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"Mi serviva qualcuno all'altezza del mio odio e del mio rancore."

Ultimo Aggiornamento: 10/08/2009 11:23
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11/03/2009 19:48
 
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«Io, nell'inferno dei khmer»   

Claire Ly: salvata dal «Dio degli occidentali», il mondo non dimentichi.
«Ero buddhista:
nel cristianesimo prima ho trovato un bersaglio,
poi la vera consolazione
».

Anna Pozzi
("Avvenire", 8/2/’07)

«In memoria di mio padre, di mio marito, di mio fratello maggiore, di mio fratello minore e di mio suocero. Assassinati nel 1975».

La dedica del suo secondo libro appena uscito in Francia, "Retour au Cambodge" ("Ritorno in Cambogia"), nella sua lapidaria essenzialità, apre uno squarcio lacerante su un abisso di dolore e morte. Che riguarda in prima persona l'autrice, Claire Ly, ma anche un intero popolo, quello cambogiano, decimato dalla follia omicida di Pol Pot. Un incubo durato quattro anni, dal 1975 al 1979, e costato la vita a quasi due milioni di cambogiani su sette.
Claire Ly è una sopravvissuta e un'esule, scrittrice per caso e forse per dovere. Dovere della memoria, innanzitutto: propria, della sua famiglia e della sua gente. È una testimonianza drammatica ed edificante al tempo stesso, in cui si intrecciano l'esperienza umana e quella spirituale.

Nel suo cammino di resistenza e riscatto, infatti, si è inserito un percorso molto intimo, travagliato e entusiasmante di conversione al cristianesimo. Quel «Dio degli occidentali», come lei lo chiamava con disprezzo, capro espiatorio della sua rabbia e della sua umiliazione, è diventato Dio-testimone, che perdona e fa vivere. E che le dà la forza di essere lei stessa testimone, voce di denuncia di quella «tormenta mortifera della rivoluzione», ma anche di saggezza e compassione. E soprattutto di speranza. Le persone a lei più care sono state uccise. Lei stessa ha sopportato minacce, violenze, sessioni di indottrinamento forzato nei quattro anni di prigionia nei campi di lavoro dei khmer rossi.

Che ricordo porta con sé di quell'esperienza così drammatica?

Un sentimento di sofferenza e lacerazione. Innanzitutto per aver perduto familiari e amici. E poi un grande dolore per il mio Paese. Pol Pot ha azzerato la Cambogia, ha messo in ginocchio il suo popolo, che ancora oggi fatica a rialzarsi. Una violenza così insensata che le giovani generazioni quasi non riescono a crederci. Il genocidio khmer è stato la sconfitta dell'Uomo. Una ferita che continua a farci soffrire.

Eppure lei, una donna sola, cresciuta in città e confinata in campagna, con un bambino piccolo e una figlia nata nei campi di lavoro, è sopravvissuta e ha salvato entrambi. Come ci è riuscita?

È stata una prova dura. Piena di sentimenti contraddittori. Provavo un forte senso di rabbia, collera, rivolta... Mi sentivo lacerata. Ma non volevo che questi sentimenti negativi avessero il sopravvento su di me e ripercussioni sui miei figli. A quel tempo ero buddhista e in quanto tale non potevo permettere che ciò accadesse. Temevo di sprofondare nella follia e avevo bisogno di qualcosa o qualcuno su cui sfogare la mia collera. E allora ho preso a prestito quel "Dio degli occidentali", di cui avevo letto e sentito parlare dagli stranieri quando stavo a Phnom Phen. Un Dio potente e grande, come la mia collera contro Pol Pot. Un Dio che non era mio, era degli altri, e dunque potevo gridargli contro tutto il mio odio. L'ho fatto per diciotto mesi. E questo paradossalmente ha creato una vicinanza. Quel Dio sconosciuto e silenzioso è divenuto il compagno della mia miseria. E mi ha aiutata a salvarmi.

L'inizio della sua conversione è maturato in una situazione estrema di tragedia e disperazione e si è consolidato in Francia, dove si è rifugiata. Ma anche qui non è stato un percorso del tutto agevole...

Tutt'altro. Anche perché, almeno per quanto mi riguarda, il mio cammino di conversione non è stato una mera rottura con il passato e con il buddhismo. Anzi, io mi riconosco come luogo di incontro tra la saggezza buddhista e "l'amore folle" di un Dio, che mi ha raggiunta nell'abisso del genocidio di Pol Pot. È un dialogo senza fine tra la buddhista che ero e la cattolica che sono diventata. La conversione è un compimento difficile da raggiungere. È un cantiere sempre aperto, verso un'armonia e una pace che si costruiscono unicamente nel dialogo e che solo Cristo può concedere con pienezza.

Esiste dunque un filo rosso che lega i molti cambiamenti che hanno segnato la sua vita personale e spirituale?

C'è una fedeltà di fondo, di cui io stessa ho preso coscienza solo con il tempo. Una fedeltà paradossale, che si è consolidata attraverso il cambiamento: fedeltà a me stessa e alla mia storia personale, nonostante, o forse grazie, alle rotture e alle scelte fatte. Una fedeltà che finalmente mi permette di avere un'identità personale abbastanza ben strutturata.

Eppure per molto tempo non ha voluto o non ha potuto fare i conti fino in fondo con il suo passato. Ci sono voluti, ad esempio, più di vent'anni perché lei tornasse in Cambogia...

Non ho mai dimenticato il mio Paese. Solo lo avevo messo un po' da parte. E il desiderio di tornare si è fatto avanti poco a poco. Un desiderio difficile da gestire e da condividere. Specialmente con i miei figli. Un po' per paura e un po' per tristezza. Ero stata costretta ad andarmene, mi avevano fatta sentire "indesiderabile", ero stata cacciata, dopo tutto quello che avevo subito. Questi sentimenti sono rimasti molto forti in me. Provavo ancora risentimento e collera, legati al ricordo dei campi di Pol Pot. E soprattutto paura. Paura di ritrovare i luoghi amati e al tempo stesso detestati. I luoghi in cui avevo vissuto le mie gioie e le mie pene e in cui ho perso molte persone care.

Nel 2002 però ha deciso di tornare. Perché?

Per caso. La prima volta non l'ho voluto io. È successo. Un giornalista mi ha chiesto di accompagnarlo e di fargli da interprete. Ho accettato. Non è stato facile tornare in Cambogia, in quella terra di sofferenza e di spaccatura. Avevo paura. E il miglior modo di affrontarla era viverla. Così quel desiderio difficile da gestire è diventato progetto. E sono tornata di nuovo.

Addirittura ha deciso di recarsi nel luogo in cui sono stati fucilati suo marito e suo padre, insieme ad altre trecento persone, e di rendere loro omaggio sulla fossa comune in cui sono stati gettati. Dove ha trovato la forza?

Non volevo che i fantasmi del passato mi tenessero in ostaggio. Così ho deciso di andarci e di portarci mia figlia, come dono ai miei cari uccisi. La nostra vita, che oggi godiamo in pienezza, viene da quei morti, è la loro vita che continua in noi. In quel posto ho provato un sentimento forte e strano. Perché quello in cui sono sepolti mio marito e mio padre è un luogo bellissimo, dove la vita ha ripreso a fiorire. Accanto a quella fossa comune ero come incantata da una bellezza del tutto gratuita, offerta da Dio e che non mi aspettavo per nulla. Una bellezza che mi diceva che la morte non è la fine di tutto. È lo sguardo della fede che mi ha permesso di vederla. Questa speranza va al di là della morte, non la sopprime, perché la morte è reale, ma c'è sempre la vita che l'attraversa in filigrana e c'è una bellezza, donata gratuitamente da Dio, senza apparente utilità. Ma è lì, è palpabile. E dà pace.

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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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