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"Mi serviva qualcuno all'altezza del mio odio e del mio rancore."

Ultimo Aggiornamento: 10/08/2009 11:23
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IMPERDIBILE! [SM=g1740722]

L'ho finito di leggere....lo consiglio....il titolo è un altro però: Tornata dall'inferno [SM=g1740733]


Storie di conversione:  la cambogiana Claire Ly
In cerca di un Dio
all'altezza del mio odio


di Elisabetta Galeffi

    "Per affrontare questa lotta di sopravvivenza ho bisogno di un testimone. Mi viene in mente (...) il Dio degli occidentali, il Dio della loro Bibbia; non so se questo Essere esista davvero, ma non ha nessuna importanza". Inizia così, inconsapevolmente, la conversione al cristianesimo di Claire Ly, professoressa di filosofia e alto funzionario del ministero dell'Istruzione cambogiano agli inizi degli anni Settanta. Con l'avvento della dittatura di Pol Pot è costretta ad abbandonare tutti i suoi beni e tutta la sua vita passata; dal 1975 al 1979 diventa una "compagna contadina" in un campo di lavoro ai confini con la Thailandia.

    La sua nuova vita inizia il 24 aprile 1975 quando lascia casa e marito nella capitale sotto l'attacco degli khmer rossi nel tentativo di fuggire con l'anziana madre e il figlioletto. Claire è sola - come mai capitava a una donna della buona borghesia khmer - in attesa di un altro bambino, è responsabile degli altri compagni di viaggio più deboli. Capisce che deve trovare in qualche modo la forza di affrontare la durissima realtà se vuol sopravvivere.

    "Nel corso di questi disordini" scrive nel suo primo libro Tornata dall'inferno, raccontando del suo avventuroso viaggio su una Citroën DS per raggiungere il confine thailandese "mi sforzo di convincermi che tutto è illusione".

    Da buona buddista, cerca di allontanarsi dai due lati estremi della vita, il piacere e la mortificazione per trovare la pace; "entrambi sono avvilenti, volgari e non portano all'uomo nessun vantaggio" si ripete Claire, ma nella sua vita sconvolta non riesce a trovare spazio per la "terza via" del Nirvana.

Quando realizza che il distacco totale dalla realtà non le sarebbe utile a salvare le vite dei figli, Claire cerca in sé la forza di proteggerli; i suoi figli non le appaiono affatto un'illusione, ma una realtà bisognosa di aiuto. Cerca un sentimento forte che la riporti ad affrontare la vita e la risvegli dal torpore, dal senso di smarrimento in cui è caduta dopo i rapidissimi cambiamenti di tutto il suo mondo; tenta ogni strada per riuscirci, accetta anche di far leva sui propri sentimenti di odio.

    Il rancore che prova nei confronti delle idee del mondo occidentale è il suo sentimento più vivo in quelle ore. Al pensiero occidentale - che conosce bene per i suoi studi filosofici - Claire imputa la responsabilità della fine del suo mondo, prima a causa della guerra del Vietnam e adesso con la rivoluzione di Pol Pot, che ha incitato gli khmer delle campagne a ribellarsi all'idea buddista del karma sotto la spinta rivoluzionaria del pensiero marxista. "Anch'io - scrive Claire - ero parte di quegli intellettuali cambogiani che pensavano di dover far qualcosa per cambiare la mentalità della gente di città".

    Claire ha avuto il suo primo incontro con il mondo occidentale frequentando le scuole francesi della sua città natale, Battambang, e il suo primo scontro come insegnante di filosofia a Phnom Penh. "Nel 1968 - risponde a un giornalista del settimanale francese Panorama - la domanda del perché tanti missionari cercavano di portare in Cambogia la loro religione, quando noi ne avevamo già una, mi incitò a tornare verso il buddismo, a ritrovare le mie tradizioni. Non più solamente come un'eredità familiare; gli insegnamenti del Buddha diventarono per me una questione di identità personale, la ragione filosofica per resistere a quello che consideravamo "l'imperialismo spirituale" dell'Occidente".

    Ma adesso con la fine del suo mondo Claire deve reinventare la sua vita. "Chi sono io?" si domanda, scoprendo di aver bisogno di un interlocutore con cui confrontarsi; per due anni l'unico interlocutore alle sue domande di cambogiana ricca e colta ridotta a far la contadina in condizioni terribili diventa il Dio degli occidentali a cui confessa ogni sua insoddisfazione. "Mi serviva qualcuno all'altezza del mio odio e del mio rancore. Qualcuno a cui dare in prestito il cammino della mia rabbia; non potevo scegliere Buddha, perché è soltanto un essere umano". Così "il Dio degli occidentali", all'inizio solo un testimone della sua rabbia, diventa a poco a poco un amico che le fa compagnia. Scrive Claire in Tornata dall'inferno:  "Il fondamento del buddismo, il karma, è un concetto astratto, assolutamente neutro, uguale al concetto di tavolo o di sedia. Come si fa a rimproverare a una sedia il suo essere sedia? Non è responsabile di quello che fa".[SM=g1740721] 
   
Lungo i due anni in cui Claire si confronta con Dio, "i paragoni - scrive - tra l'esperienza buddista legata alla mia cultura di origine e la mia volontà di essere una persona libera saranno molto difficili" e alla fine la sua conversione al cattolicesimo non esclude né rinnega completamente gli insegnamenti del Buddha. Ma "la vita di Gesù di Nazaret mi affascina, amo la libertà di quest'uomo che non è prigioniero di nessuna convenzione religiosa o sociale".

    Claire Ly raggiunge con i suoi due figli la Thailandia nel 1979 alla caduta della dittatura dell'Angkar; nel 1980 emigra in Francia, dove ancora vive e insegna filosofia all'Istituto Scienze e Teologie delle religioni a Marsiglia.



(©L'Osservatore Romano - 12 marzo 209)

                                                              [SM=g1740717] [SM=g1740720] [SM=g1740717]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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«Io, nell'inferno dei khmer»   

Claire Ly: salvata dal «Dio degli occidentali», il mondo non dimentichi.
«Ero buddhista:
nel cristianesimo prima ho trovato un bersaglio,
poi la vera consolazione
».

Anna Pozzi
("Avvenire", 8/2/’07)

«In memoria di mio padre, di mio marito, di mio fratello maggiore, di mio fratello minore e di mio suocero. Assassinati nel 1975».

La dedica del suo secondo libro appena uscito in Francia, "Retour au Cambodge" ("Ritorno in Cambogia"), nella sua lapidaria essenzialità, apre uno squarcio lacerante su un abisso di dolore e morte. Che riguarda in prima persona l'autrice, Claire Ly, ma anche un intero popolo, quello cambogiano, decimato dalla follia omicida di Pol Pot. Un incubo durato quattro anni, dal 1975 al 1979, e costato la vita a quasi due milioni di cambogiani su sette.
Claire Ly è una sopravvissuta e un'esule, scrittrice per caso e forse per dovere. Dovere della memoria, innanzitutto: propria, della sua famiglia e della sua gente. È una testimonianza drammatica ed edificante al tempo stesso, in cui si intrecciano l'esperienza umana e quella spirituale.

Nel suo cammino di resistenza e riscatto, infatti, si è inserito un percorso molto intimo, travagliato e entusiasmante di conversione al cristianesimo. Quel «Dio degli occidentali», come lei lo chiamava con disprezzo, capro espiatorio della sua rabbia e della sua umiliazione, è diventato Dio-testimone, che perdona e fa vivere. E che le dà la forza di essere lei stessa testimone, voce di denuncia di quella «tormenta mortifera della rivoluzione», ma anche di saggezza e compassione. E soprattutto di speranza. Le persone a lei più care sono state uccise. Lei stessa ha sopportato minacce, violenze, sessioni di indottrinamento forzato nei quattro anni di prigionia nei campi di lavoro dei khmer rossi.

Che ricordo porta con sé di quell'esperienza così drammatica?

Un sentimento di sofferenza e lacerazione. Innanzitutto per aver perduto familiari e amici. E poi un grande dolore per il mio Paese. Pol Pot ha azzerato la Cambogia, ha messo in ginocchio il suo popolo, che ancora oggi fatica a rialzarsi. Una violenza così insensata che le giovani generazioni quasi non riescono a crederci. Il genocidio khmer è stato la sconfitta dell'Uomo. Una ferita che continua a farci soffrire.

Eppure lei, una donna sola, cresciuta in città e confinata in campagna, con un bambino piccolo e una figlia nata nei campi di lavoro, è sopravvissuta e ha salvato entrambi. Come ci è riuscita?

È stata una prova dura. Piena di sentimenti contraddittori. Provavo un forte senso di rabbia, collera, rivolta... Mi sentivo lacerata. Ma non volevo che questi sentimenti negativi avessero il sopravvento su di me e ripercussioni sui miei figli. A quel tempo ero buddhista e in quanto tale non potevo permettere che ciò accadesse. Temevo di sprofondare nella follia e avevo bisogno di qualcosa o qualcuno su cui sfogare la mia collera. E allora ho preso a prestito quel "Dio degli occidentali", di cui avevo letto e sentito parlare dagli stranieri quando stavo a Phnom Phen. Un Dio potente e grande, come la mia collera contro Pol Pot. Un Dio che non era mio, era degli altri, e dunque potevo gridargli contro tutto il mio odio. L'ho fatto per diciotto mesi. E questo paradossalmente ha creato una vicinanza. Quel Dio sconosciuto e silenzioso è divenuto il compagno della mia miseria. E mi ha aiutata a salvarmi.

L'inizio della sua conversione è maturato in una situazione estrema di tragedia e disperazione e si è consolidato in Francia, dove si è rifugiata. Ma anche qui non è stato un percorso del tutto agevole...

Tutt'altro. Anche perché, almeno per quanto mi riguarda, il mio cammino di conversione non è stato una mera rottura con il passato e con il buddhismo. Anzi, io mi riconosco come luogo di incontro tra la saggezza buddhista e "l'amore folle" di un Dio, che mi ha raggiunta nell'abisso del genocidio di Pol Pot. È un dialogo senza fine tra la buddhista che ero e la cattolica che sono diventata. La conversione è un compimento difficile da raggiungere. È un cantiere sempre aperto, verso un'armonia e una pace che si costruiscono unicamente nel dialogo e che solo Cristo può concedere con pienezza.

Esiste dunque un filo rosso che lega i molti cambiamenti che hanno segnato la sua vita personale e spirituale?

C'è una fedeltà di fondo, di cui io stessa ho preso coscienza solo con il tempo. Una fedeltà paradossale, che si è consolidata attraverso il cambiamento: fedeltà a me stessa e alla mia storia personale, nonostante, o forse grazie, alle rotture e alle scelte fatte. Una fedeltà che finalmente mi permette di avere un'identità personale abbastanza ben strutturata.

Eppure per molto tempo non ha voluto o non ha potuto fare i conti fino in fondo con il suo passato. Ci sono voluti, ad esempio, più di vent'anni perché lei tornasse in Cambogia...

Non ho mai dimenticato il mio Paese. Solo lo avevo messo un po' da parte. E il desiderio di tornare si è fatto avanti poco a poco. Un desiderio difficile da gestire e da condividere. Specialmente con i miei figli. Un po' per paura e un po' per tristezza. Ero stata costretta ad andarmene, mi avevano fatta sentire "indesiderabile", ero stata cacciata, dopo tutto quello che avevo subito. Questi sentimenti sono rimasti molto forti in me. Provavo ancora risentimento e collera, legati al ricordo dei campi di Pol Pot. E soprattutto paura. Paura di ritrovare i luoghi amati e al tempo stesso detestati. I luoghi in cui avevo vissuto le mie gioie e le mie pene e in cui ho perso molte persone care.

Nel 2002 però ha deciso di tornare. Perché?

Per caso. La prima volta non l'ho voluto io. È successo. Un giornalista mi ha chiesto di accompagnarlo e di fargli da interprete. Ho accettato. Non è stato facile tornare in Cambogia, in quella terra di sofferenza e di spaccatura. Avevo paura. E il miglior modo di affrontarla era viverla. Così quel desiderio difficile da gestire è diventato progetto. E sono tornata di nuovo.

Addirittura ha deciso di recarsi nel luogo in cui sono stati fucilati suo marito e suo padre, insieme ad altre trecento persone, e di rendere loro omaggio sulla fossa comune in cui sono stati gettati. Dove ha trovato la forza?

Non volevo che i fantasmi del passato mi tenessero in ostaggio. Così ho deciso di andarci e di portarci mia figlia, come dono ai miei cari uccisi. La nostra vita, che oggi godiamo in pienezza, viene da quei morti, è la loro vita che continua in noi. In quel posto ho provato un sentimento forte e strano. Perché quello in cui sono sepolti mio marito e mio padre è un luogo bellissimo, dove la vita ha ripreso a fiorire. Accanto a quella fossa comune ero come incantata da una bellezza del tutto gratuita, offerta da Dio e che non mi aspettavo per nulla. Una bellezza che mi diceva che la morte non è la fine di tutto. È lo sguardo della fede che mi ha permesso di vederla. Questa speranza va al di là della morte, non la sopprime, perché la morte è reale, ma c'è sempre la vita che l'attraversa in filigrana e c'è una bellezza, donata gratuitamente da Dio, senza apparente utilità. Ma è lì, è palpabile. E dà pace.

 [SM=g1740733] [SM=g1740734]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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....di altro spessore, ma sempre inerente al dramma comunista è il seguente articolo....


Lev Razgon e l'umanesimo del dissenso

La sofferenza mai placata
di un veterano del Gulag


Nel numero in uscita della rivista "La nuova Europa" viene ricordato il decimo anniversario della morte di uno dei veterani del Gulag staliniano che, dopo diciassette anni di prigionia, fondò insieme a Sacharov e Kovalëv l'associazione Memorial. Pubblichiamo un estratto dall'articolo.

di Marta Dell'Asta

Lev RazgonLev Razgon è stato un dissidente sui generis, una figura che si presenta in maniera contraddittoria:  ex detenuto del Gulag staliniano, non ha mai partecipato alle battaglie del dissenso, eppure nel 1988 è stato lui, e non altri, a fondare con Sacharov e Kovalëv l'associazione Memorial (protagonista di un immenso lavoro di studio sul Gulag). Ancora:  un ex zek, che nonostante questo ha sempre lavorato per case editrici di Stato, ha accettato di essere reintegrato nel partito, e ha tenuto le sue memorie ben chiuse nel cassetto fino alla perestrojka.

Non sono mancate a questo proposito le polemiche nei suoi riguardi:  gli hanno rimproverato le parentele e le frequentazioni giovanili nell'élite del Partito, che hanno indotto qualcuno a considerarlo un personaggio ambiguo; gli hanno rimproverato anche di aver lavorato per l'amministrazione nel lager, mentre molti altri si rifiutavano di farlo; infine gli hanno rimproverato il debutto letterario tardivo, che getta un'ombra di conformismo sul suo libro. Presentata in questo modo, la sua non sembra una figura molto interessante, ma allora bisogna spiegare come mai le sue memorie del lager, arrivate dopo tutte le altre, siano state considerate un capolavoro del genere e lo abbiano inserito d'autorità nel novero dei grandi testimoni. E bisogna anche spiegare come mai personalità indiscusse come Sacharov lo abbiano incondizionatamente stimato.

Ma in fondo basta leggere ciò che scriveva, basta conoscerlo più da vicino perché i dubbi trovino una risposta. L'amico Marlen Korallov, copresidente di Memorial ed ex zek, ha risposto a una delle critiche:  "La sua carriera come controllore del lavoro nel lager? Esistevano, sì, gli zek che rifiutavano per principio i posti "da imboscati" e rimanevano per principio ai lavori comuni. Gloria e onore a loro. Ma onore anche a Razgon, che usando la "Grande bidonata", falsificando i rendiconti per i superiori, ha salvato con intelligenza e tenacia i servi affamati del Gulag dalla razione punitiva, dalla pazzia di un sistema escogitato per spremerli".

Un altro amico, Boris Zutovskij, dice anche che Razgon era "prudente", non "vile", perché i diciassette anni di lager gli avevano prodotto tali ferite da segnarlo per tutta la vita; ad esempio, dopo aver tagliato gli alberi nel lager, gli dava fastidio la sola vista dei boschi di cui tanto aveva gioito da ragazzo:  "I boschi della mia infanzia erano pieni di odori e di suoni (...) Poi venne il momento in cui per i boschi provai solo odio. Certo, erano boschi diversi quelli, boschi del nord, cupi di conifere, paludosi e privi di vita. Mai un pigolio, mai un uccello che cinguettava (...) Gli sparuti fiori del nord, poi, non hanno odore. E il bosco non era un luogo di gioia, ma di lavoro forzato. Nei lunghi anni passati all'estremo nord, quelli non furono boschi, per me, ma appezzamenti boschivi, terreni da disboscare. Non era alla loro bellezza che pensavo fissando quei pini eretti e rossastri o gli alti abeti muscosi, ma a quanti metri cubi di legna avrebbe dato il tal albero, e quanto legname effettivo se ne poteva ricavare:  era un riflesso condizionato".

Per lo stesso motivo non amava frequentare gli altri ex detenuti e non voleva vedere fotografie di campi:  il ricordo lo faceva star male. A causa di questa prudenza, frutto di una sofferenza mai placata del tutto, il suo itinerario spirituale è stato forse più lungo degli altri, ma molto radicale e sincero.

A complicare il suo percorso c'era anche il fatto che Razgon è stato molte cose nella sua vita:  è stato comunista sin da piccolo (era nato nel 1908), quasi in via ereditaria, come figlio e parente di bolscevichi attivi ed emergenti. Ma prima di quello, era un ebreo nato in uno shtetl bielorusso, partecipe in ogni sua fibra di un modo d'essere, di una cultura e una comunità che costituivano un universo a sé. E infine Razgon è stato una vittima del Gulag, ma una vittima attiva, che da questa esperienza ha tratto la forza per una vera rivoluzione interiore.

"Ho la sensazione di aver vissuto numerose vite completamente differenti. Ma in nessuna sono stato una semplice "vite". Era Stalin a considerarmi una "vite", io invece mi consideravo, ed ero a tutti gli effetti, un attivo costruttore del sistema socialista; ho contribuito a svilupparlo nella misura delle mie forze e credevo che questo sistema ci avrebbe portato al luminoso futuro, all'eguaglianza universale. È stato un duro lavoro intellettuale, oserei dire, una vocazione. La "vite", del resto, non risponde dell'intera macchina".

Questa posizione così personale anche all'interno della grande ideologia, ha fatto sì che le prove più umilianti non lo incattivissero, ma anzi facessero sbocciare in lui quell'umanità piena che lo ha reso in qualche modo un'autorità morale, senza che lui lo avesse mai cercato.

In realtà in Razgon affiora chiaramente una struttura personale religiosa, consolidatasi nelle condizioni critiche del lager ma rimasta sempre indeterminata, con un Dio che c'è e non c'è, perché inconoscibile e lontano; la lettera scritta in lager alla figlia si concludeva proprio così:  "Ti protegga il Dio in cui non credo!". Quel che restava in lui era l'attaccamento a dei valori superiori indiscutibili:  "È un tratto del mio carattere quello di essere tollerante, cordiale e pacato... e di credere in un futuro buono. In questo senso sono un uomo profondamente credente. Anche in lager ho cercato di conservare i principi morali che ritenevo indispensabili per me in libertà. Altrimenti non sarei sopravvissuto. E devo riconoscere che in lager ci riuscivo più facilmente che da libero".

Non è da credere che la detenzione fosse poi così "facilitante", in realtà il faccia a faccia con la morte era drammatico, angoscioso:  "Quanta gente mi è morta sotto gli occhi di morte violenta, e in quella situazione ogni morte era violenta:  di malattia, di freddo, di fame e per troppo lavoro, per la brutalità dei carnefici; quanti sono stati fucilati innocenti, torturati a morte, calpestati". Ed è proprio per far fronte a tutto questo senza abbrutirsi che bisognava chiamare a raccolta tutte le risorse della propria umanità, dell'educazione familiare, di una cultura secolare.

Nel far questo Razgon aveva acquistato con sudore e lacrime quella tolleranza, quella illimitata accoglienza che tutti poi gli avrebbero riconosciuto:  "La mia tolleranza non significa affatto che guardo la vita con gli occhiali rosa, o che ho dimenticato il mio passato, e quello del mio Paese. No, non ho dimenticato, e porto tutto il peso della mia responsabilità davanti agli uomini, al mio paese, a me stesso. Non è un peso leggero. (...) Cinquant'anni fa sì, sarei stato disposto ad ammazzare quelli che avevano ammazzato Oksana (...) ora mi è indifferente. Non ho provato alcun piacere quando ho letto in un fascicolo negli archivi del kgb, che uno dei suoi assassini è stato torturato e fucilato dai suoi compagni cekisti".

Il punto di forza della sua umanità cordiale era proprio questo sofferto senso di corresponsabilità, che gli veniva dall'aver partecipato alla vita del Partito e ai suoi ideali; non si sentiva, in coscienza, di prenderne le distanze come se fossero totalmente altro da lui:  "Io sento tutto il peso della responsabilità per ciò che è avvenuto nel mio Paese. Direi di più, credo addirittura di non aver saldato i conti con i miei diciassette anni di lager. No. Continuo a portare il peso di questa responsabilità sia davanti alla società sia, soprattutto, davanti a me stesso... Non ritengo di aver saldato il conto. Il conto è saldato solamente quando si riconosce fino in fondo quello che si è fatto, e quanto siamo tutti colpevoli - chi più, chi meno - per quel che ci è successo. Perché qualcosa è successo a tutti quanti:  a chi stava dentro come a chi metteva dentro, e pure a chi ha scampato entrambi questi calici. Tutta la società era malata, di sani praticamente non ce n'era, tranne rarissime eccezioni".

Ma il senso di responsabilità andava oltre i destini politici e sociali del Paese, entrava nell'intimo dei rapporti familiari, e lo interrogava severamente, come si capisce dalle pagine che dedica alla madre. L'entusiasmo rivoluzionario, il mito dell'uomo nuovo che aveva inseguito, oltre ad aiutare a uccidere i corpi aveva fatto qualcosa d'altro, aveva ucciso la speranza di molti, compresa sua madre.

Una volta morto Stalin, Razgon era riuscito con fatica a tornare a Mosca, dove era stato riabilitato e riammesso nel Partito, e questo gli era parso un minimo risarcimento per quanto aveva passato. Aveva ripreso la sua attività come scrittore di testi per l'infanzia e di volgarizzazione scientifica, ed era entrato nell'Unione degli scrittori; intanto però redigeva in segreto le sue memorie. Nel 1987 il settimanale "Ogonëk" aveva pubblicato, con enorme successo, il capitolo intitolato "La moglie del presidente", in cui narrava la storia drammatica della moglie di Kalinin. Nel 1988 La nuda verità era uscito per intero sulla rivista "Junost'", e i lettori sovietici avevano subito amato il suo modo lieve, spesso ironico e distaccato di raccontare  fatti   intollerabilmente tristi.

Questa pubblicazione lo aveva finalmente liberato dal timore che lo bloccava da anni, togliendogli una specie di pesante tabù psicologico; in questo senso, forse, Razgon aveva ragione a dire che nel lager era stato più facile restare fedele ai propri principi. In quegli anni aveva riacquistato il senso del fare memoria che aveva concepito nel campo:  "In lager sopravvivere era l'unica forma di resistenza al regime. Ogni giorno in cui sopravvivevo era un colpo inferto a Stalin. Pensavo che se fossi sopravvissuto avrei raccontato tutto. Avrei potuto raccontare quello che non aveva potuto raccontare chi era morto. Era una delle sensazioni più dolorose vedere che gli uomini scomparivano e non ne restava più niente, perché tutti i loro cari erano ridotti in polvere".

Da quel momento si era impegnato a fondo e non avrebbe più smesso di spendersi generosamente fino alla morte. Nel 1989 si era coinvolto col gruppo di ex detenuti che voleva fare qualcosa per assicurare che il sistema dei campi non fosse cancellato e dimenticato, ma in quest'opera, che avrebbe portato alla nascita di Memorial, si era scontrato con una cocente delusione:  "Abbiamo scoperto che né il potere politico né la società volevano tornare a ricordare il passato (...) Fra qualche giorno compirò 90 anni e ci penso con amarezza. Non perché la vita finisce, questo è un fattore biologico naturale, ma sul piano storico, sociale. La memoria storica del nostro popolo non si è risvegliata. Anzi, ho la sensazione che la società cerchi di dimenticare tutto quello che ci turba (...) Mi sento in qualche modo colpevole perché non sono stato capace. Nessuno di noi è stato capace, non ci hanno sostenuto. Perché? Questa domanda richiede una lunga riflessione. La nostra società è ancor oggi spaccata fra quelli che mettevano dentro, e quelli che venivano messi dentro. E in larga misura oggi prevalgono i primi".

Ma nonostante tutto non aveva tirato i remi in barca, concentrandosi sulla propria vecchiaia e le proprie numerose malattie, era rimasto costantemente disponibile, attento ai bisogni altrui, preoccupato nel vedere la piega presa dalla società russa post comunista:  "Purtroppo non abbiamo fatto molta strada dagli anni passati quanto a psicologia, ad atteggiamento morale, nel riconoscere la nostra responsabilità e soprattutto il valore della persona umana".

La sua battaglia era diventata l'abolizione della pena di morte in Russia, e non si stancava di richiamare da tutte le tribune i pericoli del momento attuale, l'imbarbarimento dei valori, la mancanza di misericordia. Per questo motivo nel 1992 aveva accettato un incarico molto gravoso, soprattutto per un uomo già provato come lui, quello di far parte della rinnovata commissione per la grazia presso la presidenza della Repubblica russa. Concretamente, questo voleva dire dedicare tre intere giornate ogni settimana alla lettura di enormi dossier giudiziari, il cui contenuto talvolta lo faceva tremare; ma, come aveva detto in un'intervista:  "Questo è, per dirla in breve, un bene incredibile. Non per chi riceve la grazia col mio aiuto, ma per me stesso. Sì, è un lavoro pesante, direi un'opera morale, spesso di notte non dormo sotto l'impressione di quello che ho letto nei fascicoli. Ma mi purifica l'anima. Sono felice di aver scelto, ed essere stato scelto per questa missione. E sono convinto che questa attività porterà buoni frutti al nostro Paese".

In tutto questo, Razgon rimaneva un uomo ilare, pur carico dei vecchi ricordi e delle nuove delusioni, aggravate da diversi infarti. Molti si sono chiesti come conciliasse l'immutabile gioia di vivere con la sua tremenda biografia. In qualche occasione Razgon aveva risposto a questo interrogativo:  "Quando noi diciamo che bisogna sradicare la delinquenza, combattere il male, intendiamo che sarà qualcun altro a farlo, non noi. In realtà si può sradicare il male solo se ciascuno di noi diventerà più buono. Può suonare ingenuo, ma non ci sono altri modi per cambiare la società e la nostra vita".



(©L'Osservatore Romano - 9 agosto 2009)
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