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Il Catechista ieri, oggi e sempre...

Ultimo Aggiornamento: 16/11/2017 11:07
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25/04/2014 11:00
 
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DANZATORI DELLA GIOIA.


 







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Divertere è l’esatto contrario di convertere. Non è una questione di termini e di etimologie, come se la fede avesse bisogno di grossi dizionari specialistici. Però la fede ha i suoi termini, dai quali deriva la percezione del credente nel suo rapporto con Dio e con gli altri.

Divertere significa condurre fuori. Il divertimento non è che questo lasciarsi condurre fuori da quanto si vive. Di per sé non è necessariamente un male, ma porta sempre questo riferimento all’essere distolti dalla realtà. Se non altro, è effimero. Infatti, per quanto possa essere lecito, finisce in pochi attimi. E’ necessario, forse, ma a condizione che ci riconsegni alla realtà con una diversa capacità di saper vedere le cose.
Il saper vedere è un convertere. E quando la visione è chiara, l’uomo ha un’uscita da se stesso, così come accade nel divertere. Solo che non è distolto, ma condotto. La sua uscita da se stesso, che a livello di termini è un’autentica estasi, produce una visione che procura gioia. Il divertimento è l’uscita verso una felicità immaginata, mentre la gioia è un’uscita verso la felicità contemplata. E non è una differenza da poco!
Il cieco risanato da Gesù è nella gioia. Prima non vedeva, adesso vede. E con la guarigione, è condotto al convertere, tanto che segue Gesù rendendo lode a Dio. Convertito dal passaggio di Gesù, cioè restituito alla capacità di saper vedere veramente. Perché la conversione è questo lasciarsi guardare da Gesù ed ottenere uno sguardo che sa vedere la felicità nella grazia che si è contemplata. Quando si dice che il cristianesimo cresce per attrazione, si vuol dire che ad attirare è la persona di Gesù. In Lui c’è tutta la gioia, in lui è la felicità contemplata. Un uomo che esce risanato da un ospedale, è un uomo pieno di gioia. Potrà anche divertirsi, scacciare da sé l’angoscia che aveva caratterizzato le sue giornate, ma tutta la sua gioia consisterà nel sapere che è stato restituito alla vita. E il Vangelo, a ben pensarci, non è che un racconto continuo di una gioia che Cristo ha voluto comunicare. L’uomo è risanato e restituito alla sua vera vita, quella per cui era stato pensato e creato. Ma questo presuppone che un altro sia la causa della sua gioia, e che egli riceva dall’esterno quella gioia che è in grado di restituirgli la gioia della vista: “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15, 11).

Il cristiano non gioisce perché ha in sé la fonte della gioia, ma perché un altro gli dona di poter partecipare della gioia. Se avesse in se stesso la fonte della gioia, egli sarebbe condotto fuori da se stesso, ma nello stesso senso in cui potrebbe condurlo il divertere. Essendo consegnato alla gioia di un altro, egli è condotto invece verso il convertere. La sua gioia è sottratta all’effimero e radicata in quel che resta al di là del transitorio e del caduco.
La nostra gioia è dunque la gioia di Cristo. Non quella che Egli procura, ma quella che Egli possiede. Partecipando di quella gioia, noi abbiamo anche una gioia che è nostra, che è essenziale, che è vitale, e che dobbiamo sempre comunicare. La nostra gioia è autenticamentenostra nella misura in cui è una gioia partecipata. Per questo non può essere assimilata alla gioia che il mondo dà. Può assumere esteriormente gli stessi tratti, poiché mira sempre a far uscire l’uomo da se stesso, ma è radicalmente diversa. Non si ferma all’uscita, ma si fa compagna nel cammino più difficile, che è quello verso la propria interiorità. Là, e soltanto là, abita la verità, come scriveva quel S. Agostino che molte volte era uscito da se stesso verso cose nobili e belle senza mai aver fatto ritorno in se stesso.

Oggi pare moltiplicarsi l’esperienza di un cristianesimo che intende attrarre attraverso la gioia. Il più delle volte, però, si tratta di una gioia che il mondo già possiede. Non diciamo che alla fine il cristiano si riduca ad essere più vuoto, ma molto spesso il suo interlocutore non si ritrova più pieno. La gioia di Gesù conduce alla pienezza, non all’assunzione dell’identica modalità della gioia del mondo. Dio può servirsi anche di questo, sia chiaro. Tuttavia la gioia scaturisce da un incontro che si colloca in quel cammino verso l’interiorità. Se non presuppone il silenzio assoluto e l’uscita dal mondo, richiede almeno la volontà di uscire da se stessi verso una consapevolezza più matura di ciò che vale veramente e che si differenzia da quanto posseduto. Probabilmente deriva da questo che la nascita di un cammino di fede sia fatto di incontri personali, di testimonianze che vadano controcorrente, di scelte radicali, di colloqui, di spazi di preghiera e di contemplazione del mistero. Non colpiscono quasi mai coloro che, pur con tutta la buona fede, rischiano di passare per fenomeni da baraccone o non si pongono su un livello più alto. Resta vera la profondissima verità della liturgia, cioè l’uscita dall’ordinario per entrare nello spazio dello straordinario, nello spazio di Dio. Non è detto che quanto si fa al di fuori della liturgia, debba necessariamente ripudiare questa legge fondamentale dell’attrazione cristiana.

Si dice e si ridice che Davide danzava davanti all’arca. Noi ci permettiamo di ridire che leggere la Scrittura non significa riprodurre quanto vi è scritto. Nessuno di quanti danzano per ripetere l’esperienza del re biblico, si sognerebbe minimamente di trascorrere la quaresima in un deserto, per quaranta giorni. Da quando Maria, nuova Arca dell’Alleanza, ha portato nel grembo il Verbo, ogni cristiano esulta di gioia, come Giovanni nel grembo di Elisabetta. Dio ha preso la nostra carne, ha posto la sua dimora in mezzo a noi. E noi  dobbiamo semplicemente magnificare, con l’esultanza del cuore e della vita, quel Dio che innalza gli umili e che effonde la sua misericordia su quanti lo temono. Farsi piccoli e poveri, come Maria, comunica la gioia vera, la sola che possa convertire. Noi siamo stati salvati dalla povertà di Cristo, che non è propriamente quella regalità che il mondo si sarebbe attesa. E la vita dei santi, che mai hanno assunto le categorie del mondo, ne è la riprova più eloquente ed affascinante. Forse per questo l’immagine più bella della gioia, in tempi recenti, è stata associata alla B. Teresa di Calcutta. Ella trascorreva in ginocchio le notti perché quanti avrebbe incontrato potessero danzare di gioia davanti all’amore di un Dio che si fa povero e piccolo.

don Antonio Ucciardo



 



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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