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Cardinale John Henry Newman; da anglicano a fervente ed innamorato Cattolico Beatificato da Benedetto XVI

Ultimo Aggiornamento: 17/08/2015 12:35
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Dopo le polemiche seguite alla decisione di traslare le spoglie del cardinale Newman in vista di una sua  beatificazione, inseriremo qui articoli e scritti di questo grande Apostolo della Chiesa dell'800

John Henry Newman
e il sacrificio del celibato


                        
                              John Henry Newman—in una foto del 1890

La decisione di traslare il corpo di John Henry Newman ha sollevato polemiche. Su queste interviene il massimo studioso del pensatore inglese, docente di teologia all'università di Oxford e autore, tra l'altro, della più completa e documentata biografia del cardinale (John Henry Newman. A Biography, Oxford, Oxford University Press, 1990, pagine 764, sterline 30).



di Ian Ker

La decisione di riesumare il corpo del venerabile John Henry Newman ha provocato reazioni, in particolare da parte della lobby omosessuale, secondo cui egli non dovrebbe essere separato dal suo grande amico e collaboratore, padre Ambrose St John, nella cui tomba Newman è stato sepolto, in accordo con le sue specifiche volontà. L'implicazione di tali proteste è chiara:  Newman avrebbe voluto essere seppellito con il suo amico perché, sebbene indubbiamente casto e celibe, sarebbe stato legato a lui da qualcosa di più di una semplice amicizia.

Al riguardo, se il desiderio di essere seppellito nella stessa tomba di un altro fosse la prova di un qualche amore sessuale per quella persona, il fratello di Clive Staples Lewis, Warnie, seppellito nella stessa tomba secondo la volontà di ambedue i fratelli, avrebbe dovuto nutrire sentimenti incestuosi per il fratello. 
 
O ancora, la devota segretaria di Gilbert Keith Chesterton, Dorothy Collins, trattata da lui e da sua moglie come una figlia, pensando che sarebbe stato presuntuoso chiedere di essere seppellita insieme ai Chesterton, volle essere cremata e dispose comunque che le sue ceneri fossero inumate nella stessa tomba. Questo significa forse che provava qualcosa di più che un sentimento filiale per uno o per entrambi i suoi datori di lavoro?

Ambrose St John era molto amico di Newman. Per trent'anni è stato al suo servizio, desiderando persino, il giorno della sua cresima, di potersi impegnare nei confronti dell'amico con un voto di obbedienza, una richiesta che, ovviamente, fu respinta.

Newman si riteneva responsabile per la sua morte, perché gli aveva chiesto di tradurre l'importante opera del teologo tedesco Joseph Fessler sull'infallibilità nella scia del concilio Vaticano I, un ultimo impegno svolto con amore che risultò eccessivamente pesante per lui, già sovraccarico di lavoro.

Negli oscuri ultimi giorni da anglicano, Newman disse che Ambrose St John era venuto da lui "come Rut a Noemi". Dopo essere entrato nella comunità quasi monastica di Newman a Littlemore nei pressi di Oxford, St John restò il suo collaboratore più stretto durante il difficile periodo della fondazione dell'Oratorio di san Filippo Neri in Inghilterra e in tutte le successive prove e tribolazioni di Newman come cattolico.

Nella sua Apologia pro vita sua Newman "con grande riluttanza" ricorda come al tempo della sua prima conversione all'età di quindici anni fosse giunto alla convinzione che "fosse volontà di Dio che rimanessi celibe". Durante i quattordici anni successivi, con l'interruzione di qualche mese e poi con continuità, ritenne che la sua vocazione "avrebbe richiesto tale sacrificio". Non c'è bisogno di ricordare che allora non esistevano "unioni civili" tra uomini in un Paese che ancora era cristiano, dove l'attività omosessuale era punibile con la prigione e da tutti considerata immorale.

Newman, naturalmente, parlava del matrimonio con una donna e del "sacrificio" che il celibato comportava. L'unica ragione per cui il celibato poteva essere un sacrificio era perché Newman, come ogni uomo normale, desiderava sposarsi. Ma, sebbene non ancora appartenente a una Chiesa dove il celibato era la regola o addirittura l'ideale, Newman, profondamente immerso nelle Scritture, conosceva le parole del Signore:  alcuni "si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli".

Venticinque anni dopo la sua scelta giovanile del celibato troviamo Newman che ancora si interroga sui suoi costi, alla fine dello straordinario racconto in cui descrive la malattia quasi mortale che lo colpì nel 1833 mentre si trovava in Sicilia:  "Mentre scrivo mi assilla un pensiero:  perché scrivo tutto questo? (...) Chi ho, chi posso avere, in chi questo potrebbe suscitare attenzione? (...) Serve il tipo di attenzione che può avere una moglie e nessun altro - questa è l'attenzione di una donna - e questa attenzione, così sia, non mi sarà mai data (...) Lascio liberamente il possesso di questo affetto che, lo sento, non mi è e non mi può essere dato. Ma ciononostante sento di averne bisogno".

In queste frasi commoventi, scritte quando era ancora ministro della Chiesa di Inghilterra e pienamente libero di sposarsi, vediamo l'impegno totale di Newman nella vita di verginità alla quale si sentiva chiamato in modo inequivocabile, ma possiamo anche avvertire la profonda sofferenza che sentiva nel rinunciare all'amore di una donna nel matrimonio.

In conclusione, cosa si potrebbe dire a chi pensa che la volontà di Newman dovrebbe essere rispettata e che i resti di Ambrose St John dovrebbero essere traslati insieme ai suoi? Durante la sua vita da cattolico Newman insisteva sempre che tutti i suoi scritti potevano essere corretti dalla santa madre Chiesa. Questo era il suo costante ritornello. Se l'autorità ecclesiastica decide di traslare il suo corpo in una chiesa, la risposta di Newman sarebbe senza dubbio che il suo ultimo testamento, come tutto quanto aveva scritto, lo aveva scritto sotto la correzione di una autorità più alta. Se questa autorità decide che il suo corpo venga traslato, mentre quello del suo amico no, Newman avrebbe detto senza esitazione:  "Così sia".



(©L'Osservatore Romano - 3 settembre 2008)


Un articolo che parla del forse beato John Henry Newman della sua presenza a Milano:

Sulle orme di Ambrogio e Carlo  fu trafitto da fra Cristoforo
"John Henry Newman oggi: logos e dialogo" è il tema del convegno internazionale che si tiene a Milano all'Università Cattolica del Sacro Cuore nei giorni 26 e 27 marzo. Pubblichiamo ampi stralci di una delle relazioni.

di Inos Biffi

Newman soggiornò a Milano, insieme con Ambrose St. John, durante il suo viaggio verso Roma. Arrivò il 20 settembre del 1846 dal passo del Sempione, in tempo per la messa in duomo: più volte egli registra nel suo diario di aver sentito messa in duomo o presso la tomba di san Carlo. Il 18 ottobre, festa della Dedicazione della Cattedrale, annoterà d'aver preso parte alla "Messa solenne in Duomo, dove si tiene una grande funzione con indulgenza plenaria" e di aver visitato "alla sera l'oratorio di san Carlo"; lo stesso giorno farà sapere: "Siamo appena tornati dal Duomo dove c'è stata una grande funzione, compresa la solenne Messa pontificale nella celebrazione della dedicazione della chiesa di san Carlo. La giornata è molto piovosa, ma l'area della chiesa era gremita da cima a fondo".

Subito il 21 settembre Newman visita la basilica di sant'Ambrogio. Il 23 settembre, dopo una prima disagiata sistemazione presso un non confortevole hotel Garni, si trasferirà presso san Fedele, e vivrà in cordiale fraternità con due sacerdoti milanesi: don Giacomo Vitali e don Giovanni Ghianda, e sarà anche commensale del prevosto di San Fedele, Giulio Ratti.

Per i suoi ospiti avrà parole di grande ammirazione, specialmente per don Ghianda, che sarà anche suo confessore. Scriverà: "Il nostro amico, l'abate Ghianda, è molto gentile e premuroso. Non avremmo potuto imbatterci in persona più amica. Egli fa tutto per noi"; e il 22 ottobre, alla vigilia di ripartire da Milano: "Siamo stati assai fortunati di trovare qui il cappellano di Manzoni, che ci è stato sempre vicino ed è stato un amico estremamente gentile".

La prima lettera scritta da Milano, il 24 settembre, contiene un grande elogio per la chiesa di San Fedele: "È in stile greco o palladiano. Temo che lo stile architettonico mi piaccia più di quanto alcuni dei nostri amici di Oscott e di Birmingham approverebbero. La luminosità, la grazia e la semplicità dello stile classico sembra si addica meglio a rappresentare Santa Maria o San Gabriele che non qualsiasi realtà in stile gotico. È sempre un sollievo dello spirito, e una sua elevazione, entrare in una chiesa come San Fedele. Essa ha un aspetto così dolce, sorridente, aperto - e l'altare è così grazioso e attraente - che spicca così che tutti lo possono vedere e avvicinarvisi. Le alte colonne di marmo levigato, le balaustre marmoree, il pavimento di marmo, le immagini luminose, tutto parla la stessa lingua. E una volta leggera corona l'insieme.

Ma forse io seguo la tendenza delle persone anziane, che hanno visto abbastanza cose tristi da ritenersi dispensate da una tristezza espressamente e intenzionalmente voluta - e come i giovani preferiscono l'autunno e i vecchi la primavera, i giovani la tragedia e i vecchi la commedia, così, nel cerimoniale religioso, io lascio che i giovani preferiscano il gotico, una volta che tollerino la mia debolezza che chiede l'italiano. È così riposante e gradevole, dopo le torride vie, entrare in questi interni delicati, benché ricchi, che fanno pensare ai boschetti del paradiso o a camere angeliche".

E in un'altra lettera: "C'è nello stile italiano una tale semplicità, eleganza, bellezza, chiarità - implicate, credo, nella parola "classico" - che mi sembrano convenire al concetto di angelo e di santo. Potrei percorrere per tutto un giorno questa bella chiesa col suo altare sorridente e seducente, senza stancarmi. E poi essa è così calma che è sempre un riposo per lo spirito entrarvi. Nulla si muove se non la lontana lampada scintillante che segnala la presenza della nostra Vita immortale, nascosta ma sempre attiva, pur essendo entrata nel suo riposo".

Aggiunge Newman: "È davvero stupendo vedere questa divina Presenza che dalle varie chiese quasi guarda fuori nelle strade aperte, così che a S. Lorenzo abbiamo veduto che la gente si levava il cappello dall'altra parte della strada quando passava".

Con le chiese, infatti, è la pietà dei milanesi a suscitare in Newman la più viva ammirazione: "Nella città di sant'Ambrogio - osserva - uno comprende la Chiesa di Dio più che non nella maggior parte degli altri luoghi, ed è indotto a pensare a tutti quelli che sono sue membra. E inoltre non si tratta di una pura immaginazione, come potrebbe essere trovandosi in una città di ruderi o in un luogo desolato, dove una volta dimoravano i Santi - c'è invece qui una ventina di chiese aperte a chi vi passi davanti, e in ciascuna di esse si trovano le loro reliquie, e il SS. Sacramento preparato per l'adoratore, anche prima che vi entri. Non v'è nulla che mi abbia mostrato in maniera così forte l'unità della Chiesa come la Presenza del suo Divin Fondatore e della sua Vita dovunque io vada".
 
Aggiunge: "Le chiese sono molto sfarzose. Il Duomo è tutto di marmo. Qui il marmo è praticamente il materiale ordinario delle chiese - e ancora più comune è il granito. Il granito proveniente dal Lago Maggiore sembra essere stato in uso da tempo immemorabile".

Un giorno comunica: "Come sta diventando buio, benché ora siano le 6. Faccio fatica a vederci. Il Duomo è l'edificio più incantevole che mai abbia visto. Se si va per la città, i suoi pinnacoli assomigliano a neve luminosa contro il cielo blu. Siamo stati due volte sulla sua cima, dalla quale appaiono belle le Alpi, specialmente il Monte Rosa".

In particolare Newman è impressionato dal duomo come luogo di devozione e ne parla abitualmente nelle sue lettere. La partecipazione alle assemblee liturgiche del Duomo di Milano gli rivelano che cosa sia "la liturgia come fatto oggettivo": "Una Cattedrale Cattolica - scrive - è una specie di mondo, ciascuno dei quali si muove intorno alla propria attività, solo che questa è di tipo religioso; gruppi di fedeli o fedeli solitari - in ginocchio o in piedi - alcuni presso le reliquie, altri presso gli altari - che ascoltano messa e fanno la comunione - flussi di fedeli che si intercettano e si oltrepassano a vicenda - altare dopo altare accesi per la celebrazione come stelle nel firmamento - o la campana che annuncia ciò che sta incominciando nei luoghi sottratti al tuo sguardo - mentre nel contempo i canonici in coro recitano le loro ore di mattutino e lodi o vespri, e alla fine l'incenso sale a volute dall'altare maggiore e tutto questo in uno degli edifici più belli del mondo, e ogni giorno - alla fine senza esibizione o sforzo alcuno, ma come ciò che ciascuno è solito fare - ciascuno occupato al proprio lavoro, così come lascia l'altro al suo".
 
Newman rimane specialmente colpito dal numero di comunioni che si fanno nelle chiese di Milano: "Ho riscontrato questo in Duomo, a San Fedele, che è stata la nostra chiesa parrocchiale, e a Sant'Ambrogio. Nella chiesa un altare è riservato alla comunione, e io penso di non aver visto una Messa senza che ci fosse chi si comunicava - oltre le comunioni fuori della Messa".

A Milano ricorre il primo anniversario della conversione cattolica di Newman e il 9 ottobre scriverà: "Oggi è un anno dacché sono nella Chiesa Cattolica e ogni giorno benedico Lui, che mi conduce dentro sempre più. Sono passato dalle nubi e dalle tenebre alla luce, e non posso guardare alla mia precedente condizione senza provare l'amara sensazione che si ha quando si guarda indietro a un viaggio faticoso e triste".
Nel duomo di Milano Newman incontrava esattamente uno degli aspetti e dei momenti più espressivi della Chiesa cattolica.

A Milano Newman trova poi un rito diverso da quello romano, a sua volta significativa testimonianza di antichità; egli ne rimane attratto: "È tuttora in vigore la vecchia liturgia ambrosiana, o Messa, che riporta indietro proprio all'età del grande Santo. Per alcuni aspetti mi piace più di quella romana". Milano è per Newman soprattutto la "città di sant'Ambrogio". Egli ripeterà, scrivendo ai suoi amici d'Inghilterra: "È una benedizione così grande quella di poter entrare, quando camminiamo per la città, nelle chiese - sempre aperte con larga e generosa gentilezza - piene di preziosi marmi da ammirare, di reliquiari, di immagini e di crocifissi, tutti disponibili al passante che voglia personalmente inginocchiarvisi accanto - dappertutto il SS. Sacramento, e abbondanti indulgenze".

"È meraviglioso andare nella chiesa di Sant'Ambrogio - dove si trova il suo corpo - e inginocchiarsi presso le sue reliquie, che sono state così portentose, e di cui io ho sentito e letto più che di ogni altro Santo fin da quando ero ragazzo. Sant'Agostino qui si è convertito! Qui venne anche santa Monica a cercarlo. Sempre qui, nel suo esilio, venne il grande Atanasio per incontrare l'Imperatore. Quanta tristezza quando dovrò partire!"; "Io non sono mai stato in una città che mi abbia così incantato - scriverà alla sorella l'ultimo giorno di permanenza a Milano: stare davanti alle tombe di grandi Santi come sant'Ambrogio e san Carlo e vedere i luoghi dove sant'Ambrogio ha respinto gli Ariani, dove santa Monica montò la guardia per una notte con la "pia plebs", come la chiama sant'Agostino, e dove lo stesso sant'Agostino venne battezzato. Le nostre più vecchie chiese in Inghilterra non sono nulla quanto ad antichità rispetto a quelle di qui, e a quel tempo le ceneri dei Santi sono state gettate ai quattro venti. È cosa così grande essere dove i "primordia", la culla, per così dire, del cristianesimo continuano ad esserci".

Per Newman dire il duomo è dire "il grande san Carlo", e di san Carlo egli parla diffusamente con i suoi corrispondenti, raccontando della sua vita e della sua morte, della sua estrema austerità, delle sue opere e del significato della sua azione nella Chiesa, che ben conosceva. Si intrattiene sulla "grandezza impressionante di san Carlo", che "fino ad oggi - dice - è proprio la vita" di Milano: "Nonostante ogni sorta di male, di genere politico o altri; nonostante la mancanza di fede e altri cattivi spiriti del giorno, c'è un'intensa devozione per san Carlo. E la disciplina del clero è sostenuta dalle sue norme in modo più esatto di quello che noi abbiamo trovato in Francia o di quanto lo sia a Roma"; "Tu vedi i suoi ricordi da ogni parte - il crocifisso che fece cessare la peste quando egli lo portò lungo le vie - la sua mitra, il suo anello - le sue lettere. Soprattutto le sue sacre reliquie: Ogni giorno si celebra la Messa presso la sua tomba. Egli fu suscitato per opporsi a quella terribile burrasca sotto la quale è caduta la povera Inghilterra, e come ai suoi giorni egli ha salvato il suo paese dal Protestantesimo e dai suoi mali collaterali, così noi stiamo tentando di fare qualche cosa per opporci a simili nemici della Chiesa in Inghilterra e quindi non posso che aver fiducia che egli farà qualche cosa per noi lassù, dove è potente, questo benché noi siamo da una parte delle Alpi e egli sia appartenuto all'altra. Così io confido, e la mia mente fu colma di lui, al punto che mi sono persino sognato di lui - e noi vi andiamo la maggior parte dei giorni e ci inginocchiamo presso le sue reliquie".

Ma a Milano Newman non visitò soltanto la chiesa di San Fedele, il duomo e Sant'Ambrogio. Abbiamo già ricordato l'accenno alla basilica di San Lorenzo. Ma egli parla anche della chiesa di San Satiro e di Sant'Eustorgio, dove assiste alla Messa solenne nella festa della Madonna del Rosario e che descrive come "un'ampia chiesa" che "contiene le reliquie di parecchi martiri, e piena di monumenti e cappelle.

Newman parla anche di "Monza, distante 12 miglia", dove "si trova la corona ferrea composta con uno dei chiodi che Costantino pose nel proprio diadema come uno dei chiodi della vera Croce, vi sono anche dei doni che papa Gregorio Magno inviò alla longobarda regina Teodolinda".
Nel soggiorno milanese Newman avrebbe desiderato incontrare Rosmini e Manzoni.

A proposito di Rosmini scrive nella sua prima lettera da Milano: "Ci siamo trovati in mezzo agli amici di Rosmini, e siamo sorpresi di trovare quanto facciano i Rosminiani in queste parti (...). Abbiamo una missiva per Rosmini, che è comunque assente". Di fatto l'incontro non avverrà, e la ragione sembra a Newman piuttosto esile: "Rosmini è passato da Milano - è detto in una lettera del 18 ottobre - mi ha inviato un cortese messaggio, spiegando che non ci ha chiamati perché lui non sa parlare latino e io italiano. Non è sufficiente per spiegare la sua non chiamata. Ghianda ha una grande ammirazione per lui, come anche Manzoni. Vorremmo avere molto di più da dire di lui, ma non riesco a cogliere l'essenza della sua filosofia. Mi piacerebbe credere che tutto sia giusto, benché si abbiano dei sospetti".

Anche l'incontro con Manzoni non poté avvenire. "Non abbiamo visto Manzoni e credo che per questo egli sia anche più spiacente di noi. Non che a noi non dispiaccia, ma è una cosa così grande essere nella città di sant'Ambrogio". Di Manzoni Newman già conosceva I Promessi Sposi. In una lettera alla sorella Jemina scriveva di averne fatto una lettura deliziosa e in un'altra dirà di fra' Cristoforo: "Il Cappuccino nei "Promessi Sposi" ha conficcato nel mio cuore come una freccia".

(©L'Osservatore Romano - 26 marzo 2009)


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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Il nesso tra fede e ragione in John Henry Newman
«Diecimila difficoltà non fanno un solo dubbio»

    Pubblichiamo ampi stralci di una delle relazioni tenute al convegno "John Henry Newman oggi, logos e dialogo" in corso a Milano all'Università Cattolica del Sacro Cuore.

    di Fortunato Morrone

    Il tema che mi è stato affidato è di bruciante attualità; pensiamo solo brevemente agli interrogativi posti dalle biotecnologie all'intelligenza della fede o alle sollecitazioni critiche rivolte al credente dalle scienze cosiddette esatte o dalle scienze sociali. Nel corso di quest'anno in cui si celebra il bicentenario di Darwin l'intelligenza dei credenti, e le esigenze che ne derivano per il discorso teologico, è ancora una volta provocata positivamente a dire la fede nel Creatore dialogando con chi non professa la nostra speranza.

Pur mutando i tempi e le stagioni, il rapporto tra fede e ragione non è mai stato pacifico o scontato per quella pretesa tutta cristiana che confessa in Gesù il Logos del Padre fatto uomo. Per questa ragione propria della fede che ama la terra, fin dal tempo dei Padri, ha ricordato Benedetto XVI nel Convegno della Chiesa italiana a Verona, c'è stato un umanesimo cristiano capace di ammirare e promuovere ciò che di vero, di bello e di giusto è presente in ogni cultura e di cogliere attraverso l'alfabeto delle scienze la corrispondenza fra ragione e Logos, una corrispondenza ancora più radicale nell'annuncio cristiano del Logos incarnato culmine della rivelazione del Dio della vita, un Dio per gli uomini.

    La fede non può tradursi in storia senza fare appello, anzi allearsi alla ragione. D'altra parte il filosofo tedesco Jürgen Habermas, epigono della Scuola di Francoforte, negli ultimi anni è tornato più volte a richiamare l'attenzione sulla necessità di un dialogo etico tra credenti e laici, svolto tra l'altro con l'allora cardinale Joseph Ratzinger.

    I problemi e i drammi del nostro villaggio globale d'altra parte incrociano direttamente gli interrogativi centrali circa la condizione della fede oggi, in un contesto culturale a dir poco complesso segnato da un diffuso relativismo espresso dal cosiddetto "pensiero debole" post-moderno che predica l'irrilevanza della ricerca di risposte definitive contestando fortemente la possibilità dell'uomo di accedere alla realtà, alla verità, se mai ne esista una. Se fino a qualche decennio fa almeno in Italia qualcuno affermava che culturalmente non possiamo non dirci cristiani (Croce), oggi "gran parte dell'umanità ha imparato a vivere senza Dio".

Il cristianesimo, con la sua proposta forte di umanesimo, è ormai divenuto estraneo agli uomini e alle donne del nostro tempo. Da qui nella complessa e variegata cultura odierna il cui orizzonte comune rimane il nichilismo, la negazione di ogni verità oggettiva è diventato il pilastro dogmatico del nuovo pensiero che come ha ammonito Giovanni Paolo II nella Fides et Ratio si risolve inesorabilmente in "negazione dell'umanità dell'uomo e della sua stessa identità". Il rifiuto sistematico del possibile accesso alla verità ha, infatti, ricadute antropologiche negative. Il rapporto fede e ragione non è perciò un problema accademico, quanto piuttosto e anzitutto una questione pratica della speranza annunciata dai credenti in questo mondo e per questo mondo. Ebbene ciò che oggi sembra essere posto in discussione è il legame profondo che unisce la persona con la realtà, un legame che fa parte dell'intimità della persona in quanto tale e che investe la sua coscienza. Posta di fronte alla realtà la persona interagisce con la sua razionalità facendola entrare nel suo orizzonte cosciente e in questo incontro con la realtà, la ragione stabilisce nessi di significato in relazione a tutti quei fattori che la riguardano.

Il soggetto è così posto di fronte all'oggettività del reale interferendo mediante quella ragionevolezza che accoglie e si sottomette all'esperienza. Riconoscere che l'essere non dipende dal soggetto, che è parte integrante dell'essere persona, permette al singolo di essere leale con la realtà che si offre all'intelligenza evitando la trappola del soggettivismo.

                             

    Di fronte all'odierna deriva del nichilismo o dello scientismo, ecco come Newman replicherebbe a una tale visione riduttiva del reale e del soggetto.

Siamo nella Grammatica:  "Ci troviamo immersi in un mondo di fatti che noi usiamo continuamente perché non c'è nient'altro da usare (...) Io sono quello che sono oppure non sono niente... non posso evitare di bastare a me stesso perché non posso fare di me qualcos'altro, e cambiarmi significa distruggermi. Se non uso l'io che sono, non ho altro da usare".

    La ragione va colta nella concretezza dell'esperienza umana dei singoli, fatta di relazioni, di immaginazione, di sentimenti, di puntuali e limitate contingenze storiche. Questa preziosa facoltà umana possiede una sua dinamica che tende inevitabilmente alla verità. Ora questa tensione è incomprensibile al di fuori dell'atto creativo di Dio il quale costituendo l'uomo come spirito incarnato, lo rende capace di Sé. Perciò la complessità dell'uomo non può essere ridotta alla capacità di raccogliere dati sensibili e di catalogarli secondo lo schema razionalistico.

A Locke Newman rimprovera che "gli stessi modi di ragionare e convincimenti che per me sono naturali e legittimi per lui sono irrazionali, emotivi, spuri ed immorali; e ciò, credo, perché egli si richiama ad un suo ideale di come la mente dovrebbe agire, anziché indagare la natura reale della mente umana". È una filosofia della scienza che, pur riconoscendo una sua dignità alla religione, la relega nell'angolo del sentimento privato che non fa "fede" in termini di conoscenza certa.

A ben vedere, rileva Newman, l'ambito della ragione empirica è, tutto sommato, ristretto rispetto all'intera realtà che non è riducibile né mossa da questa "ragione", ma da altre ragioni non meno reali. In fondo la stessa tradizione empirica ammette dei limiti alla ragione:  è il buon senso dello "spirito filosofico" che con umiltà cerca di interpretare i fatti secondo la lezione iniziata da Bacone. Nel rispetto di tali limiti si può giungere a risultati validi nel campo della conoscenza.

    Ma separare la razionalità dalla totalità del soggetto, posto di fronte alla realtà con cui inferisce, con la capacità di giudicare e di concludere, fa intendere Newman, è contro la struttura stessa della mente umana. Si tratta invece di avere una visione della razionalità ben più ampia rispetto a questa tradizione filosofica.

Certo Newman non si trova a dialogare con un pensiero debole, ma il problema di fondo per un credente rimane il medesimo:  come rendere ragione della speranza ad ogni generazione che ne chiede conto. E soprattutto come mostrare che l'atto del credere in quanto è compiuto dal medesimo soggetto che nel suo relazionarsi con la realtà impiega una razionalità implicita, è il medesimo che utilizza un procedimento razionale esplicito simile al procedere argomentativo della scienza. Entrambi i movimenti razionali sono frutto della mente umana che non può essere assente nell'assenso che la fede richiede.

    Quando nel processo mentale che conduce alla certezza personale viene posta una dicotomia tra ragione e fede, il semplice credente - sul terreno delle ragioni da esibire - è banalmente ritenuto un minus habens, un credulone, un tranquillo uomo religioso la cui fede è una semplice opinione ridotta a credenza. D'altra parte chi intendesse difendere la ragionevolezza della fede alla stregua dell'argomentazione scientifica con prove chiare e distinte, ridurrebbe i misteri della fede ad un'articolata esposizione di dati sillogisticamente controllabili, mentre il sottrarsi alla provocazione se pur arrogante della ragione relegherebbe i credenti in un intimismo religioso stucchevole e astorico.

La difesa della fede non può prescindere dall'essere atto intellettuale dell'uomo che nella sua interezza si apre al mondo. Confortato dalla Scrittura Newman nel decimo sermone universitario ribadisce che "è chiaramente impossibile che la fede sia indipendente dalla ragione, che sia un nuovo modo di raggiungere la verità:  il Vangelo non altera la costituzione della nostra natura, non fa che integrarla e perfezionarla; ogni conoscenza comincia con la vista e si completa con l'esercizio della ragione... (tuttavia) la ragione non è necessariamente l'origine della fede quale essa esiste nel credente, per quanto la controlli e la verifichi".

    In sostanza Newman si è trovato da una parte con una visione di una fede concepita come il classico "salto nel buio", con il conseguente abbandono di ogni pretesa di razionalità umana e fondata unicamente sul sentimento del cuore, tipico della confessione evangelical e, dall'altra, si è dovuto misurare con l'altezzosità di una certa razionalità scientista e positivista che, presente anche in una parte della teologia liberale del tempo, proponeva una lettura esclusivamente razionale della Rivelazione isolando la fede in un immanentismo chiuso al Trascendente, secondo la moda dell'esaltazione della ragione e della libertà di pensiero.

In questo clima, così succintamente delineato, Newman, appellandosi alla ragionevolezza dell'atto di fede del credente, rivendicherà al cristianesimo "piena dignità culturale e filosofica", come ha ben argomentato Michele Marchetto nella sua ponderosa monografia introduttiva agli scritti filosofici di Newman.

    "Diecimila difficoltà non fanno un solo dubbio, come concepisco io la questione:  difficoltà e dubbio non possono assolutamente essere poste a confronto"; in questo famoso passaggio dell'Apologia Newman parla di sé, della sua esperienza credente, non razionalizzabile secondo le misure della ragione illuministica, ma ragionevole e sensata secondo la misura del cuore, lì dove la ragione è intimamente legata alla libertà e la persona è coinvolta totalmente, è interpellata ad offrire una risposta concreta, esistenziale con tutto il suo carico di rischio. Quest'ordine di idee fa da substrato, di conseguenza, al confronto che Newman ha sostenuto con le scienze naturali in piena fioritura nell'epoca vittoriana.

    Negli anni dell'insegnamento ad Oxford il futuro cardinale annotava:  "Il cristianesimo è stato descritto come un sistema che sbarra la via al progresso, in campo politico come in campo educativo o scientifico ... Il sentire sospetto e mostrare timidezza (da parte dei cristiani), nell'assistere all'ampliamento del sapere scientifico, equivale a riconoscere che tra esso e la rivelazione possa sussistere qualche contraddizione".

Se la scienza è ricerca di verità, un possibile conflitto con la fede è frutto o di equivoci, o è una conseguenza della perdita dell'orizzonte veritativo dell'annuncio cristiano:  solo l'arroganza della ragione o la miopia di una fede chiusa al dialogo possono creare quel terreno di ostilità o di contrapposizione che non poche volte ha caratterizzato, almeno dopo l'illuminismo, i rapporti tra il cristianesimo e le scienze.

In questa via Newman forte della sua esperienza oxoniana, si impegnerà al progetto dell'Università di Dublino immaginata quale luogo del dialogo e del confronto tra le scienze e la teologia, scienza della fede, senza minimizzare il dato della conflittualità tra la scienza e le fede. Perciò Newman riteneva indispensabile un'università attrezzata teologicamente e culturalmente per non cadere da una parte nelle trappole del bieco dogmatismo religioso e dall'altra nei riduzionismi dello scientismo razionalistico, tipico dello spirito del tempo.



(©L'Osservatore Romano - 27 marzo 2009)

John Henry Newman e la ricerca della verità

«Finalmente libero dopo un viaggio faticoso e triste»



Riportiamo ampi stralci dell'omelia del cardinale arcivescovo di Milano tenuta durante la messa di chiusura del convegno "John Henry Newman oggi:  logos e dialogo", celebrata nella cappella dell'Università Cattolica del Sacro Cuore venerdì 27 marzo.
 

di Dionigi Tettamanzi

Si presenta davvero interessante e originale la vicenda biografica di Newman:  è come un itinerario pasquale, un cammino difficile e insieme affascinante che lo conduce a raggiungere la luce della verità, la verità tutta intera.

Newman sapeva entrare con passione nella storia della Chiesa, nella vita dei santi, nella loro vita interiore. Così lo sentiamo molto vicino a questo nostro tempo e - vorrei aggiungere - veramente in sintonia con la Chiesa milanese. Come sappiamo, mentre era in viaggio verso Roma, Newman soggiornò poco più di un mese a Milano nel 1846. Il 9 ottobre di quell'anno, ricorrendo il primo anniversario della sua conversione, scriverà:  "Oggi è un anno dacché sono nella Chiesa cattolica e ogni giorno benedico Lui che mi conduce dentro sempre più. Sono passato dalle nubi e dalle tenebre alla luce, e non posso guardare alla mia precedente condizione senza provare l'amara sensazione che si ha quando si guarda indietro a un viaggio faticoso e triste". E qui, "nella città di sant'Ambrogio - rileva - uno comprende la Chiesa di Dio più che non nella maggior parte degli altri luoghi ed è indotto a pensare a tutti quelli che sono sue membra".

E aggiunge:  "Inoltre non si tratta di una pura immaginazione, come potrebbe essere trovandosi in una città di ruderi o in un luogo desolato...". E ancora:  "È meraviglioso andare nella chiesa di Sant'Ambrogio - dove si trova il suo corpo - e inginocchiarsi presso le sue reliquie, che sono state così portentose, e di cui io ho sentito e letto più che di ogni altro santo fin da quando ero ragazzo. Sant'Agostino qui si è convertito! Qui venne anche santa Monica a cercarlo. Sempre qui, nel suo esilio, venne il grande Atanasio per incontrare l'imperatore. Quanta tristezza quando dovrò partire!...". Infine un'ultima testimonianza che troviamo nell'Apologia pro vita sua e che ci dice il tipo di conoscenza necessario per giungere alla verità e per vivere l'esperienza cristiana come esperienza di Chiesa:  "Sentivo tutta la forza della massima di sant'Ambrogio, il quale scriveva nel De fide:  "Non piacque a Dio di operare la salvezza del suo popolo mediante la dialettica"". E ancora:  "Per me non era la logica a farmi andare avanti, ... si ragiona con tutto l'essere, nella sua concretezza" (Apologia pro vita sua, pp. 196-197).
 
Quella di Newman fu sempre una appassionata, rigorosa e completa ricerca della verità, che alla fine lo avrebbe condotto a riconoscere la persona e la missione di Cristo, così come è custodita dalla Chiesa cattolica.

La verità è un'esperienza molto complessa nella quale convergono gli elementi oggettivi e l'apporto intero e diretto di tutta la persona che cerca, spera ed è disposta a trovare. La verità si raggiunge attraverso la cosiddetta "grammatica dell'assenso", che è chiara nel suo procedere - non confusa, non incerta, non equivoca o ambivalente - e che insieme esige anche un chiaro e impegnativo coinvolgimento di chi indaga, un ossequio della sua mente e del suo cuore, un'esperienza di meraviglia, di riconoscenza, di obbedienza. La verità quindi si dà soltanto in un incontro storico e reale. In concreto la verità è un rapporto profondo che si stabilisce con la persona di Gesù.

Aderire alla rivelazione divina dunque non è questione semplicemente intellettuale, razionale, ma è questione densamente antropologica, che coinvolge la totalità della persona nel suo rapporto con la persona di Cristo, più precisamente con Cristo che soffre, muore e risorge per noi; che ci promette il suo Spirito - anima vera della storia, alimento di ogni nostro pensare e sentire - lo Spirito che raduna e dispone nella Chiesa ogni approdo di ricerca e di fedeltà.

Un altro passo. Nella ricerca sincera della verità, Newman ci insegna la gioia del dialogo, che dice la valorizzazione, l'apprezzamento dell'onestà intellettuale del proprio interlocutore e insieme il rispetto reciproco di fronte a qualcosa che ci precede e che è più grande di noi. La verità infatti non dipende innanzitutto dal soggetto che indaga, ma piuttosto si mostra nella forma di una rivelazione gratuita:  proprio questo rende fruttuoso l'incontro tra coloro che dialogano davvero.

E con il dialogo, ecco che Newman con la sua esperienza di vita e di ricerca della verità ci apre al concetto di missione. Essere missionari significa stabilire una relazione diretta tra maestro e discepoli; significa che lo spirito dell'uno si incontra con quello dell'altro, che una buona predisposizione li lega e li costringe a un benefico confronto, insegnando loro l'ascolto vero e il rispetto nobile.

In particolare è nei suoi Sermoni che Newman mette in luce come deve essere la figura del predicatore, che oggi chiameremmo la figura del cristiano missionario. Egli è convinto che per trasmettere la verità della fede in Gesù Cristo non bastano le parole di un ragionamento ben strutturato sotto il profilo razionale, ma è necessaria una persona che incontra con determinatezza il cuore dell'altro. "Determinatezza" è per Newman un termine molto ricco e denso:  significa un ragionare ordinato, una passione viva e un'esperienza reale. La determinatezza esige aderenza ai bisogni delle persone, comporta coinvolgimento affettivo. Ecco, per esempio, come descrive il rapporto tra il predicatore del Vangelo e coloro che ascoltano la Parola:  "Essi pendono dalle sue labbra non come potrebbero pendere dalle pagine di un libro. La determinatezza è la vita della predicazione... Il sermone non potrà venire da qualcosa di anonimo, da qualcosa di morto e di passato e neppure da qualcosa che è di ieri, per quanto in se stesso utile e religioso" (Sermoni universitari. L'idea di università, Torino 1988, p. 1102).

Ora, continua Newman, l'apostolo per declinare efficacemente la sua testimonianza dovrà vivere un'esperienza di intensa preghiera. Il pensiero alla Pasqua, nella quale Gesù muore per noi, conduce Newman a indicare nell'umiltà e nella riparazione la via autentica verso la contemplazione della passione del Signore. E così Gesù, il "povero maltrattato", diventa l'oggetto della sua preghiera e il giusto perseguitato diventa il suo salvatore:  "Dio mio, che ne sarà di me? - scrive Newman - Dove andrò a finire se sarò abbandonato a me stesso? Che cosa posso fare se non andare da colui che ho gravemente offeso e insultato, e chiedergli di rimettermi il debito che ho con lui? O Gesù, mio Signore, il cui amore per me è stato così grande da scendere dal cielo per salvarmi; mostrami caro Signore il mio peccato, insegnami a pentirmene, e perdonami nella tua grande misericordia" (Meditations and devotions, 251-252).

In realtà la preghiera in tutte le sue forme ed espressioni ha sempre vivificato la mente e il cuore di Newman, dalla sua infanzia fino al giorno della sua morte. Si tratta di una preghiera che per lui è sempre stata fondata nella fede in un Dio personale. Ha sempre sentito nel cuore una voce più grande del dettame della sua natura e questo lo manifesta scrivendo che si tratta "dell'eco di una persona che mi parla. Essa porta con sé la prova della sua origine divina. La mia natura la sente in tutto e per tutto come una persona. Quando le disobbedisco mi sento afflitto, proprio come quello che provo nel compiacere o nell'offendere un amico degno di rispetto" (Callista, 314).

Nell'intreccio inseparabile tra l'affermazione di un Dio personale, la coltivazione della coscienza e la conoscenza del dogma, Newman ha sempre considerato la preghiera come un dovere e come un privilegio. È stato profondamente affascinato dalla preghiera di intercessione, da lui definita come "la prerogativa e il dono degli obbedienti e dei santi". Nella preghiera di intercessione mette in risalto la dignità divina, la possibilità che il peccatore diventi un amico, un confidente di Dio, in grado di raccogliere l'universo intero e di presentarlo al suo Signore. In questa preghiera Dio ci concede il potere fortissimo di influire non solo sul percorso vitale della nostra anima, ma sul futuro di tutta la storia.

A un certo punto, nella sua lunga esperienza di preghiera, di mortificazione e di penitenza, accompagnata sempre da una adorazione umile e perseverante, apparve a Newman quella luce che lo condusse il 9 ottobre 1845 a "sentirsi raccolto nell'unico ovile di Cristo" (Apologia, 207). "Avevo l'impressione - scriveva nel 1864 - di entrare nel porto dopo una traversata agitata; per questo la mia felicità, da allora fino a oggi, è rimasta inalterata" (Apologia, 211). Era questa solo una tappa del suo lungo viaggio:  sarebbe continuata in lui un'eroica e incessante lotta interiore, accompagnata sempre da una grande libertà di coscienza. Le questioni religiose e filosofiche della sua epoca si sarebbero progressivamente risolte attraverso una singolare capacità di dialogo con molte persone. Il suo procedere apologetico lo rendeva metodico e preciso. Con la sua capacità di umiltà e di perseveranza, divenne un esempio di guida spirituale, temprata dalle lotte affrontate e dalla diffidenza da cui in diverse occasioni si sentì circondato.

Possiamo certamente dire che la sua vita, definita da molti un "olocausto alla verità", rimane un punto di riferimento per tutti noi. Di fronte alle nostre preoccupazioni e ai difficili discernimenti che la società contemporanea ci impone, Newman ci insegna attraverso i suoi scritti e con il suo esempio a mantenere un certo distacco dalle preoccupazioni materiali della vita, per lasciar posto dentro di noi alla crescita dell'amore di Dio, perché ogni nostro affanno, ogni atteggiamento di fede e ogni moto interiore della preghiera devono nascere e trovare il loro compimento solo nella carità divina.

I nostri giorni ci obbligano a ritrovare un pensiero robusto e una pratica cristiana aperta e lungimirante, dentro la quale la ricerca teologica, l'interpretazione della cultura e il sentire ecclesiale siano sempre accompagnati da una vera esperienza spirituale.

È il nostro cammino verso la Pasqua nella quale ritroviamo sempre la rivelazione della gloria di Dio nella vita della Chiesa e nella storia del mondo. Al termine di questo cammino ci attende la pace vera.



(©L'Osservatore Romano - 29 marzo 2009)
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Newman e i Padri della Chiesa:  un incontro decisivo

Gli amici del quarto secolo che fanno bella ogni stagione[SM=g1740722]

di Inos Biffi

    Il 13 marzo 1864, domenica di Passione, alle sette del mattino, nel Testamento scritto in attesa della morte, Newman dichiarava:  "Affido l'anima mia e il mio corpo alla Santissima Trinità e ai meriti e alla grazia di nostro Signore Gesù, il Dio Incarnato; all'intercessione e alla compassione della nostra cara madre Maria; a san Giuseppe; a san Filippo, mio padre, padre di un figlio indegno; a san Giovanni evangelista; a san Giovanni Battista; a sant'Enrico; a sant'Atanasio, a san Gregorio di Nazianzo; a san Giovanni Crisostomo e a sant'Ambrogio. L'affido altresì a san Pietro, a san Gregorio i, a san Leone e al grande apostolo san Paolo".

                                         

    Non sorprende che nell'attesa della morte - che sarebbe sopravvenuta più di un quarto di secolo dopo, nel 1890 - Newman si affidasse alla Santissima Trinità, a Gesù Cristo, a Maria e a Giuseppe, a san Filippo Neri, fondatore degli oratoriani - ai quali apparteneva, e del quale era devotissimo - a san Giovanni Battista e agli apostoli Giovanni, Pietro e Paolo, e a sant'Enrico, del quale, con quello di Giovanni, portava il nome.

    Non è però neppure sorprendente - ma molto significativo - che, dopo aver "passato la sua vita nell'intimità dei Padri" (Henri Brémond), Newman si affidasse in morte a quei padri e dottori che rappresentavano ai suoi occhi la gloriosa Chiesa antica:  dopo la frequentazione durante tutta la sua vita, a partire dall'adolescenza, non poteva, certo, dimenticarli in morte. Essi erano stati "le sorgenti della sua conversione e della sua vita interiore" (Denis Gorce); li aveva cantati nelle sue più belle liriche; li aveva raccolti con premurosa devozione, in edizioni raffinate, nella sua biblioteca, per stare con loro; li aveva studiati a lungo e con entusiasmo:  non poteva dubitare che si sarebbero presentati ad accoglierlo sulla soglia dell'eternità.

    L'incontro di Newman con i Padri, con "queste prime luci della Chiesa", come egli li chiama, fu un incontro precoce. Era il 1816, quando questo "sublime inquieto" (Gorce) sperimentò - lo scrive nell'Apologia pro vita sua - "un grande rivolgimento di pensieri", incominciando "a subire l'ascendente di un credo ben definito" e ad accogliere "nella mente certe impressioni sul dogma che, per la grazia di Dio, non sono mai più scomparse né sbiadite".

    La storia dei Padri diviene allora, in certa misura, la storia di Newman. E il pensiero va a quello che per lui aveva significato lo studio degli "amici del secolo iv", "il secolo di elezione di Newman", nel quale egli "si trova tutt'intiero" e che è "il suo luogo intellettuale (...) il paesaggio dell'anima che porta nel proprio intimo e trasfigura le sue giornate" (Gorce) - e va al Saggio sullo sviluppo della dottrina cristiana, che si concluderà con la scelta dolorosa e doverosa, e insieme gioiosa e liberante, della conversione alla Chiesa cattolica, quando, proprio alla scuola dei padri, sentì sciogliersi l'ostacolo che lo teneva lontano da essa.

    Dal dicembre 1832 al giugno 1833 Newman avrebbe compiuto il celebre viaggio nel Mediteranno da cui resterà incantato. Quelle acque, scriverà alla madre il 19 dicembre 1832, gli ricordavano Atanasio, che le aveva attraversate - "Qui il grande Atanasio viaggiò verso Roma" - e lo avvicinavano alle terre dei padri greci, e particolarmente dei "suoi Cappadoci". Il loro ricordo si trasfigura allora in poesia:  la poesia che, d'altronde, anima tutta l'opera di Newman.

    A bordo della Hermes, tra Zante e Patrasso, Newman canta i Padri greci, "la pagina variegata, tutta splendore di Clemente", "e Dionigi, guida saggia nel giorno del dubbio e della pena", "e Origene dall'occhio d'aquila", e, dopo Basilio, - col suo "alto proposito di colpire l'eresia imperiale" - "la grazia divinamente insegnata del Nazianzeno", e "Atanasio dal cuore regale", che altrove definirà "instancabile Atanasio"; mentre un'intera poesia sarà dedicata a Gregorio di Nazianzo.

    Né meno poeticamente ispirato è un brano di prosa del saggio sul Crisostomo, dove quattro dottori della Chiesa sono paragonati alle quattro stagioni:  "(Basilio) somigliava a una calma, mite, composta giornata d'autunno; san Giovanni Crisostomo era invece una giornata di primavera, luminosa e piovosa, splendida fra sprazzi di pioggia. Gregorio era l'estate piena, con un lungo intervallo di dolce quiete; la sua monotonia era interrotta da lampi e tuoni. E sant'Atanasio ci dà l'immagine dell'inverno rigido e accanito, con i suoi venti violenti, i terreni incolti, il sonno della grande madre, e in cielo le stelle luminose".

   [SM=g1740734]  "I Padri mi fecero cattolico":  Newman stesso lo dichiara a Edward B. Pusey. Questi aveva criticato il culto cattolico a Maria, ritenendolo uno sviluppo anomalo della pietà cristiana e un grave ostacolo per l'intesa degli anglicani coi cattolici, e Newman nella nota lettera a Pusey risponderà:  "Non mi vergogno di basarmi sui Padri, e non penso minimamente di allontanarmene. La storia dei loro tempi non è ancora per me un vecchio almanacco. I Padri mi fecero cattolico (The Fathers made me a Catholic), ed io non intendo buttare a terra la scala con la quale sono salito per entrare nella Chiesa".[SM=g1740717] [SM=g1740721] 

    E, dopo aver terminato The Church of the Fathers, scriverà:  "La mia Chiesa dei Padri è ora terminata. È il libro più bello - the prettiest book - che io abbia scritto. E non c'è da sorprendersi, dal momento che si compone tutto di parole e di opere dei Padri".

    È lui stesso a riferire quanto si diceva:  "Intorno a noi da ogni parte si alzavano voci, a gridare che i Tracts e gli scritti dei Padri ci avrebbero portato al cattolicesimo prima che ci avvedessimo" e a ricordare il suo prosternarsi "con amore e venerazione ai piedi di coloro - sta parlando dei padri calcedonesi - la cui immagine ebbi sempre davanti agli occhi e le cui armoniose parole risuonarono sempre al mio orecchio e sulle mie labbra".

Si viene drammaticamente accorgendo che l'antica ortodossia patristica e conciliare continuava nella Chiesa di Roma, e la sua coscienza gli imponeva di prendere la decisione coerente:  "Se sant'Ambrogio e sant'Atanasio tornassero all'improvviso in vita - scrive nello Sviluppo della dottrina cristiana - non vi ha dubbio quale confessione riconoscerebbero come la loro".

Commenta con finezza il Gorce:  "Newman non ha che da cantare il Nunc dimittis (...) Dopo essere stati gli strumenti della sua agonia, i Padri sono diventati finalmente gli artefici della sua risurrezione".

    Newman stesso nell'Apologia pro vita sua ricorderà come nella stesura de Gli ariani del iv secolo i Padri abbiano via via influito su di lui. Così, scrive:  "La vasta filosofia di Clemente e Origene mi entusiasmò (...) Certe parti del loro insegnamento, di per sé magnifiche, mi giungevano come una musica nell'orecchio della mia anima, quasi fossero la risposta a idee che, con ben poco incoraggiamento all'esterno, io accarezzavo da tanto tempo".

    Fatto quindi cattolico, Newman affermerà che la lettura dei Padri era per lui fonte di "delizia"; egli li sentiva e li considerava come suoi familiari. Alcuni di essi erano i suoi "vecchi amici del secolo iv". Gli scritti dei padri erano i suoi "archivi di famiglia".

    "Mi ricordo bene - scrive Newman - come, entrato finalmente nella comunione cattolica, baciavo i volumi di sant'Atanasio e di san Basilio con delizia, con la percezione che in essi ritrovavo molto di più di quello che avevo perduto, e come dicevo a queste pagine inanimate, quasi parlando direttamente ai gloriosi santi che le hanno lasciate in eredità alla Chiesa:  "Ora, senza possibilità alcuna di errore, voi siete miei, e io sono vostro"".

    I Padri - è l'osservazione del geniale Brémond - sono rievocati da Newman non come figure definitivamente perdute nel passato, ma come suoi veri contemporanei:  "Poeta, veggente, la Chiesa dei Padri gli è presente e familiare quanto i suoi amici di Oxford e di Birmingham", così come "Ciro, in cui Teodoreto vive in esilio, "uggiosa, banale, con la sua popolazione insignificante", è Birmingham. Antiochia, l'elegante e la raffinata, ora che Alessandria ha perso il suo Atanasio, Antiochia è Oxford".

    "Sempre il ricordo dei Padri - annota il Gorce - dorme in fondo alla sua anima, pronto a rivivere e a manifestarsi. Passando a Milano, nel recarsi a Roma, (...) egli si sentirà perfettamente at home nella grande città patristica". Newman aveva scritto:  "Questo è il luogo più meraviglioso (...) Milano presenta maggiori richiami, che non Roma, con la storia che mi è familiare. Qui ci fu sant'Ambrogio, sant'Agostino, santa Monica, sant'Atanasio".

    D'altronde, Newman non accostava i padri in modo astratto, unicamente interessato, da storico e da teologo, allo studio della loro dottrina, ma al fine - sono le sue parole - di penetrare nella loro "vita reale, nascosta, ma umana o, come si dice, l'"interno" di queste gloriose creature di Dio".


(©L'Osservatore Romano - 28 marzo 2009)


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19/05/2009 19:06
 
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Nella primavera del 1879 Leone XIII creò cardinale John Henry Newman

Dicevano
che fosse troppo liberale



di Inos Biffi

Parlando di Newman, Leone XIII lo chiamava "il mio cardinale", e aggiungeva "non è stato facile, non è stato facile. Dicevano che fosse troppo liberale, ma io avevo deciso di onorare la Chiesa onorando Newman. Ho sempre avuto un culto per lui. Ho dato prova che ero capace di onorare un tale uomo". Il Papa lo diceva a Lord Selborne che, in una udienza del 26 gennaio 1888, gli consegnava un messaggio da parte di Newman. Infatti già da nunzio in Belgio (dagli inizi del 1843 agli inizi del 1846), Pecci era ben informato sul movimento di Oxford. Ed è interessante che l'affermazione:  "Ho sempre avuto un culto per lui" venga dal Papa dell'Aeterni Patris e della rinascita del tomismo.

Quella nomina, auspicata particolarmente dal laicato cattolico inglese e di cui già si vociferava, era stata piuttosto laboriosa per il fraintendimento della sua difficoltà a lasciare l'oratorio di Birmingham:  intenderlo e presentarlo al Papa come un rifiuto non era dispiaciuto troppo al cardinale Manning, nel quale la porpora di Newman non suscitava un eccessivo entusiasmo. Newman poi precisò che non si trattava di un rifiuto, e il Papa stesso era disposto a una deroga.
 
Il duca di Norfolk, che sosteneva fortemente quella nomina, già nel dicembre del 1878 l'aveva prospettata a Leone XIII, trovando che il Papa non aveva nessun pregiudizio contro Newman e nessuna avversione nei confronti dei suoi scritti.
La questione venne risolta con la lettera del Segretario di Stato, il cardinale Lorenzo Nina, che  il  15 marzo 1879 comunicava ufficialmente a Newman la decisione di Leone XIII di conferirgli la porpora.

Newman giunse a Roma il 24 aprile e vi rimase fino al 4 giugno, presso l'Hotel Bristol, in via Sistina 48, in uno stato di salute estremamente precario.

Scrivendo al suo vescovo Ullathorne, il 3 luglio, mentre ricordava la "simpatia" e "gli onori" smisurati di cui era stato fatto oggetto, e in particolare la "tenerezza", l'"affettuosa tenerezza" del Papa, lo informava di non aver potuto celebrare l'Eucaristia più di tre volte, e del resto alcune sue lettere le aveva dettate dal letto.

Durante quelle settimane venne ricevuto due volte da Leone XIII, che si informava continuamente della salute del "suo" cardinale.

La prima udienza avvenne il 27 aprile. Ricordandola in una lettera del 2 maggio all'oratoriano Henry Bittleston, Newman scrive:  "Il Santo Padre mi ha ricevuto molto affettuosamente, stringendo la mia mano nella sua. Mi ha chiesto:  "Intende continuare a guidare la Casa di Birmingham?". Risposi:  "Dipende dal Santo Padre". Egli riprese:  "Bene. Desidero che continuiate a dirigerla", e parlò a lungo di questo".

Il Papa gli rivolge ancora "diverse domande" sulla casa di Birmingham, se fosse bella, sulla chiesa, sul numero dei religiosi, sulla loro età, su dove avesse studiato teologia.
 
Prima di congedarsi, Newman fece omaggio a Leone XIII di una copia dell'edizione romana delle sue quattro Dissertazioni Latine, e aggiunge, nella stessa lettera a Bittleston, d'aver rilevato la larga bocca del Papa, il suo ampio e gradevole sorriso, la sua "carnagione molto chiara" e il suo "parlare lento e nitido all'italiana".

La seconda udienza, di congedo, avvenne il 2 giugno, nell'imminenza del ritorno in Inghilterra. Newman sottopose al Papa varie richieste, e il 4 lasciò Roma per Livorno, dove rimase, malato, fino al 20 giugno, per arrivare a Birmingham il primo luglio.

Aveva ricevuto il Biglietto, recatogli da monsignor Romagnoli, la mattina del lunedì 12 maggio, presso il Palazzo della Pigna. Il giorno dopo il Papa gli avrebbe imposto la berretta cardinalizia, e nel concistoro pubblico del 15 seguente il galero. Insieme, tra gli altri, con Giuseppe Pecci, fratello del Papa, Tommaso Maria Zigliara, domenicano - tutt'e due eminenti studiosi di filosofia e teologia tomista - e il celebre storico Joseph Hergenröther.

Come cardinale diacono gli era stato assegnato il titolo di San Giorgio al Velabro. Il motto dello stemma, attinto a san Francesco di Sales, era suggestivo ed eloquente, Cor ad cor loquitur, e rendeva perfettamente lo spirito di Newman, per il quale la parola non si comunica per pura ed esclusiva via astratta ma per i rapporti concretamente creati da una interiore affinità; d'altra parte, si conosce non solo con la mente, ma con tutta la persona, e quindi con l'affectus, secondo l'affermazione di Gregorio Magno:  Amor ipse notitia, l'amore è in se stesso fonte e principio di conoscenza, ossia amare è conoscere.

I testimoni di quel concistoro pubblico hanno riportato l'impressione e il commento che la figura diafana di Newman, dai capelli bianchi e dal marcato profilo, avvolta nella porpora, suscitava nelle dame di Roma:  "Che bel vecchio! Che figura! Pallido sì, ma bellissimo!" (cfr. Sheridan Gilley, Newman and his age, p. 402).

Un oratoriano della comunità, parlando di Newman, tornato a Birmingham e presente alle celebrazioni nella chiesa di Edgbaston, osservava:  "Il suo aspetto era magnifico, mentre stava seduto di fronte ai fedeli che riempivano il tempio. Il suo volto sembrava quello di un angelo, con i suoi lineamenti, ormai familiari per noi, addolciti e spiritualizzati adesso dalla salute fragile, e con la sua delicata costituzione e i capelli argentei, che contrastavano con le sfumature rosse dei suoi splendidi e insoliti vestiti" (citato da José Morales Marín, John Henry Newman. La vita).

Il cardinalato e l'accoglienza di Leone XIII, oltre che una riparazione per la diffidenza che per anni aveva circondato la vita e l'opera di Newman, erano soprattutto il riconoscimento del valore del suo ampio e lungo magistero. Ed è molto significativo che "L'Osservatore Romano" del 14 maggio, la vigilia del concistoro pubblico, pubblicasse in prima pagina il discorso pronunziato da Newman dopo la consegna del Biglietto di nomina, il 12 maggio, dove faceva un rapido bilancio della sua vita e dove trattava di un tema che appare ancora di impressionante attualità:  quello del liberalismo religioso.

Newman, dopo aver iniziato a parlare "nell'armoniosa lingua" italiana, continuando in inglese, manifestava la sua "meraviglia e gratitudine profonda" per la sua nomina, dichiarando di sentirsi sopraffatto dall'"indulgenza e dall'amore del Santo Padre" nell'eleggerlo a un "onore tanto smisurato":  "È stata una grande sorpresa. Siffatta esaltazione non mi era mai venuta in mente e pareva non avere attinenza alcuna con il mio passato. Avevo incontrato molte traversie, ma erano finite, e ormai era quasi giunto per me il termine di ogni cosa. Stavo in pace". "Il Santo Padre ebbe simpatia per me, e mi disse perché mi sollevava a sì alto posto. Egli giudicava questo atto un riconoscimento del mio zelo e del mio servizio per tanti anni nella Chiesa cattolica; riteneva inoltre che qualche attestato del suo favore avrebbe fatto piacere ai cattolici inglesi e anche all'Inghilterra protestante".

Aggiungeva il neoeletto cardinale:  "In un lungo corso di anni ho fatto molti sbagli. Sono lontano da quell'alta perfezione che è propria degli scritti dei santi (...) ma ciò che confido di potermi attribuire in quanto ho scritto è questo:  la retta intenzione, l'immunità da interessi privati, la disposizione all'obbedienza, la prontezza a essere corretto, il grande timore di sbagliare, la brama di servire la Santa Chiesa, e, per divina misericordia, sufficiente buon successo". [SM=g1740717]

E proseguiva:  "Godo nel dire che a un gran male mi sono opposto fin dal principio. Per trenta, quaranta, cinquant'anni anni ho resistito, con tutte le mie forze, allo spirito del liberalismo religioso, e mai la Chiesa ebbe come oggi più urgentemente bisogno di oppositori contro di esso, mentre, ahimé, questo errore si stende come una rete su tutta la terra".

"Il liberalismo religioso è la dottrina secondo la quale non esiste nessuna verità positiva in campo religioso, ma che qualsiasi credo è buono come qualunque altro; e questa è la dottrina che, di giorno in giorno, acquista consistenza e vigore. Questa posizione è incompatibile con ogni riconoscimento di una religione come vera. Esso insegna che tutte sono da tollerare, in quanto sono tutte materia di opinione. La religione rivelata non è verità, ma sentimento e gusto, non fatto obiettivo (...) Ogni individuo ha diritto a interpretarla a modo suo (...) Si può andare nelle chiese protestanti e in quelle cattoliche; si può ristorare lo spirito in ambedue e non appartenere a nessuna. Si può fraternizzare insieme in pensieri e affari spirituali, senza avere dottrina comune o vederne la necessità. Poiché la religione è un fatto personale e un bene esclusivamente privato, la dobbiamo ignorare nei rapporti reciproci".[SM=g1740722] 
 

Newman aggiungeva:  "La bella struttura della società che è l'opera del cristianesimo, sta ripudiando il cristianesimo"; "Filosofi e politici vorrebbero surrogare anzitutto un'educazione universale, affatto secolare (... che) provvede le ampie verità etiche fondamentali di giustizia, benevolenza, veracità e simili"; sennonché - osserva Newman - un tale progetto è diretto "a rimuovere e ad escludere la religione".

È difficile non riconoscere la rovinosa attualità di questo liberalismo religioso, che preoccupava Newman nel 1879:  oggi si sta esattamente e largamente avverando e diffondendo la persuasione che le religioni siano equivalenti, che sia indifferente e non pertinente la questione della loro verità, che una confessione o una Chiesa si equivalgono. E che, in ogni caso, la religione appartiene esclusivamente all'ambito privato e personale, senza riflessi sociali. A non mancare di equivocità è talora lo stesso dialogo interreligioso:  quando cioè dovesse attutire la coscienza che, alla fine, a importare è la religione vera. La confusione che al riguardo si sta creando, all'interno stesso di esperienze cristiane elitarie, e "profetiche", come le chiamano, è mirabile e singolare, ma è assolutamente contraria al Vangelo e alla tradizione ecclesiale. Parlano del Popolo di Dio e ne annebbiano le certezze.
 
Anche l'altro, e connesso, rilievo di Newman appare di sorprendente attualità:  quello relativo allo smantellamento della "cultura" cristiana e delle sue risorse educative, con il pretesto della "laicità" e dei valori "laici", come diciamo oggi:  il neocardinale parlava di "giustizia, benevolenza", noi solitamente di "solidarietà". Ma una pura educazione "laica" condotta nell'indifferenza religiosa è incapace di fondare un'etica ed è fatalmente destinata a educare al nulla.
 
Oggi chi afferma una cosa stramba o antiecclesiale si autofregia del titolo di profeta; lo fu invece davvero Newman, le cui opere con la loro finezza storica e psicologica, con la loro bellezza poetica, e con lo splendore della loro verità, hanno impreziosito per sempre la Chiesa.



(©L'Osservatore Romano - 20 maggio 2009)

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23/07/2009 12:21
 
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La silenziosa ricerca della verità di John Henry Newman

E il cardinale rispose al bambino


di Inos Biffi

Nel firmamento della Chiesa sta per accendersi una nuova luce:  quella del beato John Henry Newman. Sarà così riconosciuta la santità di una vita trascorsa silenziosamente nell'infaticabile ricerca della verità, nell'adesione a Dio e nel consenso alla coscienza, nell'operoso e prolungato servizio alla Chiesa, nella serena e dolorosa sopportazione di incomprensioni e di isolamenti. cardinale
 
Sul finire dei suoi anni, al bambino che - in visita con la nonna Jemima, la sorella di Newman - contravvenendo alla raccomandazione di non fare domande, gli aveva chiesto:  "Chi è più grande:  un cardinale o un santo?", l'anziano zio rispose:  "Vedi, piccolo mio, un cardinale appartiene alla terra:  è terrestre; un santo appartiene al cielo, è celeste". Il cardinalato gli era giunto, sorprendentemente e non senza penosi intralci, ormai al tramonto della vita:  egli non lo aveva desiderato, anche se lo aveva gradito, come riconoscimento della sua opera e soprattutto come apprezzamento per la Chiesa cattolica inglese; però, sapeva bene che la santità era tutt'altra cosa.
D'altra parte, di là dall'altezza del suo ingegno, penetrante e versatile, di là dai suoi raffinati gusti estetici, dal suo "stile incantatore" (Piero Chiminelli), dalla discrezione del comportamento distinto, dalla elevatezza e nobiltà dei suoi sentimenti, la santità di Newman non mancava di essere diffusamente presentita.

Vedendo la sua salma esposta nella chiesa dell'Oratorio di Birmingham - era morto l'11 agosto del 1890 - un visitatore annotò:  "Il cardinale, come i resti mortali di un santo, spiccava sul feretro, pallido, distante, logorato. Era come se un intero ciclo di esistenza e di pensiero umani si fossero concentrati in quell'augusto riposo. Una dolce luce aveva condotto e guidato Newman fino a questa singolare, brillante e incomparabile meta". Ma già qualche anno prima, il vescovo di Birmingham, Ullathorne, dopo averlo incontrato, commentava:  "Mi sono sentito rimpicciolito davanti alla sua presenza. Dentro quest'uomo c'è un santo".

Ed era, alla fine, la stessa persuasione del cardinale Manning. Al discorso funebre per Newman nella chiesa del Brompton Oratory di Londra, quando ormai le polemiche erano lontane e il tempo aveva dileguato le diffidenze, l'arcivescovo di Westminster, dopo aver rievocato "la sua figura, la sua voce, e le parole penetranti che uscivano dalle sue labbra nella chiesa universitaria di Oxford", affermava:  "A nostra memoria, nessun inglese è stato oggetto di una venerazione così viva e sincera. Qualcuno ha detto:  "Lo canonizzi o meno Roma, egli sarà canonizzato nella mente della gente religiosa di tutte le confessioni in Inghilterra". È vero. E se questo fatto equivale a una nobile testimonianza di riconoscenza a una grande vita cristiana, è anche una magnifica prova dell'equità e della giustizia del popolo inglese. Egli è sempre stato lo stesso, unito a Dio e aperto nella carità a tutti quelli che avevano bisogno di lui. Fu centro di numerose anime, che erano andate da lui, come maestro, guida e consigliere durante molti anni. Una vita bella e nobile".

Forse la via più illuminante e suggestiva per comprendere la concezione e i lineamenti della santità di questa "vita bella e nobile" consiste nel percorrere i profili dei Padri della Chiesa, tracciati da Newman con  penna  finissima  e  intima  consonanza.
Potremmo, anzi, dire che, nella "fraternità d'anime" con queste "preziose creazioni di Dio" - come li definiva - e nella loro assidua e degustata frequentazione, si veniva plasmando e maturando la sua stessa vita spirituale, mentre nelle loro vicissitudini egli leggeva, quasi in una profetica filigrana, le sue peripezie e insieme ritrovava disvelate le proprie emozioni e la propria umanità.

Scriveva il penetrante, e un po' deviante, Bremond:  "In ciascuno dei Padri Newman cerca anzitutto l'uomo, il santo. Prima di prenderli come maestri, egli li vuole avere per amici". "Si scelgono gli amici come si vuole. Newman li vuole santi, e vuole che le ore che dedica loro siano ancora una specie di preghiera", e aggiungeva:  "Chi non ama la santità, non ama i santi". Newman mostra di amare sia i santi sia la santità.
E tra i santi sopra tutti lo attraeva Giovanni Crisostomo. Newman stesso si domandava:  "Da dove viene questa devozione a san Giovanni Crisostomo, che mi spinge a fissare il pensiero su di lui, e mi infiamma al solo suo nome?". E rispondeva:  "Penso che il fascino di san Crisostomo si trovi nella sua profonda solidarietà e compassione per il mondo intero; non solo nella sua forza, ma nella sua debolezza".

Newman è attirato dal fatto che, per quanto posseduto dal fuoco della divina carità, il Crisostomo "non ha perso una fibra, non manca di alcuna vibrazione del complicato organismo del sentimento e dell'affetto umano":  "Egli scrive come chi scruta con occhi acuti ma compassionevoli il mondo degli uomini e la loro storia".
Senza dire che per un altro aspetto Newman sentiva consonante col proprio il temperamento del Crisostomo, ed è il vivo senso dell'amicizia, che fu motivo per Newman di intima gioia e di profonda sofferenza: 
"Nessuno poteva vivere più intimamente nei propri amici come san Giovanni Crisostomo:  non aveva lo spirito di distacco proprio del monaco, che lo rendesse indifferente alla presenza, alla corrispondenza, all'azione, al benessere dell'anima e del corpo di coloro che, come lui, erano figli della stessa grazia ed eredi della medesima promessa". E concludeva:  "San Giovanni Crisostomo appartiene a quella schiera scelta di personaggi che gli uomini iniziano a comprendere e a venerare dopo che ne vengono privati. È la legge generale del mondo, che la nuova legge del Vangelo non ha capovolto":  sarebbe avvenuto così anche per lui.
 
Senza dubbio, l'itinerario e la forma della santità sono aperti soltanto allo sguardo di Dio, così come essa è possibile solo all'opera misteriosa e fantasiosa della sua grazia.

Tuttavia, forse, riusciamo a sorprendere alcuni momenti in certo modo decisivi del tragitto interiore di Newman. Ci sembra che uno di questi momenti sia quello della conversione di questo "ipersensibile", insieme dotato "di una docile volontà" e di una "fermezza d'acciaio" (Bouyer).

Era l'autunno del 1816, e nel "grande rivolgimento di pensieri" - com'egli nell'Apologia pro vita sua chiama la conversione - gli brillò l'evidenza di due esseri:  il suo "io" e il suo "Creatore". Mentre ogni altra realtà sbiadiva ai suoi occhi e veniva guardata con sospetto, questo eccezionale quindicenne con una fermezza estrema si sentì ancorare "al pensiero di due e solo due esseri assoluti, di un'intrinseca e luminosa evidenza, che lo segnerà per sempre:  me stesso e il mio Creatore". Così, Dio, il Dio vivo della Scrittura, "gli si impose, in modo intimo, senza intermediario, personale", con la conseguenza che i grandi dogmi, come l'incarnazione, la redenzione, la Trinità, gli apparvero "non come idee astratte, ma come fatti vitali" (Bouyer), ai quali corrispondere con la sua condotta.
 
Newman E sempre nel tempo della sua conversione lo aveva colpito un'espressione, che divenne un programma, di Walter Scott:  "La santità più che la pace", e lui stesso scriverà che il grande fine del ministero "è la santità".

Un altro momento cruciale nel cammino spirituale di Newman fu, senza dubbio, quello del viaggio nel Mediterraneo, con la sua malattia in Sicilia. Negli anni che lo hanno preceduto, "cominciavo - egli afferma - a preferire l'eccellenza intellettuale all'eccellenza morale", e a cedere al liberalismo.

Quel viaggio, coi rimorsi e i pentimenti che suscitava e la lucidità interiore che vi accendeva sul suo "orgoglio", fu provvidenziale. In quelle settimane Newman ebbe l'"intuizione" e il presentimento di una sua missione che lo attendeva, insieme con la persuasione da un lato di non aver mai peccato contro la Luce e di avere assolutamente bisogno di Luce. Fu allora che scrisse l'inno inglese più cantato nelle chiese cattoliche e protestanti, Lead kindly Light, che è una confessione sincera della sua presunzione, e una appassionata e umile implorazione di quella Luce. "In mezzo al buio" che lo avvolgeva, egli la invocava come guida, che illuminasse non "l'orizzonte lontano", ma tanto quanto bastasse per compiere un passo. La santità di Newman appare come il crescere silenzioso e perseverante di questa fedeltà alla Luce.

Certo, durante "la sua così lunga e spesso penosa vita" non sarebbero mancati difficili situazioni di prova e profondi motivi di sofferenza, di fronte a chiari segni di sfiducia, a manovre non limpide, ad anni di emarginazione e di isolamento.

Nel 1860 constatava e scriveva nel suo diario:  "Non ho nessun amico a Roma, ho lavorato in Inghilterra dove non sono stato capito e dove mi hanno attaccato e disprezzato. Pare che sia incorso in molti fallimenti", e aggiungerà:  "Credo di dire tutto questo senza amarezza".

Si era anche affacciata la possibilità che fosse fatto vescovo; gli era anche stata promessa autorevolmente quella nomina che poi svanì. Viene in mente che anche a Rosmini era stata assicurata la nomina cardinalizia, poi intralciata e revocata. E come Rosmini, la cui stella si è inattesamente e felicemente da poco accesa nello stesso firmamento del santorale della Chiesa, anche Newman non ebbe per questo parole di amaro risentimento. D'altronde, egli riconosceva serenamente:  "Io non ho il talento, l'energia, le risorse, lo spirito, la capacità di governare, necessari per occupare l'alta carica di vescovo. Non ho mai occupato in vita mia cariche di potere. Il mio modo di esercitare una qualche influenza è completamente diverso".

E fu esattamente così. La sua influenza non fece che accrescere, come riflesso della luminosità garbata, e pure intensissima della sua intelligenza, che sa toccare in profondità la mente e sa parlare al cuore. Cor ad cor loquitur si legge nel suo stemma cardinalizio.

E non meno attraente è la santità di Newman, contrassegnata da equilibrio alieno da rigide e mortificanti ascesi. Essa ci appare la santità di un gentiluomo che, con incrollabile fede, seppe sopportare per amore della verità e della Chiesa innumerevoli tribolazioni, abitualmente nascoste sotto la sua cortese e un po' distaccata amabilità, nel silenzio lucido della sua coscienza, aperta a Colui che solo assolutamente gli importava, secondo l'intuizione della sua prima conversione, a quindici anni:  "Io e il mio Creatore".


(©L'Osservatore Romano - 23 luglio 2009)


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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Pubblicati gli atti del convegno internazionale sul grande teologo inglese

Quando il «Times» canonizzò Newman



Il libro Una ragionevole fede raccoglie gli atti del convegno internazionale su John Henry Newman che si è svolto a Milano presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore il 26 e il 27 marzo 2009 (Milano, Vita e Pensiero, 2009, pagine 252, euro 20). Pubblichiamo quasi per intero la prefazione dei curatori.

di Evandro Botto e Hermann Geissler

Quando Newman fu elevato alla dignità cardinalizia (1879), scelse come motto le parole cor ad cor loquitur, il cuore parla al cuore. Tale motto ci presenta la figura di Newman come uomo di dialogo. In questo contesto può essere opportuno ricordare tre caratteristiche che hanno contraddistinto l'impegno dialogico di Newman.
 
La prima caratteristica è la passione per la verità. Sin dalla sua "prima conversione" (1816) Newman cercò la luce della verità e seguì questa "luce benevola" con grande fedeltà. Promosse il Movimento di Oxford (1833) per riportare la Chiesa d'Inghilterra alla libertà e alla verità delle origini. Si convertì al cattolicesimo proprio perché trovò in esso la pienezza della verità (1845). Nel suo lavoro su Lo sviluppo della dottrina cristiana scrisse:  "Vi è una verità; vi è una sola verità; l'errore religioso è per sua natura immorale; i seguaci dell'errore, a meno che non ne siano consapevoli, sono colpevoli di esserne sostenitori; si deve temere l'errore; la ricerca della verità non deve essere appagamento di curiosità; l'acquisizione della verità non assomiglia in nulla all'eccitazione per una scoperta; il nostro spirito è sottomesso alla verità, non le è, quindi, superiore ed è tenuto non tanto a dissertare su di essa, ma a venerarla (...) Questo è il principio dogmatico, che è principio di forza".

Newman fu un appassionato ricercatore e veneratore della verità:  nell'impegno personale, nei rapporti con gli altri, nel confronto con le scienze, nella lotta contro la faziosità delle ideologie del suo tempo. In modo lungimirante presentì il sorgere e il diffondersi di teorie relativistiche, secondo le quali si danno soltanto opinioni diverse, non verità che richiedono un assenso incondizionato. Newman fu dominato dalla persuasione che la verità esiste, che solo dalla ricerca della verità fluisce il vero dialogo, che solo la verità ci fa autentici e liberi e ci apre la strada verso la realizzazione di noi stessi.

Tale passione per la verità spinse Newman a un costante impegno per la formazione integrale dell'uomo. Affermò in un sermone:  "Voglio che un intellettuale laico sia religioso e un devoto ecclesiastico sia intellettuale". Quando gli fu affidata la responsabilità pastorale per i fedeli di Littlemore, presso Oxford, fece costruire in quel villaggio sia una scuola sia una Chiesa - segno eloquente del suo impegno per la formazione integrale delle persone. Nel suo saggio su L'idea di Università ribadì che le molteplici dimensioni del sapere formano un tutt'uno e non possono essere separate, frammentate. L'università ha il compito di offrire una formazione universale, non escludendo dal confronto sereno e aperto nessuna dimensione del sapere.

Per Newman fu evidente che a detta formazione universale appartiene anche quella etico-religiosa, la quale possiede una sua propria razionalità, che va rispettata, difesa e promossa.

Quanto alla formazione dei fedeli laici, che gli stava molto a cuore, Newman scrisse:  "Voglio un laicato non arrogante, non precipitoso nel parlare, non litigioso, ma fatto di uomini che conoscono la loro religione, che vi entrano dentro, che sanno benissimo dove si trovano, che sanno quello che possiedono e quello che non possiedono, che conoscono la propria fede così bene che sono in grado di spiegarla, che ne conoscono la storia tanto a fondo da poterla difendere. Voglio un laicato intelligente e ben istruito (...) Desidero che allarghiate le vostre conoscenze, coltiviate la ragione, siate in grado di percepire il rapporto fra verità e verità, che impariate a vedere le cose come stanno, come la fede e la ragione si relazionino fra di loro, quali siano i fondamenti e i principi del cattolicesimo (...) Sono sicuro che non diventerete meno cattolici familiarizzandovi con questi argomenti, purché manteniate viva la convinzione che lassù c'è Dio, e ricordiate che avete un'anima che sarà giudicata e dovrà essere salvata". Newman si distinse per uno straordinario impegno formativo, valorizzando pienamente lo sviluppo di tutte le scienze e ribadendo nel contempo il ruolo insostituibile che svolgono la fede e la morale per la crescita integrale della persona e per il bene della società.

L'impegno di Newman per la formazione trovò espressione in una terza caratteristica:  la sua premura di stabilire relazioni personali. Guidando il Movimento di Oxford, ribadì l'importanza della testimonianza personale. In tutta la sua vita accompagnò molti nel loro cammino umano e spirituale. Scrisse più di ventimila lettere che costituiscono una prova impressionante del suo zelo per le anime, della sua capacità di dialogare e di relazionarsi con altri. Uno dei suoi Sermoni all'Università di Oxford si intitola Il contagio personale della verità. In tale sermone Newman parte dalla constatazione che nessuno può essere conquistato alla causa della verità con le sole argomentazioni razionali. La verità, così scrive, "è rimasta salda nel mondo non per virtù di un sistema, non grazie a libri o argomentazioni, non per merito del potere temporale, ma grazie all'influenza personale di uomini (...) che ne sono in pari tempo i maestri e i modelli". Newman invita tutti a occuparsi della verità sul piano della ricerca intellettuale, ma al tempo stesso sottolinea che influisce di più - sul permanere, sullo svilupparsi e sul comunicarsi della verità - colui che vive la verità e ne diventa un testimone.

Scrisse circa la forza persuasiva di un tale testimone:  "Mentre egli è sconosciuto al mondo, nell'ambito di quanti lo conoscono egli ispirerà ben altri sentimenti che non sia solita destare la mera superiorità intellettuale. Gli uomini illustri agli occhi del mondo sono molto grandi alla distanza. Avvicinati, rimpiccioliscono. Ma l'attrattiva che si sprigiona da una santità ignara di essere tale è di una forza irresistibile; persuade i deboli, i timidi, gli incerti, chi è alla ricerca della verità".

Non deve meravigliarci, pertanto, che, quando fu onorato con la porpora, Newman scelse, come motto, le parole cor ad cor loquitur. Secondo lui, la verità viene trasmessa soprattutto cor ad cor:  in modo personale, tramite l'esempio, la fedeltà e l'amore di testimoni convinti e credibili.

Il processo di beatificazione di Newman, iniziato già nel 1958, era ormai prossimo a concludersi nel momento in cui si è celebrato il nostro convegno; a pochi mesi di distanza, in data 3 luglio 2009, Benedetto XVI ha autorizzato la Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare il decreto riguardante un miracolo, attribuito proprio all'intercessione del venerabile servo di Dio John Henry Newman. Fra qualche mese, quindi, verrà proclamato beato. L'avvenimento conferma e propone alla venerazione di tutta la Chiesa ciò di cui sono da sempre ben consapevoli studiosi e amici di Newman, e quanti si accostano senza pregiudizi alla sua figura e ai suoi scritti:  il noto convertito inglese non fu soltanto un pensatore con doti eccezionali, ma un uomo nel quale la genialità del pensiero faceva tutt'uno con la santità della vita quotidiana.
 
Quando egli in tarda età sentì dire che l'avrebbero chiamato santo, scrisse:  "Non sono portato a fare il santo, è brutto dirlo. I santi non sono letterati, non amano i classici, non scrivono romanzi. Sono forse, alla mia maniera, abbastanza buono, ma questo non è alto profilo (...) Mi basta lucidare le scarpe ai santi, se san Filippo in cielo avesse bisogno di lucido da scarpe". Lungo tutta la sua vita Newman pensò di essere ben lontano dalla perfezione cristiana. Ma dalla sua "prima conversione" la sua aspirazione fu tutta rivolta a Dio, che aveva riconosciuto come il fulcro della sua vita. Da allora in poi seguì due principi:  "La crescita è la sola dimostrazione della vita" e "la santità piuttosto che la pace".


Il genio di Newman, sebbene sempre ammirato e venerato, fu riscoperto dal concilio Vaticano II, di cui è stato un precursore profetico. Jean Guitton scrisse in proposito nel 1964:  "I grandi geni sono dei profeti sempre pronti a rischiarare i grandi avvenimenti, i quali, a loro volta, gettano sui grandi geni una luce retrospettiva che dona loro un carattere profetico. E come il rapporto che intercorre tra Isaia e la passione di Cristo, reciprocamente illuminati. Così Newman rischiara con la sua presenza il Concilio e il Concilio giustifica Newman". Il Vaticano II ha recepito e consacrato tante intuizioni di Newman, ad esempio sul rapporto tra fede e ragione, sul significato della coscienza, sull'educazione universitaria, sul valore dei Padri e della storia in generale, sul mistero della Chiesa, sulla missione dei laici, sull'ecumenismo, sul dialogo con il mondo contemporaneo - grandi tematiche che vengono ampiamente trattate nel presente volume.

Nei pronunciamenti del Magistero postconciliare la dottrina di Newman viene continuamente valorizzata.
Basta menzionare alcuni documenti di particolare rilevanza dottrinale in cui si trovano riferimenti espliciti al pensiero di Newman:  le Lettere encicliche Veritatis splendor e Fides et ratio come anche il Catechismo della Chiesa Cattolica, che contiene non meno di quattro testi di Newman (cfr. nn. 157, 1723, 1778, 2144) - un fatto notevole, perché di solito il Catechismo cita solo autori già canonizzati.

Accanto al suo pensiero forte, gli ultimi Pontefici presentano come esemplare anche la vita di Newman. Limitiamoci a citare tre testi significativi. In un discorso del 7 aprile 1975, rivolto ai partecipanti di un simposio accademico Paolo VI disse:  Newman, "che era convinto di essere fedele tutta la sua vita e con tutto il suo cuore votato alla luce della verità, diventa oggi un faro sempre più luminoso per tutti quelli che sono alla ricerca di un preciso orientamento e di una direzione sicura attraverso le incertezze del mondo moderno - un mondo che egli stesso profeticamente aveva preveduto".
 
In una lettera del 14 maggio 1979, indirizzata all'arcivescovo di Birmingham in occasione del centenario del cardinalato di Newman, Giovanni Paolo II scrisse:  "L'elevazione di Newman a cardinale, come la sua conversione alla Chiesa cattolica, è un avvenimento che trascende il semplice fatto storico e l'importanza che ciò ha avuto per il suo Paese. I due eventi hanno inciso profondamente nella vita della Chiesa molto al di là dei confini dell'Inghilterra. Il significato provvidenziale e l'importanza di questi eventi per la Chiesa in generale sono stati più chiaramente compresi nel corso di questo nostro secolo. Lo stesso Newman, con visione quasi profetica, era convinto che egli stava lavorando e soffrendo per la difesa e la promozione della causa della religione e della Chiesa non solo nel periodo a lui contemporaneo ma anche per quello futuro. La sua influenza ispiratrice di grande maestro della fede e di guida spirituale viene percepita sempre più chiaramente proprio nei nostri giorni".

Il cardinale Joseph Ratzinger, ora Benedetto XVI, disse in una conferenza tenuta nel 1990, parlando del suo incontro con Newman nel seminario di Frisinga:  "La dottrina di Newman sulla coscienza divenne per noi il fondamento di quel personalismo teologico, che ci attrasse tutti con il suo fascino. La nostra immagine dell'uomo, così come la nostra concezione della Chiesa, furono segnate da questo punto di partenza. Avevamo sperimentato la pretesa di un partito totalitario, che si concepiva come la pienezza della storia e che negava la coscienza del singolo.

Goering aveva detto del suo capo:  "Io non ho nessuna coscienza. La mia coscienza è Adolf Hitler". L'immensa rovina dell'uomo che ne derivò ci stava davanti agli occhi. Perciò era un fatto per noi liberante ed essenziale da sapere, che il "noi" della Chiesa non si fondava sull'eliminazione della coscienza, ma poteva svilupparsi solo a partire dalla coscienza. Tuttavia proprio perché Newman spiegava l'esistenza dell'uomo a partire dalla coscienza, ossia nella relazione tra Dio e l'anima, era anche chiaro che questo personalismo non rappresentava nessun cedimento all'individualismo, e che il legame alla coscienza non significava nessuna concessione all'arbitrarietà".

Nel famoso Biglietto-Speech, pronunciato in occasione del ricevimento della bolla di nomina a cardinale, Newman, guardando alla sua vita passata, confessò:  "Nel corso di lunghi anni ho fatto molti sbagli. Non ho nulla dell'alta perfezione che si riscontra negli scritti dei santi, nei quali non ci possono essere errori; ma credo di poter affermare che in tutto ciò che ho scritto ho sempre perseguito nobili intenti, non ho cercato fini personali, ho tenuto una condotta ubbidiente, mi sono dimostrato disponibile a essere corretto, ho temuto l'errore, ho desiderato servire la santa Chiesa e ciò che ho raggiunto lo devo alla misericordia di Dio". Queste parole mostrano l'umiltà propria soltanto di un vero uomo di Dio.

Tutta la vita di Newman fu dedicata al servizio della verità e alla lotta contro il liberalismo religioso e morale (da non confondersi con il liberalismo politico), che considerava il più subdolo nemico della fede. Ebbe uno spiccato senso della vicinanza di Dio, valorizzò pienamente la ragione e le capacità naturali dell'uomo, compì il suo dovere con grande competenza e dedizione, amò la Chiesa e toccò la coscienza e il cuore di tantissime persone di ogni ceto sociale. Nei suoi ultimi anni condusse una vita di preghiera e di raccoglimento ancora più intensa. Per la fedeltà alla chiamata di Dio dovette sopportare innumerevoli sofferenze che resero più nobili e più carichi di attrattiva perfino i tratti del suo volto.

Il quotidiano londinese "The Times" pubblicò il giorno seguente la morte di Newman, avvenuta l'11 agosto 1890, un lungo elogio funebre che terminava con le seguenti parole:  "Di una cosa possiamo essere certi, cioè che il ricordo di questa pura e nobile vita durerà e che (...) egli sarà santificato nella memoria della gente pia di molte confessioni in Inghilterra (...) Il santo che è in lui sopravvivrà".


(©L'Osservatore Romano - 29 ottobre 2009)

Fraternamente CaterinaLD

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Beato chi credette nel Concilio venturo...

John Henry Newman



(Commento di Messainlatino)

Cosiccome nella Divina Commedia siedono nell'Empireo i patriarchi ebrei se ed in quanto credettero in Cristo venturo, così criterio, discrimine e requisito per le canonizzazioni della Chiesa pare essere, per quei candidati ch'ebbero la sventura di vivere prima del grandeconciliovaticanosecondo, il fatto di avere precorso, preparato, auspicato, prefigurato, vaticinato quel Vaticano II che è divenuto metro di paragone della fede cattolica. Tali pensieri ci alimenta la lettura del solito panegirico di Avvenire, che piega il card. Newman alle esigenze di fornire legittimazione ad un concilio che è sempre più urgente risistemare al suo giusto posto: un'importante assise che si colloca in continuità e in sequela dei venti concilii ecumenici che l'han preceduta. Non un superdogma, quindi, e tanto meno il datore di senso della vita cristiana: avrebbe senso giudicare S. Benedetto per aver 'anticipato', chessò, il Laterano II?

E poi: basta con 'sta solfa che il primato della coscienza, o il concetto di tradizione dinamica sono mirabili scoperte del solito concilio. Eran già assodate prima, sapete?, altrimenti come giustificare che si sian fissati nuovi dogmi (ai tempi di Newman: l'Immacolata Concezione e l'Infallibilità papale) se non si muove dall'idea che la Tradizione non è un dato predefinito e concluso?

Ma leggiamo questo zuccheroso articolo di Mimmo Muolo su Avvenire. Il titolo è già un programma...


(l'articolo)

Il cardinale Newman, padre invisibile del Concilio


Non basta un solo angolo visuale, per inquadrare opportunamente la grande e poliedrica personalità del cardinale John Henry Newman. Filosofo e teologo, uomo di Chiesa e grande comunicatore, pensatore originale e anticipatore del Concilio Vaticano II, il porporato inglese, oggi ormai vicinissimo alla beatificazione, deve essere studiato da più punti di vista. Proprio come hanno fatto a marzo di quest’anno i promotori del Convegno internazionale svoltosi a Milano presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore.

E come anche ieri pomeriggio, nella sede romana dell’Ateneo, hanno ribadito il rettore Lorenzo Ornaghi e gli altri intervenuti alla presentazione degli Atti di quel simposio, presente anche il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco. A distanza di pochi mesi, infatti, è uscito per i tipi di Vita e Pensiero, il volume curato da Evandro Botto e Hermann Geissler, che raccoglie le risultanze dell’importante appuntamento di marzo. Volume che, a cominciare dal titolo, Una ragionevole fede, Logos e dialogo in John Henry Newman permette di comprendere le diverse direzioni dell’indagine scientifica e storica compiuta intorno alla personalità e al pensiero del cardinale.

Come ha ricordato monsignor Marcello Semeraro, vescovo di Albano e presidente di Avvenire, di questo «titolo suggestivo» i curatori del libro «danno ottima spiegazione quando scrivono che in rapporto all’odierno scenario culturale il modello offerto da Newman è quello di una fede pensata e vissuta, protesa a rendere ragione di se stessa e pure di una ragione in tutto e per tutto aperta e disponibile all’accoglienza, comprensione e condivisione della verità, ovunque essa si manifesti e da qualsiasi parte provenga». Non è chi non veda l’estrema attualità dell’insegnamento del porporato inglese.

Il quale ha molto da insegnare, ha aggiunto monsignor Semeraro, anche sotto il profilo dell’ecclesiologia. Non per niente «di lui si dice che è stato uno dei padri invisibili del Vaticano II», data l’influenza che il suo pensiero ha avuto su alcuni passaggi della Lumen Gentium e anche della Dei Verbum , ad esempio in merito alla concezione della tradizione, come «memoria viva che la Chiesa ha del suo Sposo» e al passaggio in cui nella costituzione sulla Parola di Dio (al numero 8) si legge: «La Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio». Il vescovo di Albano, citando i documenti del processo di beatificazione, ha perciò sottolineato «l’elevatezza e la profondità del pensiero teologico» di Newman, «tale da farlo rassomigliare ai più grandi Padri della Chiesa».

Giudizio, questo, condiviso anche da Benedetto XVI. Anche perché, ha concluso Semeraro, «movente della sua ricca esistenza fu la fede eroica, la sua pietà profonda, il suo amore verso Dio e verso gli uomini, in una parola la sua santità». Anzi, come ha fatto notare Ornaghi nella sua breve introduzione, è proprio a partire dalla santità che si può comprendere l’opera di Newman. «La sua, infatti, è una testimonianza di fede e di vita cristiana che esce dalle pagine dei libri», per collocarsi sul piano dell’attualità culturale.

E proprio su questo piano lo ha inquadrato l’editorialista del Corriere della Sera Armando Torno. «Anticipatore per eccellenza – ha fatto notare – egli seppe prevedere, già nell’800, il pericolo del relativismo, affermando con forza che una verità esiste e che, al contrario, senza verità tutto si annulla».

Newman, ha proseguito Torno, «è completamente attuale» anche per il suo modo di vedere il rapporto tra l’umano e il divino, per la sua sottolineatura dell’importanza delle fonti bibliche e per l’aggancio alla patristica, ma anche per le sue doti di comunicatore. Inoltre, ha concluso il senatore Marcello Pera, lo studio del suo pensiero «costituisce un ulteriore stimolo ad allargare i confini della ragione, non regalandone più il concetto in esclusiva agli scienziati». Proprio come chiede di fare il Papa, che non a caso di Newman è un grande estimatore.

 Avvenire, 30 ottobre 2009


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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Newman sull'onda dei ricordi

Un silenzioso e gentile
compagno di viaggio


È appena uscito il volume Newman, ossia:  "i Padri mi fecero cattolico". Un profilo (Milano, Jaca Book, 2009, pagine 111, euro 12). Ne pubblichiamo l'inizio.

di Inos Biffi

Ora che si è fatto sera ed è giunto il tempo di sciogliere le vele, mi ritrovo, tra i più cari e assidui compagni di viaggio, prima di passare all'altra riva, il cardinale John Henry Newman, soprattutto con i suoi Parochial and Plain Sermons, i suoi Sketches, con i mirabili profili dei Padri, e le Prayers, Verses and Devotions.

Risalendo l'onda dei ricordi, rintraccio il mio primo incontro con lui negli anni del liceo nel seminario di Venegono, credo nella primavera del 1952. A presentare a noi studenti, poco più che quindicenni, la figura del prestigioso iniziatore del movimento di Oxford fu il rettore Giovanni Colombo, durante le impareggiabili conferenze, che egli ci teneva il tardo pomeriggio delle domeniche, prima di cena, e che noi studenti aspettavamo con impazienza.
 
Erano incontri informativi e soprattutto formativi:  una meraviglia di intuito e di finezza educativa, teorica e pratica. Ci insegnava come redigere una lettera, come stare a tavola, come usare le posate e i tovaglioli, come mangiare le ciliegie e i kaki, che egli però chiamava "globi d'oro", e noi pensavamo che la suggestiva immagine fosse sua; in realtà più tardi venni a scoprire che essa si trovava in una poesia di Ada Negri.

Per quegli incontri il rettore leggeva e commentava degli appunti scritti su quaderni di scuola, dalla copertina nera. Quanto avrei desiderato allora di poterli avere tra mano e leggerli direttamente!  Ne  immaginavo  il  valore inestimabile.  Mi  sembravano scrigni preziosi, in  cui  erano custodite le cose meravigliose che ci veniva dicendo.

Quel desiderio si compì molti anni dopo, quando potei disporre di quei quaderni, riguardo ai quali credo di aver concorso alla loro conservazione. Ne parlai rispettosamente con il cardinale, riuscendo in qualche misura a convincerlo di non distruggerli, ma di lasciarne erede il suo segretario monsignor Francantonio Bernasconi. Dopo averli esaminati, sono persuaso che quei quaderni, diligentemente trascritti e studiati con attenzione, sarebbero una fonte incomparabile per la conoscenza e l'interpretazione della singolare figura di Giovanni Colombo, dell'altezza del suo ingegno e della profondità della sua esperienza spirituale e della laboriosità della sua vita intellettuale.

Con l'incanto della sua parola egli ci leggeva e commentava in particolare la poesia Lead, kindly Light (Guidami, Luce benigna), composta da Newman alle Bocche di Bonifacio, di ritorno dal viaggio nel Mediterraneo, dove ricorre il verso, sul quale Colombo amava soffermarsi:  "Non chiedo di vedere l'orizzonte lontano, un solo passo basta per me".

Ci richiamava allora l'enigmatica affermazione che Newman ripeteva durante la malattia in Sicilia:  "Io non ho peccato contro la Luce", intrattenendosi a spiegarci il significato del peccato "contro la Luce". Mi dilettavo particolarmente in quegli anni del delizioso saggio di Newman, edito nel 1950 nella collana "I Fuochi" della Morcelliana, dal titolo Malato in Sicilia, a cura di Giuseppe De Luca, del quale avrei in seguito gustato i bellissimi articoli e le brillanti versioni di testi di Newman pubblicati in un denso volume del 1975.

E sempre durante i corsi liceali il rettore Colombo non si lasciava, poi, sfuggire occasione per comunicarci alcuni pensieri di Newman, che gli erano specialmente cari, come quello sul gentiluomo - colui che non crea mai disagio al prossimo - o sulle mille difficoltà che non fanno un dubbio, o sulle certezze concrete ferme e inconfutabili, simili a funi resistentissime, che, formate dall'intreccio di singoli fili in sé estremamente fragili, non si lasciano spezzare.
 


(©L'Osservatore Romano - 17 dicembre 2009)

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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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20/02/2010 19:46
 
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I padri della Chiesa e la conversione di John Henry Newman

Quei buoni amici del quarto secolo


di mons. Inos Biffi

All'apparire della costituzione apostolica Anglicanorum coetibus (4 novembre 2009) sull'accoglienza di gruppi anglicani "nella piena comunione cattolica", il pensiero si volge spontaneamente a John Henry Newman, che, dopo un laborioso e tribolato cammino, il 9 ottobre 1845 veniva accolto nella Chiesa cattolica dal passionista Domenico Barberi - beatificato nel 1963 - che per caso passava da Littlemore.

Nel suo Diario Newman scrive:  "In serata venne Padre Domenico. Iniziai la mia confessione". "L'8 ottobre - egli annota nell'Apologia (1864) - scrissi a vari amici la seguente lettera:  "Littlemore, 8 ottobre 1845. Stasera aspetto padre Domenico, il passionista che, fin dalla gioventù, è stato ispirato a occuparsi in modo diretto e specifico, prima dei paesi del Nord, poi dell'Inghilterra. Dopo quasi trent'anni di attesa fu mandato qui senza che lui l'avesse chiesto. (...) È un uomo semplice e santo, e allo stesso tempo dotato di notevoli qualità. Non conosce le mie intenzioni, ma intendo chiedergli l'ammissione nell'unico ovile di Cristo"".

Quella sera piovosa Newman incominciò, dunque, la sua confessione generale presso il fuoco a cui il passionista, giunto tutto bagnato fradicio, si riasciugava. La preparava da giorni e la terminò l'indomani, il 9 ottobre, quando, verso le sei del pomeriggio, fece la professione di fede, seguita dal battesimo sotto condizione; il giorno seguente partecipò alla messa e fece la comunione.
"Avevo l'impressione - ricorderà sempre nell'Apologia - di entrare in porto dopo una traversata agitata; per questo la mia felicità, da allora ad oggi, è rimasta inalterata". "Mai la Chiesa Romana, dopo la riforma protestante, - avrebbe commentato il primo ministro britannico William E. Gladstone - ha riportato una vittoria più grande!".

A proposito di questa Chiesa nel maggio del 1843 aveva comunicato a Keble:  "Temo di credere che la comunione cattolica romana sia la Chiesa degli apostoli. Sono assai più sicuro del fatto che la Chiesa anglicana si trovi in loco haereseos, che non del fatto che le aggiunte romane al Credo originale non siano altro che sviluppi scaturiti da un'esperienza viva e penetrante del deposito della fede". E il Saggio sullo sviluppo della dottrina cristiana cui si stava dedicando gliene dà una conferma sempre più chiara.

A Henry H. Manning aveva scritto che le sue dimissioni da vicar di St. Mary's non erano dovute a delusione né a irritazione, ma alla sua convinzione che "la Chiesa di Roma è la Chiesa cattolica", mentre non lo era quella anglicana. Alla sorella Jemima, angosciata dalla scelta del fratello come chi viene a sapere "che un caro amico deve morire", diceva in una delle lettere tormentate e piene di affetto di quel tempo:  "Una chiara convinzione della sostanziale identità fra Cristianesimo e sistema romano occupa la mia mente da tre anni"; l'"unica ragione" del suo gesto era "semplicemente quella di credere che la Chiesa romana è quella vera". D'altronde egli non poteva fare diversamente:  "Non vedo nulla che mi possa spingere alla decisione, se non il pensiero che offenderei Dio, non facendolo".

Nel suo soggiorno a Milano, nel 1846, osservava:  "Oggi è un anno dacché sono nella Chiesa Cattolica - e ogni giorno benedico Lui, che mi conduce dentro sempre più. Sono passato dalle nubi e dalle tenebre alla luce, e non posso guardare alla mia precedente condizione senza provare l'amara sensazione che si ha quando si guarda indietro a un viaggio faticoso e triste".

Il distacco dalla Chiesa anglicana era stato dolorosissimo, e tutti, in lacrime, lo avevano avvertito nella cappella di Littlemore il 26 settembre del 1843, quando Newman pronunziò il suo ultimo sermone anglicano - "La separazione dagli amici" - ossia la separazione, come egli diceva, da quella Chiesa che non lo riconosceva più e da quei fratelli, "teneri e affettuosi", ai quali domandava che pregassero "perché conoscesse la volontà di Dio e fosse pronto ad attuarla". L'unico suo timore - avrebbe scritto ancora alla sorella Jemima - era quello di "tradire la grazia divina".

La conversione segnava l'approdo di un cammino interiore arduo e lucido, in cui si intrecciava la sua fedeltà alla coscienza che via via trovava la sua illuminazione nella storia stessa della Chiesa. Dal profilo della fedeltà alla Grazia e alla coscienza si potrebbe dire che quel cammino era incominciato quando nella sua prima conversione (1816) brillò in lui, con la diffidenza per "la verità dei fenomeni mutevoli", "l'idea di due e solo due esseri assoluti di piena evidenza:  Io e il mio Creatore" - Creatore che parla e si rivolge a lui personalmente nella Scrittura - e la persuasione che "la santità è preferibile alla pace" e che "la crescita è segno della vita".

Ma va segnata un'altra tappa nell'iter interiore di Newman, quando, in circostanze di viva sofferenza e di prostrazione, nel 1827, si risvegliò bruscamente dalla seduzione dell'intellettualismo e del liberalismo. Venne poi il viaggio nel Mediterraneo del 1833 e la malattia in Sicilia, durante la quale andava ripetendo di "non aver mai peccato contro la Luce", la Luce che brillava nel suo spirito illuminato dalla Parola di Dio.

Intanto si dedicava allo studio appassionato dei Padri della Chiesa, e particolarmente dei suoi "amici del secolo iv", che erano "Atanasio dal cuore regale", il "maestoso Ambrogio", il "glorioso predicatore" Crisostomo, paragonato a "una giornata di primavera, luminosa e piovosa, che riluceva e brillava della pioggia", e Basilio, simile a "una giornata d'autunno, calma, mite e uggiosa", e Gregorio di Nazianzo, un'"estate piena, con lunghe ore di dolce quiete, e la monotonia spezzata da lampi e tuoni".

"Sempre il ricordo dei Padri - annota Denys Gorce - dorme in fondo alla sua anima, pronto a rivivere e a manifestarsi. Passando a Milano, nel recarsi a Roma, (...) egli si sentirà perfettamente at home nella grande città patristica". Newman aveva scritto:  "Questo è il luogo più meraviglioso. (...) Milano presenta maggiori richiami, che non Roma, con la storia che mi è familiare. Qui ci fu Sant'Ambrogio, Sant'Agostino, Santa Monica, Sant'Atanasio".

Dichiarerà a Pusey:  "I Padri mi fecero cattolico (The Fathers made me a Catholic)" e chiederà al Signore "il senso dei santi Padri", così da dire quello che essi hanno detto e da pensare quello che essi hanno pensato.
Furono, quelli, per Newman anni di assidua e sofferta ricerca e di penetrante e rigorosa valutazione intellettuale. Ma egli si accorgeva che, per una "verità intera", non poteva più accontentarsi di una "via media", e che i suoi Tracts - che gli provocavano violente reazioni e forti condanne - lo inducevano al distacco definitivo e traumatico, d'altronde rasserenato da sicura coscienza. Il "Movimento di Oxford", che egli aveva suscitato, come una primavera, maturava in lui nell'adesione alla Chiesa di Roma, pur continuando a portare nel cuore e nella memoria il bene ricevuto e l'attaccamento alle valide tradizioni conservate nella sua Chiesa.

Newman entrava, secondo le parole della costituzione apostolica Anglicanorum coetibus, in quell'"unica Chiesa di Cristo che nel Simbolo professiamo una, santa, cattolica e apostolica", quale "sussiste nella Chiesa Cattolica governata dal successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui".

Newman non si sarebbe mai pentito del passo fatto. Trent'anni dopo la conversione avrebbe confidato:  "Dal 1845 non ho mai esitato, neppure per un solo istante, nella convinzione che fosse mio preciso dovere entrare, come allora ho fatto, in questa Chiesa cattolica che, nella mia propria coscienza, ho sentito essere divina".

E quando si sussurrava che, deluso del trattamento che gli era riservato nella Chiesa Cattolica, avesse intenzione di ritornare alla Chiesa anglicana, egli smentì con indignazione quelle voci:  "Non ho mai vacillato un istante nella mia fiducia nella Chiesa Cattolica, da quando sono stato accolto nel suo grembo. Sarei un perfetto imbecille - per usare un termine moderato - se nella mia vecchiaia abbandonassi "la terra dove scorrono latte e miele", per la città della confusione e la casa della servitù".


(©L'Osservatore Romano - 21 febbraio 2010 )

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19/03/2010 18:18
 
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Gioia per la prossima beatificazione del Cardinale Newman


I membri degli Oratori che ha fondato esprimono la propria soddisfazione


BIRMINGHAM, venerdì, 19 marzo 2010 (ZENIT.org).- I sacerdoti degli Oratori inglesi fondati dal Cardinale John Henry Newman stanno esprimendo la propria gioia per l'annuncio ufficiale per cui Benedetto XVI beatificherà il loro fondatore durante la sua visita in Inghilterra a settembre.

Padre Richard Duffield, prevosto dell'Oratorio di Birmingham, ha sottolineato questo mercoledì in un comunicato che la devozione personale del Papa per Newman “ha dato un grande contributo alla comprensione della profondità e del significato dell'eredità del nostro fondatore”.

A suo avviso, la decisione del Papa di beatificare personalmente Newman “conferisce una benedizione unica agli Oratori Inglesi e a tutti coloro che si sono ispirati alla vita e all'operato di Newman”.

La beatificazione si svolgerà nell'Arcidiocesi di Birmingham, dove il Cardinale Newman trascorse la sua vita adulta: prima ad Oxford, dove visse come anglicano e venne accolto nella Chiesa cattolica, poi a Birmingham, dove fondò l'Oratorio di Birmingham e vi lavorò per più di quarant'anni.

John Henry Newman nacque nel 1801 e morì nel 1890. Si convertì alla fede cattolica nel 1845.




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11/04/2010 23:24
 
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Circolo culturale J.H. Newman

Costituzione circolo culturale J.H. Newman


A Seregno (MB) è stato costituito il "Circolo culturale John Henry Newman" con lo scopo della riscoperta, dello studio e della propaganda della Tradizione cattolica.
La Liturgia della Chiesa Cattolica Romana nelle sue forme tradizionali costituisce il primo oggetto dello studio di cui i soci del circolo si incaricano.
Lo studio del deposito dottrinale cattolico e del suo sviluppo omogeneo attraverso l'autorità della Chiesa non può essere disgiunto dai misteri e dai significati della Liturgia.
Il Circolo favorisce la diffusione della conoscenza della Liturgia e della Dottrina della Chiesa Cattolica Romana attraverso conferenze convegni e pubblicazioni.
Il Circolo si impegna attraverso la propria attività alla restaurazione della Liturgia cattolica tradizionale secondo le intenzioni di Sua Santità il Papa Benedetto XVI.

Diamo volentieri notizia della costituzione di questo circolo. Chi vuole prendere contatto può telefonare a Andrea Sandri 3281189747 oppure a Riccardo Appennini 3314433480



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15/04/2010 10:32
 
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DISCORSO DI SUA EMINENZA IL CARD. JOSEPH RATZINGER
IN OCCASIONE DEL CENTENARIO DELLA MORTE
DEL CARD. JOHN HENRY NEWMAN
Roma, 28 aprile 1990

Io non mi sento competente per parlare della figura o dell'opera di John Henry Newman, ma forse può essere interessante che mi soffermi un po' sul mio personale approccio a Newman, nel quale si riflette anche qualcosa dell'attualità di questo grande teologo inglese nelle controversie spirituali del nostro tempo.

Quando nel gennaio 1946 potei iniziare il mio studio della teologia nel seminario della Diocesi di Frisinga, finalmente riaperto dopo gli sconvolgimenti della guerra, si provvide che al nostro gruppo fosse assegnato come prefetto uno studente più anziano, il quale già prima che iniziasse la guerra aveva cominciato a lavorare ad una dissertazione sulla teologia della coscienza di Newman. Durante tutti gli anni del suo impegno in guerra egli non aveva lasciato cadere dai suoi occhi questo tema, che ora riprendeva con nuovo entusiasmo e nuova energia. Fin dall'inizio ci legò un'amicizia personale, che si concentrava tutta attorno ai grandi problemi della filosofia e della teologia. Va da sé che Newman fosse sempre presente in questo scambio. Alfred Läpple, era lui infatti il prefetto summenzionato, pubblicò poi nel 1952 la sua dissertazione, col titolo Il singolo nella Chiesa. La dottrina di Newman sulla coscienza divenne allora per noi il fondamento di quel personalismo teologico, che ci attrasse tutti col suo fascino. La nostra immagine dell'uomo, così come la nostra concezione della Chiesa, furono segnate da questo punto di partenza. Avevamo sperimentato la pretesa di un partito totalitario, che si concepiva come la pienezza della storia e che negava la coscienza del singolo. Hermann Goering aveva detto del suo capo: "Io non ho nessuna coscienza! La mia coscienza è Adolf Hitler". L'immensa rovina dell'uomo che ne derivò, ci stava davanti agli occhi.

Perciò era un fatto per noi liberante ed essenziale da sapere, che il "noi" della Chiesa non si fondava sull'eliminazione della coscienza, ma poteva svilupparsi solo a partire dalla coscienza. Tuttavia proprio perché Newman spiegava l'esistenza dell'uomo a partire dalla coscienza, ossia nella relazione tra Dio e l'anima, era anche chiaro che questo personalismo non rappresentava nessun cedimento all'individualismo, e che il legame alla coscienza non significava nessuna concessione all'arbitrarietà - anzi che si trattava proprio del contrario. Da Newman abbiamo imparato a comprendere il primato del Papa: la libertà di coscienza - così ci insegnava Newman con la Lettera al Duca di Norfolk - non si identifica affatto col diritto di "dispensarsi dalla coscienza, di ignorare il Legislatore e il Giudice, e di essere indipendenti da doveri invisibili". In tal modo la coscienza, nel suo significato autentico, è il vero fondamento dell'autorità del Papa. Infatti la sua forza viene dalla Rivelazione, che completa la coscienza naturale illuminata in modo solo incompleto, e "la sua raison d'être è quella di essere il campione della legge morale e della coscienza".

Questa dottrina sulla coscienza è diventata per me sempre più importante nello sviluppo successivo della Chiesa e del mondo. Mi accorgo sempre di più che essa si dischiude in modo completo solo in riferimento alla biografia del Cardinale, la quale suppone tutto il dramma spirituale del suo secolo.

Newman, in quanto uomo della coscienza, era divenuto un convertito; fu la sua coscienza che lo condusse dagli antichi legami e dalle antiche certezze dentro il mondo per lui difficile e inconsueto del cattolicesimo. Tuttavia, proprio questa via della coscienza è tutt'altro che una via della soggettività che afferma se stessa: è invece una via dell'obbedienza alla verità oggettiva. Il secondo passo del cammino di conversione che dura tutta la vita di Newman fu infatti il superamento della posizione del soggettivismo evangelico, in favore d'una concezione del Cristianesimo fondata sull'oggettività del dogma. A questo proposito trovo sempre grandemente significativa, ma particolarmente oggi, una formulazione tratta da una delle sue prediche dell'epoca anglicana. Il vero Cristianesimo si dimostra nell'obbedienza, e non in uno stato di coscienza. "Così tutto il compito e il lavoro di un cristiano si organizza attorno a questi due elementi: la fede e l'obbedienza; "egli guarda a Gesù" (Eb 2, 9)... e agisce secondo la sua volontà. Mi sembra che oggi corriamo il pericolo di non dare il peso che dovremmo a nessuno dei due. Consideriamo qualsiasi vera e accurata riflessione sul contenuto della fede come sterile ortodossia, come astruseria tecnica. Di conseguenza facciamo consistere il criterio della nostra pietà nel possesso di una cosiddetta disposizione d'animo spirituale".

A questo riguardo sono diventate per me importanti alcune frasi prese dal libro Gli Ariani del IV secolo, che invece a prima vista mi erano sembrate piuttosto sorprendenti: il principio posto dalla Scrittura a fondamento della pace è "riconoscere che la verità in quanto tale deve guidare tanto la condotta politica che quella privata... e che lo zelo, nella scala delle grazie cristiane, aveva la priorità sulla benevolenza". È per me sempre di nuovo affascinante accorgermi e riflettere come proprio così e solo così, attraverso il legame alla verità, a Dio, la coscienza riceve valore, dignità e forza. In questo contesto vorrei aggiungere solo un'altra espressione tratta dall'Apologia pro vita sua, che dimostra viceversa il realismo di questa concezione della persona e della Chiesa: "I movimenti vivi non nascono da comitati".

Vorrei ancora una volta ritornare brevemente al filo autobiografico. Quando nel 1947 proseguii a Monaco i miei studi, trovai nel professore di teologia fondamentale, Gottlieb Söhngen, il mio vero maestro in teologia, un colto e appassionato seguace di Newman. Egli ci dischiuse la Grammatica dell'Assenso e con essa la modalità specifica e la forma di certezza propria della conoscenza religiosa. Ancora più profondamente agì su me il contributo che Heinrich Fries pubblicò in occasione del Giubileo di Calcedonia: qui trovai l'accesso alla dottrina di Newman sullo sviluppo del dogma, che ritengo essere, accanto alla dottrina sulla coscienza, il suo contributo decisivo per il rinnovamento della teologia. Con ciò egli mise nelle nostre mani la chiave per inserire nella teologia un pensiero storico, o piuttosto: egli ci insegnò a pensare storicamente la teologia, e proprio in tal modo a riconoscere l'identità della fede in tutti i mutamenti. Sono costretto ad astenermi dall'approfondire, in questo contesto, tale idea. Mi sembra che il contributo di Newman non sia stato ancora del tutto utilizzato nelle teologie moderne. Esso contiene in sé ancora possibilità fruttuose, che attendono di essere sviluppate. In questa sede vorrei solo rimandare ancora una volta allo sfondo biografico di questa concezione. È noto come la concezione di Newman sull'idea dello sviluppo ha segnato il suo cammino verso il cattolicesimo. Tuttavia non si tratta qui solo d'uno svolgimento coerente di idee. Nel concetto di sviluppo è in gioco la stessa vita personale di Newman. Ciò mi sembra che diventi evidente nella sua nota affermazione, contenuta nel famoso saggio su Lo sviluppo della dottrina cristiana: "qui sulla terra vivere è cambiare, e la perfezione è il risultato di molte trasformazioni". Newman è stato lungo tutta la sua vita uno che si è convertito, uno che si è trasformato, e in tal modo è sempre rimasto lo stesso, ed è sempre di più diventato se stesso.

Mi viene in mente qui la figura di sant'Agostino, così affine alla figura di Newman. Quando si convertì nel giardino presso Cassiciaco, Agostino aveva compreso la conversione ancora secondo lo schema del venerato maestro Plotino e dei filosofi neoplatonici. Pensava che la vita passata di peccato era adesso definitivamente superata; il convertito sarebbe stato d'ora in poi una persona completamente nuova e diversa, e il suo cammino successivo sarebbe consistito in una continua salita verso le altezze sempre più pure della vicinanza di Dio, qualcosa come ciò che ha descritto Gregorio di Nissa in De vita Moysis: "Proprio come i corpi, non appena hanno ricevuto il primo impulso verso il basso, anche senza ulteriori spinte, da se stessi sprofondano..., così ma in senso contrario, l'anima che si è liberata dalle passioni terrene, si eleva costantemente al di sopra di sé con un veloce movimento ascensionale... in un volo che punta sempre verso l'alto". Ma la reale esperienza di Agostino era un'altra: egli dovette imparare che essere cristiani significa piuttosto percorrere un cammino sempre più faticoso con tutti i suoi alti e bassi. L'immagine dell'ascensione venne sostituita con quella di un iter, un cammino, dalle cui faticose asperità ci consolano e sostengono i momenti di luce, che noi di tanto in tanto possiamo ricevere. La conversione è un cammino, una strada che dura tutta una vita. Per questo la fede è sempre sviluppo, e proprio così maturazione dell'anima verso la Verità, che "ci è più intima di quanta noi lo siamo a noi stessi".

Newman ha esposto nell'idea dello sviluppo la propria esperienza personale d'una conversione mai conclusa, e così ci ha offerto l'interpretazione non solo del cammino della dottrina cristiana, ma anche della vita cristiana. Il segno caratteristico del grande dottore nella Chiesa mi sembra essere quello che egli non insegna solo con il suo pensiero e i suoi discorsi, ma anche con la sua vita, poiché in lui pensiero e vita si compenetrano e si determinano reciprocamente. Se ciò è vero, allora davvero Newman appartiene ai grandi dottori della Chiesa, perché egli nello stesso tempo tocca il nostro cuore e illumina il nostro pensiero.

        

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L'edizione italiana degli "Scritti oratoriani"

John Henry Newman
e il sorriso buono di san Filippo


Nel pomeriggio di martedì 8 giugno viene presentato a Genova, nell'Oratorio di San Filippo, il libro che raccoglie gli Scritti oratoriani di John Henry Newman in un'edizione curata da Placid Murray (Siena, Cantagalli, 2010, pagine 504, euro 17). All'incontro parteciperà anche il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Conferenza episcopale italiana. Anticipiamo stralci della relazione del procuratore generale della Confederazione dell'Oratorio e, in basso, dell'intervento del direttore dell'Ufficio per la cultura dell'arcidiocesi di Genova.



di Edoardo Aldo Cerrato


I testi di Newman sull'Oratorio, che l'edizione presenta, mostrano chiaramente quanto la vocazione oratoriana abbia segnato la vita e l'opera del nuovo Beato e quanto profonda sia stata l'appartenenza all'Oratorio di Padre Filippo di colui che pure "appartiene - affermava Paolo vi - a tutti coloro che sono alla ricerca di un preciso orientamento e di una direzione attraverso le incertezze del mondo moderno"; che "appartiene a ogni epoca, luogo e persona", per dirlo con Giovanni Paolo ii; che è il teologo e uomo di Chiesa di cui oggi la Chiesa ha particolarmente bisogno, come ancor recentemente ricordava il Santo Padre Benedetto XVI parlando ai vescovi dell'Inghilterra e del Galles:  "Grandi scrittori e comunicatori della sua statura e della sua integrità sono necessari nella Chiesa oggi".

"Amo un vecchio dal dolce aspetto, - scrisse Newman in riferimento a san Filippo - lo ravviso nel suo pronto sorriso, nell'occhio acuto e profondo, nella parola che infiamma uscendo dal suo labbro quando non è rapito in estasi...".

Newman fu oratoriano con la profondità che caratterizzò ogni scelta della sua vita e ogni opera intrapresa. E lo fu fino alla fine dei suoi giorni, anche rivestito della porpora romana di cui Leone xiii, sfidando il giudizio di altri, lo volle onorare. Giunto a Roma per il Concistoro del 1879, in cui sarebbe stato creato cardinale, Newman scriveva al suo vescovo:  "Il Santo Padre mi ha accolto molto affettuosamente (...). Mi ha chiesto:  "Intende continuare a guidare la Casa di Birmingham?". Risposi:  "Dipende dal Santo Padre". Egli riprese:  "Bene. Desidero che continuiate a dirigerla", e parlò a lungo di questo".

Non sfuggiva a Leone xiii l'importanza della presenza oratoriana iniziata da Newman in Inghilterra, quando vi fece ritorno, dopo l'ordinazione sacerdotale, portando con sé il Breve Magna nobis semper del 1847, con cui il beato Pio ix istituiva l'Oratorio nel Regno Unito e dava a Newman facoltà di propagarlo in quella Nazione; come non gli sfuggiva la triste situazione dell'Oratorio filippino, falcidiato in Italia dalle vicende storiche e politiche del xix secolo.

"Desidero che continuiate a dirigere (la Casa di Birmingham), e parlò a lungo di questo":  quella di Papa Leone non è solo benevola concessione per evitare a un uomo di veneranda età le comprensibili difficoltà di un trasferimento a Roma e i possibili inconvenienti derivanti dal lasciare la congregazione da lui fondata; è la testimonianza che il Papa aveva perfettamente colto ciò che l'Oratorio significava per Newman, il quale gli aveva detto:  "Da trent'anni sono vissuto nell'Oratorio, nella pace e nella felicità. Vorrei pregare Vostra Santità di non togliermi a san Filippo, mio padre e patrono, e di lasciarmi morire là dove sono vissuto così a lungo":  fervida espressione di amore per la propria vocazione.

L'Oratorio si affacciò sull'orizzonte di John Henry Newman fin dal momento del suo ingresso nella Chiesa cattolica, quando Nicholas Wiseman, vescovo coadiutore del Distretto centrale dell'Inghilterra, lo persuase a ricevere l'ordinazione sacerdotale, suggerendogli pure l'Oratorio di San Filippo Neri come la forma di vita più idonea a lui e ai suoi compagni che lo avevano seguito nel ritiro di Littlemore, mentre Newman, pur esaminando la possibilità di aderire a qualcuno dei grandi ordini religiosi esistenti, abbozzava il progetto di una realtà nuova che tanti elementi possedeva in comune con l'Oratorio filippino.

Sostenuto dalla convinzione che la sua vita doveva svolgersi in una comunità caratterizzata "da un acuto senso della cultura e dal gusto innato per l'umanesimo", accompagnati "dal rispetto verso le persone e dal rifiuto di ogni coazione" - scrive il cardinale Jean Honoré - Newman dedicò un anno abbondante al discernimento sulla propria vocazione.

Giunto a Roma nell'ottobre 1846 con alcuni compagni per frequentare i corsi ecclesiastici in vista dell'ordinazione, questo intenso cammino di ricerca e di riflessione conobbe una illuminazione particolare:  Newman comprese chiaramente che l'esperimento di vita comunitaria già intrapreso e l'esperienza della sua vita passata "potevano offrire un punto di partenza per il futuro", mentre la scelta di uno dei grandi ordini religiosi avrebbe comportato la dispersione del gruppo, oltre a non rispondere pienamente a ciò che si andava cercando.

La visita del gennaio 1847 all'Oratorio Romano in Santa Maria in Vallicella suscitò in Newman un profondo interesse, anche perché gli richiamò l'esperienza dei college universitari inglesi:  "i membri - scrisse - conservano i loro beni e la loro abitazione, vi sono poche leggi (...) e una splendida biblioteca".

Dal 17 al 25 di quello stesso mese Newman e il fedele amico Ambrose St. John chiesero luce sulla loro vocazione davanti al sepolcro di san Pietro e si dedicarono a studiare le costituzioni e la storia dell'Oratorio. All'inizio di febbraio la decisione era presa:  dopo l'ordinazione sarebbero stati iniziati alla vita oratoriana dai padri della Chiesa Nuova.

La figura di san Filippo Neri, di cui già nel periodo anglicano Newman aveva qualche conoscenza, si fece a lui più familiare:  "Mi ricorda in molte cose Kable - scrisse alla sorella Jemima - I due condividono la stessa totale avversione all'ipocrisia, il carattere gioviale e quasi eccentrico, un tenero amore agli altri e il rigore con se stessi".

Il 14 febbraio, anche a nome dei compagni, Newman presentava al cardinale Giacomo Filippo Fransoni, prefetto di Propaganda Fide, il progetto del futuro Oratorio inglese:  "Abbiamo scoperto - scriveva - un cammino intermedio tra la vita religiosa e una vita completamente secolare; il che si adatta perfettamente a ciò di cui sentiamo il bisogno". E il 21 febbraio, come amabile dono di compleanno per Newman, giungeva l'approvazione di Pio ix al progetto.

I sermoni predicati alla comunità in gennaio e febbraio del 1848 - Newman era giunto a Maryval il 2 febbraio e di lì si sarebbe trasferito a Birmingham l'anno seguente - tracciano, attraverso la ricostruzione storica del cammino della congregazione e la presentazione delle caratteristiche interne dell'Oratorio, una magnifica panoramica della vocazione oratoriana, non superata, in molti aspetti, neppure dalle acquisizioni future e sono il frutto immediato, ma sorprendentemente maturo, delle letture e delle riflessioni romane.

Filippo Neri vi è colto da Newman nella sua originalità di vir prisci temporis, uomo del tempo antico nel quale rivive la "forma primitiva del cristianesimo", caratterizzata dalla semplicità e dalla spontaneità, espressioni privilegiate della carità cristiana che è "vincolo di perfezione" (Colossesi, 3, 14):  "dodici preti che lavorano insieme:  ecco ciò che desidero - dirà Newman ancora nel 1878, alla vigilia del cardinalato - Un Oratorio è una famiglia e una casa".

San Filippo Neri e l'Oratorio facilitarono, senza dubbio, a Newman la felice sintesi tra pietà e cultura di cui egli trovò altissima espressione nell'"umanesimo devoto" di san Francesco di Sales, fondatore dell'Oratorio di Thonon.

Rimarcando la "influenza decisiva" di san Filippo Neri sulla spiritualità di Newman, Jean Honoré arriva a parlare di una "terza conversione" dopo la prima del quindicenne John Henry e la seconda, costituita dall'ingresso nella Chiesa cattolica. Essa si situa particolarmente negli anni oscuri della sua vita di cattolico, quando, al contrario di quanto gli accadeva da anglicano, la sua preghiera era "serena", ma la sua vita "triste".

Newman, che nei suoi scritti autobiografici confessava di amare, già nel periodo anglicano, di essere ignorato, come padre Filippo consigliava ai suoi discepoli (ama nesciri), ora chiedeva a Filippo che gli insegnasse a spernere se sperni, a disprezzar d'essere disprezzato.

La "mortificazione della rationale" - tanto insistitamente proposta da padre Filippo ai suoi - non è rifiuto della coltivazione dell'intelligenza, che può estendersi a tutti gli ambiti del sapere, né agli affetti umani, dal momento che è indispensabile l'amicizia tra i membri della Casa, e neppure dei beni temporali:  è la rinuncia alla "voluta propria" al fine di essere liberi ma non indipendenti, e solidali nella comune responsabilità.

Il secolo diciannovesimo aveva bisogno di una sintesi nuova tra "devozione" e "ragione" che solo una intelligenza poderosa e una spiritualità profonda come quelle di Newman potevano conseguire.
L'Oratorio di san Filippo Neri - scrisse l'oratoriano di Francia Louis Bouyer - "nasce dall'incontro, in san Filippo, tra un'anima eccezionalmente interiore e una mente eccezionalmente aperta":  sta qui la vocazione a cui Newman si sentì chiamato e alla quale rispose, per il resto della sua vita, con dedizione generosa e fedeltà creativa.


(©L'Osservatore Romano - 9 giugno 2010)
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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La sintesi equilibrata e gustosa dell'Oratorio


di Mauro De Gioia


Nessuno dei grandi temi del pensiero di Newman è argomento del volume che presentiamo, e questo può far sorgere il rischio di considerarci davanti a un "Newman minore", la cui conoscenza sia utile agli specialisti, ma di cui il lettore comune possa tranquillamente fare a meno. Due elementi emergono però immediatamente per la loro attualità.

La "persistenza dei tratti" caratteristici del ministero anglicano di Newman "nel suo ministero cattolico denota - scrive il curatore nell'introduzione - come anche i valori spirituali acquisiti fuori dell'ovile cattolico possano trovare una collocazione legittima all'interno della Chiesa". Inoltre, il volume, che esce proprio alla conclusione dell'anno sacerdotale, presenta una spiritualità che molto ha da offrire ai sacerdoti in generale".

Credo infine che la scoperta di quanto profonda sia la dimensione "filippina" di Newman favorisca una comprensione più ampia ed equilibrata della sua vicenda biografica e, conseguentemente, anche del suo pensiero.

È certo ben noto agli studiosi di Newman come lo stile dell'Oratorio filippino gli fosse certamente congeniale da un punto di vista pratico e psico-affettivo. Dagli scritti qui raccolti emerge però con chiarezza che la scelta dell'Oratorio fu risposta a una vera vocazione:  per Newman la congregazione non è semplicemente una soluzione pratica per trovare un modo di conciliare la vita comunitaria con i suoi amici e l'insofferenza per più rigide e regolamentate forme di vita religiosa.

L'incontro di Newman con l'Oratorio non è semplice incontro con una istituzione, ma con la persona di san Filippo Neri.

Il rapporto tra Newman e san Filippo è la prospettiva spirituale nella quale inquadrare i testi sull'Oratorio e capire quale fosse l'autocomprensione che Newman avesse della sua propria vocazione.

In una sua riflessione sulla storia della Chiesa il nostro considera tre grandi periodi:  "l'antico, il medievale e il moderno, e in quei tre periodi ci sono rispettivamente tre ordini religiosi che si succedono sulla pubblica scena l'uno all'altro". I tre grandi ordini sono il benedettino, il domenicano e il gesuita:  "Benedetto ha ricevuto la formazione intellettuale antica, san Domenico quella medievale e sant'Ignazio quella moderna".

Potremmo sindacare sulla scelta di Newman di identificare le tre grandi ere della Chiesa col carisma di questi tre grandi santi, ma a noi interessa sottolineare come queste tre figure, Benedetto, Domenico e Ignazio, siano poste in relazione con Filippo Neri. Nei due Sermoni sulla missione di san Filippo Neri tenuti a Birmingham nel 1850, Newman lega infatti le tre tappe fondamentali della formazione della vocazione di Padre Filippo all'incontro con queste tre figure.

La prima educazione avvenuta a Firenze nel convento di san Marco collega Filippo col carisma domenicano. La svolta vocazionale avvenuta durante il giovanile soggiorno a San Germano viene messa in relazione con l'incontro col carisma benedettino. Infine a Roma il giovane Filippo conosce personalmente Ignazio di Loyola e la Compagnia di Gesù. E così conclude:  "Erano rifulse in Lui le vedute di san Domenico, la poesia di san Benedetto, l'intelligenza di sant'Ignazio, tutto accompagnato da una incomparabile grazia e da una avvincente dolcezza. Saremmo noi suoi figli di quest'Oratorio (...) saremmo noi capaci di tanto! Prendiamolo almeno come nostro modello".

Per Newman Filippo Neri è quindi una sintesi equilibrata e gustosa (parla di "incomparabile grazia" e "avvincente dolcezza") di quelle che considera le tre fondamentali correnti spirituali della storia della Chiesa. Se questa è stata la sua missione tale è anche la missione dell'Oratorio, e quindi la sua propria vocazione, la sua vita di cattolico, di sacerdote, di oratoriano.


(©L'Osservatore Romano - 9 giugno 2010)
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16/08/2010 19:03
 
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[SM=g1740722]
La fatale attrazione degli anglicani per Roma? Merito del cardinal Newman, prossimo alla beatificazione.

Centinaia di conversioni dall’anglicanesimo al cattolicesimo. Ci sono anche queste testimonianze nel mastodontico processo che la Fabbrica dei Santi ha messo in moto per arrivare alla beatificazione del cardinale inglese vissuto nell’Ottocento John Henry Newman. Testimonianze che hanno convinto il Papa della necessità di spingere ulteriormente il piede sull’acceleratore: ancora parecchi anglicani aspettano di tornare sotto Roma. Per loro il Papa ha pubblicato lo scorso 4 novembre la Costituzione apostolica “Anglicanorum coetibus”. E ancora: per loro e per tutto il mondo anglicano, per dare un segnale che resti, Benedetto XVI sarà a Cofton Park, periferia di Birmingham, il prossimo 19 settembre, per celebrare in prima persona la beatificazione di Newman, il sacerdote anglicano divenuto cattolico, il più importante esempio di percorso a ritroso: dal mondo protestante a quello cattolico, dalla ribellione al papato alla sottomissione a Roma, al Vaticano, alle gerarchie della chiesa.

Padre Fidel González-Fernández è un sacerdote comboniano. Insegna storia della chiesa alla Gregoriana ed è consultore della Congregazione per le cause dei santi. Ha partecipato, e ancora partecipa, al processo di Newman, come consultore storico. Di Newman ha parlato innumerevoli volte, in conferenze tenute in tutto il mondo. Dice: “Ci sono almeno diecimila testimonianze di conversioni al cattolicesimo avvenute grazie a Newman. Al processo abbiamo portato soltanto duecento esempi. Tutte le testimonianze parlano del cardinale inglese, sia le conversioni dall’anglicanesimo al cattolicesimo, che quelle dall’anglicanesimo a un anglicanesimo più puro, a una vita cristiana più genuina. Del resto anche Newman, prima della conversione, si prodigò per un anglicanesimo più genuino, mostrando come la via della santità era percorribile anche lì. Sono testimonianze di persone che grazie all’esempio di Newman hanno portato un rinnovamento nella chiesa anglicana. Un rinnovamento che Newman ricercò per anni. E’ noto il suo giudizio severo sulla chiesa anglicana del suo tempo. La accusava di essere ambigua, relativista, e in certo senso infedele alla tradizione apostolica. Nel famoso sinodo di Oscott, Newman emise un giudizio molto forte e preciso su una chiesa che vedeva infettata dal liberalismo teologico e dalla mondanità. Parlava addirittura di apostasia. Prevedeva, in un certo senso, la grande crisi della chiesa anglicana contemporanea”.

Una crisi notevole. Che parla di sacerdoti, religiosi e fedeli scottati dal lassismo di certe guide. Dalla indiscriminata apertura dell’anglicanesimo alle mode del mondo: dall’ordinazione femminile alle nozze gay. Senza, tra l’altro, risultati concreti in termini di numeri. Ratzinger ha compreso il fenomeno. La ribellione di molti a questo stato di cose. E ha offerto un approdo sicuro: Roma. La chiesa di Roma. Ma la conversione non è un obbligo per nessuno. Molti, anche tra gli scontenti, nascono anglicani e anglicani restano. E anche per loro Newman resta un esempio. Non a caso la prima e forse più importante conversione di Newman non fu dall’anglicanesimo al cattolicesimo. Ma un’altra. Racconta padre Fidel: “Tutto cominciò quando Newman era molto giovane. Sentì il fascino di un noto teologo protestante, Thomas Scott di Aston Sandford. E si convertì al suo credo. In Scott vedeva il superamento del protestantismo freddo e razionalista allora in voga. In lui vedeva una risoluta e decisa antimondanità. Scott era un teologo anticonformista e libero. Scrisse Newman in ‘Apologia pro vita sua’: ‘Thomas Scott è lo scrittore che più di ogni altro produsse sulla mia mente un’impressione profonda e al quale, umanamente parlando, sono debitore della mia anima’”. Scott parlava della necessità di guadagnare un assoluto distacco dalle cose terrene. Parlava della purezza della fede. Una fede non contaminata dalle falsità del mondo. Era quanto Newman cercava nell’anglicanesimo. Fu la sua prima conversione. Dice padre Fidel: “Newman cercava la verità ovunque si trovasse. E questa ricerca gli faceva abbandonare posizioni false, mondane, non autentiche. Stabilì per se stesso un notevole programma ascetico e un celibato vissuto integralmente. Niente lo soddisfaceva e soltanto cercava la pienezza di un incontro totale con Dio. Entrò fra i chierici della chiesa anglicana donandosi al ministero della predicazione e al servizio dei più bisognosi e ammalati. A Oxford entrò in contatto con uno dei nemici peggiori del fatto cristiano, lo gnosticismo, che allora permeava molte correnti della teologia protestante in generale, e in modo speciale l’anglicanesimo teologico liberale”.

E’ probabilmente questo amore per il cristianesimo autentico che porta molti Pontefici ad ammirare Newman. E a desiderare che egli diventi un esempio conosciuto da tutta la cristianità. Dice padre Fidel: “Uno dei migliori conoscitori di Newman, il gesuita Vincent Blehl, esprimeva il 29 maggio 1982 sull’Osservatore Romano in un pezzo intitolato ‘John Henry Newman, una strada verso la comunione completa’ la convinzione che il cardinale inglese fosse tra le più grandi personalità a cui tutta la cristianità, non solo una parte, poteva guardare. Spiega Blehl che il chiodo fisso di Newman è la santità. Da giovane incontrò Dio. Questo incontro trasformò tutta la sua vita. Così ne parlò anni dopo Newman: ‘Ho difficoltà a ricordare un’immagine di come ero prima dell’agosto 1816, l’anno in cui ho incontrato Dio. Soltanto ricordo un ragazzo che era un’altra persona rispetto a ciò che divenne dopo’. Scrive ancora Blehl che questa esperienza condusse Newman alla decisione di seguire la strada della santità. Spesso citava Thomas Scott: ‘La santità piuttosto che la pace’. Chi entrava in contatto con Newman si rendeva conto di trovarsi di fronte a una personalità differente dai chierici e teologi del tempo. E, infatti, tantissimi anglicani, soprattutto del ceto intellettuale, cercavano in lui un punto di riferimento, a Oxford e fuori da quell’Università”.

La fama di santità di Newman cresce mentre egli è ancora in vita. Si diffonde sia nel mondo anglicano che in quello cattolico. Tanto che quando muore sono tanti i fedeli che lo vogliono santo. Ma il processo si apre soltanto decenni dopo. Perché? Risponde padre Fidel: “Questa domanda occorrerebbe farla alla chiesa inglese. Quando morì Newman aveva già una notevole fama di santità. Il vescovo inglese Clifford, il cardinale di Westminster Manning e altre personalità ai suoi funerali parlarono di ‘notevole santità’. Molti lo paragonarono ai padri e ai dottori della chiesa antica. C’è chi disse che fu un ‘nuovo sant’Agostino’. Negli anni 30 così scrisse il noto newmanista tedesco Erich Przywara: ‘Newman può essere considerato un alter Agostino perché il suo sguardo era fissato continuamente su Dio in una sorta di ricerca continua’. Questo giudizio su Newman come un nuovo Agostino è stato sottolineato in maniera evidente da Pio XII, Paolo VI, Giovanni Paolo II e infine Benedetto XVI. Eppure la chiesa ha ritardato l’inizio del processo. Il mondo ecclesiale cattolico inglese non era in generale favorevole a introdurre cause di canonizzazione. Gran parte delle cause erano promosse dalle chiese francese e italiana. La chiesa cattolica inglese era piccola, composta da poveri immigrati irlandesi che vivevano in mezzo a un mare di anglicanesimo spesso loro ostile. Era una chiesa preoccupata di non suscitare polemiche. Cercava di non sollevare animosità. Lo stesso Newman aveva vissuto tutta la vita cercando il nascondimento. Non voleva onori e non voleva farsi notare. Poi arrivò il Concilio Vaticano II. Fu qui che molti padri conciliari parlarono di Newman e della necessità di portarlo agli onori degli altari. Tanto che si può dire che la spinta verso la beatificazione venne da Roma. Allora come oggi, è Roma a favorire nuove conquiste tra cattolici e anglicani sulla strada di un autentico ecumenismo”.

Paolo Rodari @Il Foglio
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01/09/2010 12:51
 
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Newman e il “discorso del biglietto”

Il 4 settembre uscirà nelle librerie l'ultimo libro di Cristina Siccardi intitolato “Nello specchio del Cardinale John Henry Newman", edito da Fede & Cultura (14,50 euro). Newman fu un “prete” anglicano convertitosi al cattolicesimo dopo aver constatato gli errori teologici presenti nella Comunione Anglicana. Verrà beatificato il prossimo 19 settembre dal Romano Pontefice Benedetto XVI.

I modernisti hanno tentato di impossessarsi della figura di questo dotto Cardinale facendolo apparire come un anticipatore delle loro idee, in realtà Newman fu un uomo fedele alla Tradizione, e nemico giurato del liberalismo, come viene documentato nel “discorso del biglietto”, pronunciato da Newman in occasione della sua nomina a cardinale il 12 maggio 1879 nel Palazzo della Pigna a Roma. Il testo fu subito trasmesso dal corrispondente romano dell’inglese “The Times” che lo pubblicò integralmente il giorno successivo.

“L’Osservatore Romano” del 14 maggio lo pubblicò in una traduzione del gesuita Pietro Armellini e in seguito “La Civiltà Cattolica” commentò il discorso qualificandolo come importantissimo.
Eccone il testo:

La ringrazio, Monsignore, per la partecipazione dell’alto onore che il Santo Padre si è degnato di conferire sulla mia umile persona [parole pronunciate da Newman in italiano] e se Le chiedo il permesso di continuare il mio discorso non nella Sua lingua così musicale, ma nella mia cara lingua materna, è perché in questa posso esprimere meglio ciò che sento all’annuncio che Lei mi ha comunicato.

Vorrei anzitutto esprimere lo stupore e la profonda gratitudine che ho provato e che ancora provo per la magnanimità e l’amore del Santo Padre per avermi prescelto ad un onore così immenso. È stata davvero una grande sorpresa. Non mi era mai passato per la mente di esserne degno e mi è sembrato così in contrasto con le vicende della mia vita. Ho dovuto passare attraverso molte prove, ma avvicinandomi ormai alla fine di tutto, mi sentivo in pace. Tuttavia non è forse possibile che io sia vissuto tanti anni proprio per vedere questo giorno?

Difficile anche pensare come avrei potuto affrontare una tale emozione se il Santo Padre non avesse compiuto un ulteriore gesto di magnanimità nei miei confronti, mostrando così un altro aspetto della sua natura piena di finezza e di bontà. Egli intuì il mio turbamento e volle spiegarmi le ragioni per cui mi aveva innalzato a tanto onore. Insieme a parole di incoraggiamento, mi disse che la sua decisione era un riconoscimento del mio zelo e del servizio che avevo reso per tanti anni alla Chiesa Cattolica; inoltre, egli era certo che i cattolici inglesi e perfino l’Inghilterra protestante si sarebbero rallegrati del fatto che io ricevessi un segno del suo favore. Dopo queste benevole parole di Sua Santità, sarei proprio stato insensibile e ingrato se avessi avuto ancora delle esitazioni.

Questo egli ebbe la premura di dirmi, e che cosa potevo desiderare di più? Nella mia lunga vita ho commesso molti sbagli. Non ho nulla di quella sublime perfezione che si trova negli scritti dei santi, cioè l’assoluta mancanza di errori. Ma ciò che credo di poter dire riguardo tutto ciò che ho scritto è questo: la mia retta intenzione, l’assenza di scopi personali, il senso dell’obbedienza, la disponibilità ad essere corretto, il timore di sbagliare, il desiderio di servire la santa Chiesa, e, solo per misericordia divina, un certo successo. E mi compiaccio di poter aggiungere che fin dall’inizio mi sono opposto ad una grande sciagura. Per trenta, quaranta, cinquant’anni ho cercato di contrastare con tutte le mie forze lo spirito del liberalismo nella religione. Mai la santa Chiesa ha avuto maggiore necessità di qualcuno che vi si opponesse più di oggi, quando, ahimé! si tratta ormai di un errore che si estende come trappola mortale su tutta la terra; e nella presente occasione, così grande per me, quando è naturale che io estenda lo sguardo a tutto il mondo, alla santa Chiesa e al suo futuro, non sarà spero ritenuto inopportuno che io rinnovi quella condanna che già così spesso ho pronunciato.

Il liberalismo in campo religioso è la dottrina secondo cui non c’è alcuna verità positiva nella religione, ma un credo vale quanto un altro, e questa è una convinzione che ogni giorno acquista più credito e forza. È contro qualunque riconoscimento di una religione come vera. Insegna che tutte devono essere tollerate, perché per tutte si tratta di una questione di opinioni. La religione rivelata non è una verità, ma un sentimento e una preferenza personale; non un fatto oggettivo o miracoloso; ed è un diritto di ciascun individuo farle dire tutto ciò che più colpisce la sua fantasia. La devozione non si fonda necessariamente sulla fede. Si possono frequentare le Chiese protestanti e le Chiese cattoliche, sedere alla mensa di entrambe e non appartenere a nessuna. Si può fraternizzare e avere pensieri e sentimenti spirituali in comune, senza nemmeno porsi il problema di una comune dottrina o sentirne l’esigenza. Poiché dunque la religione è una caratteristica così personale e una proprietà così privata, si deve assolutamente ignorarla nei rapporti tra le persone. Se anche uno cambiasse religione ogni mattina, a te che cosa dovrebbe importare? Indagare sulla religione di un altro non è meno indiscreto che indagare sulle sue risorse economiche o sulla sua vita familiare. La religione non è affatto un collante della società.

Finora il potere civile è stato cristiano. Anche in Nazioni separate dalla Chiesa, come nella mia, quand’ero giovane valeva ancora il detto: “Il cristianesimo è la legge del Paese”. Ora questa struttura civile della società, che è stata creazione del cristianesimo, sta rigettando il cristianesimo. Il detto, e tanti altri che ne conseguivano, è scomparso o sta scomparendo, e per la fine del secolo, se Dio non interviene, sarà del tutto dimenticato. Finora si pensava che bastasse la religione con le sue sanzioni soprannaturali ad assicurare alla nostra popolazione la legge e l’ordine; ora filosofi e politici tendono a risolvere questo problema senza l’aiuto del cristianesimo. Al posto dell’autorità e dell’insegnamento della Chiesa, essi sostengono innanzitutto un’educazione totalmente secolarizzata, intesa a far capire ad ogni individuo che essere ordinato, laborioso e sobrio torna a suo personale vantaggio. Poi si forniscono i grandi principi che devono sostituire la religione e che le masse così educate dovrebbero seguire, le verità etiche fondamentali nel loro senso più ampio, la giustizia, la benevolenza, l’onestà, ecc.; l’esperienza acquisita; e quelle leggi naturali che esistono e agiscono spontaneamente nella società e nelle cose sociali, sia fisiche che psicologiche, ad esempio, nel governo, nel commercio, nella finanza, nel campo sanitario e nei rapporti tra le Nazioni. Quanto alla religione, essa è un lusso privato, che uno può permettersi, se vuole, ma che ovviamente deve pagare, e che non può né imporre agli altri né infastidirli praticandola lui stesso.

Le caratteristiche generali di questa grande apostasia sono identiche dovunque; ma nei particolari variano a seconda dei Paesi. Parlerò del mio Paese perché lo conosco meglio. Temo che essa avrà qui un grande seguito, anche se non si può immaginare come finirà. A prima vista si potrebbe pensare che gli Inglesi siano troppo religiosi per un modo di pensare che nel resto del continente europeo appare fondato sull’ateismo; ma la nostra disgrazia è che, nonostante, come altrove, conduca all’ateismo, qui esso non nasce necessariamente dall’ateismo. Occorre ricordare che le sette religiose, comparse in Inghilterra tre secoli fa e oggi così forti, si sono ferocemente opposte all’unione della Chiesa e dello Stato e vorrebbero la scristianizzazione della monarchia e di tutto il suo apparato, sostenendo che tale catastrofe renderebbe il cristianesimo più puro e più forte. Il principio del liberalismo, poi, ci è imposto dalle circostanze stesse. Consideriamo le conseguenze di tutte queste sette. Con tutta probabilità esse rappresentano la religione della metà della popolazione; e non dimentichiamo che il nostro governo è una democrazia. È come se, in una dozzina di persone prese a caso per la strada e che certamente hanno la loro quota di potere, si trovassero fino a sette religioni diverse. Ora come possono trovare unanimità di azione in campo locale o nazionale quando ciascuna si batte per il riconoscimento della propria denominazione religiosa? Ogni decisione sarebbe bloccata, a meno che l’argomento religione non venga del tutto ignorato. Non c’è altro da fare. E in terzo luogo, non dimentichiamo che nel pensiero liberale c’è molto di buono e di vero; basta citare, ad esempio, i principi di giustizia, onestà, sobrietà, autocontrollo, benevolenza che, come ho già notato, sono tra i suoi principi più proclamati e costituiscono leggi naturali della società. È solo quando ci accorgiamo che questo bell’elenco di principi è inteso a mettere da parte e cancellare completamente la religione, che ci troviamo costretti a condannare il liberalismo. Invero, non c’è mai stato un piano del Nemico così abilmente architettato e con più grandi possibilità di riuscita. E, di fatto, esso sta ampiamente raggiungendo i suoi scopi, attirando nei propri ranghi moltissimi uomini capaci, seri ed onesti, anziani stimati, dotati di lunga esperienza, e giovani di belle speranze.

Ecco come stanno le cose in Inghilterra, ed è un bene che tutti ce ne rendiamo conto; ma non si pensi assolutamente che io ne sia spaventato. Certo ne sono dispiaciuto, perché penso possa nuocere a molte anime, ma non temo affatto che abbia la capacità di impedire la vittoria della Parola di Dio, della santa Chiesa, del nostro Re Onnipotente, il Leone della tribù di Giuda, il Fedele e il Verace, e del suo Vicario in terra. Troppe volte ormai il cristianesimo si è trovato in quello che sembrava essere un pericolo mortale; perché ora dobbiamo spaventarci di fronte a questa nuova prova. Questo è assolutamente certo; ciò che invece è incerto, e in queste grandi sfide solitamente lo è, e rappresenta solitamente una grande sorpresa per tutti, è il modo in cui di volta in volta la Provvidenza protegge e salva i suoi eletti. A volte il nemico si trasforma in amico, a volte viene spogliato della sua virulenza e aggressività, a volte cade a pezzi da solo, a volte infierisce quanto basta, a nostro vantaggio, poi scompare. Normalmente la Chiesa non deve far altro che continuare a fare ciò che deve fare, nella fiducia e nella pace, stare tranquilla e attendere la salvezza di Dio. “Gli umili erediteranno la terra e godranno di una gran pace” (Ps 37, 11).

tratto da L’Osservatore Romano del 9 aprile 2010

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03/09/2010 10:16
 
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              cardinale newman


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 il cardinale Newman oltre che Beato sarà anche Dottore della Chiesa? Per Ratzinger si!  
 
Tra i suoi ammiratori di lungo corso c’è anche Benedetto XVI che, ancora cardinale, rievocò il proprio personale incontro con l’opera di Newman in occasione del centenario della sua morte (28 aprile 1990).

La conclusione – sorprendente, riletta a vent’anni di distanza – tocca un punto molto caro a Ratzinger teologo e pastore: «Il segno caratteristico del grande dottore nella Chiesa mi sembra essere quello che egli non insegna solo con il suo pensiero e i suoi discorsi, ma anche con la sua vita, poiché in lui pensiero e vita si compenetrano e si determinano reciprocamente. Se ciò è vero, allora davvero Newman appartiene ai grandi dottori della Chiesa, perché egli nello stesso tempo tocca il nostro cuore e illumina il nostro pensiero».

Questa è, in effetti, la chiave di volta della figura di Newman: una continua osmosi tra pensiero e vita. Proprio come la sua conversione al cattolicesimo, maturata attraverso lo studio e la fedeltà alla coscienza, significò innanzi tutto una mai conclusa conversione dell’intelletto. 

 

Newman dottore della Chiesa? Parola di Ratzinger


ROMA, martedì, 7 settembre 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito un articolo a firma di Paolo Pegoraro apparso sulla rivista “Jesus” (08/2010).



* * *

Sarà papa Benedetto XVI a celebrare la beatificazione di John Henry Newman a conclusione della sua storica visita nel Regno Unito. Si tratterà, infatti, della prima visita di Stato di un Pontefice in terra britannica – quella di Giovanni Paolo II nel 1982 fu una visita pastorale – e culminerà nell’incontro con la Regina Elisabetta II e con il Primate della Comunione anglicana, Rowan Williams. «L’Arcivescovo di Canterbury – commenta il suo Rappresentante presso la Santa Sede, il reverendo David Richardson – la vede come un’opportunità per cementare i legami tra la Santa Sede e il Regno Unito e anche tra la Chiesa Cattolica Romana e altre chiese cristiane in Scozia, in Inghilterra e in Galles». Gli estimatori di Newman sono molti e non solo tra i cattolici. Il suo contributo al rinnovamento della Chiesa d’Inghilterra tramite il Movimento di Oxford è ancora vivo. «Newman – spiega il reverendo Richardson – ha plasmato profondamente la futura evoluzione della teologia anglicana. In primo luogo, ricordandoci la natura divina della Chiesa. Poi radicando e fondando di nuovo il ministero nella successione apostolica. Infine suscitando, insieme a Pusey, una rinascita duratura della teologia patristica nell’anglicanesimo». Tra i suoi ammiratori di lungo corso c’è anche Benedetto XVI che, ancora cardinale, rievocò il proprio personale incontro con l’opera di Newman in occasione del centenario della sua morte (28 aprile 1990). La conclusione – sorprendente, riletta a vent’anni di distanza – tocca un punto molto caro a Ratzinger teologo e pastore: «Il segno caratteristico del grande dottore nella Chiesa mi sembra essere quello che egli non insegna solo con il suo pensiero e i suoi discorsi, ma anche con la sua vita, poiché in lui pensiero e vita si compenetrano e si determinano reciprocamente. Se ciò è vero, allora davvero Newman appartiene ai grandi dottori della Chiesa, perché egli nello stesso tempo tocca il nostro cuore e illumina il nostro pensiero». Questa è, in effetti, la chiave di volta della figura di Newman: una continua osmosi tra pensiero e vita. Proprio come la sua conversione al cattolicesimo, maturata attraverso lo studio e la fedeltà alla coscienza, significò innanzi tutto una mai conclusa conversione dell’intelletto.

John Henry Newman nacque il 21 febbraio 1801 in una famiglia anglicana, ma il suo “fervore evangelico” si accese solo verso i quindici anni quando, durante la prima di molte malattie, lesse alcuni libri calvinisti. Il suo carattere era riservato ma molto amichevole, scrupoloso fino al perfezionismo e non privo di ambizione. Caratteristiche che traspaiono, paradossalmente, quando il giovane Newman consegue la “laurea” con il minimo dei voti: eccesso di studio e aspettative troppo alte lo avevano sfiancato. Un incidente di percorso che finirà con il precludergli la strada per gli studi legali, spingendolo a intraprendere la carriere ecclesiastica: diacono anglicano nel 1824, verrà ordinato sacerdote l’anno seguente. Nel frattempo Newman era anche diventato fellow presso l’Oriel College, il più prestigioso di Oxford, dove fu affascinato dal razionalismo di Richard Whately, futuro arcivescovo anglicano di Dublino, che lo aiutò a sviluppare la propria abilità retorica. Ma l’amicizia con Richard Hurrell Froude, Edward Pusey e John Keble, nonché la morte della sorella minore Mary e altre due gravi malattie, lo convinsero dei limiti di un’impostazione soggettivistica centrata sulla sola eccellenza intellettuale. Proprio dopo l’ultima malattia, che lo colpì durante un viaggio in Sicilia, Newman avvertì di aver ricevuto una missione personale, sconosciuta ma inderogabile. «Non ti chiedo di vedere – scrisse nel suo Diario –, non ti chiedo di sapere, ti chiedo semplicemente di essere messo all’opera». Cominciò così il suo impegno nel Movimento di Oxford, il quale respingeva le ingerenze del governo britannico nella vita ecclesiale e rivalutava la continuità storica tra cattolicesimo e anglicanesimo. Secondo Newman, che attraverso scritti e sermoni fu a lungo il principale esponente del movimento, la Chiesa d’Inghilterra rappresentava una “via media” tra gli eccessi del cattolicesimo romano e gli errori del protestantesimo. Rivoltosi alla patristica per comprendere quello che la Chiesa aveva insegnato semper et ubique, però, il giovane sacerdote entrò in una profonda crisi di coscienza. Studiando la crisi ariana del IV secolo si rese conto che l’ipotesi di una via intermedia non era una soluzione, ma un errore antico. Dove trovare, allora, la vera Chiesa? Newman approfondì le ricerche per altri quattro anni. Prima di concludere il suo studio sulle origini del cristianesimo (Lo sviluppo della dottrina cristiana, 1845) aveva tuttavia deciso: la coscienza gli imponeva di riunirsi alla Chiesa di Roma. «I Padri mi fecero cattolico – ribadirà in seguito, quando s’insinuò un suo imminente ritorno all’anglicanesimo – e io non intendo buttare a terra la scala per la quale sono salito nella Chiesa». Nella notte tra l’8 e il 9 ottobre 1845, il passionista Domenico Barberi – poi beatificato da papa Paolo VI – giunse a Littlemore, il paese dove Newman si era ritirato da vicario della chiesa dell’Università, e accolse la sua lunga confessione. Negli anni successivi furono numerosissimi – si parla di un migliaio – i membri della Chiesa anglicana che imitarono il futuro cardinale.

Ordinato sacerdote cattolico a Roma, Newman entrò nell’Ordine degli oratoriani di san Filippo Neri, che dovette ricordargli i college di Oxford. Rientrò in Inghilterra senza immaginare il calvario di disprezzo e sospetto che lo attendeva. Nel recente volume John Henry Newman. Una biografia spirituale (Lindau 2010), Roderick Strange – rettore del Pontificio Collegio Beda di Roma –sottolinea opportunamente una caratteristica della sua santità: la fedeltà nonostante le numerose sconfitte e delusioni. Nel 1851 Newman fu coinvolto nel processo contro Giacinto Achilli, un ex domenicano che attaccava il cattolicesimo da parte evangelica. Newman si fece voce del cardinal Nicholas Wiseman, riportando contro Achilli alcune accuse di molestie documentate anni addietro. Ma poiché Wiseman aveva smarrito il carteggio delle prove, Newman fu citato per diffamazione e incontrò la pubblica riprovazione. Nello stesso anno i vescovi irlandesi lo contattarono perché diventasse rettore di una nuova università cattolica in Irlanda; nel 1858, però, Newman si dimise per divergenze di visioni e tornò all’Oratorio di Birmingham. L’anno prima i vescovi inglesi lo avevano incaricato di supervisionare la nuova traduzione della Bibbia. Newman vi si dedicò a lungo con proverbiale acribia, ma il progetto fu annullato. Nel 1859 gli venne affidata la direzione della rivista cattolica «The Rambler». Ne produsse un solo numero, perché il suo articolo sul ruolo dei laici nella Chiesa (On Consulting the Faithful in Matters of Doctrine) fu criticato da Roma. Mai sopiti sospetti nei confronti della sua conversione si erano riaccesi. Newman si offrì di chiarire il proprio punto di vista e gli vennero inviate, tramite il cardinal Wiseman, una serie di domande che, tuttavia, non gli furono mai recapitate. E mentre Newman dava per risolta la questione, a Roma cresceva il discredito nei suoi confronti. Solo otto anni dopo, quando il confratello e amico Ambrose St John si recò in visita in Vaticano, l’incidente fu chiarito. Non è difficile immaginare che il morale di Newman fosse a terra. Così, quando un articolo lo tacciò di “disinteresse verso la verità”, egli si sentì in dovere di scrivere una vibrante storia delle sue opinioni religiose. E l’Apologia pro vita sua (1865) riuscì nell’intento: ne ripristinò la stima e l’autorevolezza, e gli riguadagnò vent’anni di amicizie perdute da parte anglicana. Ma un’ultima prova lo attendeva. Gli fu affidato il compito di fondare una missione oratoriana a Oxford, cosa che alcuni cattolici – compreso l’arcivescovo di Westminster, il cardinale Henry Manning – non vedevano di buon occhio. Fu stabilito in segreto che, alla fondazione dell’oratorio, Newman non potesse andarci a vivere. Ed egli, in silenzio, come suo solito, si ritirò.

Pensiero e vita: in questo binomio si ritrovano molte caratteristiche di Newman. La sua attenzione per una formazione globale degli studenti, ad esempio, come si legge ne L’idea di università: l’educazione dev’essere una “introduzione alla realtà totale”, intuizione poi ripresa da don Giussani. Pensiero e vita. Newman non fu uno studioso arido. Scrisse narrativa (Callista, 1855), compose poesia (Il sogno di Gerontius, 1865), e le sue opere influirono profondamente su autori come Hilaire Belloc, Gilbert K. Chesterton, fino a J.R.R. Tolkien e Bruce Marshall. È anche per questo che, nella recente udienza ai vescovi dell’Inghilterra e del Galles, papa Benedetto XVI lo ha additato a modello: «Grandi scrittori e comunicatori della sua statura e della sua integrità sono necessari nella Chiesa oggi e spero che la devozione a lui ispirerà molti a seguirne le orme». Pensiero e vita, ancora una volta. Nella sua famosa Grammatica dell’assenso (1870) Newman ricordò che la fede è un atto personale che non si esaurisce nella sola comprensione razionale, perché è soprattutto obbedienza alla retta coscienza. Ribadì più volte come, attraverso i suoi sermoni, non desiderasse conquistare il raziocinio delle persone senza averne anche toccato il cuore, aprendo uno spazio alla grazia. «Stabilisco come canone fondamentale – dirà – che un sermone per essere efficace deve essere imperfetto». Quando papa Leone XIII lo creò cardinale, il 15 maggio 1879, Newman scelse significativamente come suo motto Cor ad cor loquitur, “il cuore parla al cuore”. Anche poco prima di ricevere la porpora vi furono nei suoi confronti ostruzionismi e incomprensioni, ma il cappello cardinalizio dissipò infine le ombre che per troppo tempo avevano oscurato la sua figura. Newman visse altri undici anni; morì nel suo letto il 11 agosto 1890. Ex umbris et imaginibus in veritatem, recita l’epitaffio da lui stesso composto: dalle ombre e dalle immagini – finalmente – alla verità.

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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09/09/2010 19:15
 
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Durante il viaggio nel Regno Unito il Papa beatificherà John Henry Newman, uno dei più grandi pensatori cristiani dell'epoca moderna

Il cardinale che voleva essere un gentleman


Una vita segnata dall'impegno instancabile contro il liberalismo religioso

di Hermann Geissler

Il 19 settembre 2010 il Papa proclamerà beato uno dei più grandi pensatori cristiani dell'epoca moderna:  John Henry Newman. Il grande teologo inglese previde molte delle sfide del nostro tempo e si impegnò con coraggio e umiltà a servire la causa della verità.
 
Quando ricevette il "biglietto" per la nomina cardinalizia nel 1879, Newman indirizzò ai presenti nel palazzo del cardinale Howard, a Roma, un'allocuzione che è divenuta famosa. Dopo aver ringraziato il Pontefice per un onore così grande, egli confessa innanzitutto di aver fatto "molti sbagli" nella sua vita e di non avere "nulla dell'alta perfezione propria degli scritti dei santi", aggiungendo però di aver agito sempre con "l'intenzione onesta, l'assenza di fini personali, la disposizione all'obbedienza, la volontà di farsi correggere, la paura dell'errore, il desiderio di servire la santa Chiesa e una buona speranza di successo". Poi il cardinale eletto riassume l'impegno fondamentale della sua vita da teologo e pastore:  "Gioisco nell'affermare che fin dall'inizio mi sono opposto a un grande male. Per 30, 40, 50 anni ho resistito con tutte le forze allo spirito del liberalismo.

Mai la santa Chiesa ha avuto bisogno di essere difesa da esso come in questi tempi nei quali è diventato un errore diffuso come un'insidia su tutta la terra; e in questa grande occasione, essendo naturale per chi si trovi al mio posto dare uno sguardo al mondo, alla Chiesa e al suo avvenire, non sarà inopportuno, io spero, se rinnovo la protesta contro di esso, protesta che ho fatto così di frequente".

Nel suo impegno contro il liberalismo religioso, Newman non si presentava come puro apologeta e ancora di meno come rigido conservatore, mirava invece con forza a dare ragione alla verità, valorizzando il ricco patrimonio della tradizione e tenendo conto delle nuove sfide del suo tempo.

Per mettere in luce la personalità di Newman, conviene ricordare brevemente alcune tappe della sua vita, perché, come disse il cardinale Joseph Ratzinger, "il segno caratteristico del grande dottore della Chiesa mi sembra essere quello che egli non insegna solo con il suo pensiero e i suoi discorsi, ma anche con la sua vita (...) Se ciò è vero, allora davvero Newman appartiene ai grandi dottori della Chiesa, perché egli nello stesso tempo tocca il nostro cuore e illumina il nostro pensiero".

Newman nacque il 21 febbraio 1801 a Londra. Il padre, anglicano liberale, lavorava come banchiere; la madre, casalinga, si impegnava a introdurre i suoi figli alla lettura della Bibbia secondo la tradizione anglicana, praticando però una religiosità dei sentimenti. Perciò Newman disse più tardi che nell'infanzia non aveva convinzioni religiose precise. La Sacra Scrittura gli diede regole morali elevate, ma le sue potenzialità intellettuali necessitavano di un qualcosa di più chiaro e definito. Ben presto, a soli quattordici anni, subì la tentazione dell'incredulità e dell'autosufficienza. Copiava certi versi di Voltaire, dove si negava l'immortalità dell'anima, e si diceva:  "Quanto è terribile, ma quanto è verosimile". Voleva essere un gentleman, ma non credere in Dio:  "Mi ricordo che volevo essere virtuoso, ma non religioso; non avevo capito che senso avrebbe amare Dio".

Mentre lottava con questi pensieri, Dio bussò al cuore del giovane studente. Nelle vacanze del 1816 egli leggeva il libro La forza della verità di Thomas Scott, un fervido calvinista, e fu profondamente colpito dal suo contenuto. Di seguito sperimentava la sua "prima conversione", che egli stesso considerò come una delle più importanti grazie della sua vita:  si trattava di una acuta consapevolezza dell'esistenza di Dio, suo Creatore, e della vanità delle cose materiali. Nell'Apologia pro vita sua confessò che quest'esperienza ebbe un grande influsso sulla sua persona "isolandomi, cioè, dalle cose che mi circondavano, confermandomi nella mia sfiducia nella realtà dei fenomeni materiali e facendomi riposare nel pensiero di due soli esseri assoluti e luminosamente evidenti in se stessi, me stesso e il mio Creatore".

Sin da questa prima conversione, Newman cercò di amare Dio sopra ogni cosa e di seguire la luce della verità:  "Quando avevo quindici anni (nell'autunno del 1816) si verificò in me un grande cambiamento di idee. Subii l'influenza di un credo definito, e accettai nella mia mente alcune impressioni del dogma che, per la misericordia di Dio, non si sono mai più cancellate od oscurate". Cominciò quindi a rendersi conto dell'importanza delle grandi verità cristiane:  l'incarnazione del Figlio di Dio, l'opera della redenzione, il dono dello Spirito che abita nell'anima del battezzato, la fede che non può rimanere una semplice teoria, ma deve tradursi in un programma di vita.

Dopo gli studi nel Trinity College a Oxford, Newman fu eletto professore dell'Oriel College e divenne ministro anglicano e più tardi vicario di Saint Mary's, la chiesa dell'Università di Oxford. Nell'Oriel College fece conoscenza di alcuni rappresentanti della High Church dell'anglicanesimo e cominciava a occuparsi dei padri della Chiesa, nei quali scopriva la freschezza della Chiesa antica che doveva affermarsi in mezzo a un mondo pagano. Nel contempo fu sempre più insoddisfatto della situazione spirituale della sua confessione e preoccupato dall'influsso crescente del liberalismo a Oxford e in tutta l'Inghilterra.

Per combattere questi sviluppi, nel 1833 Newman iniziò, insieme con alcuni amici, il cosiddetto Movimento di Oxford. I suoi promotori denunciavano il distacco della nazione inglese dalla pratica della fede e lottavano per un ritorno al cristianesimo antico, attraverso una solida riforma dogmatica, liturgica e spirituale. Newman riassume il principio fondamentale del movimento, quello dogmatico, con queste parole:  "Ciò che combattevo era il liberalismo, e per liberalismo intendo il principio antidogmatico con tutte le sue conseguenze (...) Dall'età di quindici anni il dogma è stato il principio fondamentale della mia religione:  non conosco altra religione; non riesco a capire nessun'altra specie di religione; una religione ridotta a un semplice sentimento per me è un sogno e un inganno. Come non ci può essere amore filiale senza l'esistenza di un padre, così non ci può essere devozione senza la realtà di un Essere Supremo".

Con la pubblicazione di trattati di facile divulgazione, il Movimento di Oxford cercava di penetrare nella coscienza degli ecclesiastici e dei laici, posta fra due estremi:  da una parte il sentimentalismo, che riduceva la fede a puro sentimento, e dall'altra il razionalismo, che negava le realtà soprannaturali della fede. Newman si rendeva conto che la polemica contro il liberalismo religioso aveva bisogno di un saldo fondamento dottrinale. Fu convinto di aver trovato questo fondamento negli scritti dei Padri i quali ammirava come i veri araldi della verità, i rappresentanti di quella fede che, secondo Newman, "era pressoché scomparsa dalla terra e che deve essere ripristinata". Mentre il Movimento di Oxford si diffondeva, Newman sviluppava la teoria della via media. Con essa intendeva dimostrare che la Comunione anglicana era l'erede legittima della prima cristianità, in quanto non presentava né gli errori dottrinali dei protestanti né le corruzioni e gli abusi che pensava di vedere nella Chiesa di Roma.

Ma studiando la storia della Chiesa del iv secolo, Newman fece una grande scoperta:  trovò rispecchiata nei tre gruppi di allora la cristianità del suo secolo - negli ariani i protestanti, nei romani la Chiesa di Roma, nei semi-ariani gli anglicani. Poco dopo lesse un articolo in cui si paragonava la posizione dei donatisti africani al tempo di Agostino con quella degli anglicani. Newman non poteva più dimenticare la frase Securus iudicat orbem terrarum, citata dal vescovo di Ippona, ovvero, nella traduzione dello stesso Newman:  "La Chiesa universale, nei suoi giudizi, è sicura della verità". Egli capiva che nella Chiesa antica i conflitti dottrinali venivano risolti non soltanto in base al principio dell'antichità, ma anche in base alla cattolicità:  il giudizio della Chiesa intera è decreto infallibile. Di conseguenza, "la teoria della via media era assolutamente polverizzata".

Fedele al principio di conformarsi alla verità, Newman decise di ritirarsi a Littlemore, un piccolo villaggio vicino a Oxford, per alcuni anni di preghiera e di studio. Iniziava a tirare le fila di una riflessione che lo accompagnava già da anni:  se la Chiesa cattolica romana era nella continuità apostolica, come giustificare quelle dottrine che non sembravano far parte del patrimonio di fede dell'antica cristianità? Il principio dell'autentico sviluppo, che egli poi elaborò, gli permise di rendere ragione dei vari "nuovi" insegnamenti della Chiesa cattolica:  i dogmi più tardi erano sviluppi autentici della Rivelazione originale. Questo argomento, decisivo per il suo futuro, egli ha illustrato nel suo famoso saggio su Lo sviluppo della dottrina cristiana.

In questo capolavoro teologico si trova un passo in cui Newman, rigettando l'idea secondo la quale la verità e l'errore in materia di religione sarebbero solo questioni opinabili, riafferma la sua convinzione di fondo:  "Vi è una verità; vi è una sola verità; l'errore religioso è per sua natura immorale; i seguaci dell'errore, a meno che non ne siano consapevoli, sono colpevoli di esserne sostenitori; si deve temere l'errore; la ricerca della verità non deve essere appagamento di curiosità; l'acquisizione della verità non assomiglia in nulla all'eccitazione per una scoperta; il nostro spirito è sottomesso alla verità, non le è, quindi, superiore ed è tenuto non tanto a dissertare su di essa, ma a venerarla; la verità e l'errore sono posti davanti a noi per prova dei nostri cuori; scegliere fra l'una e l'altro è un terribile gettar le sorti da cui dipende la nostra salvezza o la nostra dannazione (...) Questo è il principio dogmatico, che è principio di forza".

Mentre Newman procedeva con lo studio sullo sviluppo della dottrina cristiana, comprese che la Chiesa di Roma era la Chiesa dei padri. Nell'Apologia scrive in proposito:  "Ero indotto a esaminare più attentamente un'idea che senza dubbio era nel mio pensiero da molto tempo, e cioè la concatenazione degli argomenti, mediante la quale la mente ascende dalla sua prima idea religiosa a quella finale; e arrivai alla conclusione che, in una vera filosofia, non vi era via di mezzo tra l'ateismo e il cattolicesimo, e che uno spirito pienamente coerente, nelle circostanze in cui si trova quaggiù, deve abbracciare o l'uno o l'altro". Il 9 ottobre 1845 egli abbracciò la fede cattolica e fu ricevuto dal beato Domenico Barberi, un passionista italiano, nella piena comunione della Chiesa cattolica, che definì allora "l'unico ovile di Cristo".

Ordinato sacerdote cattolico nel 1847, dopo un breve tempo di studio a Propaganda Fide in Roma, Newman fondò l'Oratorio di San Filippo Neri a Birmingham. Nelle sue molteplici attività pastorali e teologiche si impegnava soprattutto per la formazione intellettuale e spirituale dei fedeli. Fu convinto che il confronto con gli sviluppi culturali e sociali del tempo richiede una fede che sa esibire i motivi della speranza. In mezzo a infinite difficoltà e incomprensioni - ricordiamo solo il suo tentativo, purtroppo fallito, di fondare un'università cattolica a Dublino, preparato con alcune conferenze pubblicate successivamente nel volume L'idea di università, altro capolavoro di Newman - egli lavorava per una formazione di laici colti, "uomini del mondo per il mondo", guidati da una fede illuminata e capaci di testimoniare e difendere le proprie convinzioni.

Nel 1870 uscì il Saggio per una grammatica dell'assenso. In questo libro, anch'esso un classico, Newman analizza filosoficamente l'atto dell'assenso della mente umana alla verità, cercando di difendere il diritto dell'uomo semplice alla certezza su argomenti di fede, anche se questi non è in grado di dimostrarla scientificamente. Nella parte conclusiva di tale volume, Newman ci ha lasciato una pagina bellissima in cui riassume le "prove" per la verità in un confronto con la religione naturale, con le promesse fatte al popolo di Israele e con le diverse religioni diffuse nell'impero romano.

Citiamo questo passo che è di particolare rilievo nel mondo di oggi, in cui il cristianesimo è chiamato ad affermarsi e a diffondersi in mezzo a una società sempre più pluralista:  "La religione naturale si basa sul senso del peccato; riconosce il male, ma non può trovare il rimedio, può solo cercarlo. Quel rimedio, sia per quanto riguarda la colpa che l'impotenza morale, si trova nella dottrina centrale della rivelazione:  la mediazione di Cristo. Così accade che il cristianesimo sia il compimento della promessa fatta ad Abramo e delle rivelazioni mosaiche; questo è il modo in cui ha saputo fin dall'inizio occupare il mondo e guadagnare credito in ogni classe della società umana che i suoi predicatori raggiungevano; questa è la ragione per cui il potere romano e la moltitudine di religioni che esso comprendeva non potevano resistergli; questo è il segreto della sua prolungata energia e dei suoi martiri che mai cedettero; questo è il modo in cui oggi è così misteriosamente potente, malgrado i nuovi e minacciosi avversari che ne cospargono la via. Ha dalla sua quel dono di tamponare e di sanare l'unica profonda ferita della natura umana, che per il suo successo ha più valore di un'intera enciclopedia di conoscenza scientifica e di un'intera biblioteca di dispute, e per questo deve durare finché dura la natura umana.

Si tratta di una verità viva che non può mai invecchiare. Alcuni ne parlano come se fosse una cosa della storia, con un'influenza solo indiretta sui tempi moderni; non posso ammettere che sia una mera religione storica. Certamente ha i suoi fondamenti nel passato e in memorie gloriose, ma il suo potere è nel presente.
Non si tratta di squallida materia di antiquariato; non la contempliamo nelle conclusioni tratte da documenti muti e da eventi morti, ma dalla fede che si esercita in oggetti sempre vivi e dall'appropriazione e dall'uso di doni sempre presenti. La nostra comunione con esso è nell'invisibile, non nell'obsoleto.
 
In questo stesso tempo i suoi riti e comandamenti suscitano di continuo l'attivo intervento di quell'Onnipotenza in cui la religione iniziò molto tempo fa. Prima e al di sopra di tutto è la Santa Messa, in cui Colui che una volta morì per noi sulla croce, richiama alla memoria e, con la Sua letterale presenza in essa, perpetua quel medesimo sacrificio che non si può ripetere.
In secondo luogo, c'è la Sua effettiva presenza, in anima e corpo, e divinità, nell'anima e nel corpo di ogni fedele che giunge a Lui per averne il dono, un privilegio più intimo che se noi avessimo vissuto con Lui nel Suo remoto passaggio terreno. E poi, inoltre, c'è il Suo personale dimorare nelle nostre chiese, che innalza il servizio terreno fino ad essere un acconto del cielo. Tale è la professione del cristianesimo e, ripeto, la sua stessa divinazione dei nostri bisogni è in sé una prova che ne è realmente il rifornimento".

La forza della Chiesa, quindi, non sta nella perfezione dei suoi membri - che spesso sono purtroppo lontani dall'ideale cristiano, sebbene i santi non mancano mai - ma nella verità divina che essa è chiamata a custodire, annunciare e comunicare a tutti e che offre il rimedio per la natura di ogni uomo, ferita dal peccato e bisognosa di guarigione e di rinnovamento.

In conclusione ritorniamo all'allocuzione che Newman tenne in occasione del ricevimento del "biglietto" per la nomina al cardinalato. In tale circostanza, rinnovando la sua protesta contro il liberalismo religioso, egli offrì una precisa descrizione del medesimo:  "Il liberalismo (in religione) è la dottrina secondo la quale non esiste verità positiva in religione, ma un credo vale l'altro; e tale dottrina va acquistando vigore di giorno in giorno. Esso non vuole riconoscere come vera alcuna religione. Insegna che tutte devono essere tollerate e che tutte sono materia di opinione. La religione rivelata non è una verità, ma un sentimento e un gusto; non è un fatto oggettivo, né miracoloso ed è diritto di ogni individuo di seguire quello che vuole la sua fantasia. La devozione non è fondata necessariamente sulla fede.

Gli uomini possono frequentare la Chiesa cattolica o la Chiesa protestante, prendere quello che è buono da tutte e due senza dover appartenere a nessuna delle due. Essi possono fraternizzare insieme nei pensieri e nei sentimenti spirituali, senza avere nessuna idea in comune delle dottrine, o sentire la necessità di queste. E poiché la religione è un affare personale e una proprietà privata, noi la dobbiamo necessariamente ignorare nei rapporti tra uomo e uomo; se un uomo inventa una nuova religione ogni mattina, a te cosa importa? Non è bene intromettersi nella religione di un altro così come non è bene intromettersi nelle fonti del suo reddito o nella sua maniera di condurre la famiglia. In nessun senso la religione è un obbligo della società".

Oggi siamo testimoni di una mentalità che sostiene idee molto simili, con gravi conseguenze per tutti gli ambiti della vita. Il cardinale Newman può ricordare a tutti, ecclesiastici e laici, che la verità è un prezioso dono da accogliere con fede, da vivere con amore, da proclamare con gioia, da difendere con forza. Senza la luce della verità, l'uomo è privo di un punto sicuro di riferimento, la morale si riduce a un puro soggettivismo, la vita pubblica si deforma in un gioco di poteri. Se, invece, impariamo di nuovo a cercare e a seguire umilmente la verità, ci si apre una via verso un futuro in cui si potrà vivere una vita buona e serena.

Con il suo esempio incoraggiante e il suo magistero illuminante, Papa Benedetto XVI ci precede su questa via, che, infine, è la via di Gesù, del Dio con il volto umano. "La Chiesa - così Newman conclude il suo "biglietto speech" - non deve fare altro che proseguire nei suoi doveri, nella confidenza e nella pace; rimanere calma e aspettare la salvezza di Dio".
 

(©L'Osservatore Romano - 10 settembre 2010)








Omaggio a Newman ricordando Cossiga

Per rivolgersi al Padre


di Ettore Gotti Tedeschi


Qualche anno fa Francesco Cossiga mi regalò un libretto rosso, da lui fatto stampare per devozione a John Henry Newman:  Il libro di preghiere di Newman. Il volumetto, estratto da Meditazioni e devozioni, contiene 31 preghiere (più 2) selezionate per proporre una preghiera per ogni giorno del mese.

Nella biografia introduttiva si evidenzia l'ansia che ha segnato la vita del prossimo beato, la ricerca cioè che lo ha condotto alla conversione. Un cammino perseguito attraverso la preghiera e lo studio, senza un confine definito tra i due momenti. Trasformando armoniosamente lo studio in preghiera e la preghiera in studio della volontà di Dio, Newman arrivò a considerare la Chiesa cattolica come "l'unico gregge di Cristo". La biografia ricorda anche che Newman rivendicò la sua lealtà nei confronti dell'anglicanesimo difendendo però la Chiesa di Roma (Apologia pro vita sua, 1864).

Le preghiere estratte sono esempi mirabili di come e perché ci si dovrebbe rivolgere al Padre. Come un figlio, anzitutto, che chiede di potere raggiungere la perfezione facendo ciò che serve a Dio, conscio della sua responsabilità personale, unica nel compito ricevuto (preghiera per il quarto giorno). Consapevole che l'annuncio del Signore si fa con l'esempio e le azioni personali (preghiera per l'ottavo giorno).

Ma la preghiera per l'unità della Chiesa (diciottesimo giorno) merita, soprattutto in questi tempi, di esser ricordata tutta, e meditata: 

"Signore Gesù Cristo, che quando stavi per soffrire, hai pregato per i tuoi discepoli perché fino alla fine fossero una cosa sola, come sei Tu con il Padre, e il Padre con Te, abbatti le barriere di separazione che dividono tra loro i cristiani di diverse denominazioni.
Insegna a tutti che la sede di Pietro, la Santa Chiesa di Roma, è il fondamento, il centro e lo strumento di questa unità.
Apri i loro cuori alla Verità, da lungo tempo dimenticata, che il nostro Santo Padre, il Papa, è il Tuo Vicario e Rappresentante.
E, come in cielo esiste una sola compagnia santa, così su questa terra vi sia una sola comunione che professa e glorifica il Tuo Santo Nome
".

Newton pregava laicamente, da uomo cosciente di operare nel mondo e di dovere lottare e soffrire per non mondanizzarsi, trovando così la via della salvezza. Le sue preghiere invitano a cercare il senso della vita e delle azioni con responsabilità personale. Un invito che l'uomo di oggi deve sapere raccogliere.


(©L'Osservatore Romano - 13-14 settembre 2010)







[Modificato da Caterina63 13/09/2010 22:00]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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13/09/2010 22:02
 
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Il cardinale inglese e il cammino verso la santità

Difficile cammino
di un ipersensibile


di mons. Inos Biffi


Qualche anno prima che John Henry Newman morisse, il vescovo di Birmingham, nome Ullathorne, dopo averlo incontrato, commentava:  "Mi sono sentito rimpicciolito davanti alla sua presenza. Dentro quest'uomo c'è un santo". Era una persuasione diffusa, riconosciuta persino dal cardinale Manning, che in precedenza non aveva nutrito sentimenti di eccessiva simpatia per Newman, per non dire che, con padre nome Faber, lo aveva fortemente avversato ed era stato - sono parole di Newman - ingiusto verso di lui.

Dichiarava il cardinale nell'elogio funebre:  "A nostra memoria, nessun inglese è stato oggetto di una venerazione così viva e sincera. Fu centro di numerose anime, che erano andate da lui, come maestro, guida e consigliere durante molti anni. Una vita bella e nobile". Lo si potrebbe dire per la sua santità:  "bella e nobile" e avvolta dalla discrezione e dal velo del silenzio.

Non troviamo in Newman forme "impressionanti" o manifestazioni eccessive nella sua concezione e nella sua esperienza della vita cristiana, ma un senso vivo e sereno della "misura", un equilibrio lontano da ogni esasperazione, un innato distacco dalle cose di questo mondo e un chiaro tratto di humour, ora più dolce ora più amaro, che sono probabilmente tra le ragioni della sua simpatia per Filippo Neri e della scelta di essere suo discepolo.

Del fondatore dell'Oratorio egli era, infatti, un ammiratore sconfinato e devotissimo, come rivelano le sue riflessioni e orazioni nella Novena di san Filippo Neri, o le Litanie di san Filippo, che invocava come:  "Eroe nascosto", "Santo amabile", "Padre soavissimo", "Cuore di fuoco", "Luce di gioia santa".

Per la sua intercessione implorava:  "Ottienimi la grazia della perfetta rassegnazione alla volontà di Dio, dell'indifferenza alle cose di questo mondo, e di tenere gli occhi rivolti continuamente al cielo, di modo che io non dispiaccia mai alla divina provvidenza, non mi perda d'animo, non sia mai triste". E in una sua meditazione chiedeva:  "Mio Signore, mio unico Dio, Deus meus et omnia, non permettere che io corra dietro a ciò che è vano. Tutto è ombra e vanità quaggiù - lo reciterà anche la sua epigrafe -. Conserva il mio cuore fragilissimo e la mia anima debole sotto la divina protezione. Attirami a te al mattino, a mezzogiorno e alla sera".

Si potrebbe dire che la santità di Newman sia stata segnata dalla "raffinatezza", che, a suo giudizio - come spiegava ai suoi oratoriani -, "mette in evidenza e rende attraente la santità interiore, allo stesso modo in cui il dono dell'eloquenza esalta il ragionamento logico".
Ma nobiltà e raffinatezza della santità non significano facilità o assenza di difficoltà. Newman, come ogni discepolo del Signore, ha percorso, infatti, un cammino disseminato di difficoltà e segnato da svolte fondamentali e dolorose di "conversione".

Vi era anzitutto il suo temperamento. Egli doveva purificare un'ipersensibilità facilmente vulnerabile e appuntita, una suscettibilità facile a offendersi, una "fermezza d'acciaio" (Bouyer) penetrante, inclinata a reagire con pungente ironia, oltre al difetto comune agli intellettuali di un eccessivo  gusto  per  la  sottile discussione.

E qui possiamo osservare che non esistono temperamenti avvantaggiati o svantaggiati nei confronti della santità, ma una chiamata identica per tutti a trasformare la natura con l'ausilio della grazia, e viene in mente quanto lo stesso Newman diceva di Cirillo d'Alessandria:  "Cirillo, lo so, è un santo; ma non vuol dire che fosse un santo nel 412. Fra i più grandi santi si trovano anche quelli che nella prima parte della vita hanno commesso delle azioni tutt'altro che sante. Non penso che a Cirillo possa piacere che i suoi atti storici siano presi a misura della sua santità interiore".

Quanto alle tappe del cammino di Newman alla santità - in ogni caso immediatamente sono aperte solo allo sguardo infallibile di Dio - possiamo discernere come prima quella del "grande rivolgimento di pensieri" che lo toccò, quindicenne, nell'autunno del 1816. Egli fu allora pervaso dall'evidenza luminosa, che non si spegnerà più, di "due e solo due esseri assoluti", il suo "io" e il suo "Creatore", il quale "gli si impose, in modo intimo, senza intermediari", non come un'idea astratta, ma nella consistenza di un Essere vivo, così come fatti vivi erano per lui i misteri della fede o i grandi dogmi quali la Trinità, l'incarnazione, la redenzione. Sempre nel tempo della sua prima conversione, lo aveva colpito un'espressione di Walter Scott, che divenne un programma:  "La santità più che la pace".

Un'altra tappa decisiva nell'itinerario spirituale di Newman fu il superamento del liberalismo che incominciava a fargli preferire "l'eccellenza intellettuale a quella morale" e furono provvidenziali il viaggio nel Mediterraneo, la malattia in Sicilia, la scoperta del suo orgoglio, l'implorazione della Luce e il proposito di camminare sotto la sua guida. La santità di Newman appare come il crescere perseverante e senza strepito della puntuale corrispondenza a questa Luce.

Poi venne la "conversione" alla Chiesa cattolica, dove, con tutto lo strazio del distacco dall'antica Chiesa, dagli amici e dai familiari, risalta la fedeltà eroica alla coscienza e insieme alla volontà di Dio che in essa vedeva riflessa.

Ma proprio dopo questa conversione incomincia "la sua così lunga e spesso penosa vita", lungo la quale non sarebbero mancate situazioni difficili e profondi motivi di sofferenza, di fronte a chiari segni di sfiducia, a manovre non limpide, ad anni di emarginazione e di isolamento.

Possiamo seguire queste prove particolarmente negli Scritti autobiografici. Nel 1860 constatava e scriveva nel suo diario:  "Non ho nessun amico a Roma, ho lavorato in Inghilterra dove non sono stato capito e dove mi hanno attaccato e disprezzato. Pare che sia incorso in molti fallimenti", e aggiungerà:  "Credo di dire tutto questo senza amarezza". E ancora annotava:  "Quanto è stata triste e solitaria la mia vita da quando sono diventato cattolico (...), da quando ho fatto il grande sacrificio al quale Dio mi chiamava. Egli mi ha compensato in mille modi, e tanto largamente. Ma ha segnato il mio cammino di mortificazioni quasi ininterrotte. La sua volontà benedetta non mi ha accordato molto successo nella vita. Da quando sono cattolico mi sembra di non aver avuto che degli insuccessi personali".

E aggiungeva nel gennaio del 1863 - Newman aveva 62 anni -:  "Non mi stupisco delle prove, che sono il nostro retaggio quaggiù; ciò che mi amareggia è che, per quanto possa vedere, ho fatto così poco, in mezzo a tutte queste mie prove. La mia vita è stata triste perché, se guardo indietro, essa è stata un gran fallimento". Nel 1867, riconoscendo il lungo tempo in cui il Signore lo aveva abbandonato alla dimenticanza e alla calunnia, annotava:  "Mi metterò sotto l'immagine del patriarca Giobbe, senza la pretesa di paragonarmi a lui", ma aggiungeva, sentendosi distaccato da tutto:  "Ora sono in uno stato di quiete.

Niente di quello che mi è capitato impedisce la mia gioia interiore, o piuttosto queste vicissitudini esteriori vi hanno magnificamente contribuito"; e due anni dopo riconosceva:  "La Provvidenza di Dio è stata mirabile verso di me attraverso tutta la mia vita".

La santità di Newman è maturata in modo particolare per la fede, la speranza e la carità con cui egli ha saputo a lungo e pazientemente accogliere questa forma di croce, tanto più dolorosa quanto più viva era la sensibilità del suo animo e il suo amore per la verità e la giustizia.

Ma non solo leggendo il suo Diario, noi possiamo avvertire la sua passione per la santità:  tutti i suoi scritti, anche quelli più teoretici, rivelano con trasparenza questo anelito. Pensiamo ai suoi pacati e tersi Sermoni Parrocchiali - in cui si ritrova tutto il suo ininterrotto ascolto della Parola di Dio -, alle composizioni liriche, in cui si fondono santità e poesia, alle Meditazioni e Preghiere, e a quegli avvincenti profili dei Padri, la cui compagnia lo affascinava.

Bremond osserva che Newman sceglieva i Padri anzitutto come amici:  amici santi, così che le ore dedicate ad essi fossero "una specie di preghiera". E lo si avverte subito:  l'intimità con Basilio, Gregorio di Nazianzo, Crisostomo, Agostino, e altri ancora, erano una scuola concreta e intensa di santità, ed effettivamente concorrevano a crearla in chi ne ricostruiva le peripezie e ne condivideva la vita interiore. Diceva sempre Bremond:  "Chi non ama la santità, non ama i santi".
Newman mostra di amare sia i santi sia la santità.


(©L'Osservatore Romano - 13-14 settembre 2010)

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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17/09/2010 10:35
 
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Per una sintesi del pensiero del nuovo beato

La verità
non è un'opinione


di Edoardo Aldo Cerrato

La beatificazione di John Henry Newman certifica che egli ha vissuto da vero discepolo di Cristo, lui che alla domanda rivoltagli da un bambino - "Chi è più grande:  un cardinale o un santo?" - aveva risposto:  "Vedi, piccolo mio, un cardinale appartiene alla terra:  è terrestre; un santo appartiene al cielo, è celeste". Ma mette in evidenza anche - è elemento fondamentale della vita di Newman - l'uomo che per tutta la vita ha cercato la verità con una onestà intellettuale e una capacità di tener conto di tutti i fattori che lo hanno reso un precursore di molte scoperte divenute patrimonio comune della Chiesa.

Il pensiero newmaniano non è facile da sintetizzare in un sistema unitario:  Newman è un profondo pensatore, una personalità intellettualmente poliedrica che, anche negli scritti apparentemente più teorici, si è lasciata guidare da avvenimenti interiori ed esterni, come ha messo in evidenza Roderick Strange nel suo recente John Henry Newman. Una biografia spirituale:  "fu sempre più interessato alla realtà che alla teoria. Si occupava di ciò che veramente accadeva".
 
Se da sempre il pensiero di Newman ha suscitato interesse per la ricchezza, oggi esercita un fascino particolare anche per la sua attualità.
Tra gli innumerevoli elementi che giustamente dovrebbero essere sottolineati ne scegliamo uno, che ci pare, tra l'altro, sotteso a tutti:  quello che Newman stesso volle porre al centro del "discorso del biglietto" - per la nomina a cardinale - da lui pronunciato il 12 maggio 1879 a Palazzo della Pigna a Roma e riportato integralmente due giorni dopo sulla prima pagina de "L'Osservatore Romano":  "Per trenta, quaranta, cinquant'anni ho cercato di contrastare con tutte le mie forze lo spirito del liberalismo nella religione.

Mai la santa Chiesa ha avuto maggiore necessità di qualcuno che vi si opponesse più di oggi, quando, ahimé! si tratta ormai di un errore che si estende come trappola mortale su tutta la terra; e nella presente occasione, così grande per me, quando è naturale che io estenda lo sguardo a tutto il mondo, alla santa Chiesa e al suo futuro, non sarà spero ritenuto inopportuno che io rinnovi quella condanna che già così spesso ho pronunciato.

 Il liberalismo in campo religioso è la dottrina secondo cui non c'è alcuna verità positiva nella religione, ma un credo vale quanto un altro, e questa è una convinzione che ogni giorno acquista più credito e forza. È contro qualunque riconoscimento di una religione come vera. Insegna che tutte devono essere tollerate, perché per tutte si tratta di una questione di opinioni. La religione rivelata non è una verità, ma un sentimento e una preferenza personale; non un fatto oggettivo o miracoloso; ed è un diritto di ciascun individuo farle dire tutto ciò che più colpisce la sua fantasia. La devozione non si fonda necessariamente sulla fede. Si possono frequentare le Chiese protestanti e le Chiese cattoliche, sedere alla mensa di entrambe e non appartenere a nessuna. Si può fraternizzare e avere pensieri e sentimenti spirituali in comune, senza nemmeno porsi il problema di una comune dottrina o sentirne l'esigenza. Poiché dunque la religione è una caratteristica così personale e una proprietà così privata, si deve assolutamente ignorarla nei rapporti tra le persone. Se anche uno cambiasse religione ogni mattina, a te che cosa dovrebbe importare?".

Al Simposio organizzato dal Centro degli Amici di Newman nel 1990 per il primo centenario della morte del fondatore dell'Oratorio inglese, il cardinale Joseph Ratzinger affermava:  "Tutta la vita di Newman fu il superamento della posizione del soggettivismo evangelico, in favore d'una concezione del cristianesimo fondata sull'oggettività del dogma.

A questo proposito trovo sempre grandemente significativa, ma particolarmente oggi, una formulazione tratta da una delle sue prediche dell'epoca anglicana. Il vero cristianesimo si dimostra nell'obbedienza, e non in uno stato di coscienza. Così tutto il compito e il lavoro di un cristiano si organizza attorno a questi due elementi:  la fede e l'obbedienza; "egli guarda a Gesù" (Ebrei, 2, 9) e agisce secondo la sua volontà. Mi sembra che oggi corriamo il pericolo di non dare il peso che dovremmo a nessuno dei due. Consideriamo qualsiasi vera e accurata riflessione sul contenuto della fede come sterile ortodossia, come astruseria tecnica. Di conseguenza facciamo consistere il criterio della nostra pietà nel possesso di una cosiddetta disposizione d'animo spirituale". E continuò sottolineando il legame tra verità e coscienza personale:  "Newman insegnava che la coscienza doveva essere nutrita come "un modo di obbedienza alla verità oggettiva"" ("Euntes Docete. Commentaria Urbaniana", Roma, xliii/1990/3, pp. 431-436).

Newman testimonia con la sua vita intera la centralità che in lui occupa questa convinzione e quanto disastrose egli ritenesse le conseguenze del mancato riconoscimento della religione rivelata come vera, oggettiva, del considerarla qualcosa di privato da cui scegliere per sé quel che pare:  viene alla mente, pensando a tali conseguenze, ciò che ancora alla vigilia della sua elezione al pontificato, nella messa pro eligendo Pontifice, disse il cardinale Ratzinger:  una barca scossa dalle onde create da correnti ideologiche, "dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all'individualismo radicale; dall'ateismo a un vago misticismo religioso; dall'agnosticismo al sincretismo e così via. (...) Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie".

Tutto il cammino di Newman testimonia che la via della coscienza non è chiusura nel proprio "Io", ma è apertura, conversione, obbedienza a Colui che è l'amore e la verità:  tra coscienza e verità c'è un legame intrinseco, e la dignità della coscienza non comporta il minimo cedimento all'arbitrarietà o al relativismo. E testimonia che la ragione - lo diciamo con le parole di Fortunato Morrone nella relazione al convegno "John Henry Newman oggi, lògos e dialogo" dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano (2009) - "colta nella concretezza dell'esperienza umana dei singoli, fatta di relazioni, di immaginazione, di sentimenti, di puntuali e limitate contingenze storiche (...) possiede una sua dinamica che tende inevitabilmente alla verità".

"Ex umbra et imaginibus ad veritatem". "Cor ad cor loquitur". Nelle parole dettate da Newman per l'epigrafe della sua tomba e in quelle da lui scelte come motto per lo stemma cardinalizio, c'è davvero la potente sintesi di un immenso patrimonio di pensiero e di convinzioni.


(©L'Osservatore Romano - 17 settembre 2010)
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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18/09/2010 17:45
 
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Nello specchio del Cardinale

Intervista sul Beato Newman.
Parla la scrittrice Cristina Siccardi
di Giuliano Guzzo

Far rivivere sulle pagine di un libro personaggi del passato richiede pazienti lavori d’archivio, ricerche e talento. Tutte qualità che alla torinese Cristina Siccardi, classe 1966, non mancano affatto; così, dopo essersi occupata delle donne di casa Savoia e di Paolo VI, si è imbattuta, attratta dal campo religioso, nel ritratto del Cardinale John Henry Newman (“Nello specchio del Cardinale John Henry Newman”, Fede & Cultura, pp. 205) , indubbiamente una delle figure più affascinanti della storia della Chiesa.

Basti dire che, nel corso della sua vita, da posizioni anglicane, che lo convinsero che il Papa fosse nientemeno che l'Anticristo – tesi che ribadì pure in pubblico - non solo si convertì al cattolicesimo, ma fondò il primo Oratorio di San Filippo Neri in Inghilterra, fu per quattro anni Rettore dell'Università Cattolica di Dublino per poi, dulcis in fundo, esser fatto Cardinale da Papa Leone XIII, che gli riconobbe "genio e dottrina". Una vita straordinaria, insomma. Che si interruppe serenamente l’11 Agosto 1890, quando il Cardinale, ormai ottantanovenne e consapevole, condotta la buona battaglia, di esser giunto alla fine della sua corsa, si spense. Sulla sua tomba, a memoria della sua incredibile avventura spirituale, è scolpito un epitaffio da lui stesso voluto: « Ex umbris et imaginibus in veritatem » ,«Dall'ombra e dai simboli alla verità». Il giorno successivo alla sua morte, il londinese Times pubblicò un elogio funebre che si concludeva con una piccola profezia:”il santo che è in sui sopravvivrà”.

Ci ha lasciato un’Opera omnia imponente, un epistolario di oltre diecimila lettere e, soprattutto, la testimonianza di chi ha vissuto nella convinzione che sia la santità «il grande fine». Così, dopo averlo reso venerabile nel gennaio del ’91, la Chiesa si prepara, il prossimo 19 settembre, a beatificarlo. Non c’era davvero momento migliore, dunque, per incontrare l’autrice di una biografia, peraltro fresca di stampa e redatta sulla base di una robusta bibliografia, del celebre Cardinale.

Dottoressa Siccardi, che cosa l’ha spinta ad accostarsi alla figura del convertito e “dottore” della Chiesa, il Cardinale John Henry Newman? Com’è nata la sua curiosità verso questo straordinario cristiano?

Da sempre ho visto nel grande convertito inglese una delle immagini più plastiche della irrinunciabilità della Fede e dei dogmi cattolici. Quando ho notato che, in prossimità della beatificazione, stava uscendo un florilegio di biografie che, invece, avevano il preciso scopo di descriverlo, nella linea Tyrrell-Buonaiuti, come un antesignano del modernismo e del relativismo, ho sentito il dovere etico di cercare di ribadire la verità storica, poiché questa stessa beatificazione è un segnale forte di riaffermazione, da parte della Chiesa, del suo monopolio della Verità.

Newman, a ben vedere, fu un caso di “pluri-convertito”: da piccolo era, come lui stesso ebbe a definirsi, “molto superstizioso”, poi divenne calvinista, anglicano e infine cattolico. Come si spiega questa continua metamorfosi?

Questo cammino spirituale è, potremmo dire, la logica conseguenza della ricerca di Dio e della Verità, ricerca che fu, per tutta la sua vita, l’essenza della sua spiritualità. Newman ebbe sempre chiarissimo il principio cattolico che la Verità non può contraddire la ragione e che, quindi, la vera Fede può essere spiegata e, soprattutto, capita. Si pensi, a questo riguardo alla splendida lectio magistralis di Benedetto XVI a Ratisbona. Newman fu educato dalla madre nel credo calvinista e la superstizione lo accompagnò in questa Fede, almeno fino a quando, soprattutto per merito dell’incontro con il pastore Walter Mayers, purificò l’etica evangelica, in quanto ad essa non contraria: il Calvinismo elimina dalla religione l’aspetto razionale a favore di un’eticizzazione neofarisaica del Credo: il ripetere delle azioni per il fatto che sono comandate, indipendentemente dalla loro razionalità aiuta ad essere schiavi della superstizione. Non appena il futuro Cardinale iniziò a sottoporre a critica razionale la sua Fede, critica razionale cui sottoporrà tutta la vita ogni suo credo, si rese pressoché immediatamente conto della insostenibilità della dottrina del riformatore ginevrino. Ecco che la sua sete di razionalità lo portò alla Chiesa alta d’Inghilterra, vale a dire all’adesione a tutti i dogmi cattolici, sia pure in un contesto scismatico ed in una cornice di sentimenti ostili a Roma ed al Papa. Ancora una volta, però, è la sottoposizione ad analisi razionale dell’Anglicanesimo che lo conduce alla pienezza della verità cattolica. La razionalità gli impone il principio dell’immutabilità della Fede: se Dio ha rivelato la religione, essa è eternamente vera, come eternamente vero è Dio. Ogni evoluzione, mutamento o nuova interpretazione della dottrina è, dunque, dimostrazione di falsità della medesima. In base a questo principio Newman inizia a studiare i Padri della Chiesa, sicuro di ritrovare in loro la stessa Fede e validi motivi per permanere nella sua ostilità antiromana. Ma i Padri della Chiesa, come tutta la storia della Chiesa, testimoniano che solo la cattolicità romana, con tutte le sue pretese, primato petrino incluso, è rimasta immutata dalle origini ad oggi. Diviene, pertanto, esigenza etica imprescindibile l’adesione alla Sposa di Cristo. Quando Newman afferma che la sua spiritualità non è mai mutata, nonostante le conversioni, intende dire che da sempre lo guidò unicamente la sete di Verità e che tale sete si è placata solo con l’adesione alla vera Fede.

Di tutti i numerosi personaggi incontrati nella vita e negli studi, quale fu, secondo lei, la figura che esercitò maggior influenza su Newman? il compagno di studi John William Bowden? Il confidente Ambrose St. John, il grande amico Hurrell Froude oppure Papa Gregorio XVI?

Newman fu sempre profondamente grato alle persone e ai tanti amici che conobbe e frequentò, perché da ciascuno di loro seppe trarre insegnamenti ed ammaestramenti. Tuttavia nessuno ebbe su di lui un’influenza totalizzante: rifuggì sempre l’eccessiva adesione all’altrui pensiero, come una vera e propria idolatria. Ecco che anche gli influssi che altri esercitarono su di lui divennero, nella sua mente e nella sua anima, pensieri e sentimenti assolutamente suoi, di cui è riconoscibile l’origine, ma è ancor più evidente la trasformazione e l’inserimento in un sistema di pensiero ed in una spiritualità armonici. Tutto ciò premesso possiamo ritenere che ci siano state delle persone da cui Newman trasse di più, sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo. Il pastore evangelico della Chiesa d’Inghilterra Walter Mayers, ad esempio, insegnò al giovane Newman a coltivare la serietà religiosa, senza indulgere a facili concessioni al mondo: fu il passaggio da un Calvinismo superstizioso ad una interiorizzazione, sia pur non ancora razionale, dell’etica evangelica. Inoltre il ventunenne Newman imparò dal professor Richard Whately di Oxford ad utilizzare l’autonomia di pensiero. Confesserà nell’ Apologia pro vita sua: «Nel 1822, quando ero ancora timido e impacciato, egli mi prese per mano e si assunse nei miei riguardi la parte del maestro gentile e incoraggiante. Mi aprì, per così dire, la mente, mi insegnò a pensare, ad usare la ragione […] mi aveva insegnato a vedere con i miei occhi e a camminare con le mie gambe. Non che non avessi ancora da imparare molte cose da altre persone, ma queste le influenzai anch’io quanto loro influenzarono me, e fu una cooperazione piuttosto che un semplice incontro». Stima e profonda amicizia stabilì con Hurrell Froude, il quale gli diede la spinta decisiva ad innescare quel processo razionale che lo condurrà ad abbracciare il Cattolicesimo. Fu il tirare le estreme conseguenze dall’Anglicanesimo rigido del Tract 90: dalla liberazione dalle scorie evangeliche della Chiesa alta d’Inghilterra non poteva che conseguire la sua confluenza nel Cattolicesimo, alveo naturale per tutti coloro che hanno un Cristianesimo razionale. Delle altre persone citate nella sua cortese domanda nessuna ebbe particolare influenza sul pensiero e la spiritualità di Newman. Un cenno merita la concordanza antiliberale e antimodernista di Newman con Gregorio XVI (si pensi all’enciclica Mirari vos ed al Biglietto Speech del Cardinale inglese); ma fu una concordanza cui l’oratoriano giunse autonomamente.

In una lettera del 1830 il futuro Cardinale confessò il suo desiderio “di non fare mai carriera nella Chiesa”, ma l’Onnipotente, almeno su questo, non lo accontentò. Ed oggi è pure Beato. Ma come seppe fronteggiare, lui che sin da ragazzo era estremamente riservato e talora pure irriso per questo, l’impegno della carriera ecclesiastica?

Newman non svolse nessun ruolo nella gerarchia ecclesiastica, fatto salvo, ovviamente, il suo impegno sacerdotale e l’organizzazione del primo oratorio inglese. Fu creato Cardinale, che lo ricordiamo, non è una funzione ed un grado all’interno della gerarchia, ma un titolo ed un riconoscimento, tanto è vero che prima della riforma di Giovanni XXIII per divenirlo non era necessario essere nemmeno sacerdoti e tantomeno vescovi: e Newman non fu Vescovo.

Impressiona molto leggere di come, nonostante l’isolamento anche universitario che gli procurò la sua conversione al Cattolicesimo, Newman non sia mai indietreggiato di un millimetro dalle sue posizioni. Anzi, attaccò frontalmente l’Anglicanesimo, credo che definì, con parole assai pesanti, “infelice e penoso”. Non andò meglio al Protestantesimo, che definì “nel migliore dei casi […] una bella statua di cera”. Questo spirito da apologeta maturò in lui tardivamente oppure gli apparteneva già prima?

L’assoluta e totale intolleranza per qualunque dottrina si distanzi, anche minimamente, dalla Verità, fu sempre la faccia militante ed apologetica dell’amore per la Verità di Newman, in ogni fase della sua vita. Parole di fuoco ebbe, da anglicano, contro il Protestantesimo, tanto da sognare una Chiesa d’Inghilterra liberata dalle tossine della Chiesa Bassa e, di fatto, cattolica. Si può quasi affermare che, non essendo riuscito a far confluire tutto l’Anglicanesimo nella Cattolicità, si arrese a convertirsi da solo, anche se fu, poi, seguito da molti discepoli.

Tra i numerosissimi ammiratori di Newman ci fu anche Francesco Cossiga, da poco scomparso. Il presidente emerito, in un articolo scritto per la rivista "Vita e Pensiero”, riprese un intervento del Cardinale nel quale il futuro Beato ebbe a sostenere che vi sarebbero dei casi “nei quali la coscienza può entrare in conflitto con la parola del Papa e che, nonostante questa parola, debba essere seguita”. Letta così, si direbbe una legittimazione dei “cattolici-adulti”, non crede?

L’affermazione che la coscienza è il supremo tribunale dell’individuo è corretta solo se interpretata nella sua lettura tomista, vale a dire solo se la coscienza non è corrotta, anche ex ante, da colpevoli pregiudiziali. La persona ha il dovere morale di aderire alla Verità e di formare la propria coscienza alla luce di questa. Una coscienza formata alla luce della Verità diviene, almeno nel lungo periodo, pressoché infallibile, perché la Verità la plasma e la abitua a non lasciarsi sedurre dal mondo. Ecco che è vero che la coscienza così formata deve guidare la persona più delle stesse parole del Papa, perché essa porta alla Verità. Si pensi, ad esempio, alla strenua battaglia di sant’Atanasio contro le influenze ariane tollerate, quando non favorite dal Pontefice. Egli, per Cristo e la Verità, patì persino la scomunica. Se si vuole un esempio più recente si pensi alla strenua difesa della Verità cattolica di Monsignor Marcel Lefebvre, che con il grande santo del IV secolo, condivise zelo, determinazione e dedizione assoluta del dogma. Ogni legittimazione dei cattolici adulti in base al principio dell’ossequio ai dettami della propria coscienza è viziata ab origine dall’accettazione delle influenze mondane contro il dogma e la Tradizione. Dogma e Tradizione sono sinonimi, come molto bene ha espresso san Vincenzo di Lérins quando ha definito il primo come ciò che tutti, sempre e dovunque hanno creduto nella Chiesa. In conclusione, si può affermare che la coscienza rettamente formata può essere invocata solo dai difensori della Verità di sempre e mai dai novatori, cui ben si addicono le parole di san Paolo: «Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole» (2Tim 4, 3-4).

A parer suo qual è l’elemento oggi più attuale del pensiero di Newman?

L’attualità di Newman è la sua inattualità, vale a dire la capacità, che egli condivide con ogni cattolico di essere eternamente attuale ed eternamente fuori tempo, perché legato indissolubilmente alla Verità eterna e, quindi, irrimediabilmente nemico di ogni adeguamento ai tempi, che, in fondo, non è altro che resa al Principe di questo mondo. Tanto come dire che la persona pervasa dalla Verità trasuda eternità.

A proposito, com’è possibile che un convertito di razza, per giunta stimatissimo anche da Benedetto XVI, sia stato talora additato come una sorta di precursore del modernismo e di propiziatore della nouvelle theologie?

«Datemi una frase e vi condannerò un uomo» recita un antico adagio popolare. È esattamente ciò che hanno fatto, a partire da Tyrrell e Buonaiuti, tutti i modernisti, nouvelles theoligistes compresi, nei confronti di Newman. Prendendo alcune frasi, soprattutto della Grammatica dell’assenso, ed estrapolandole dal contesto e, soprattutto, non applicando quell’altro splendido proverbio che dovrebbe guidare l’esegesi di ogni testo, vale a dire «prendete le parole dalla bocca da cui vengono», hanno attribuito a Newman una lettura soggettivistica della gnoseologia, dimenticando che egli dava per scontata l’oggettività del reale e si concentrava sulla capacità del soggetto di adeguarsi all’oggetto. Hanno scambiato un’introiezione e spiritualizzazione, quasi ascetica, del già conosciuto come lo strumento stesso del conoscere. Tyrrell, ad esempio, era convinto di trovare nelle dottrine sul «senso illativo» della Fede del Cardinale Newman l’anello di congiunzione tra il Cattolicesimo e il pensiero moderno, fraintendendo il concetto di evoluzione del dogma del grande convertito inglese dell’Ottocento, che era sempre il cattolico sviluppo endogeno del dogma, vale a dire la possibilità e capacità della Chiesa di dire in modo sempre nuovo e più ricco ciò che ha sempre detto e solo quello: nove et non nova. Newman si è scagliato contro l’antidogmatismo protestante già quando era anglicano, potremmo dire, almeno in parte, già quando subiva le suggestioni calviniste della Chiesa Bassa d’Inghilterra. Attribuirgli queste posizioni, da cattolico, è ribaltare completamente il suo pensiero. Spesso il Cardinale inglese viene usato dagli assertori dell’ ecumenismo come un anticipatore dei temi a loro congeniali, affermando che è un precursore della comunione fra i diversi cristiani, ma Newman non ebbe mai a porsi di fronte ad un inverosimile ecumenismo delle religioni, lo avrebbe visto come una pericolosa teoria sincretista: la Chiesa di Cristo è unicamente quella romana e cattolica e l’obbedienza è la prova della Fede. L’ortodossia di Newman fu del resto difesa dallo stesso san Pio X nella lettera al Vescovo di Limerick del 10 marzo 1908.

Passiamo al gossip storico. Maligni internauti insinuano, sottolineando la sua lunga convivenza col già citato Ambrose St. John, da lei definito “grande amico d’anima” (p.40) del Cardinale, che Newman fosse gay. Scomoda verità o bufala?

Ella ha, giustamente, ascritto questa questione al genus del pettegolezzo; e, per questa ragione, in sede di biografia storica abbiamo deciso di non occuparcene, ma, in sede giornalistica ella ha fatto molto bene a sollevare la questione, perché mi permette di spiegare la genesi di questa vera e propria calunnia, scientificamente diffusa. Le lobbies omosessuali, in cerca di legittimazione nel mondo cattolico, appoggiate, purtroppo, anche dai loro amici all’interno della Chiesa, hanno diffuso questa calunnia, che trova facile terreno di coltura in una sedicente civiltà che, riducendo tutto a materia e l’uomo a corpo, quasi freudianamente a sesso, non comprende più che cosa sia un’amicizia d’anima. Per questi moralisti di Satana, non può esistere un rapporto unicamente spirituale, una comunione tra due anime, che si sorreggono reciprocamente nel duro cammino ascetico per giungere a Dio. Possiamo immaginare che cosa le loro blasfeme menti penserebbero, se si dovessero soffermare sul rapporto fra santa Scolastica e san Benedetto, su quello fra san Francesco e santa Chiara, su quello fra santa Teresa d’Avila e san Giovanni della Croce o su quello fra san Francesco di Sales e santa Giovanna di Chantal, per citare solo alcuni esempi di amicizia d’anima. Si tratta dell’espressione più mefistofelicamente perversa del vizio, siamo al vizioso che fa il moralista, al fine di giustificare il proprio vizio.

Se Newman vedesse i giovani d’oggi, così sovente sconfortati ma al tempo stesso incapaci di accostarsi alla Fede e di ammettere la loro nostalgia d’infinito, secondo Lei che farebbe?

Esattamente ciò che fece allora: affermare con assoluta, totale e rigidissima nettezza la Verità dogmatica, da cui discende, tramite la retta ragione, la morale. Solo la contemplazione di Dio e la sequela di Nostro Signore Gesù Cristo, anche nel comportamento, possono eliminare il tedio della vita e dare, a tutte le età, la gioia dell’Infinito.

Per concludere, un parere personale: che cosa ha imparato scrivendo questo libro? Anche lei deve un ringraziamento al venerabile Cardinale?

Ciò che mi è risultato molto più chiaro e, soprattutto, ha acquisito un sapore particolare, una sua fragranza spirituale è la strumentalità della ragione e, quindi, della teologia, alla Fede. Studiando il Cardinale Newman, si vede come questo principio non abbia solo una valenza negativa, ma, soprattutto, ne abbia una positiva. Non è solo vero che, staccando la ragione dalla Fede ed orientandola contro di essa, si uccide la stessa ragione; tale principio mi è sempre stato chiaro e gli esempi di molti pensatori, soprattutto contemporanei (si pensi a Kant, Voltaire, Marx, Freud…), stanno lì statuariamente a dimostrarlo. Ma, con il santo oratoriano inglese, si può valutare quanto la ragione possa, con la sua azione incessante, sostenuta dalla volontà, implorare la Fede a Dio; come il lavoro intellettuale possa assurgere al rango di preghiera e possa, con la sua fatica ed il suo dolore, muovere Dio a compassione ed indurLo a concederci il dono della vera Fede… È questo il motivo di maggiore gratitudine che conservo per questo grande santo, dopo, ovviamente, la riconoscenza che mi unisce a tutta la Chiesa per il gran numero di conversioni dallo scisma da lui prodotte ed agevolate


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Il Papa a Hyde Park smonta la leggenda di un Newman progressista


Da decenni è in corso una battaglia di 'appropriazione' della figura di John Henry Newman; battaglia destinata ad acuirsi, ora che il teologo e cardinale inglese viene assurto all'onore degli altari. Per anni i progressisti hanno tentato di farne 'uno di loro': egli sarebbe stato, manco a dirlo, un precursore del Concilio Vaticano II, un alfiere della libertà di coscienza e del senso critico nella Chiesa, un ecumenista che costruì ponti tra diverse confessioni (l'anglicana e la cattolica). Si cita, a questo proposito, la sua frase che, se avesse dovuto levare un brindisi, l'avrebbe dedicato prima alla sua coscienza, e solo dopo al Papa.

Perfino l'Osservatore romano, in un articolo che pubblicammo e commentammo (
inorridite qui) arrivò a definire il nuovo beato niente meno che "Dottore del Concilio e della Chiesa postconciliare". E giovedì scorso, di mattina, a Radio Maria un tronfio conduttore pontificava proclamando il card. Newman un "cattolico liberale" che avrebbe aperto la strada alle conquiste del Concilio.

Newman fu tutt'altro. Figuriamoci, ad esempio, quanto potesse essere ecumenico chi aveva ripudiato e abiurato la propria precedente religione, della quale era pastore, per aderire al cattolicesimo. Ma soprattutto, basta leggere il cosiddetto "discorso del biglietto" (pronunziato quando gli fu cominicata la nomina a cardinale) per rendersi conto: lo riportiamo in fondo al
post
. E adesso anche il Papa, con tutta la sua autorità, ha preso posizione per riportare il card. Newman nel suo vero alveo, lontanissimo dallo "spirito posconciliare" e da ogni visione positiva del pluralismo religioso. Ecco dunque le parole del Papa ieri sera ad Hyde Park (e segnaliamo anche l'ispirato paragone tra i martiri inglesi ed il martirio che oggi subisce chi viene irriso e discriminato, perché mantiene intatta la fede in Cristo):

le parole del Papa



[..] Alla fine della vita, Newman avrebbe descritto il proprio lavoro come una lotta contro la tendenza crescente a considerare la religione come un fatto puramente privato e soggettivo, una questione di opinione personale. Qui vi è la prima lezione che possiamo apprendere dalla sua vita: ai nostri giorni, quando un relativismo intellettuale e morale minaccia di fiaccare i fondamenti stessi della nostra società, Newman ci rammenta che, quali uomini e donne creati ad immagine e somiglianza di Dio, siamo stati creati per conoscere la verità, per trovare in essa la nostra definitiva libertà e l’adempimento delle più profonde aspirazioni umane. In una parola, siamo stati pensati per conoscere Cristo, che è Lui stesso “la via, la verità e la vita” (Gv 14,6).

L’esistenza di Newman, inoltre, ci insegna che la passione per la verità, per l’onestà intellettuale e per la conversione genuina comportano un grande prezzo da pagare. La verità che ci rende liberi non può essere trattenuta per noi stessi; esige la testimonianza, ha bisogno di essere udita, ed in fondo la sua potenza di convincere viene da essa stessa e non dall’umana eloquenza o dai ragionamenti nei quali può essere adagiata. Non lontano da qui, a Tyburn, un gran numero di nostri fratelli e sorelle morirono per la fede; la testimonianza della loro fedeltà sino alla fine fu ben più potente delle parole ispirate che molti di loro dissero prima di abbandonare ogni cosa al Signore. Nella nostra epoca, il prezzo da pagare per la fedeltà al Vangelo non è tanto quello di essere impiccati, affogati e squartati, ma spesso implica l’essere additati come irrilevanti, ridicolizzati o fatti segno di parodia. E tuttavia la Chiesa non si può esimere dal dovere di proclamare Cristo e il suo Vangelo quale verità salvifica, la sorgente della nostra felicità ultima come individui, e quale fondamento di una società giusta e umana. [..]
Benedetto XVI PP

***
Dal "biglietto speech" di J.H. Newman (trad. Osservatore romano 9.4.10):

[..]Per trenta, quaranta, cinquant’anni ho cercato di contrastare con tutte le mie forze lo spirito del liberalismo nella religione. Mai la santa Chiesa ha avuto maggiore necessità di qualcuno che vi si opponesse più di oggi, quando, ahimé! si tratta ormai di un errore che si estende come trappola mortale su tutta la terra; e nella presente occasione, così grande per me, quando è naturale che io estenda lo sguardo a tutto il mondo, alla santa Chiesa e al suo futuro, non sarà spero ritenuto inopportuno che io rinnovi quella condanna che già così spesso ho pronunciato.

Il liberalismo in campo religioso è la dottrina secondo cui non c’è alcuna verità positiva nella religione, ma un credo vale quanto un altro, e questa è una convinzione che ogni giorno acquista più credito e forza. È contro qualunque riconoscimento di una religione come vera. Insegna che tutte devono essere tollerate, perché per tutte si tratta di una questione di opinioni. La religione rivelata non è una verità, ma un sentimento e una preferenza personale; non un fatto oggettivo o miracoloso; ed è un diritto di ciascun individuo farle dire tutto ciò che più colpisce la sua fantasia. La devozione non si fonda necessariamente sulla fede. Si possono frequentare le Chiese protestanti e le Chiese cattoliche, sedere alla mensa di entrambe e non appartenere a nessuna. Si può fraternizzare e avere pensieri e sentimenti spirituali in comune, senza nemmeno porsi il problema di una comune dottrina o sentirne l’esigenza. Poiché dunque la religione è una caratteristica così personale e una proprietà così privata, si deve assolutamente ignorarla nei rapporti tra le persone. Se anche uno cambiasse religione ogni mattina, a te che cosa dovrebbe importare? Indagare sulla religione di un altro non è meno indiscreto che indagare sulle sue risorse economiche o sulla sua vita familiare. La religione non è affatto un collante della società.

Finora il potere civile è stato cristiano. Anche in Nazioni separate dalla Chiesa, come nella mia, quand’ero giovane valeva ancora il detto: “Il cristianesimo è la legge del Paese”. Ora questa struttura civile della società, che è stata creazione del cristianesimo, sta rigettando il cristianesimo. Il detto, e tanti altri che ne conseguivano, è scomparso o sta scomparendo, e per la fine del secolo, se Dio non interviene, sarà del tutto dimenticato. Finora si pensava che bastasse la religione con le sue sanzioni soprannaturali ad assicurare alla nostra popolazione la legge e l’ordine; ora filosofi e politici tendono a risolvere questo problema senza l’aiuto del cristianesimo.

Al posto dell’autorità e dell’insegnamento della Chiesa, essi sostengono innanzitutto un’educazione totalmente secolarizzata, intesa a far capire ad ogni individuo che essere ordinato, laborioso e sobrio torna a suo personale vantaggio. Poi si forniscono i grandi principi che devono sostituire la religione e che le masse così educate dovrebbero seguire, le verità etiche fondamentali nel loro senso più ampio, la giustizia, la benevolenza, l’onestà, ecc.; l’esperienza acquisita; e quelle leggi naturali che esistono e agiscono spontaneamente nella società e nelle cose sociali, sia fisiche che psicologiche, ad esempio, nel governo, nel commercio, nella finanza, nel campo sanitario e nei rapporti tra le Nazioni. Quanto alla religione, essa è un lusso privato, che uno può permettersi, se vuole, ma che ovviamente deve pagare, e che non può né imporre agli altri né infastidirli praticandola lui stesso.

Le caratteristiche generali di questa grande apostasia sono identiche dovunque; ma nei particolari variano a seconda dei Paesi. Parlerò del mio Paese perché lo conosco meglio. Temo che essa avrà qui un grande seguito, anche se non si può immaginare come finirà. A prima vista si potrebbe pensare che gli Inglesi siano troppo religiosi per un modo di pensare che nel resto del continente europeo appare fondato sull’ateismo; ma la nostra disgrazia è che, nonostante, come altrove, conduca all’ateismo, qui esso non nasce necessariamente dall’ateismo.

Occorre ricordare che le sette religiose, comparse in Inghilterra tre secoli fa e oggi così forti, si sono ferocemente opposte all’unione della Chiesa e dello Stato e vorrebbero la scristianizzazione della monarchia e di tutto il suo apparato, sostenendo che tale catastrofe renderebbe il cristianesimo più puro e più forte. Il principio del liberalismo, poi, ci è imposto dalle circostanze stesse. Consideriamo le conseguenze di tutte queste sette. Con tutta probabilità esse rappresentano la religione della metà della popolazione; e non dimentichiamo che il nostro governo è una democrazia. È come se, in una dozzina di persone prese a caso per la strada e che certamente hanno la loro quota di potere, si trovassero fino a sette religioni diverse. Ora come possono trovare unanimità di azione in campo locale o nazionale quando ciascuna si batte per il riconoscimento della propria denominazione religiosa?

Ogni decisione sarebbe bloccata, a meno che l’argomento religione non venga del tutto ignorato. Non c’è altro da fare. E in terzo luogo, non dimentichiamo che nel pensiero liberale c’è molto di buono e di vero; basta citare, ad esempio, i principi di giustizia, onestà, sobrietà, autocontrollo, benevolenza che, come ho già notato, sono tra i suoi principi più proclamati e costituiscono leggi naturali della società. È solo quando ci accorgiamo che questo bell’elenco di principi è inteso a mettere da parte e cancellare completamente la religione, che ci troviamo costretti a condannare il liberalismo. Invero, non c’è mai stato un piano del Nemico così abilmente architettato e con più grandi possibilità di riuscita. E, di fatto, esso sta ampiamente raggiungendo i suoi scopi, attirando nei propri ranghi moltissimi uomini capaci, seri ed onesti, anziani stimati, dotati di lunga esperienza, e giovani di belle speranze. [..]


Fraternamente CaterinaLD

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19/09/2010 21:22
 
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ATTENZIONE:

TESTI E FOTO DELLA MESSA PER LA BEATIFICAZIONE
DEL CARDINALE NEWMAN
LI TROVATE QUI:


Viaggio Apostolico di Benedetto XVI nel Regno Unito - 16/19 settembre 2010




 
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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John Henry Newman poeta

La freccia scintillante
che colpì Chesterton


di Enrico Reggiani


Tra i contemporanei di John Henry Newman, il poliedrico intellettuale londinese Walter Pater (1839-1894) elogiò la musicalità della sua scrittura accostandola a quella di Cicerone e la perfezione della sua elaborazione teorica ed espositiva. Sul versante novecentesco, invece, come testimonia lo scrittore svizzero Jacques Mercanton (1910-1996), il dublinese James Joyce (1882-1941) lo celebrò come "il più grande degli scrittori di prosa" e lo rievocò in un episodio dell'Ulisse (1922), attribuendogli il ruolo di "fulcro che sostiene tutto il resto".

Il successo della ricezione in Italia della sua prosa in traduzione - già, in traduzione, e questa non sempre accurata - conferma gli apprezzamenti dei prestigiosi esponenti della cultura europea di cui s'è appena detto. Infatti, come ricorda don Primo Mazzolari (1890-1959), le versioni italiane delle opere più significative della sua ciclopica produzione in prosa (siano esse riferibili alla sua attività omiletica, alla sua riflessione teologica, e così via) ebbero particolare diffusione e "notorietà polemica, ai primi del nostro [ventesimo] secolo, per colpa o merito del modernismo".

Fu, tuttavia, soprattutto la sua prosa narrativa che, fin dagli anni immediatamente successivi alla pubblicazione in lingua originale, trovò facile accesso e grande favore presso il pubblico dei lettori italiani:  il suo primo romanzo (Loss and Gain. The Story of a Convert, 1848) venne proposto già nel 1848 dall'editore milanese Natale Battezzati con il titolo Perdita e Guadagno ovvero storia di un convertito, nella traduzione di un non identificato A. S.; il secondo (Callista. A Sketch of the Third Century, 1855) attese probabilmente solo un anno dopo l'apparizione in lingua originale prima di manifestarsi nella traduzione italiana di Callista:  scene del terzo secolo, ancora sulla scena editoriale milanese per i tipi di Carlo Turati Tipografo-Editore (1856) e a cura del bolognese Marco Aurelio Zani de' Ferranti (1800-1878).

Non si può certo dire che analoga sorte critica sia toccata alla produzione poetica di colui che Gilbert Keith Chesterton (1874-1936) definì "freccia scintillante". Anche la presenza in Italia della poesia di Newman in traduzione è stata finora assai diseguale:  a differenza dell'ampio e pregevole Dream of Gerontius (1865) - sogno colto e ispirato di un'anima carica d'anni che sente vicina la morte, disponibile fin dai primi decenni del novecento ad esempio nella versione del salentino monsignor Gaetano Bacile (1844-1931) - il resto delle sue poesie ha goduto di una diffusione soltanto frammentaria e per lo più centrata sul celeberrimo The Pillar of the Cloud, altrimenti noto come Lead, Kindly Light (1833), variamente reso in italiano - tra gli altri - dal lucano don Giuseppe De Luca (1898-1962) come "Guidami, Luce Cortese" e dal veneziano Emilio Teza, linguista di fama mondiale e professore di letterature comparate (1831-1912), come "La Colonna della Nuvola".

Dunque, se questa è la situazione della presenza della poesia di Newman in Italia, particolarmente apprezzabile è, in concomitanza con le attuali celebrazioni newmaniane, l'apparizione di un volume dedicato, appunto, a Newman poeta e curato con competenza da Luca Obertello (Milano, Jaca Book, pagine 160, euro 18):  tale volume ripropone in edizione aggiornata un testo davvero pionieristico che lo stesso studioso aveva portato alle stampe nel 1967 per la padovana Liviana Editrice e che rappresentava il primo, coraggioso tentativo di proporre ai lettori italiani una scelta antologica tanto del pensiero del cardinale sulla poesia, quanto delle sue fatiche creative in quest'ambito letterario.
In questa nuova veste editoriale, inaugurata da un'introduzione ritoccata nelle sue linee essenziali, la parabola di Newman poeta si presenta in modo più ordinato dal punto di vista cronologico rispetto all'edizione precedente:  al giovanile Saggio sulla poesia (1828), seguono infatti sia un'Antologia poetica di testi brevi che spaziano dal 1826 al 1862, sia la traduzione integrale del Sogno di Geronzio (1865).

Spiace soltanto che la revisione di questo importante sforzo culturale di Obertello non l'abbia anche arricchito dei testi in lingua originale (un'edizione con testo a fronte sarebbe forse stata utile in svariati contesti formativi), emendato da alcune incertezze e incongruenze traduttive (relative, ad esempio nel Saggio, al rapporto tra plot, fable e fiction; alla resa del termine character; all'oscillazione sia tra critical e scientific, sia tra economy e harmony) e integrato qua e là con qualche, sparuto dato critico aggiuntivo che le moderne tecnologie rendono assai più bibliograficamente accessibile che in passato (su tutti, ancora nel Saggio, l'oggi agevole identificazione dell'autore di una celebre quartina di versi che Newman cita in nota:  tali versi, tratti dalla poesia All Saints' Day, vanno attribuiti a John Keble (1792-1866), uno dei maggiori esponenti dell'Oxford Movement e autore de The Christian Year. Thoughts in verse for the sundays and holidays throughout the year, pubblicato nel 1827 e definito dallo studioso Michael Wheeler "il più popolare volume di poesia del xix secolo").
 
Il volume curato da Obertello dimostra comunque in modo adeguato che la produzione poetica di Newman non è un frutto periferico e dilettantistico del suo genio, ma deriva in realtà da una specifica competenza del cardinale inglese, a lungo scandagliata dalla sua intelligenza, coltivata nelle profondità del suo animo ed esercitata dalla sua penna con ragguardevole coerenza e continuità:  la preziosa consuetudine di una vita, si potrebbe dire, che riemerge costantemente in innumerevoli luoghi e momenti del suo pensiero, della sua opera e della sua testimonianza. La poesia è pienamente inscritta nella cattedrale del "pensiero fortissimo" (come ebbe a definirlo Edmondo Berselli nel 2004, commentando un intervento dell'arcivescovo di Bologna Carlo Caffarra) del cardinale Newman. La imagination vi riveste un ruolo centrale:  "Il cuore è comunemente raggiunto, non mediante la ragione, ma mediante l'immaginazione, per mezzo di impressioni dirette, con la testimonianza di fatti ed eventi, con la storia, con descrizioni" (si legge inizialmente in Tamworth Reading Room, 1841; poi anche in Grammar of Assent, 1870).

Nell'attivazione dell'immaginazione, il peso delle parole va ben al di là del semplice "gioco linguistico" e assume un valore compiuto dal punto di vista antropologico ed epistemologico, che abbraccia la totalità dell'esperienza dell'essere umano:  infatti, come egli indicò fin dal Saggio sulla Poesia del 1828 (il cui titolo originale è in realtà Poetry, with reference to Aristotle's Poetics), "una parola ha il potere di comunicare un mondo di conoscenze all'immaginazione, e di agire come un incantesimo sui sentimenti; non v'è necessità alcuna di un'invenzione narrativa prolungata, - spesso non c'è spazio per essa".

Il rilievo di quel valore trascina con sé una responsabilità forse inaudita per i poeti dei nostri giorni, che però, proprio per questo, vale la pena di richiamare sinteticamente riportando un altro passo del saggio del giovane (e anglicano) Newman a mo' di conclusione di questo breve contributo:  "L'essenza della poesia è l'invenzione. (...) Essa delinea quella perfezione che viene suggerita dall'immaginazione, e alla quale, come a un limite, tende in realtà il presente sistema della Divina Provvidenza. Inoltre, restringendo l'attenzione a una sola serie di avvenimenti e a una scena d'azione, pone confini definiti alla confusa esuberanza della natura reale; mentre, componendo abilmente le circostanze, rende visibile la connessione di causa ed effetto, completa la dipendenza reciproca delle parti e armonizza le proporzioni dell'intero. (...) Ne segue che la mente poetica è una mente piena delle forme eterne della bellezza e della perfezione; queste sono il suo materiale di pensiero, il suo strumento e il suo mezzo di osservazione:  queste colorano ogni oggetto al quale dirige il suo sguardo".


(©L'Osservatore Romano - 20-21 settembre 2010)
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22/10/2010 15:23
 
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Newman, il Papa e il Duca di Norfolk

da un articolo di Massimo Introvigne
“In viaggio con il beato Newman.
La visita di Benedetto XVI in Gran Bretagna”

Commentando le famose – e per qualche aspetto controverse – parole del beato nella Lettera al Duca di Norfolk secondo cui «se fossi obbligato a introdurre la religione nei brindisi dopo un pranzo (il che in verità non mi sembra proprio la cosa migliore), brinderò, se volete, al Papa; tuttavia prima alla coscienza, poi al Papa» (Newman 1999, 237), il cardinale Ratzinger commenta che la frase va inquadrata nel complessivo pensiero di Newman e nella sua fedeltà alla «tradizione medioevale [che] giustamente aveva individuato due livelli del concetto di coscienza, che si devono distinguere accuratamente, ma anche mettere sempre in rapporto l’uno con l’altro. Molte tesi inaccettabili sul problema della coscienza mi sembrano dipendere dal fatto che si è trascurata o la distinzione o la correlazione tra i due elementi» (Ratzinger 1991, 89).

Il Medioevo parlava di sinderesi e coscienza; il cardinale Ratzinger precisa questi due termini come «anamnesi della creazione» (ibid.) e «anamnesi della fede» (ibid.). La prima, l’anamnesi della creazione, deriva dal fatto che con la creazione «è stato infuso in noi qualcosa di simile ad una originaria memoria del bene e del vero» (ibid.). La seconda, l’anamnesi della fede, nasce dalla redenzione a opera di Gesù Cristo «il cui raggio a partire dal Logos redentore si estende oltre il dono della creazione» (ibid.) la cui memoria è custodita dalla Chiesa e, nella Chiesa, dal Papa. Cronologicamente, l’anamnesi della creazione viene prima: «si identifica col fondamento stesso della nostra esistenza» (ibid.) e fonda la possibilità anche dell’anamnesi della memoria. Come la creazione precede storicamente la redenzione, così perché ci sia una coscienza formata e illuminata dalla Chiesa e dal Papa occorre prima che ci sia una coscienza. In questo senso «siamo ora in grado di comprendere correttamente il brindisi di Newman prima per la coscienza e solo dopo per il Papa» (ibid.). I due brindisi stanno in sequenza, non in contrapposizione.

Se invece si ritiene che l’appello alla coscienza sia solo una giustificazione per seguire il proprio arbitrio – «Fai ciò che vuoi sarà tutta la legge» (Crowley 1938, cap. I, v. 40), secondo la celebre formula dell’esoterista inglese Aleister Crowley (1875-1947), il quale non solo dava a questa proposizione un fondamento specificamente magico, ma in essa catturava l’essenza stessa della magia come primato del potere – il passaggio successivo non può che essere l’abolizione della coscienza. Per fare quel che si vuole non c’è bisogno della legge, né della coscienza. Il relativismo liberale evolve così naturalmente verso il relativismo aggressivo delle ideologie del secolo XX fino all’affermazione del gerarca nazional-socialista Hermann Göring (1893-1946), citata dal cardinale Ratzinger: «Io non ho nessuna coscienza! La mia coscienza è Adolf Hitler [1889-1945]» (Ratzinger 1990, 432). La nozione relativista della coscienza porta ultimamente all’eliminazione della coscienza.

Il cattolico, nota il cardinale Ratzinger, non adotta certamente la formula di Göring mettendo il Papa al posto di Hitler. Questa sarebbe una versione caricaturale del cattolicesimo: «una simile concezione moderna e volontaristica dell’autorità può soltanto deformare l’autentico significato teologico del papato» (Ratzinger 1991, 89). Il cattolico dirà al contrario di avere una coscienza, e di trovare in essa una memoria del bene originario e l’apertura alla «possibilità» (ibid.) di una rivelazione di Dio, che di quel bene è fondamento. Nel momento in cui accetta per fede che Dio si è rivelato in Gesù Cristo, è pronto ad accogliere la tesi che il Papa è «garante della memoria» (ibid.) della rivelazione cristiana. Il Magistero del Papa entra così nella coscienza, per così dire, dall’interno: «tutto il potere che egli [il Papa] ha è potere della coscienza» (ibid.).

Il cardinale Ratzinger cita come prova del carattere tutt’altro che soggettivo e arbitrario dell’idea di coscienza nel beato Newman precisamente la sua conversione dalla Comunione Anglicana alla Chiesa Cattolica del 1845. «Proprio perché Newman spiegava l’esistenza dell’uomo a partire dalla coscienza, ossia nella relazione tra Dio e l’anima, era anche chiaro che questo personalismo non rappresentava nessun cedimento all’individualismo, e che il legame alla coscienza non significava nessuna concessione all’arbitrarietà – anzi che si trattava proprio del contrario. Da Newman abbiamo imparato a comprendere il primato del Papa: la libertà di coscienza – così ci insegnava Newman – non si identifica affatto col diritto di “dispensarsi dalla coscienza, di ignorare il Legislatore e il Giudice, e di essere indipendenti da doveri invisibili”. In tal modo la coscienza, nel suo significato autentico, è il vero fondamento dell’autorità del Papa. Infatti la sua forza viene dalla Rivelazione, che completa la coscienza naturale illuminata in modo solo incompleto, e “la sua [del Papa] raison d’être è quella di essere il campione della legge morale e della coscienza” (J. H. Newman, Lettera al Duca di Norfolk, Coscienza è libertà, a cura di V. Gambi, Paoline, Milano 1999, p. 226)» (Ratzinger 1990, 433-434).

«Questa dottrina sulla coscienza – continuava nel 1990 il cardinale Ratzinger – è diventata per me sempre più importante nello sviluppo successivo della Chiesa e del mondo. Mi accorgo sempre di più che essa si dischiude in modo completo solo in riferimento alla biografia del Cardinale, la quale suppone tutto il dramma spirituale del suo secolo. Newman, in quanto uomo della coscienza, era divenuto un convertito; fu la sua coscienza che lo condusse dagli antichi legami e dalle antiche certezze dentro il mondo per lui difficile e inconsueto del cattolicesimo. Tuttavia, proprio questa via della coscienza è tutt’altro che una via della soggettività che afferma se stessa: è invece una via dell’obbedienza alla verità oggettiva. Il secondo passo del cammino di conversione che dura tutta la vita di Newman fu infatti il superamento della posizione del soggettivismo evangelico, in favore d’una concezione del Cristianesimo fondata sull’oggettività del dogma […]. E solo così, attraverso il legame alla verità, a Dio, la coscienza riceve valore, dignità e forza» (ibid., 434).

Quando a proposito della conversione al cattolicesimo ricordiamo che il beato Newman fu «mosso dal seguire la propria coscienza, anche con un pesante costo personale» (Benedetto XVI 2010g), o che san Tommaso Moro (1478-1535), giustiziato per ordine del re Enrico VIII (1491-1547), di cui era stato Lord Cancelliere ma che non aveva voluto seguire nella sua rivolta contro il Papa, «fu capace di seguire la propria coscienza, anche a costo di dispiacere al proprio sovrano, di cui era “buon servitore”» (Benedetto XVI 2010h), non ci riferiamo a opzioni o semplici preferenze soggettive ma a un rapporto con la verità oggettiva – «quella verità [che ultimamente] è nient’altro che Gesù Cristo» (Benedetto XVI 2010g) – così forte da rendere disposti a sacrificare affetti, amicizie e perfino la proprio stessa vita. E la questione della coscienza ha un diretto collegamento con il rapporto fra fede e ragione. Il beato Newman, insegna Benedetto XVI, fu insieme «intellettuale e credente, il cui messaggio spirituale si può sintetizzare nella testimonianza che la via della coscienza non è chiusura nel proprio “io”, ma è apertura, conversione e obbedienza a Colui che è Via, Verità e Vita» (Benedetto XVI 2010v).

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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22/11/2010 18:39
 
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Il messaggio di Benedetto XVI per il simposio alla Pontificia Università Gregoriana

Paladino della verità
in attesa dell'eterna felicità


In occasione del simposio sulla figura e sull'opera del beato John Henry Newman il 22 e il 23 novembre alla Pontificia Università Gregoriana, Papa Benedetto XVI ha inviato il seguente messaggio al direttore  dell'International  Centre  of Newman  Friends,  organizzatore  del convegno.

Al Reverendo Padre
Hermann Geissler, f.s.o.
Direttore dell'International Centre of Newman Friends

Mentre in me è ancora viva la gioia per aver potuto proclamare beato il Cardinale John Henry Newman, durante il mio recente viaggio nel Regno Unito, rivolgo un cordiale saluto a Lei, agli illustri Relatori e a tutti i partecipanti al Simposio organizzato a Roma dal Centro Internazionale Amici di Newman. Esprimo il mio apprezzamento per il tema scelto:  "Il primato di Dio nella vita e negli scritti del beato John Henry Newman".
 
Con esso infatti viene posto in giusta evidenza il teocentrismo come prospettiva fondamentale che ha caratterizzato la personalità e l'opera del grande teologo inglese.


È  ben  noto  che  il  giovane Newman, nonostante avesse potuto conoscere, grazie alla madre, la "religione della Bibbia", attraversò un periodo di difficoltà e di dubbi. Á quattordici anni subì, infatti, l'influsso di filosofi come Hume e Voltaire e, riconoscendosi nelle loro obiezioni contro la religione, si indirizzò, secondo la moda umanista e liberale del tempo, verso una specie di deismo.

L'anno  successivo,  tuttavia, Newman ricevette la grazia della conversione, trovando riposo "nel pensiero di due soli esseri assoluti e luminosamente evidenti in se stessi, me stesso e il mio Creatore" (J.H. Newman, Apologia pro vita sua, Milano 2001, pp. 137-138). Scoprì quindi la verità oggettiva di un Dio personale e vivente, che parla alla coscienza e rivela all'uomo la sua condizione di creatura. Comprese la propria dipendenza nell'essere da Colui che è il principio di tutte le cose, trovando così in Lui l'origine e il senso dell'identità e singolarità personale. È questa particolare esperienza che costituisce la base per il primato di Dio nella vita di Newman.

Dopo la conversione, egli si lasciò guidare da due criteri fondamentali - ricavati dal libro La forza della verità, del calvinista Thomas Scott - che manifestano appieno il primato di Dio nella sua vita. Il primo:  "la santità piuttosto che la pace" (ibid., p. 139), documenta la sua ferma volontà di aderire al Maestro interiore con la propria coscienza, di abbandonarsi fiduciosamente al Padre e di vivere nella fedeltà alla verità riconosciuta. Questi ideali avrebbero in seguito comportato "un grande prezzo da pagare". Newman infatti, sia come anglicano che come cattolico, dovette subire tante prove, delusioni e incomprensioni.

Tuttavia, mai si abbassò a falsi compromessi o si accontentò di facili consensi. Egli rimase sempre onesto nella ricerca della verità, fedele ai richiami della propria coscienza e proteso verso l'ideale della santità
.

Il  secondo  motto  scelto  da Newman:  "la crescita è la sola espressione di vita" (ibid.), esprime compiutamente la sua disposizione ad una continua conversione, trasformazione e crescita interiore, sempre fiduciosamente appoggiato a Dio. Scoprì così la sua vocazione al servizio della Parola di Dio e, rivolgendosi ai Padri della Chiesa per trovare maggiore luce, propose una vera riforma dell'anglicanesimo, aderendo infine alla Chiesa cattolica. Riassunse la propria esperienza di crescita, nella fedeltà a se stesso e alla volontà del Signore, con le note parole:  "Qui sulla terra vivere è cambiare, e la perfezione è il risultato di molte trasformazioni" (J.H. Newman, Lo sviluppo della dottrina cristiana, Milano 2002, p. 75). E Newman è stato lungo tutta la sua esistenza uno che si è convertito, uno che si è trasformato, e in tal modo è sempre rimasto lo stesso, ed è sempre di più diventato se stesso.

L'orizzonte del primato di Dio segna in profondità anche le numerose pubblicazioni di Newman. Nel citato saggio su Lo sviluppo della dottrina cristiana, scrisse:  "Vi è una verità; vi è una sola verità; ...la ricerca della verità non deve essere appagamento di curiosità; l'acquisizione della verità non assomiglia in nulla all'eccitazione per una scoperta; il nostro spirito è sottomesso alla verità, non le è, quindi, superiore ed è tenuto non tanto a dissertare su di essa, ma a venerarla" (pp. 344-345). Il primato di Dio si traduce dunque, per Newman, nel primato della verità, una verità che va cercata anzitutto disponendo la propria interiorità all'accoglienza, in un confronto aperto e sincero con tutti, e che trova il suo culmine nell'incontro con Cristo, "via, verità e vita" (Gv 12, 6). Newman rese perciò testimonianza alla Verità anche con la sua ricchissima produzione letteraria spaziando dalla teologia alla poesia, dalla filosofia alla pedagogia, dall'esegesi alla storia del cristianesimo, dai romanzi alle meditazioni e alle preghiere.

Presentando e difendendo la Verità, Newman fu sempre attento anche a trovare il linguaggio appropriato, la forma giusta ed il tono adeguato. Cercò di non offendere mai e di rendere testimonianza alla gentile luce interiore ("kindly light"), sforzandosi di convincere con l'umiltà, l'allegria e la pazienza. In una preghiera rivolta a san Filippo Neri ebbe a scrivere:  "Che il mio aspetto sia sempre aperto e allegro, e le mie parole gentili e piacevoli, come conviene a coloro i quali, qualunque sia lo stato della loro vita, godono del più grande di tutti i beni, del favore di Dio e dell'attesa dell'eterna felicità" (J.H. Newman, Meditazioni e preghiere, Milano 2002, pp. 193-194).

Al beato John Henry Newman, maestro nell'insegnarci che il primato di Dio è il primato della verità e dell'amore, affido le riflessioni e il lavoro del presente Simposio, mentre, per intercessione della Vergine Maria, Madre della Chiesa, sono lieto di impartire a Lei e a tutti i partecipanti l'implorata Benedizione Apostolica, pegno di abbondanti favori celesti.
Dal Vaticano, 18 novembre 2010



(©L'Osservatore Romano 22-23 novembre 2010)
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30/05/2011 19:41
 
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L'idea di preghiera nel pensiero di John Henry Newman

Ci vuole allenamento per avvicinarsi a Dio

 

Pubblichiamo alcuni stralci di una delle relazioni tenute alla Pontificia Università Gregoriana nel simposio internazionale "Il primato di Dio nella vita e negli scritti del beato John Henry Newman" organizzato dall'International Centre of Newman Friends.

di KEIT BEAUMONT
Oratorio di Francia

Per esaminare l'idea di preghiera in Newman come forma di esercizio spirituale o formazione spirituale, occorre inserire il tema nel più ampio contesto di tutto il suo insegnamento. Molti testi trattano aspetti del suo pensiero teologico, ma Newman non è soltanto un teologo nel senso moderno del termine. È anche un teologo nel senso attribuito alla parola durante i primi secoli cristiani, quando il teologo era una persona che cercava Dio attraverso una meditazione orante delle Scritture. Non solo un pensatore, dunque, ma un cercatore di Dio. V'è una famosa definizione di Evagrio Pontico, monaco del IV secolo: "Se preghi veramente, allora sei un teologo e se sei un teologo, allora sarai un uomo di preghiera". Non dico che Newman pensi esplicitamente in questi termini, ma è evidente, quando esaminiamo i suoi scritti e la sua predicazione, che pone la teologia, nel senso moderno, al servizio della spiritualità. Ci invita sempre a passare dal mero pensare a Dio all'attivo cercare Dio. Quindi non è solo un teologo, ma anche una guida spirituale straordinariamente preziosa.

L'espressione "esercizi spirituali" risale ai primi tempi del cristianesimo. Il latino exercitia spiritualia è la traduzione del termine greco askèsis, che i primi cristiani utilizzarono ispirandosi agli esempi del soldato e dell'atleta, che si sottopongono a un allenamento rigoroso per prepararsi a combattere e a vincere. L'espressione è entrata rapidamente in uso, in particolare nei circoli monastici, per indicare sia l'autodisciplina rigorosa a cui il monaco deve sottoporsi sia, in maniera più specifica, la pratica della preghiera contemplativa. Data la sua conoscenza della Chiesa primitiva e degli scritti dei Padri della Chiesa, è impossibile che Newman ignorasse queste idee.

Newman pone al centro della sua predicazione la dottrina che i teologi definiscono, per usare la terminologia di san Giovanni, il dimorare dello Spirito Santo. Questa stessa dottrina è al centro della sua idea di salvezza in una delle sue opere teologiche più importanti, Lezioni sulla Dottrina della giustificazione. Illustra con costanza anche l'insegnamento di Paolo secondo cui dovremmo sforzarci di diventare il tempio dello Spirito Santo. In un altro dei suoi più bei sermoni, La rettitudine non nostra, ma in noi (1840), dichiara che Cristo salva ciascuno individualmente, qui e ora, con la forza trasformatrice della sua presenza in noi. In breve, Newman pone la teologia al servizio della spiritualità.

Nessuno di questi aspetti è però automatico. Richiede un processo costante di auto-trasformazione volta a renderci sempre più attenti a questa presenza di Dio in noi. A questo fine, Newman sottolinea l'importanza della consapevolezza di sé e dell'abnegazione come strumenti di allenamento della volontà. Evidenzia l'importanza dell'amore per la famiglia e per gli amici nonché di quello fra coniugi come strumenti di allenamento nell'amore di Dio, l'importanza del tempo nella crescita spirituale, l'importanza dell'umiltà, di cui è esempio supremo il suo santo patrono Filippo Neri. Riconosce che la grazia non distrugge la natura, ma, trasformandola dall'interno, la porta alla perfezione. Sottolinea l'importantissimo tema della coscienza, non solo come agente morale, ma anche come consapevolezza della presenza misteriosa di Dio in noi, nel profondo della nostra coscienza.
Essere attenti alla "legge della coscienza" è quindi molto diverso dal semplice constatare i propri pensieri e desideri più intimi. Implica nutrire un atteggiamento interiore di attenzione a Dio e di ricettività.
Ascoltare la voce della coscienza implica, dunque, da parte nostra, un'opera per illumini la nostra coscienza. In questo senso, anche la preghiera è un'opera che si intraprende per ottenere determinati risultati. Di fatto, Newman ci invita a considerare la preghiera un dovere, una forma di allenamento spirituale che dobbiamo compiere per acquisire un privilegio, quello della comunione con Dio.
Vorrei illustrare questo avvalendomi di estratti da alcuni sermoni. Un'osservazione preliminare riguarda il posto della preghiera nella vita cristiana. Come sappiamo, la prima Chiesa ha costituito per Newman il modello della Chiesa e della vita cristiana. Non sorprende che egli sottolinei il posto centrale della preghiera in questa Chiesa. Le due attività legate fra loro, ovvero la preghiera e ciò che chiama vigilanza, fanno parte della sua definizione della vita cristiana dei primi secoli. "Ecco la definizione vera e propria del cristiano: una persona che cerca Cristo".

Dalla vigilanza Newman passa poi alla preghiera, alla quale essa è intimamente legata: san Pietro, che una volta mancava di vigilanza, ripete la lezione: "La fine di tutte le cose è vicina. Siate dunque moderati e sobri, per dedicarvi alla preghiera" (1 Pietro, 4, 7). Come Pietro afferma in questo testo, la preghiera è dunque un'altra caratteristica dei cristiani delle Scritture.
Infine, è chiaro che preghiera qui non significa solo implorazione e richiesta di intercessione, ma intima comunione con Cristo presente nei nostri cuori. Per Newman è stata questa l'esperienza dei primi cristiani apostolici: "Non c'erano barriere, nubi né cose terrene a interporsi fra l'anima del primo cristiano il suo Salvatore e Redentore. Cristo era nel suo cuore, e quindi tutto ciò che proveniva dal suo cuore i suoi pensieri, le sue parole e le azioni, sapevano di Cristo. Il Signore era la luce e quindi il cristiano risplendeva".
Una seconda osservazione riguarda il rapporto fra predicazione e preghiera. Il sermone inedito, pronunciato due volte in occasione dell'anniversario della sua nomina presso St. Mary's, dal titolo Sugli oggetti e gli effetti della predicazione, è una riflessione su tale rapporto. È paradossale: Newman, che di lì a poco sarebbe diventato il predicatore più celebrato della sua epoca, considerava la predicazione meno importante della preghiera collettiva. "Se chiedessimo qual è la ragione principale per cui si viene in chiesa, molte persone, penso, risponderebbero senza esitazione "per ascoltare la predicazione della parola di Dio", ma è una risposta errata. (...) Il grande compito, quello difficile, e il più benedetto e gioioso del Vangelo, è costituito dalla preghiera e dalla lode di molte persone insieme. Cristo promette alla preghiera collettiva una benedizione speciale che non ha promesso alla preghiera privata".

Quanto agli elementi specifici dell'insegnamento di Newman sulla preghiera, il primo riguarda la preghiera come dovere. Egli applica alla pratica della preghiera la terminologia della morale o dell'etica. Quindi descrive la preghiera come un dovere che tutti i cristiani devono compiere volontariamente per acquisire ciò che egli chiama un privilegio. Il sermone Tempi di preghiera privata (1829) insiste sulla necessità di autodisciplina spirituale espressa nella pratica di tempi fissi e regolari di preghiera. L'accento qui cade sulla nozione di dovere: Newman insiste sul fatto che è solo con l'esperienza di quel dovere che possiamo sapere quali privilegi ne scaturiscono. "Fino a quando non abbiamo esperienza dei doveri della religione non riusciremo a comprendere doverosamente i privilegi".
V'è poi il tema della preghiera come forma di disciplina spirituale. Nel sermone citato, Newman sostiene che l'abitudine alla preghiera regolare ha un effetto calmante su mente e anima: "Tempi precisi di preghiera sono necessari, in primo luogo come strumento per rendere la mente serena e l'indole generale più religiosa, in secondo luogo come strumento per praticare una fede seria e quindi ricevere in risposta una benedizione più certa di quella che si potrebbe ottenere in qualsiasi altro modo". In particolare, si rivolge a quei cristiani che hanno la convinzione evangelica che l'essenza della religione stia nella sua intensità emotiva, mentre, sostiene, la vera vita cristiana, di cui fa parte la preghiera, richiede autodisciplina. "Colui che smette di pregare con regolarità perde il mezzo principale per ricordarsi che la vita spirituale è obbedienza al Legislatore, non un semplice sentimento o gusto".

Lo stesso tipo di argomentazione è presente nel sermone Culto religioso un rimedio all'eccitazione (1835). Anche l'esperienza della gioia improvvisa per la scoperta del Vangelo, dichiara Newman, è una condizione eccitante, e tutti gli stati di eccitazione hanno tendenze pericolose. Quindi non si può mai stare tranquilli con un nuovo convertito perché nello stato di eccitazione in cui si trova all'inizio, le emozioni hanno molta più influenza della ragione o della coscienza e, a meno che egli non se ne curi, esse possono trascinarlo, come fa il vento, in una direzione sbagliata.
Il predicatore condanna il consiglio che viene dato spesso e che è lungi dall'essere irrilevante oggi, in particolare fra i giovani e in certi circoli "carismatici" e "revivalistici": "indulgi nell'entusiasmo". Al contrario, Newman invita "le persone inquiete" a "concentrarsi sul culto della Chiesa, che armonizzerà la loro mente con la legge di Cristo e la alleggerirà". La persona che "desidera portare nel suo cuore la presenza di Cristo deve solo "lodare Dio" e far sì che le parole del santo salterio di Davide le siano familiari, un servizio quotidiano, sempre ripetute e tuttavia sempre nuove e sempre sacre. Preghi e soprattutto permetta l'intercessione. Non dubiti del fatto che la forza della fede e della preghiera agisce su tutte le cose con Dio".

Ecco dunque la funzione definitiva della preghiera per Newman. È uno strumento che ci permette di avvicinarci a Dio e di accogliere la sua presenza nel nostro cuore oppure, e forse è anche più esatto, serve a Dio per avvicinarsi di più a noi.



(©L'Osservatore Romano 30-31 maggio 2011)

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Beato John Henry Newman

 

Cenni biografici

   

John Henry Newman, primo di 6 fratelli, nasce a Londra il 21 febbraio 1801. Il padre, John, era un banchiere mentre la madre, Jemina Foundrinier, discendeva da ugonotti emigrati dalla Francia dopo la revoca dell'Editto di Nantes.

Nel 1808 Newman entra nella scuola di Ealing (in quei tempi fuori Londra) dove ricevette un'educazione elevata e manifestò la sua notevole intelligenza. Il 1816 segnò l'ultimo anno di permanenza a Ealing e contemporaneamente il fallimento della banca del padre. In questo periodo, sotto l'influsso di Walter Maser, pastore calvinista, maturò una fede orientata dai principi protestanti e la convinzione che il Papa fosse l'anticristo.

Nel 1817 entra nel Trinity College di Oxford dove ottenne il titolo accademico di "Bachelor of Arts". Nel 1822 fu eletto "fellow" dell'Oriel College, ambiente nel quale sviluppò un'amicizia con Edward Bouverie Pusey. Il 13 giugno 1824 viene  ordinato diacono nella Chiesa Anglicana e divenne coadiutore della parrocchia di St. Clement ad Oxford. Il 29 maggio 1825 viene ordinato sacerdote anglicano.

Dal 1826 al 1832, in qualità di tutor nell'Oriel College, si occupa della formazione culturale di molti studenti universitari e fu in stretto contatto con Pusey, John Keble e Hurrel Froude. Il 14 marzo 1828 diventa parroco nella chiesa universitaria di St Mary, dove svolse una intensa attività pastorale, soprattutto mediante la predicazione che riscosse molti consensi, fino al 1843.

Nel 1832 accompagna Froude in un lungo viaggio nell'Europa meridionale, visitando Roma, Malta, Corfù e la Sicilia. In questo viaggio incontrò per la prima volta, nel Collegio Inglese di Roma, Nicholas Wiseman, che diventerà Arcivescovo cattolico di Westminster. Scrive il poema che sarà poi pubblicato nel 1834 con il titolo di "Lyra Apostolica" ed anche il poemetto "Lead, Kindly, Light", dove esprime la sua fiducia nella Provvidenza che lo avrebbe guidato nella realizzazione di una particolare missione.

Tornato in Inghilterra, ad Oxford, poté ascoltare, era il 14 luglio 1833, il discorso di John Keble "National Apostasy", sermone che segnò il sorgere dell'Oxford Movement, di cui Newman divenne la figura più rappresentativa.

Dal 1833 al 1841 Newman, Froude, Keble, Pusey e William Palmer pubblicarono "Tracts for the Times". Dei 90 saggi pubblicati Newman ne scrisse 26, incluso l'ultimo il "Tract 90", nel quale egli cercò di interpretare i 39 articoli della Chiesa Anglicana in un'ottica cattolica. Ciò gli valse la condanna da parte dell' "Hebdomadal Board" dell'Università di Oxford e venne sconfessato da 42 vescovi anglicani. Newman rinunciò alla parrocchia universitaria di St. Mary e il 9 aprile 1842 si ritirò con alcuni amici a Littlemore, dove, lavorando alla stesura del celebre "Essay on development of christian Doctrine", maturò la sua conversione alla Chiesa Cattolica.

Quando nel 1846 Newman si reca a Roma assieme ad alcuni compagni, anch'essi anglicani convertitisi al cattolicesimo, non è ancora sicuro di entrare in un ordine religioso oppure diventare un sacerdote secolare. Nel Memorandum del 1848 Newman scrive che si prese in considerazione il progetto di entrare nell'ordine dei Redentoristi ma alla fine si scelse l'Oratorio di San Filippo Neri.

Newman iniziò a frequentare la Chiesa Nuova e i sacerdoti della comunità. Quando prese la decisione ufficiale di diventare Oratoriano chiese in via formale al Papa di poter fondare un Oratorio a Birmingham e richiese di poter adeguare le Costituzioni dell'Oratorio romano alle necessità presenti in Inghilterra. Nel 1847 Newman assieme a sei compagni inizia il noviziato presso l'abbazia di Santa Croce dove un'ala dell'edificio viene messa a loro disposizione. In quattro mesi vennero studiate le Costituzioni, la spiritualità e le tradizioni dell'Oratorio.

Dopo l'ordinazione sacerdotale, il 2 febbraio 1848, confortato dall'incoraggiamento di Papa Pio IX (Breve “Magna Nobis semper” del 26 novembre 1847), fondò il primo Oratorio di San Filippo Neri in Inghilterra. La prima sede venne stabilita a Maryvale, in seguito la comunità si spostò prima a St. Wilfrid, poi nella Alcester Street a Birmingham e infine, nel 1854, a Edgbaston, una zona residenziale nella periferia della città. Sempre nel 1848 un gruppo di religiosi, guidato da P. Frederick William Faber - che dopo Newman è il più celebre Oratoriano inglese - si trasferisce a Londra dove vengono poste le basi per la fondazione della seconda Congregazione filippina inglese.

Nel 1854 Newman viene nominato rettore dell'Università Cattolica di Dublino, carica che ricopre per quattro anni. Nel 1878, il Trinity College di Oxford lo elesse come suo "first honorary fellow".

Il 12 maggio 1879, su istanza di Sua Eccellenza Mons. William Ullathorne, Newman fu creato Cardinale da Papa Leone XIII, che in tal modo gli riconobbe "genio e dottrina". Il neo Cardinale scelse come motto "cor ad cor loquitur", perché egli non pretese mai di fare qualcosa di grande che fosse ammirato dagli altri, ma di comunicare con la semplicità e la cordialità dell'amico quanto era richiesto dal principio: "prima di tutto la santità". 

Dopo alcuni anni di crescente debolezza, celebrò la sua ultima Messa in pubblico il giorno di Natale del 1889 e morì nella sua camera a Edgbaston l'11 agosto 1890,dopo aver sperimentato ed offerto con fede tante sofferenze ed incomprensioni, sospetti ed opposizioni, acuite dalla straordinaria sensibilità del suo animo. Per sua volontà sulla tomba venne incisa la frase: "Ex umbris et imaginibus in veritatem".

Il 22 gennaio 1991 Newman è stato dichiarato Venerabile da Sua Santità Giovanni Paolo II.

Sua Santità Benedetto XVI lo ha proclamato Beato domenica 19 settembre 2010 nel corso della Celebrazione da lui presieduta a Birmingham.

Memoria liturgica

 

9 ottobre

 

Profilo spirituale

Definito il Padre "assente" del Concilio Vaticano II durante e dopo le assisi conciliari, il cardinale Newman era una guida sicura - affermò di lui Paolo VI - per tutti coloro che “sono alla ricerca di un preciso orientamento e di una direzione attraverso le incertezze del mondo moderno” ed anticipò riflessioni teologiche ed orientamenti di pensiero che risuonarono abbondantemente nell’ultimo Concilio Ecumenico, tanto da far dire a molti che egli è il moderno “Dottore della Chiesa”.

“In occasione del secondo centenario della nascita del Venerato servo di Dio John Henry Newman - scriveva Giovanni Paolo II nella lettera Pontificia commemorativa dell’anniversario (che segue a quelle che lo stesso Pontefice indirizzò negli anniversari del 1979 e del 1991) - mi unisco volentieri ai Vescovi dell’Inghilterra e del Galles, ai sacerdoti dell’Oratorio di Birmingham e a una schiera di voci in tutto il mondo, nel lodare Dio per il dono del grande Cardinale inglese e per la sua duratura testimonianza”.

“Riflettendo sul misterioso disegno divino che si dispiegava nella sua vita, - continuava il Papa - Newman acquisì un senso profondo e persistente del fatto che «Dio mi ha creato per renderGli un determinato servizio. Mi ha affidato un’opera che non ha affidato a un’altra persona. Io ho la mia missione» (Meditazioni e Devozioni). Quanto appare vero questo pensiero ora che consideriamo la sua lunga vita e l’influenza che continua a esercitare anche dopo la morte!"

"Newman nacque in un’epoca travagliata non solo politicamente e militarmente, ma anche spiritualmente. Le vecchie certezze vacillavano e i credenti si trovavano di fronte alla minaccia del razionalismo da una parte e del fideismo dall’altra. Il razionalismo portò con sé il rifiuto sia dell’autorità sia della trascendenza, mentre il fideismo distolse le persone dalle sfide della storia e dai compiti terreni per generare in loro una dipendenza insana dall’autorità e dal soprannaturale. In quel mondo Newman giunse veramente a una sintesi eccezionale fra fede e ragione che per lui erano “come due ali sulle quali lo spirito umano raggiunge la contemplazione della verità” (cfr. Fides et ratio, Introduzione; cfr. ibidem, n. 74). Fu la contemplazione appassionata della verità a condurlo a un’accettazione liberatoria dell’autorità le cui radici sono in Cristo, e a un senso del soprannaturale che apre la mente e il cuore umani a una vasta gamma di possibilità rivelate in Cristo."

Non possiamo tralasciare un accenno alla scelta oratoriana che il neo-convertito compie, prima di tornare in Inghilterra con il Breve di Papa Pio IX che istituisce l’Oratorio dando a Newman facoltà di propagarlo in quella Nazione in cui da poco si era ricostituita la Gerarchia Cattolica

Padre Newman amò l’Oratorio che aveva scelto, e sentì profondamente di appartenervi. “Amo un vecchio dal dolce aspetto. - egli scrisse di san Filippo - Lo ravviso nella sua bianca veste, dal suo pronto sorriso, dall’occhio acuto e profondo, dalla parola che infiamma uscendo dal suo labbro quando non è rapito in estasi…”. Suonano significative le parole con cui chiese a Papa Leone XIII un favore, nel momento in cui gli fu offerta la Porpora romana: “Da trent’anni sono vissuto nell’Oratorio, nella pace e nella felicità. Vorrei pregare Vostra Santità di non togliermi a san Filippo, mio padre e patrono, e di lasciarmi morire là dove sono vissuto così a lungo.”

Il fondatore dell’Oratorio inglese, che ben conosceva l’esperienza oratoriana delle origini, si collocava, con tali espressioni, sulla scia dei primi discepoli di Filippo Neri chiamati alla dignità cardinalizia, secondo la tradizione di affezionata appartenenza che caratterizza ancora l’ultimo dei Cardinali oratoriani, padre Giulio Bevilacqua, dell’Oratorio di Brescia, il quale, accettando la Porpora per le insistenze di Paolo VI, chiese ed ottenne dal Papa di poter continuare il suo ministero di Parroco nella comunità oratoriana di Sant’Antonio, alla periferia di Brescia.

Che cosa, in Padre Filippo, affascinò John Henry Newman, e lo spinse a scegliere l’Oratorio come forma e metodo della sua vita sacerdotale nella Chiesa cattolica? Padre Newman lo espresse particolarmente in alcuni splendidi testi: le “Lettere” sulla vocazione oratoriana; i sermoni predicati nella chiesa di Birmingham sulla “missione di san Filippo Neri”; alcune preghiere - e tra queste le preziose “Litaniae” - composte per chiedere all’intercessione del Santo le grazie di cui egli fu singolarmente arricchito.

Ma c’è un aspetto, pensiamo, che sopra ogni altro attrasse Newman e che esprime in armoniosa sintesi tutto il mondo interiore di Padre Filippo: è quello cantato nel primo verso della notissima poesia-preghiera che in italiano rendiamo: “Guidami, luce gentile”. La “gentilezza” di Padre Filippo non è soltanto una dote del suo carattere, ma racchiude la singolare libertà di spirito, tanto cara a Newman, l’amore per una vita di autentica comunità ma normata da leggi di discrezione, il rispetto delle doti di ognuno, la sapiente semplicità che fece della gioia di Filippo “una gioia pensosa”, secondo la bella formula di Goethe.

Newman era stato educato nella Chiesa Anglicana, aveva conosciuto a quindici anni una prima “conversione” spirituale che lo introdusse nel cammino della perfezione evangelica, era diventato sacerdote nella sua Chiesa e parroco di St. Mary, aveva fondato il Movimento di Oxford per lo studio dei Padri della Chiesa e la storia del cristianesimo antico, aveva scoperto nella Chiesa Cattolica la Chiesa di Cristo ed aveva deciso di entrarvi nel 1845 con un passo di enorme coraggio, nel 1847 ricevette a Roma l’ordinazione sacerdotale: una vita vissuta alla luce della coscienza formata, nel calore della preghiera, nell’incessante studio e nell’annuncio apostolico della Verità: “profonda onestà intellettuale, fedeltà alla coscienza ed alla grazia, pietà e zelo sacerdotale, devozione alla Chiesa di Cristo ed amore per la sua dottrina, incondizionata fiducia nella Provvidenza ed assoluta obbedienza al volere di Dio” caratterizzano - scriveva Giovanni Paolo II nella Lettera commemorativa del I centenario dell’elevazione alla sacra Porpora - “il genio di Newman”.

“Rendendo grazie a Dio - conclude la Lettera Pontificia del 2001 - per il dono del venerato John Henry Newman, in occasione dei duecento anni della nascita, preghiamo affinché questa guida certa ed eloquente nella nostra perplessità diventi anche nelle nostre necessità un intercessore potente al cospetto del trono della grazia. Preghiamo affinché la Chiesa proclami presto ufficialmente e pubblicamente la santità esemplare di uno dei campioni più versatili e illustri della spiritualità inglese”.

Bibliografia

 

CALLEGARI L., Newman. La fede e le sue ragioni, Milano, 2001

CISTELLINI A., Intorno alla vocazione filippina di J. H. Newman, in “Memorie Oratoriane”, 16 (1993), 20-43

GEISSLER H., Conoscere Newman. Introduzione ad alcune opere, Urbaniana University Press, 2002

GIOVANNI PAOLO II, Lettera al Molto Reverendo Arcivescovo di Birmingham, 21 gennaio 2001

MORALE MARIN J., John Henry Newman. La vita, Milano, 1998

MURREY P., Newman the oratorian, Dublin, 1968

NEWMAN J.H., Maria: lettere, sermoni, meditazioni (a cura di Giovanni Velocci), Milano, 1993

NEWMAN J.H., Apologia pro vita sua, trad. italiana di M. Guidacci e G. Velocci, Milano, 1994

NEWMAN J.H., La missione di San Filippo Neri: due sermoni dell'Oratorio tenuti il 15 e il 18 gennaio 1850, Bologna, 1994

NEWMAN J.H., Scritti filosofici (a cura di Michele Marchetto), Bompiani, 2005

VELOCCI G., La preghiera in Newman, Libreria Editrice Vaticana, 2004

 

Per approfondire

 

Sito ufficiale del Birmingham Oratory

Beatificazione di John Henry Newman

Centro Internazionale "Newman Friends"

Newman Reader - Works of John Henry Newman

Biblioteca Oratoriana





Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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