il Papa che l'aveva chiamato a Roma.

    Lo scenario del suo pontificato non poteva essere più fosco. Cinque dittatori (Mussolini, che salì al potere otto mesi dopo la sua elezione, Salazar in Portogallo, Hitler in Germania, Franco in Spagna, Stalin in Urss), il crollo progressivo della democrazia in Europa, la crisi finanziaria del 1929 (con pesanti ripercussioni sulle riserve vaticane) e il collasso della Germania, la persecuzione in Messico e la guerra di Spagna, le leggi razziali, la conquista italiana dell'Etiopia, la crisi del mondo coloniale e l'avanzata dei popoli nuovi, in quello che poi sarà il Terzo Mondo. Di fronte a tutto ciò Pio XI adottò una linea che la storiografia continua a discutere, valutandola alternativa alla modernità e "omologa con l'ondata conservatrice". Dietro la sua strenua politica concordataria c'era in effetti l'intenzione di ristabilire per via legale la regalità sociale di Cristo, ripristinando dove possibile il valore civile del diritto canonico, ma c'era anche lo sforzo disperato di salvare il salvabile, di ancorare le derive totalitarie della modernità, il potere senza più limiti dei Governi e dei dittatori, a strumenti giuridici vincolanti anche la sovranità statuale, ormai debordante e incontenibile.

    Il modello di tale politica, come è noto, fu il concordato con l'Italia del 1929. Un suo indiscutibile successo, ammesso anche da coloro i quali, come De Gasperi e Sturzo, lo vissero, soggettivamente, come uno "schizzo di fango" che sporcava proprio il miglior cattolicesimo antifascista. E con il concordato c'era il Trattato del Laterano, che portava a conclusione la politica codicistica avviata da Pio X, restituendo alla Santa Sede non tanto la sovranità temporale quanto piuttosto la piena dignità di soggetto di diritto internazionale. L'ottantesimo anniversario dei Patti lateranensi, che cade proprio in questi giorni, ci ricorda non soltanto la fine della "Questione romana" ma anche la rinascita definitiva e con pienezza di diritto della Sede apostolica nell'arengo politico e diplomatico mondiale. Un merito che gli va riconosciuto, benché sia stato reso possibile dall'instaurazione in Italia di un regime - come disse il Papa nel discorso ai docenti e studenti dell'Università Cattolica di Milano, tenuto solo due giorni dopo la stipula dei Patti - che non aveva più "le preoccupazioni della scuola liberale, per gli uomini della quale tutte quelle leggi, tutti quegli ordinamenti, o piuttosto disordinamenti (...) erano altrettanti feticci tanto più intangibili e deformi".

    Prima e dopo quello con l'Italia, Pio XI concluse una decina di altri concordati (con Lettonia, Baviera, Polonia, Romania, Lituania, Baden, Austria, Germania, Iugoslavia) e altrettanti accordi di analogo valore. Il più controverso è quello con il Reich hitleriano, portato a termine il 20 luglio 1933. Chi lo giudica un cedimento dimentica che esso fornì alla Santa Sede la giustificazione giuridica e morale che rese possibile nel 1937 l'enciclica Mit Brennender Sorge, la requisitoria più spietata mai scritta contro il nazismo, accusato quasi di essere l'anticristo e di "pervertire" e "falsificare" l'ordine "creato e voluto da Dio". Ma di quel documento merita di essere ricordata soprattutto la conclusione, stranamente trascurata nei frequenti addebiti rivolti contro il papato di quegli anni. Scrive Pio XI:  "Abbiamo pesato ogni parola di questa enciclica sulla bilancia della verità e insieme dell'amore. Non volevamo con silenzio inopportuno essere colpevoli di non aver chiarita la situazione, né con rigore eccessivo di avere indurito il cuore di coloro che, essendo sottoposti alla Nostra responsabilità pastorale, non sono meno oggetto del Nostro amore, perché ora camminano sulle vie dell'errore e si sono allontanati dalla Chiesa".

    La questione dei "silenzi" è già tutta compresa in queste trepidanti parole del vecchio Pontefice - sarebbe morto meno di due anni dopo - pienamente consapevole della sua responsabilità al cospetto della storia, ma anche di fronte ai tanti inermi che avrebbero potuto subire rappresaglie e violenze proprio a causa del suo intervento. Il dilemma che si pose a Pio XI e al suo successore - salvare la propria coscienza o salvare delle vite umane - non sottrae i due Pontefici al giudizio della storia, ma merita loro il rispetto e la considerazione di tutte le persone pensose, di quanti guardano agli eventi del passato sine ira et sine studio. L'anno seguente sarebbe cominciata la tragedia dell'ebraismo e sarebbero state varate le leggi razziali in Italia. L'esemplare condotta della Santa Sede in quel frangente è stata ampiamente illustrata da questo giornale nelle scorse settimane, soprattutto con i lunghi interventi di Sergio Pagano (20 dicembre 2008) e di Paolo Vian (24 dicembre). Non è dunque necessario tornarvi sopra.

    Tra nazifascismo e comunismo non c'è alcun dubbio che tanto Pio XI quanto il suo successore valutarono più pericoloso il secondo. Non a caso, infatti, solo cinque giorni dopo il documento contro il nazismo Pio XI - che del bolscevismo conservava un amaro ricordo per averlo visto all'opera nel 1920 contro i polacchi - promulgò l'enciclica Divini Redemptoris, dedicata al "comunismo ateo". "Per la prima volta nella storia - leggiamo in uno dei passaggi più forti di questo testo - stiamo assistendo a una lotta, freddamente voluta e accuratamente preparata, dell'uomo contro tutto ciò che è divino".

L'ostpolitik vaticana inizierà una trentina d'anni più tardi, dopo la lunga e dolorosa esperienza di quella che nel linguaggio della guerra fredda si chiamerà la "Chiesa del silenzio". Se la situazione religiosa era drammatica in Europa non era più rosea nelle Americhe, dove la guerra civile e la lotta al cattolicesimo nel Messico provocarono decine di migliaia di morti e ferite probabilmente non ancora sanate, di cui si fece interprete Graham Greene in un celebre romanzo apparso nel 1940, Il potere e la gloria. Le quattro encicliche che Pio XI dedicò alle vicende messicane testimoniano l'angoscia e le difficoltà con cui da Roma si cercava di interpretare e orientare i tragici eventi che insanguinavano quel Paese.

Per comprendere il pontificato di Pio XI, i suoi irrigidimenti e le sue scelte di serrare le fila, bisogna tener presente questo fosco orizzonte, che volgeva tragicamente verso la guerra e che era stato preannunciato al Pontefice fin dal 1922 in una lucida Relazione su vari Stati predisposta dalla Congregazione per gli Affari Ecclesiastici Straordinari. Né va dimenticato che a consigliarne scelte e decisioni furono due segretari di Stato dalla fortissima e sperimentata personalità:  Pietro Gasparri fino al 1930 e Eugenio Pacelli nei nove anni seguenti.

    Va infine tenuto presente che l'internazionalizzazione della Chiesa di Roma fece proprio negli anni fra le due guerre passi avanti fondamentali, segnati da scelte che si riveleranno decisive:  il trasferimento a Roma dell'Opera per la Propagazione della Fede; l'invio in Cina di Celso Costantini come delegato apostolico, con l'incarico di far nascere la Chiesa cinese sulle macerie del colonialismo europeo, che tanto aveva condizionato i vecchi metodi missionari, fermamente archiviati da Benedetto XV con l'enciclica Maximum Illud del 1919; la promulgazione dell'enciclica Rerum Ecclesiae, nel 1926, volta a promuovere clero ed episcopato indigeni, i cui frutti saranno la creazione dei primi sei vescovi cinesi; l'attenzione alla Russia e all'oriente cristiano, sia pure in un un'ottica "unionista", di cui sarà prova la creazione a Roma di un collegio russo, il "Russicum", affidato ai gesuiti.

    Pio XI morì nel febbraio del 1939, senza poter pronunciare il forte discorso che aveva già preparato per il decennale dei Patti lateranensi, né promulgare l'enciclica che aveva commissionato al gesuita americano John LaFarge. Grazie all'apertura degli archivi vaticani, il suo lungo pontificato comincia solo ora a entrare nell'ottica della storiografia. Il convegno internazionale programmato a Roma dal Pontificio Comitato di Scienze Storiche per il 26, 27 e 28 febbraio sarà solo il primo appuntamento in questa direzione.



(©L'Osservatore Romano - 9-10 febbraio 2009)
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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Fu Giovanni XXIII a pubblicare il discorso che il suo predecessore non riuscì a pronunciare
«Attenti a chi fraintenderà volutamente le vostre parole»

    "L'Osservatore Romano" del 9-10 febbraio 1959 pubblicò in prima pagina la lettera indirizzata da Giovanni XXIII agli arcivescovi, ai vescovi e agli ordinari locali d'Italia nel ventesimo anniversario della morte di Pio XI e nel trentesimo anniversario della firma dei Patti Lateranensi. Ne riproponiamo integralmente il testo.

    La familiarità di pensiero e di parola con i ricordi del Nostro veneratissimo predecessore Pio XII Ci è motivo di continua soavità e di grazia nella successione delle settimane e dei mesi, da quando assumemmo la eredità del suo cómpito pontificale.
    Sono richiami, sono risonanze, sono inviti di una esperienza di universale paternità, che Ci tornano a quotidiano incoraggiamento e conforto.
    Ma al di là della figura tanto cara e benedetta di Pio XII, Ci è spontaneo risalire agli altri Pii, che della paterna maestà del loro ministero hanno raddolcito le asprezze della vita umana, fortificando l'affermazione dei princìpi che più interessano lo spirito e li riassumono nella riconosciuta preminenza dei beni soprannaturali e della santificazione delle anime su tutte le ricerche e le conquiste di ordine materiale e temporale.
    Oh! che felice ascendere a ritroso degli anni da Pio XII a Pio XI, a San Pio X, a Pio IX, come per la scala luminosa di Giacobbe così ricca di meraviglie e di sorprese! Di questi giorni torna più vivo il richiamo al Pontefice Pio XI, compiendosi il ventesimo anniversario della sua morte e il trentesimo di uno dei più notevoli avvenimenti della storia contemporanea della Chiesa - cioè dei Trattati Lateranensi - merito preclaro di quel grande spirito di uomo, di Pontefice, non immemore della cara terra che gli diede i natali.
    Nella imminenza presentita della sua fine, quella sua sempre robustissima volontà aveva convocato intorno a sé tutti i Vescovi d'Italia, come figli intorno al vecchio padre per un colloquio estremo.

    Dalla sala del Concistoro in Vaticano quel colloquio nella sua intenzione avrebbe dovuto prolungarsi l'indomani sotto le volte della grande Basilica di San Pietro, che - diceva lui - "ci arride così vicina". Naturalmente, oltre a parecchi richiami sobriamente accennati circa punti interessanti di sollecitudine pastorale, egli si proponeva di aggiungere - e lo voleva fare "con la maggior ponderazione" - qualcosa di più notevole sul tema di importanza collettiva e universale e - son sempre parole sue - "di importanza grande non soltanto per l'Italia".

    Purtroppo al volere mancò la possa. Si potrebbe dire che quel prevalente desiderio di lui di morire sul campo in atto di lavoro e senza malattia, per cui aveva fatta devozione a Sant'Andrea Avellino, il Santo di cui teneva l'immagine in faccia al suo letto, fu soddisfatto al di là della sua attesa. Quando sorella morte se gli accostò, egli stava ancora scrivendo il discorso, in espressioni di commiato ai suoi Vescovi d'Italia, che lo avrebbero potuto ridire poi alle diocesi. Purtroppo la stanca mano si arrestò inerte senza che lo potesse finire.
    Quanto rimane di quel manoscritto meritava bene di essere tenuto in riserbo da ogni sguardo di profana indiscrezione.

    Molte fantasie si sono sbizzarrite a suo tempo sopra gli ultimi segni di un pensiero e di un sentimento che non potevano essere se non alti e nobilissimi, per chi conosce la superiorità spirituale di Pio XI. Ma le circostanze di quelle settimane, non scevre di amarezze per il vecchio Pontefice, avrebbero reso ben spiegabile il suo esprimersi con frasi e toni di troppo giusto risentimento.
    Per un Papa successore non ci sono riserve circa il mistero dello spirito di chi lo precedette nelle responsabilità più gravi e più sacre.
    A vent'anni di distanza dalla morte di quel grande, Noi possiamo assicurarvi che quelle sue "novissima verba" contenevano quanto di più semplice, e insieme di più edificante e di più commovente potevasi attendere da lui, nel senso di una paternità piena di rispetto e di affezione che varranno bene la benedizione al suo nome nei secoli.

    Per rivelarvi qualcosa di quel manoscritto Ci basta il duplice rilievo, che egli vi fece sulle più alte responsabilità della coscienza dei Vescovi in ordine ai Seminari ed alla parola episcopale. Accennando ai Seminari, e toccando degli innumeri particolari che si presentano allo spirito - specialmente a spiriti vigilanti e sperimentati come sono i vostri, - egli scriveva: "Pietà, studi, direzione spirituale e governo esteriore, disciplina e igiene, economia e amministrazione, biblioteca e cucina:  corpo dirigente ed insegnante, personale di servizio, ed ogni più grande e piccola cosa:  sì, ogni più grande ed anche ogni più piccola cosa, perché di piccole cose si intesse la vita quotidiana e rare sono le cose grandi. Così del resto è l'insegnamento - vedasi qui finezza di richiamo - l'insegnamento e l'esempio del gran Padre che è nei Cieli, che governa i mondi e sa l'uccellino che muore nel bosco e il capello che cade dal nostro capo".

    "L'intento nostro - prosegue il manoscritto - è stato unicamente, nostri Venerabili Fratelli nell'Episcopato, per pregarvi, come facciamo di tutto cuore, di venirCi sempre in aiuto per il maggior bene di questi Seminari diocesani ed interdiocesani, secondando le direttive e le cure della Nostra, anzi vostra Congregazione, tutta dedicata a queste istituzioni che vi appartengono:  siano esse diocesane o interdiocesane, a queste particolarmente a cui le altre fanno capo:  venire in aiuto, dunque, facendo anche talvolta corde magno et animo volenti, il sacrificio di qualche soggetto alla diocesi particolarmente utile, pensando che è per una utilità più alta e più vasta, oltre che una vera carità al Papa:  in aiuto, ripetiamo, secondando il rigore dei rettori, nella ammissione e nelle promozioni, pensando che su di essi grava una speciale, formidabile responsabilità, assistita da particolari grazie ed aiuti celesti".

    E conchiudeva questo tocco sui Seminari con familiare richiamo a due suoi ricordi di giovinezza:  di un rettore di Seminario, rimarchevole ed esemplare, ma di carattere parecchio angoloso ed autoritario, di cui peraltro il Vescovo diceva:  "Io finisco sempre per approvare i suoi giudizi per ammissioni e promozioni:  una volta sola ho creduto di aver ragione io:  e dovetti poco appresso convenire che anche quella volta aveva ragione lui".

    E l'altro ricordo richiamava una risposta di Monsignor Agostino Riboldi, suo professore di scienze fisiche, poi Vescovo di Pavia e Cardinale Arcivescovo di Ravenna, alla obiezione che questo rigore di reclutamento avrebbe presto lasciato le parrocchie senza parroci: "Se non vi sarà la Santa Messa, i fedeli saranno dispensati dall'ascoltarla".
    Il manoscritto passa poi dai Seminari ad un altro motivo di pastorale sollecitudine, cioè alla parola episcopale. Val bene il merito di riferire qualche tratto che contiene insegnamenti utili per ogni tempo:  "Quello che stiamo per dire a voi e di voi, dobbiamo anzitutto dire a Noi e di Noi".

    "Voi sapete, carissimi e venerabili Fratelli, come spesso è trattata la parola del Papa. Ci si occupa, e non soltanto in Italia, delle Nostre Allocuzioni, delle Nostre udienze, il più spesso per alterarle in falso senso ed anche inventando di sana pianta; farCi dire delle vere ed incredibili sciocchezze ed assurdità. C'è una stampa che può tutto dire contro di Noi e contro le cose Nostre, anche ricordando ed interpretando in falso e perverso senso la storia vicina e lontana della Chiesa, fino alla negazione di ogni persecuzione in Germania, negazione accompagnata alla falsa e calunniosa accusa di politica, come la persecuzione di Nerone s'accompagnava all'accusa dell'incendio di Roma:  fino a vere e proprie irriverenze:  e si lascia dire, mentre la nostra stampa non può neanche contraddire e correggere.

    "Voi non potete aspettarvi che la vostra parola sia trattata meglio, anche quando è parola dei Sacri Pastori divinamente costituiti, parola predicata o scritta o stampata per illuminare, premunire, salvare le anime.
    "Badate, carissimi Fratelli in Cristo, e non dimenticate che bene spesso vi sono osservatori o delatori (dite spie e direte il vero), che, per zelo proprio o per incarico avuto, vi ascoltano per denunciarvi, dopo, s'intende, aver capito nulla di nulla, e, se occorre, il contrario:  avendo in loro favore (bisogna ricordarcene come Nostro Signore per i Suoi crocifissori) la grande, sovrana scusante dell'ignoranza.

    "Peggio assai quando questa scusante deve cedere il posto alla aggravante di una stolta presunzione di chi crede e dice di saper tutto, mentre evidentemente non sa neppure che cosa sia la Chiesa, che cosa il Papa, che cosa un Vescovo, che cosa quel vincolo di fede e di carità che tutti ci lega nell'amore e nel servizio di Gesù, Re e Signore Nostro. Ci sono, purtroppo, pseudo-cattolici che sembrano felici quando credono di scorgere una differenza, una discrepanza, a modo loro (s'intende), fra un Vescovo e l'altro, più ancora fra un Vescovo e il Papa.

    "Sappiamo che vi sono parecchie ed anche molte, buone, consolanti eccezioni:  persone egregie, che sanno virilmente, nobilmente armonizzare i loro uffici alla loro fede e professione cattolica, con incalcolabile vantaggio della religione, delle anime, delle coscienze, specialmente le giovanili, con ciò stesso del Paese. Vorremmo conoscerli tutti personalmente, come parecchi di voi Ce ne avete segnalati, per ringraziarli e benedirli tutti, ad uno ad uno".
    È su queste parole soffuse di soave paternità che il manoscritto del morente Pontefice si attenua in linee confuse e tremanti. Torna a questo punto il motivo della attualità per cui lo scrisse, cioè il decennale della Conciliazione fissata dal Trattato Lateranense:  le avrebbe certo prolungate ancora, in preparazione della cerimonia del domani in San Pietro:  ma l'indomani il suo corpo giaceva esanime nella Cappella Sistina, in alto, eretta la fronte verso la volta che l'arte di Michelangelo, si direbbe, aveva dipinta per lui, ad immagine dell'accoglimento trionfale che l'attendeva, ben meritato, nelle regioni celesti dopo un Pontificato così glorioso.

    Sull'affaticato manoscritto restano ancora alcune parole, quasi in espressione dell'ultimo anelito di quello spirito magnanimo e che riassumono non tutto ciò che avrebbe voluto dire più ampiamente, ma che appena gli riuscì di formulare e che rimane come prima nota di un canto immortale.
    Egli aveva iniziata la stesura del suo documento con le parole dell'Apostolo:  "Grati estote". Siate riconoscenti. E la riconoscenza voleva rivolta al Signore, che aveva dato all'Italia questo grande beneficio della riconciliazione della Chiesa con lo Stato.

    La sua mano si arrestava sulle stesse parole, "novissima verba", le quali, così come si possono leggere sul manoscritto, segnavano le note finali di una invocazione, che al risentirla ora farà battere di commozione e di tenerezza ogni cuore di buon cattolico e di ogni buon Italiano. Essa non poteva essere offerta sopra un altare più solenne che quello di San Pietro:  come rinnovazione e riconsacrazione di un fatto, che affermò per l'Italia l'alleanza felice della Chiesa e dello Stato.

    Oh! che parole, che parole son queste di esultanza e di pace:
    "Sull'avello secolare e glorioso e sulle sacre memorie degli Apostoli del Signore, che primi portarono il Vangelo in Roma, ed ivi fondarono la Chiesa universale, Noi possiamo dire non già esultanza di ossa umiliate, ma di ossa glorificate.

    "E Noi lo ripetiamo di tutto cuore:  con l'accento della preghiera. Sì:  esultate, ossa gloriose dei Prìncipi degli Apostoli, discepoli e amici di Cristo, che onoraste e santificaste questa Italia benedetta con la vostra presenza, con la vostra opera, con la porpora del vostro nobilissimo sangue. Esultate in questo memorabile giorno, che ricorda Dio ridato all'Italia e l'Italia a Dio, ottimo auspicio di più luminoso avvenire. Nel sorriso di tale auspicio, anche voi profetate, ossa sacre e gloriose, come quelle dell'antico Giuseppe. Profetate la perseveranza di questa Italia nella Fede da voi predicata e suggellata col vostro sangue. Ossa sante, profetate una perseveranza intera e ferma contro tutte le scosse e tutte le insidie che da lontano e da vicino la minacciano e la combattono. Profetate la prosperità, l'onore, soprattutto l'onore di un popolo cosciente della sua dignità e responsabilità umana e cristiana. Profetate, ossa venerate e care, l'avvento od il ritorno alla religione di Cristo a tutti i popoli, a tutte le nazioni, a tutte le stirpi, congiunte tutte e divenute consanguinee nel comune vincolo della grande famiglia umana. Profetate infine, ossa apostoliche, l'ordine, la tranquillità, la pace, la pace, la pace a tutto questo mondo, che, pur sembrando preso da una follia omicida e suicida di armamenti, vuole la pace ad ogni costo, e con Noi dal Dio della pace la implora e confida di averla".

    Con questa citazione finale, venerabili e carissimi Confratelli nell'Episcopato, il misterioso segreto del discorso di Pio XI nel decennale dei Trattati Lateranensi è svelato. E voi potete ben constatare se vi è in esso qualcosa di meno appropriato per qualcuno, o meno corrispondente alla dignità pontificale, o alle nobili e serene aspirazioni di un gran cuore di pastore e di padre.

    Una delle soddisfazioni più care della vita, in ogni tempo e circostanze, è il "gaudium de veritate":  e Sant'Agostino ci avverte che la verità è il "cibus animae".

    Questo omaggio reso alla verità su un episodio così interessante per la storia religiosa e per la vita civile dell'Italia cattolica vuol essere per tutti, clero e fedeli, un incoraggiamento a proseguire il buon cammino, affinché "sic transeamus per bona temporalia ut non amittamus aeterna".

    Così la protezione dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, così i fatti e gli esempi preclari dei Pontefici che Ci precedettero, restino indirizzo e guida al buon pensare ed al bene operare. "Nella luce dei candidi taumaturghi splendori di Lourdes", il Santo Padre Pio XI iniziava il suo estremo documento:  in questa stessa luce auguriamo che il grande avvenimento di trent'anni or sono continui ad essere auspicio di prosperità e di pace; mentre in segno di particolare predilezione impartiamo a tutti voi, venerabili Fratelli, ai fedeli affidati alle vostre cure e alla diletta Italia l'Apostolica Benedizione.

    Dal Vaticano, il 6 febbraio 1959, anno primo del Nostro Pontificato.

    IOANNES PP. XXIII



(©L'Osservatore Romano - 9-10 febbraio 2009)


Dagli appunti inediti del cardinale Eugenio Pacelli e di monsignor Domenico Tardini
Gli ultimi giorni
di Papa Ratti

    È da tempo in preparazione l'edizione completa e criticamente annotata dei cosiddetti "Appunti di udienza" autografi del cardinale Eugenio Pacelli, segretario di Stato di Pio XI, dal 1930 al febbraio del 1939, quindi alla morte di Papa Ratti e alla vigilia della sua elezione a Pontefice il 2 marzo 1939. Tale edizione - di cui si prevede la pubblicazione del volume relativo al 1930 nel corso di quest'anno - è curata dal vescovo barnabita Sergio Pagano, prefetto dell'Archivio Segreto Vaticano, dal viceprefetto, il gesuita Marcel Chappin, responsabile dell'Archivio della Seconda Sezione della Segreteria di Stato (al quale appartengono i preziosi "Appunti") e da Giovanni Coco, dell'Archivio Segreto Vaticano. Dall'Archivio della Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari (Stati Ecclesiastici, Pos. 576 P. O., fasc. 607) anticipiamo i testi - curati dal prefetto dell'Archivio Segreto Vaticano - relativi alle ultime udienze concesse da Papa Ratti al cardinale Pacelli e a monsignor Domenico Tardini in relazione al famoso discorso che Pio XI era fermissimamente intenzionato a pronunciare l'11 febbraio 1939.

    [Udienza del cardinale segretario di Stato Pacelli con Pio XI del 10 gennaio 1939. È un appunto autografo come i seguenti]

    "Adunata dei Vescovi:  metterla in cammino. Mandare una lettera ai Vescovi e dire che il S. Padre è venuto nel pensiero di non lasciar passare l'occasione. L'11 Febbraio è la data della Conciliazione, l'Apparizione della Beata Vergine di Lourdes, vigilia della Coronazione. Inoltre 60 Sacerdozio, 20 Episcopato. Vuol celebrare nella grande famiglia dei Fratelli dell'Episcopato questo complesso di feste. Ce ne è abbastanza per giustificare tale adunanza. L'adunata si potrebbe fare il Sabato, la vigilia dell'Incoronazione. Forse è il caso di sentire Mgr. Respighi [Carlo Respighi, prefetto delle cerimonie pontificie]. Avvisare Mgr. Tardini [Domenico Tardini, Segretario della Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari]. Mandare alcuni in giro nei centri principali, affinché poi di là si avvisino gli altri".

    [Udienza pontificia al cardinale Pacelli del 17 gennaio 1939]

    "Quanto alla riunione dei Vescovi rimane fissata per il giorno 11 Febbraio. All'Ambasciatore [conte Bonifacio Pignatti Morano di Custoza, ambasciatore d'Italia presso la Santa Sede] si può aggiungere che si sarebbe fissato per questa celebrazione il giorno 11. Se desiderano di sapere in che cosa consisterà questa celebrazione, si può dire che alcuni Vescovi, avendo dimostrato il loro desiderio di ripetere quello che avevano già fatto per l'Esposizione della stampa cattolica, il Santo Padre ben volentieri ha accolto questo desiderio e ha invitato i Vescovi che vogliono essere presenti a venire".

    [Sempre di mano del segretario di Stato]

    "Questa risposta è stata comunicata all'Ambasciatore d'Italia nello stesso giorno Martedì 17 Gennaio, alle ore 12".

    [Comunicazione dell'Ambasciatore d'Italia al cardinale Pacelli, 19 gennaio 1939]

    "Il Capo del Governo è rimasto soddisfatto della risposta del S. Padre relativamente alla celebrazione del Decennale della Conciliazione e in linea di massima è disposto a fare qualche cosa insieme o d'accordo e ha dato l'incarico al Sottosegretario Bastianini, in assenza del Ministro Ciano, di preparare qualche cosa. Come sua idea, il Capo del Governo ha detto che si potrebbero fare discorsi concordati e scambiare messaggi. Una Messa al Campo? Mussolini era ora in ottime disposizioni. Se i Vescovi vengono a Roma dal S. Padre, sarebbe forse bene che fossero ricevuti dal Capo del Governo.
    Risposta del S. Padre (20 Gennaio 1939):  Scambio di Messaggi, sì. Se Mussolini manda un Messaggio, il S. Padre risponderà.
    Parlerà come Papa ai Vescovi.
    Dire a Mussolini che il S. Padre pure è rimasto soddisfatto della sua risposta di fare d'accordo; però che non lasci venire la data del decennale senza avere risposto alla lettera del S. Padre. Il S. Padre aspetta ancora, e crede di essere in diritto di aspettare quale effetto abbia avuto la parola del Re, che sperava di mettere le cose sulla via conciliativa. Il S. Padre stesso esprimeva nel discorso di Natale che il Signore desse ai governanti lo spirito di verità e di giustizia:  ed ha visto che questa stessa speranza è anche in altri. Tra gli altri il Patriarca di Venezia [Card. Adeodato Giovanni Piazza] nel suo noto discorso diceva che si aspettava che venga una buona risoluzione, una parola definitiva, che non è ancora venuta. Quindi non lasci venire quel giorno senza che il Papa possa dire qualche cosa. Non vuol trovarsi nella necessità di dire che Mussolini è stato scortese e fedifrago. Se egli sa il suo dovere, richiamandogli quelle parole del Re; s'intenda lui col suo Sovrano. Far capire che metterebbe il S. Padre in un penoso imbarazzo:  di dover dire ai Vescovi:  il mio dovere l'ho fatto, ma non sono stato seguito, perché, mentre il Re è stato cortese ed ha accennato ad una possibilità di intesa, Mussolini ha voluto essere scortese e fedifrago.
    Quanto ai Vescovi il S. Padre non crede che sia il caso che vadano da Mussolini, specialmente perché i Vescovi sono stati invitati dal S. Padre dopo aver saputo che la cosa era gradita e desiderata; invitati a venire dal Papa, non da Mussolini".

    [Udienza pontificia del 21 gennaio 1939]

    "Sulla questione del decennale. Il S. Padre è disposto a fare qualche cosa d'accordo, ma il nostro accordo sarà fatto col Re. Il Concordato è stato firmato da Sua Santità e da Sua Maestà. Quindi, se vi devono essere Messaggi, il nostro primo Messaggio sarà al Re. Occorre togliere qualunque speranza che si possa prendere altra via".

    [Udienza del cardinale Pacelli all'Ambasciatore d'Italia, 3 febbraio 1939]

    "L'Ambasciatore d'Italia si è detto dolente di non poter portare alcuna buona risposta. 1) Quanto alla risposta di Mussolini alla lettera del S. Padre non se ne fa niente. Non vuole andare a Canossa (l'Ambasciatore ha espresso, ma in modo puramente personale, la speranza che, passata la data fissa, si possa ottenere). 2) Quanto alle richieste modificazioni circa la legge in difesa della razza, Mussolini ha pure detto che non si sente di sabotarla. 3) Circa l'intervento alla cerimonia in S. Pietro mi è parso dal modo di parlare dell'Ambasciatore che la preoccupazione nasca dal timore che il S. Padre faccia un discorso con allusioni sfavorevoli e che questo discorso sia poi pubblicato. 4) Se il S. Padre lo chiama, l'Ambasciatore è naturalmente sempre disposto a recarsi in Udienza".

    [Udienza pontificia del 4 febbraio 1939, dalle ore 11, 30 alle ore 11,45]

    "Rispondere all'Ambasciatore d'Italia nei seguenti termini:  Il S. Padre si ricorda di quello che ha fatto Pio iv, milanese  anch'esso,  che  all'Imperatore  [Carlo v], il quale nicchiava per cooperare al Concilio di Trento, fece dire:  Dite all'Imperatore che se il Concilio non lo vuol fare lui, lo facciamo Noi, perché vogliamo essere cavalieri et buoni cristiani. Al S. Padre rincresce piuttosto per lui (Capo del Governo) e per l'impressione che ne avrà il popolo. Parlando (ai Vescovi) il S. Padre non potrà dire di essere contento di questa assenza (del Governo dalla funzione in S. Pietro)".

    [Udienza del cardinale Pacelli all'Ambasciatore d'Italia, 4 febbraio 1939, ore 11,15]

    "Comunicato questa mattina al Sig. Ambasciatore di Italia [il testo della udienza precedente]. Durante la conversazione l'Ambasciatore mi confermò risultare dagli Atti che la risposta del Re al S. Padre fu suggerita testualmente dal Capo del Governo. L'Ambasciatore è preoccupato per le conseguenze che il prossimo discorso del S. Padre, se ci fossero rimproveri al Governo e fosse poi in qualche modo divulgato, potrebbe arrecare. Si potrebbero avere in Italia condizioni simili a quelle della Chiesa in Germania".

    [Appunto autografo del cardinale Eugenio Pacelli]

    "Lunedì 6 febbraio 1939, ore 10 antimeridiane. L'Ambasciatore d'Italia è venuto a comunicarmi che per la funzione in S. Pietro Sua Maestà il Re si farà rappresentare dal Principe di Piemonte [Umberto di Savoia] e il Governo col suo Capo si farà rappresentare dal Ministro Ciano".

    [Dai ricordi di monsignor Domenico Tardini]

    25 gennaio 1939:  "Il S. Padre è molto calmo. Mi parla del discorso, anzi dei discorsi che terrà ai Vescovi d'Italia l'11 e il 12 febbraio. Tratterà vari punti: i Vescovi e i Seminari, i Vescovi e l'Azione Cattolica, i Vescovi e il Concordato, i Vescovi e le parole, parole pubbliche e private, parola scritta, parlata e ...telefonata. Il S. Padre intende esortare i Vescovi alla massima prudenza. E aggiunge il S. Padre:  dovrò anche parlare del vulnus al Concordato".
    1 febbraio 1939:  "Il S. Padre è abbastanza calmo. Mi ripete lo schema del discorso (o meglio dei discorsi) che farà ai Vescovi d'Italia. Parole...telefonata [...]. Dico al S. Padre che Hitler, nel discorso del 30 gennaio, ha parlato della Chiesa con tono molto aspro e con voce eccitata; ha parlato, cioè, con rabbia. Il S. Padre mi interrompe:  E io parlerò con rabbia anche maggiore".
    8 febbraio 1939:  "Il Papa sta male. Il prof. Buonanome ha riscontrato disturbi alla prostata [...], ha notato debolezza cardiaca (40-44 pulsazioni), conseguenza dei disturbi di circolazione. Eppure il S. Padre ha dettato lui stesso un comunicato che comincia così:  Il Papa sta bene; ma per precauzione si astiene dal dare udienze per poter esser pronto alle cerimonie di sabato e domenica. Abbiamo un po' modificato questo sbalorditivo..annunzio per non dir bugie, pur non dicendo tutta la verità!".

                                    

(©L'Osservatore Romano - 9-10 febbraio 2009)
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Come nasce la Città dello Stato Vaticano?

ove si ricordano gli 80 anni dai Patti Lateranensi e quindi dalla documentazione specifica, qui invce proseguiamo con gli approfondimento su Pio XI [SM=g1740722]
Come Pio XI spiegò ai suoi parroci i Patti lateranensi

Con quel tanto di corpo
che basta per tenersi unita l'anima




Pubblichiamo alcuni stralci del lungo discorso che Pio XI tenne l'11 febbraio 1929 ai parroci e ai predicatori del periodo quaresimale.


E ora accenniamo a quell'altra circostanza che Ci fa tanto più cara ed opportuna la vostra assistenza e che rende questa adunanza ben altrimenti memorabile e storica che non per le circostanze pur belle e solenni del settimo anniversario dell'incoronazione e dell'anno giubilare. Proprio in questo giorno, anzi in questa stessa ora, e forse in questo preciso momento, lassù nel Nostro Palazzo del Laterano (stavamo per dire, parlando a parroci, nella Nostra casa parrocchiale) da parte dell'Eminentissimo Cardinale Segretario di Stato come Nostro Plenipotenziario e da parte del Cavaliere Mussolini come Plenipotenziario di Sua Maestà il Re d'Italia, si sottoscrivono un Trattato ed un Concordato. (...)

Non vi aspetterete ora da Noi i particolari degli accordi oggi firmati:  oltre che il tempo, non lo permetterebbero i delicati riguardi protocollari, non potendosi chiamare quegli accordi perfetti e finiti, finché alle firme dei Plenipotenziari, dopo gli alti suffragi e colle formalità d'uso, non seguano le firme, come suol dirsi, sovrane:  riguardi che evidentemente ignorano o dimenticano coloro che attendono per domani la Nostra benedizione solenne "Urbi et orbi" dalla loggia esterna della Basilica di San Pietro.

Vogliamo invece solo premunirvi contro alcuni dubbi e alcune critiche che già si sono affacciati e che probabilmente avranno più largo sviluppo a misura che si diffonderà la notizia dell'odierno avvenimento, affinché voi, a vostra volta, abbiate a premunire gli altri. Non conviene che portiate queste cose, come suol dirsi, in pulpito; anzi, non dovete portarvele per non turbare l'ordine prestabilito alla vostra predicazione; ma anche all'infuori di questa, molti verranno a voi, sia per trarre particolare profitto dalla vostra eloquenza, con conferenze e simili, sia per avere anche sull'attuale argomento pareri tanto più autorevoli ed imparziali quanto più illuminati.

Dubbi e critiche, abbiamo detto; e Ci affrettiamo a soggiungere che, per quel che Ci riguarda personalmente, Ci lasciano e lasceranno sempre molto tranquilli, benché, a dir vero, quei dubbi e quelle critiche si riferiscano principalmente, per non dire unicamente, a Noi, perché principalmente, per non dire unicamente e totalmente, Nostra è la responsabilità, grave e formidabile invero, di quanto è avvenuto e potrà avvenire in conseguenza. (...)

Le critiche si divideranno in due grandi categorie. Gli uni diranno che abbiamo chiesto troppo, gli altri troppo poco. Forse alcuni troveranno troppo poco di territorio, di temporale. Possiamo dire, senza entrare in particolari e precisioni intempestive, che è veramente poco, pochissimo, il meno possibile, quello che abbiamo chiesto in questo campo:  e deliberatamente, dopo aver molto riflettuto, meditato e pregato. (...) Volevamo mostrare in un modo perentorio che nessuna cupidità terrena muove il Vicario di Gesù Cristo, ma soltanto la coscienza di ciò che non è possibile non chiedere; perché una qualche sovranità territoriale è condizione universalmente riconosciuta indispensabile ad ogni vera sovranità giurisdizionale:  dunque almeno quel tanto di territorio che basti come supporto della sovranità stessa; quel tanto di territorio, senza del quale questa non potrebbe sussistere, perché non avrebbe dove poggiare.

Ci pare insomma di vedere le cose al punto in cui erano in san Francesco benedetto:  quel tanto di corpo che bastava per tenersi unita l'anima. Così per altri Santi:  il corpo ridotto al puro necessario per servire all'anima e per continuare la vita umana, e colla vita l'azione benefica. Sarà chiaro, speriamo, a tutti, che il Sommo Pontefice proprio non ha se non quel tanto di territorio materiale che è indispensabile per l'esercizio di un potere spirituale affidato ad uomini in beneficio di uomini; non esitiamo a dire che Ci compiacciamo che le cose stiano così; Ci compiacciamo di vedere il materiale terreno ridotto a così minimi termini da potersi e doversi anche esso considerare spiritualizzato dall'immensa, sublime e veramente divina spiritualità che è destinato a sorreggere ed a servire.

Vero è che Ci sentiamo pure in diritto di dire che quel territorio che Ci siamo riservati e che Ci fu riconosciuto è bensì materialmente piccolo, ma insieme è grande, il più grande del mondo, da qualunque altro punto di vista lo si contempli.
Quando un territorio può vantare il colonnato del Bernini, la cupola di Michelangelo, i tesori di scienza e di arte contenuti negli archivi e nelle biblioteche, nei musei e nelle gallerie del Vaticano; quando un territorio copre e custodisce la tomba del Principe degli Apostoli, si ha pure il diritto di affermare che non c'è al mondo territorio più grande e più prezioso (...)

Altri invece diranno, anzi hanno già detto od accennato, che abbiamo chiesto troppo in altro campo:  si capisce, e vogliamo dire nel campo finanziario. Forse si direbbe meglio nel campo economico, perché non si tratta qui di grandi finanze statali, ma piuttosto di modesta economia domestica.
A costoro vorremmo rispondere con un primo riflesso:  se si computasse, capitalizzando, tutto quello di cui fu spogliata la Chiesa in Italia, arrivando fino al Patrimonio di San Pietro, che massa immane, opprimente, che somma strabocchevole si avrebbe? Potrebbe il Sommo Pontefice lasciar credere al mondo cattolico di ignorare tutto questo? Non ha egli il dovere preciso di provvedere, per il presente e per l'avvenire, a tutti quei bisogni che da tutto il mondo a lui si volgono e che, per quanto spirituali, non si possono altrimenti soddisfare che col concorso di mezzi anche materiali, bisogni di uomini e di opere umane come sono?

Un altro riflesso non sembrano fare quei critici:  la Santa Sede ha pure il diritto di provvedere alla propria indipendenza economica, senza la quale non sarebbe provveduto né alla sua dignità, né alla sua effettiva libertà. Abbiamo fede illimitata nella carità dei fedeli, in quella meravigliosa opera di provvidenza divina che ne è l'espressione pratica, l'Obolo di San Pietro, la mano stessa di Dio che vediamo operare veri miracoli da sette anni in qua. Ma la Provvidenza divina non Ci dispensa dalla virtù di prudenza né dalle provvidenze umane che sono in Nostro potere. E troppo facilmente si dimentica che qualunque risarcimento dato alla Santa Sede evidentemente non basterà mai a provvedere se non in piccola parte a bisogni vasti come il mondo intero, come al mondo intero si estende la Chiesa cattolica:  bisogni sempre crescenti, come sempre crescono con gigantesco sviluppo le opere missionarie raggiungendo i più lontani paesi; senza dire che anche nei paesi civili, in Europa, in Italia, - qui specialmente, dopo le spoliazioni sofferte - sono incredibilmente numerosi e non meno incredibilmente gravi, e tali bene spesso da muovere al pianto, i bisogni delle persone, delle opere e delle istituzioni ecclesiastiche, anche le più vitali, che ricorrono, Noi lo sappiamo, per aiuto alla Santa Sede, al Padre di tutti i fedeli.



(©L'Osservatore Romano - 11 febbraio 2009)
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Come nasce la Città dello Stato Vaticano?


Il Papa sottolinea l'azione svolta dallo Stato della Città del Vaticano a favore della solidarietà e del bene comune

«città sul monte»
al servizio dell'umanità


Il "valore spirituale e civile" dello Stato della Città del Vaticano è stato al centro del discorso del Papa ai partecipanti al convegno per gli ottant'anni della sua fondazione. L'udienza, svoltasi nella mattina di sabato 14 febbraio, nella Sala Clementina, è stata introdotta da un saluto del cardinale Giovanni Lajolo, presidente del Governatorato e della Pontificia Commissione per lo Stato della Città del Vaticano.

Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell'Episcopato e nel Sacerdozio,
gentili Signori e Signore!
È con vero piacere che rivolgo il mio cordiale saluto a tutti voi, organizzatori, relatori e partecipanti al Convegno di studi promosso per celebrare la ricorrenza dell'80° anniversario della fondazione dello Stato della Città del Vaticano. "Un piccolo territorio per una grande missione" è il tema sul quale si è soffermata la vostra attenzione, riflettendo insieme sul valore spirituale e civile che riveste questo piccolo Stato sovrano, posto interamente al servizio della grande missione affidata da Gesù Cristo all'apostolo Pietro e ai suoi Successori. Ringrazio il Signor Cardinale Giovanni Lajolo non solo per l'indirizzo di saluto che a vostro nome mi ha rivolto, ma anche per l'impegno che egli e i suoi collaboratori del Governatorato hanno profuso per solennizzare il significativo traguardo degli ottant'anni di esistenza e di attività dello Stato Vaticano.

Vivo compiacimento esprimo per le celebrazioni e per le diverse iniziative commemorative di questi giorni, tese ad approfondire e a far meglio conoscere la storia e la fisionomia della Civitas Vaticana. Essa, a ottant'anni dalla sua fondazione, costituisce una realtà pacificamente acquisita, anche se non sempre ben compresa nelle sue ragioni d'essere e nei molteplici compiti che è chiamata a svolgere. Per chi opera quotidianamente a servizio della Santa Sede o per chi vive nell'Urbe è un dato di fatto scontato che esista nel cuore di Roma un piccolo Stato sovrano, ma non a tutti è noto che esso è frutto di un processo storico alquanto tormentato, che ne ha reso possibile la costituzione, motivata da alti ideali di fede e da lungimirante consapevolezza delle finalità a cui doveva soddisfare. Potremmo così dire che la ricorrenza, che giustifica il nostro odierno incontro, invita a guardare con più viva consapevolezza a quello che lo Stato della Città del Vaticano significa ed è.

Quando si torna con la memoria all'11 febbraio del 1929, non si può fare a meno di ripensare con profonda riconoscenza a colui che dei Patti Lateranensi fu il primo e principale artefice e protagonista, il mio venerato Predecessore Pio XI:  era il Papa della mia infanzia, al quale abbiamo guardato con tanta venerazione e amore. Giustamente in questi giorni è risuonato più volte il suo nome, perché egli fu con lucida lungimiranza e indomita volontà il vero fondatore e il primo costruttore dello Stato della Città del Vaticano. Del resto, gli studi storici tuttora in corso sul suo pontificato ci fanno sempre più percepire la grandezza di Papa Ratti, il quale guidò la Chiesa nei difficili anni fra le due guerre mondiali. Con mano ferma egli diede forte impulso all'azione ecclesiale nelle sue molteplici dimensioni:  pensiamo all'espansione missionaria, alla cura per la formazione dei ministri di Dio, alla promozione dell'attività dei fedeli laici nella Chiesa e nella società, all'intenso rapporto con la comunità civile. Durante il suo pontificato il "Papa Bibliotecario" dovette misurarsi con le difficoltà e le persecuzioni che la Chiesa subiva in Paesi quali il Messico e la Spagna e con la lotta che ad essa portarono i totalitarismi - nazionalsocialismo e fascismo - sorti e consolidatisi in quegli anni.

In Germania è indimenticata la sua grande Enciclica Mit brennender Sorge, come forte segnale contro il nazismo. Si rimane davvero ammirati di fronte all'opera saggia e forte di questo Pontefice, che per la Chiesa volle solo quella libertà che le permettesse di svolgere integralmente la sua missione. Anche lo Stato della Città del Vaticano, sorto a seguito dei Patti Lateranensi e in particolare del Trattato, fu considerato da Pio XI uno strumento per garantire la necessaria indipendenza da ogni potestà umana, per dare alla Chiesa e al suo Supremo Pastore la possibilità di adempiere pienamente al mandato ricevuto da Cristo Signore. Quanto poi questa piccola, ma completa realtà statuale fosse utile e benefica per la Santa Sede, per la Chiesa, come pure per Roma e il mondo intero, lo si vide appena dieci anni dopo, allorquando scoppiò la seconda guerra mondiale, una guerra che arrivò con le sue violenze e sofferenze fino alle porte del Vaticano.

Si può allora affermare che lungo gli otto decenni della sua esistenza, lo Stato Vaticano si è dimostrato uno strumento duttile e sempre all'altezza delle esigenze che ad esso ponevano e continuano a porre sia la missione del Papa, sia i bisogni della Chiesa, sia le sempre mutevoli condizioni della società. Proprio per questo, sotto la guida dei miei venerati Predecessori - dal Servo di Dio Pio XII a Papa Giovanni Paolo II -, si è realizzato, ed ancor oggi si attua sotto gli occhi di tutti, un costante adeguamento delle norme, delle strutture e dei mezzi di questo singolare Stato edificato intorno alla Tomba dell'Apostolo Pietro. Il significativo anniversario, che in questi giorni stiamo commemorando, è dunque motivo di profondo ringraziamento al Signore, che guida le sorti della sua Chiesa nelle vicende spesso turbolente del mare della storia, ed assiste il suo Vicario in terra nello svolgimento del suo ufficio di Christianae religionis summus Antistes.

La mia gratitudine si estende a quanti sono stati in passato e sono oggi protagonisti della vita dello Stato della Città del Vaticano, alcuni noti, ma molti altri sconosciuti nel loro umile e prezioso servizio. Ai membri dell'attuale comunità di vita e di lavoro del Governatorato e delle altre strutture dello Stato va il mio pensiero riconoscente, interpretando così i sentimenti dell'intero popolo di Dio. Allo stesso tempo, vorrei incoraggiare coloro che operano nei diversi uffici e servizi vaticani a svolgere le loro mansioni non solo con onestà e competenza professionale, ma anche con una sempre più viva consapevolezza che il loro lavoro costituisce un prezioso servizio alla causa del Regno di Dio.

La Civitas Vaticana è in verità un punto quasi invisibile sui mappamondi della geografia mondiale, uno Stato minuto ed inerme privo di eserciti temibili, apparentemente irrilevante nelle grandi strategie geopolitiche internazionali. Eppure, questo presidio visibile dell'assoluta indipendenza della Santa Sede, è stato ed è centro di irradiazione di una costante azione a favore della solidarietà e del bene comune. E non è forse vero che proprio per questo da ogni parte si guarda a questo piccolo lembo di terra con grande attenzione? Lo Stato Vaticano, che racchiude in sé tesori di fede, di storia, di arte, custodisce un patrimonio prezioso per l'umanità intera. Dal suo cuore, dove presso la tomba di san Pietro abita il Papa, si leva un incessante messaggio di vero progresso sociale, di speranza, di riconciliazione e di pace.

Ora, questo nostro Stato, dopo aver solennemente ricordato l'80° anniversario della sua fondazione, riprende il cammino con più forte slancio apostolico. Possa la Città del Vaticano essere sempre più una vera "città sul monte", luminosa grazie alle convinzioni e alla generosa dedizione di quanti vi operano al servizio della missione ecclesiale del Successore di Pietro. Con tale auspicio, mentre invoco la materna protezione di Maria, l'intercessione dei Santi Pietro e Paolo e degli altri martiri che con il loro sangue hanno reso sacro questo suolo, imparto volentieri la mia Benedizione a voi tutti qui convenuti, estendendola con affetto alla grande famiglia dello Stato della Città del Vaticano.



(©L'Osservatore Romano - 15 febbraio 2009)
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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