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In ricordo del cardinale Giuseppe Siri di Genova

Ultimo Aggiornamento: 09/04/2015 21:01
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A vent'anni dalla morte

Il cardinale Siri è vivo
nel cuore di Genova



Pubblichiamo l'omelia che il cardinale arcivescovo di Genova e presidente della Conferenza episcopale italiana, ha pronunciato ieri nella cattedrale di San Lorenzo in occasione della messa celebrata per il ventesimo anniversario della morte del suo predecessore, il cardinale Giuseppe Siri, che guidò la diocesi di Genova dal 1946 al 1987. 

 

di Angelo Bagnasco

Sono trascorsi vent'anni - era il 2 maggio 1989 - dalla morte del cardinale Giuseppe Siri, indimenticato pastore della nostra diocesi dal 1946 al 1987.

La sua presenza è ancora viva e cara nel cuore della diocesi e della città:  l'avverto nei sacerdoti che l'hanno conosciuto e amato, e che, avvicinandolo, sentivano di essere da lui amati e conosciuti, a volte con un'arguzia bonaria che non si immaginava sotto l'immagine pubblica.




L'avverto nelle istituzioni e in grande parte del popolo; soprattutto lo sento nel cuore dei lavoratori degli stabilimenti e delle aziende a tutti i livelli. La memoria della sua attenzione per i problemi del lavoro e per il bene della città è vivissima:  attenzione che si traduceva in interventi puntuali perché nulla si perdesse del patrimonio imprenditoriale e portuale di Genova, o in mediazioni richieste tra le parti sociali in vertenze difficili e note.

Ancora oggi tocco con mano la fiducia che questo mondo ha verso la Chiesa grazie soprattutto a lui che, in anni di forti contrapposizioni e diffidenze verso il clero, non ha avuto timore di varcare le soglie di ogni ambiente per portare il Vangelo e celebrare le messe pasquali. Non si è tirato indietro semplicemente perché amava le anime per amore di Cristo, e sapeva che quello era il suo dovere:  essere il pastore di tutti sempre e ovunque.

Non posso dimenticare, nei giorni in cui la salma rimase esposta qui nella sua cattedrale, la folla di operai in tuta, braccia conserte, in piedi e in silenzio:  sembrava che volessero vegliare, quasi trattenere il loro vescovo che forse sentivano padre più di quanto apparisse solitamente. Incarnavano la presenza del popolo, della gente semplice, avvezza al lavoro duro, a far quadrare i conti del mese.

Non so se andassero in chiesa ogni domenica, ma di certo lo riconoscevano come un punto di riferimento, di sicurezza; sentivano che di lui ci si poteva fidare al di là di ogni bandiera, perché capivano che lui, figlio di povera gente, li comprendeva e li amava. I vicoli del centro storico, qui attorno, lo conoscevano bene:  lui e chi regolarmente mandava per distribuire aiuti ai più poveri.

Era, la sua, una carità tipicamente genovese, discreta e concreta:  carità che andava a completare quel senso profondo di giustizia sociale che sempre ha ispirato la sua azione di pastore e di uomo di cultura, in particolare con la presidenza delle Settimane sociali.

La divina provvidenza gli diede molte e delicate responsabilità nella Chiesa, a Genova e in Italia:  a servizio leale e cordiale di quattro Papi, presidente della Commissione episcopale per l'alta direzione dell'Azione cattolica, primo presidente della Conferenza episcopale italiana, partecipò al concilio Vaticano ii fedelmente, fino a ripetere a noi seminaristi, una volta concluso, che dovevamo leggere i documenti del concilio integralmente e in ginocchio:  "Sono felice di avere sofferto e di avere sempre difeso la Chiesa e il Sommo Pontefice" (dal suo testamento).

Le diverse questioni di cui dovette occuparsi - e furono moltissime - le affrontò sempre da sacerdote e solo da sacerdote. Come amava raccomandare ai suoi preti usando un'immagine eloquente:  "Dovrete, nel vostro ministero occuparvi di molte cose anche non direttamente pastorali; ma dovrete trattarle sempre rimanendo sulla predella dell'altare". Cioè in quanto sacerdoti e pastori. Nient'altro! "Sono felice - scrive ancora nel suo testamento spirituale - di aver esercitato solo il sacerdozio e quello che anche casualmente ne diventava dovere".

Ed egli era sempre ministro di Dio, sempre riferito a Dio tanto da assumere il motto "Non nobis Domine":  non a noi, Signore, non a noi, ma a Te solo la gloria! Il senso della maestà di Dio, per il quale nulla era mai troppo di dignità, decoro, nobiltà, era sempre congiunto con il senso della vicinanza amorosa di Dio in Gesù, e quindi nella Santissima Eucaristia. L'amore alla divina liturgia era noto a tutti:  la viveva come "il culmine verso cui tende l'azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù. Poiché il lavoro apostolico - continua il concilio - è ordinato a che tutti, diventati figli di Dio mediante il battesimo, si riuniscano in assemblea, lodino Dio nella Chiesa, prendano parte al sacrificio e alla mensa del signore" (Sacrosanctum concilium, 10).

Il cardinale Siri, insieme con monsignor Moglia, partecipò all'opera del rinnovamento liturgico che vedrà nel Vaticano ii la sua espressione più compiuta. Tutto doveva essere nobile e il più possibile bello, sapendo che la bellezza, nel gesto e nella parola, nel canto e nella musica, nel parato e nelle suppellettili, è una via dell'anima a Dio.

Amava la storia e, il parlarne, non era sfoggio ma piuttosto saggezza e contemplazione della Provvidenza che guida la storia e la conduce misteriosamente verso il suo compimento:  da qui il suo lasciarsi andare all'onda di Dio comunque questa si presentasse, quieta o burrascosa, piena di luce o rivestita di oscurità.

In questo orizzonte di fede, entrando in Genova come arcivescovo, poté dire con serenità e semplicità:  "Non sono qui da me, e non sono qui per me", un programma di vita che lo condusse per l'intero suo episcopato, e che fu come un'ancora in momenti anche di grave difficoltà e di forte incomprensione, ma che visse nella pace interiore.

Riservato nei sentimenti, non nascondeva l'amore per i suoi preti, specialmente per chi si trovava in difficoltà, e tutti sapevano il particolare legame, immutato negli anni, per i suoi antichi studenti del liceo Doria che radunava periodicamente. Dal Cielo tutti noi guarda e per noi prega:  continuiamo a essere la sua famiglia! Un grazie speciale vorrei dirlo ai suoi ultimi due segretari:  sua eccellenza monsignor Giacomo Barabino e monsignor Mario Grone. Servendo lui con fedeltà e intelligenza, hanno servito anche noi.

Insieme con lui guardiamo a Maria, Regina di Genova, che egli ha imparato a venerare nella sua carissima parrocchia dell'Immacolata, da suo amato parroco.

E con rinnovato affetto ascoltiamo le sue ultime parole:  "L'ultima benedizione per coloro dei quali sono stato vescovo. L'ultimo atto:  Non nobis Domine, non nobis, sed nomini tuo da gloriam" (dal suo testamento).



(©L'Osservatore Romano - 7 maggio 2009)

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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02/10/2009 22:53
 
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Lo splendore del rito aiuta a vedere la verità

 

di Uwe Michael Lang

 

Per comprendere il pensiero e l'azione del cardinale Giuseppe Siri nell'ambito della sacra liturgia bisogna riandare ai suoi anni di formazione come seminarista e come giovane sacerdote a Genova. Nella prima metà del Novecento la metropoli della Liguria emerse come importante centro di movimento liturgico. Nel 1903 l'arcivescovo Edoardo Pulciano iniziò nel seminario genovese l'insegnamento di liturgia come disciplina distinta da quella delle rubriche. Nel 1914 venne fondata la "Rivista Liturgica", un progetto congiunto delle abbazie di Finalpia, nel savonese, e di Praglia. Nella presentazione della nuova rivista si indicava come scopo quello di studiare e spiegare sia al clero sia ai fedeli la sacra liturgia, quale "culto pubblico che la Chiesa a rende a Dio".

La figura chiave che emergeva in questi anni fu quella di monsignor Giacomo Moglia (1881-1941), il fondatore dell'Apostolato liturgico, alla quale il giovane Siri fu molto legato. (...) In un importante intervento del 1981 lo definì "uno dei massimi promotori della rinascita liturgica in Italia". L'Apostolato liturgico venne fondato nel 1930, e la sua prima iniziativa (...) fu la pubblicazione settimanale dei "foglietti domenicali", con le varie parti della messa in latino e in traduzione italiana, come rileva Siri, "perché tutto il popolo capisse, seguisse, partecipasse". Alla scuola di monsignor Moglia Siri apprese il principio che "il culto a Dio resta il primo dovere dell'uomo e della Chiesa".

Vorrei qui presentare in maniera sintetica tre elementi caratteristici della sua visione liturgica, che trovarono espressione nel suo lungo ministero come arcivescovo di Genova:  la liturgia come realtà soprannaturale, la solennità della liturgia e la dimensione ecclesiale del culto divino.

Nei suoi molti contributi sul tema, il cardinal Siri ribadiva il carattere soprannaturale della sacra liturgia, dovuto al fatto che la celebrazione dei sacramenti è intimamente legata alla Rivelazione divina. In sintonia con l'enciclica Mediator Dei di Pio xii e la Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium, Siri metteva in rilievo che la liturgia è l'azione di Cristo Sommo Sacerdote (...) Quindi "la divina liturgia è stimolo, fonte, causa di spirito e vita soprannaturale" nell'anima dei fedeli. Il culto a Dio è "il primo atto al quale sono tenuti gli uomini (...) e il primo strumento ordinario per la salvezza delle anime (...) Colla divina liturgia, specialmente se capita e seguita, si santifica, si eleva tutto".

Siri concepiva la liturgia come l'espressione visibile della fede (...) Per il cardinale l'importanza del culto non può essere sovrastimata, perché esso "rappresenta per la maggior parte degli uomini nella gran parte della vita la principale sorgente, spesso l'unica, della fede conservata, della grazia di Dio, della speranza eterna", come osserva in una lettera pastorale al clero dell'arcidiocesi nel 1977. Quindi la "custodia dell'ortodossia della fede implica l'accurata custodia dell'ortodossia nella liturgia".

In questo contesto, Siri spesso riaffermava la necessità della preparazione catechetica. (...) Una concezione della liturgia che prescindesse dal suo contenuto rivelato rischierebbe di diventare soltanto uno "spettacolo", come Siri sottolinea spesso nei suoi discorsi sul tema.
Nel suo lungo ministero liturgico egli ha sempre incoraggiato e promosso la partecipazione dei fedeli non nel senso di un attivismo esterno - per Siri la distinzione essenziale fra il sacerdozio ministeriale e lo stato laicale era fondamentale nella vita della Chiesa - ma nel senso di preghiera, meditazione e comprensione dei sacri misteri che sono celebrati nella liturgia. Una fruttuosa partecipazione al culto si manifesta poi in un impegno che include ogni aspetto della vita cristiana.

Vi è poi l'aspetto della solennità. La partecipazione dei fedeli nella liturgia va al di là di quella solo intellettuale, perché le azioni liturgiche con il loro simbolismo sono "strumento di una traduzione in elementi figurati più accessibili alla capacità umana di intendere". Nel dibattito sull'uso della lingua latina nel culto cattolico, Siri esprimeva la sua convinzione che "nella liturgia prima ed oltre la lingua c'è il contenuto ed il significato dogmatico, c'è la regia, la coreografia, il simbolismo, il gesto, il canto, il contorno, le persone, le vesti". Nella liturgia, attraverso i segni ed i gesti, si sente la presenza e la maestà di Dio. (...) "La solennità - affermava nel 1981 - vuol realizzare il grande anche nel piccolo, il decoro anche nel misero, l'armonioso anche nella tempesta, la dignità anche nell'umile".

La solennità è anche il fondamento dell'arte sacra e della musica sacra. A più riprese durante il suo lungo governo episcopale, Siri enunciò norme e direttive per la progettazione e la costruzione delle nuove chiese in diocesi, compito urgente in particolare negli anni del dopoguerra a Genova. Il cardinale s'interessava personalmente dell'architettura sacra e favoriva una linea in essenziale continuità con il linguaggio tradizionale dell'architettura sacra, tuttavia non escludendo lo stile moderno, purché corrispondente ai criteri di monumentalità, normalità, idea teologica, intento ascetico e coerenza liturgica.

Nell'ambito della musica sacra, Siri non cessò mai di promuovere il canto gregoriano come grande patrimonio del rito romano. L'arcivescovo desiderava che i fedeli imparassero un repertorio essenziale di canti più semplici del Graduale romanum. Allo stesso tempo, egli incentivò altri canti di qualità e dignità, in particolare quelli tradizionali, e l'uso delle cantorie per l'esecuzione dei brani polifonici e per il sostegno del canto popolare.

Infine la dimensione ecclesiale della liturgia. Per il cardinale Siri questa era al fondamento della sua visione liturgica. Le parole che usò in uno dei suoi discorsi commemorativi di monsignor Moglia possono essere applicate anche a lui:  "Della Chiesa la liturgia era il respiro, per la Chiesa la liturgia realizzava la grande spirituale unità, in essa si sentivano riuniti e collegati i figli adottivi di Dio". Nella sua azione di adorazione e lode a Dio la Chiesa è congiunta con la comunione dei santi, che celebrano la liturgia celeste alla presenza di Dio. La partecipazione al coro della Celeste Gerusalemme si manifesta in modo particolare nell'ufficio divino, che fu sempre molto caro a Siri. Il cardinale arcivescovo di Genova considerava la celebrazione dei vespri un elemento integrale della santificazione del giorno del Signore e delle feste dell'anno liturgico, incoraggiando i fedeli a parteciparvi.

La dimensione ecclesiale della liturgia si mostra anche nel rispetto per la legge della Chiesa. Per Siri l'obbedienza alle norme e prescrizioni liturgiche era un'esigenza della spiritualità sacerdotale. Il cardinale ribadiva che l'aggiornamento liturgico si doveva svolgere solo sotto la guida dell'autorità competente, soprattutto della Santa Sede. La "romanità" di Siri si esprimeva in questo atteggiamento di assoluta fedeltà al Successore di Pietro, anche in momenti di grande prova personale.

Anche se durante il Concilio Vaticano ii Siri mostrò alcune riserve (...) sul documento dedicato alla Sacra Liturgia, il suo giudizio sulla Sacrosanctum Concilium fu assai favorevole. (...) Era però molto preoccupato dell'applicazione della riforma liturgica. Nella sua arcidiocesi rispondeva a questa situazione con una lettura della riforma conciliare secondo "una ermeneutica di continuità" (Benedetto XVI). Del resto, già dai primi anni del suo governo episcopale Siri usò prudenza nell'ambito liturgico, e con questa prudenza accolse anche la riforma postconciliare, sia nella liturgia stessa, in particolare nella messa e nel culto della Santissima Eucaristia, sia nell'ambito dell'architettura, dell'arte sacra e della musica sacra.



(©L'Osservatore Romano - 12 settembre 2008)


QUI   POTRETE TROVARE LE LETTERE DEL CARD. SIRI AI SACERDOTI:

"A TE, Seminarista" parole al cuore del cardinale Giuseppe Siri



Fraternamente CaterinaLD

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Il cardinale Giuseppe Siri e il suo tempo

Rosso porpora antitotalitario


di Roberto Pertici


Il cardinale Giuseppe Siri, arcivescovo di Genova dal 1946 al 1987, cardinale dal 1953, a lungo presidente della Conferenza Episcopale Italiana (Cei), è stato certamente una delle personalità eminenti della Chiesa del xx secolo, di quella italiana in specie:  in qualche modo anche figura simbolica, punto di riferimento di atteggiamenti ecclesiali, posizioni culturali e politiche che sono state a lungo "segno di contraddizione" in Italia come nel mondo cattolico. Pochi anni dopo la sua morte, nel 1993, il vaticanista italiano Benny Lai gli dedicò una biografia ricca di innumerevoli testimonianze e ricordi autobiografici, che lo stesso Siri gli aveva affidati negli oltre quarant'anni della loro familiarità:  come ogni materiale autobiografico, anche questo è per lo storico una fonte preziosa, ma anche un problema, su cui esercitare continua verifica critica.

Più recentemente, nel 2006, è apparso - a opera di Nicla Buonasorte - un profilo documentato, che in qualche modo condensa l'immagine che di Siri è stata elaborata in ambienti influenti del cattolicesimo italiano del secondo Novecento:  quelli, in qualche modo, critici della "linea Siri".

Il merito fondamentale del volume curato e introdotto da Paolo Gheda (Siri, La Chiesa, l'Italia, Genova-Milano, Marietti, 2009, pagine 418, euro 25) è invece proprio quello di delineare quadri storiografici meno polarizzati e consueti e quindi offrire quasi un nuovo inizio per la riflessione sul cardinale genovese. Vi sono raccolti, assieme ad altri contributi, gli atti del convegno su Siri che si svolse a Genova nel settembre 2008, articolati in tre parti dedicate rispettivamente al ruolo da lui svolto nella Chiesa italiana, all'azione politico-culturale e infine alla partecipazione al dibattito teologico ed ecclesiale dei suoi anni. Seguono alcune importanti testimonianze e in appendice testi di Giovanni Paolo II, di Benedetto XVI e dei cardinali Bagnasco e Bertone.

Come si vede, si tratta di un gran numero di temi e problemi, affrontati con sensibilità e prospettive talora diverse. Una questione di fondo, tuttavia, attraversa la maggior parte dei saggi:  la "grande trasformazione" che investì l'Italia e il mondo a partire dagli anni Cinquanta e le risposte che a essa cercò di fornire la Chiesa cattolica.
In Italia sono gli anni del cosiddetto boom economico, cioè la fase definitiva della rivoluzione industriale apertasi nel lontano 1896:  quindi migrazioni interne, urbanesimo, allentamento dei legami tradizionali, sviluppo dei consumi. La fine, insomma, dell'Italia rurale. A livello internazionale è il periodo culminante della Golden age, che si apre - intorno al 1950 - col boom "coreano" e si chiuderà nel 1973 con la crisi petrolifera. La distensione internazionale sembra attenuare la durezza del contrasto ideologico degli anni Cinquanta e si accompagna con un intenso processo di decolonizzazione e di emersione di nuove culture.

Questi mutamenti culturali e sociali hanno presto ricadute giuridico-istituzionali. Nel primo decennio post-bellico si era assistito in Occidente a un generale ritorno della religione tradizionale anche nelle sue forme istituzionalizzate:  in Inghilterra - per fare solo un esempio significativo - è tra il 1955 e il 1959 che si tocca il picco di praticanti. Ma intorno al 1960 il clima sta già cambiando:  l'opinione pubblica si appassiona al processo contro i Penguin Books per la ristampa di Lady Chatterley's Lover, processo attorno a cui si apre un grande dibattito nazionale sulla sessualità e l'adulterio. Come si vede, i problemi della pubblica moralità che preoccupano tanto in quegli anni i vescovi italiani, in particolare il loro presidente Siri in continuo contatto con l'arcivescovo di Milano Montini - li documenta Gheda nel saggio che dedica ai loro rapporti - sono il capitolo italiano di processi più vasti che coinvolgono tutta l'Europa occidentale e gli Stati Uniti.

In Inghilterra sarà nel 1967 che si arriverà all'Abortion Act, che prevede l'interruzione volontaria della gravidanza nelle strutture sanitarie pubbliche, negli Stati Uniti nel 1973 attraverso una celebre sentenza della Corte suprema, nel 1975 in Francia con la legge Veil, in Italia nel 1978. Questo impetuoso mutamento socio-culturale è in genere accompagnato da "svolte a sinistra" nella politica interna:  nel 1960 l'elezione di Kennedy negli Stati Uniti, nel 1962-63 l'avvio del centro-sinistra in Italia, nel 1964 il Labour Party torna al potere in Gran Bretagna dopo tredici anni di opposizione, nel 1966 si conclude il lungo monopolio del potere democristiano in Germania occidentale e prende avvio la Grosse Koalition con i socialdemocratici. Unica eccezione di rilievo, la Francia, in cui invece si consolida la svolta gollista.

Si tratta di un insieme di processi che - in generale - tende a indebolire la presenza religiosa nella società e a porre in difficoltà le Chiese. Tanto più un'istituzione come la Chiesa cattolica, con il suo compatto corpus dottrinale e la sua complessa struttura gerarchica. Le questioni si complicano ulteriormente per la Chiesa italiana, che si trova ad affrontare più o meno negli stessi anni la profonda trasformazione del Paese, la svolta politica e - su d'un piano ovviamente assai diverso - il passaggio conciliare.

In ambito ecclesiale, anche in Italia, si delineano strategie diverse. Una - potrebbe dirsi - di "adeguamento", che scaturiva da un'interpretazione ottimistica dei mutamenti in atto, dalla convinzione della loro ineluttabilità e - in fondo - della loro sostanziale positività. Si trattava di assecondarli per operarvi una nuova semina cristiana:  anche la riduzione della presenza sociale della Chiesa era vissuta come una liberazione da un cattolicesimo di costume, "sociologico", e dai legami col potere politico che avevano caratterizzato i secoli passati. È tutta da verificare (e comunque andrebbe chiarita) l'affermazione che - secondo una confidenza di Siri a Lai - il pro segretario di Stato Montini gli avrebbe fatta alla fine del 1953, secondo cui "era fatale un'esperienza socialista in Italia" (p. 209). Ma indipendentemente da questo episodio e quindi dalla posizione di Montini, non c'è tuttavia dubbio che molti ambienti cattolici maturarono una concezione della "modernità" in qualche modo convergente con quelle che circolavano nella cultura laica e "progressista" degli stessi anni.

Un'altra strategia, che potrebbe dirsi di "contenimento", di "arginamento" (non di negazione o di compressione) fu quella elaborata da Siri. A questo proposito sono di notevole interesse le pagine (pp. 153-167) che Danilo Veneruso - nel suo ampio saggio su Il cardinale Giuseppe Siri e l'Onarmo - dedica al "centrismo" di Siri (politico, ma - per alcuni aspetti - anche ecclesiale). La sua non può essere definita una posizione di destra politica:  così non fu mai organico al cosiddetto "partito romano", in quanto - tra l'altro - non giunse mai a mettere in discussione l'unità politica dei cattolici attorno alla Democrazia cristiana, né aspirò a un secondo partito cattolico di destra. Nel 1955, di fronte alle richieste in tal senso del cardinale Ernesto Ruffini e di non pochi vescovi meridionali, ribadì chiaramente:  "Se si va con le destre, resta soltanto una porta aperta" (p.159).
 
"Centrista" è anche il suo anticomunismo, che continua a ritenere un valore permanente, anche quando sta tramontando come discrimine della politica italiana. L'atteggiamento di Siri è in realtà "antitotalitario":  era stato ostile alla "statolatria" fascista e ora continuava la lotta per la libertà della Chiesa e per la democrazia contro i nuovi avversari. Il suo anticomunismo si presentava come un'organica risposta a una complessa sfida:  risposta non eminentemente repressiva, ma in primo luogo culturale e sociale. Non si comprenderebbe altrimenti il suo impegno nell'Onarmo (Opera nazionale per l'assistenza religiosa e morale degli operai), nell'Ucid (Unione cristiana imprenditori dirigenti), e infine nell'organizzazione annuale delle Settimane Sociali.
 
Ma il comunismo era, per lui, intrinsecamente materialistico e ateo, e quindi restava qualcosa di altro rispetto al mondo cristiano; non possedeva - come invece pensavano e talora affermavano non pochi ambienti cattolici - una parziale verità da inverare o da sviluppare, magari nel contatto e nel dialogo col pensiero cristiano.

Tuttavia non può dirsi che la sua iniziale opposizione alla politica di centro-sinistra in Italia scaturisca soltanto da un residuo di anticomunismo:  è in lui forte la sensazione che la nuova formula stia nascendo in un contesto culturale di "laicismo" avanzante, che proviene dall'emarginazione del partito liberale (laico, ma non laicista), dalla saldatura fra la sinistra liberale (il nuovo partito radicale) e il partito repubblicano (un po' gli ideologi dell'operazione) e dal riavvicinamento della socialdemocrazia al partito socialista, una formazione tradizionalmente anticlericale. Gheda pubblica una lunga lettera di Aldo Moro a Siri presidente della Cei del dicembre 1962 (pp. 64-67), in cui si adduce la consueta giustificazione dello "stato di necessità" - "il nostro partito ha creduto (...) di obbedire a una necessità, in quanto non vi era, come non vi è, nell'attuale parlamento un'alternativa democratica alla presente formula di governo" - e si sottolinea come quella di centro-sinistra sia un'operazione puramente politica, non culturale o ideologica - "atto necessario, inderogabile, e comunque non penalizzante l'indirizzo morale del mondo cattolico nella gestione del paese".

Siri invece l'avverte, al tempo stesso, come una svolta politica e culturale, a cui contribuisce anche la fine progressiva dell'orizzonte "cristiano" del partito di maggioranza relativa:  il cardinale genovese si rende conto, cioè, che con le scelte di Fanfani e di Moro ormai la Dc vuol "fare da sé", pur continuando a chiedere il voto cattolico in nome del collateralismo. Nella nuova fase, che sarebbe stata contrassegnata da una modernizzazione impetuosa del costume e della cultura, sarebbe così progressivamente venuta meno alla Chiesa la principale forma di mediazione con la società politica di cui si era avvalsa fin dalla Liberazione.

Anche in un ambito tutto diverso come quello ecclesiastico, Siri prende una posizione complessa, non identificabile completamente con quella della minoranza conciliare:  lo mostrano - sia pure in una diversa prospettiva - i saggi di Gheda e di Roberto de Mattei. Anche quando emerge il suo dissenso da determinate scelte dei successori di Pio xii, esso si coniuga con un atteggiamento costante di totale obbedienza e affidamento al Papa, corrispondente anche all'altissima responsabilità che egli annetteva alla porpora cardinalizia. Ciò accade anche nei momenti di maggior distanza da Paolo VI, quelli immediatamente successivi alla sua elezione al pontificato. Il cardinale avvertì di aver avuto ragione in questa scelta di riservatezza - di "non secondare, come scriveva, né blocchi, né antiblocchi" - quando Paolo VI, nel novembre 1964, presentò ai padri conciliari la Nota explicativa praevia:  "Tutto a posto! Lo Spirito Santo è entrato in Concilio (...) - annotava nel suo diario il 17 novembre 1964 - Così il crinale del Concilio è stato passato:  il Papa ha puntato i piedi e solo Lui poteva farlo. Dio è colla sua Chiesa. Ora si comincia a vedere chiaro e la portata del voto di stamane è da reputarsi storica".

D'altra parte, l'esperienza degli anni difficili del post-concilio spinse Paolo VI a rivalutare in qualche modo la "linea" di Siri:  ne è testimonianza importante la loro convergenza di fronte ai problemi aperti dalla "rivoluzione sessuale" di quegli anni, a cui il Papa rispose con l'enciclica Humanae vitae del 25 luglio 1968, quasi invocata da Siri in una lettera del novembre precedente (pp. 86-87). Insomma, dalla fine degli anni Sessanta il legame tra Siri e Montini si viene rinsaldando, nella comune convinzione - per usare le parole del cardinale genovese - che il necessario "aggiornamento" dell'azione pastorale della Chiesa non poteva essere concepito "come un termine negativo, come un pentimento, come un discredito, come un ripudio, tanto meno come un'infedeltà".


(©L'Osservatore Romano - 5 maggio 2010)

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04/05/2010 19:40
 
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Dal forumista robdealb di oriensforum


Questo era un mio precedente tread, fatto l'anno scorso su un altro forum, giusto in occasione del ventennale della morte

http://forum.politicainrete.net/liguria/4914-memoriam-2-maggio-1989-2-maggio-2009-a.html

Questi, invece, sono due filmati originali sul cardinale, da poco disponibili su youtube

http://www.youtube.com/watch?v=PoaYF_6cPJc

http://www.youtube.com/watch?v=4kiD2zbaXu8





Gli altari versus populum abbiano sempre, anche nel tempo in cui non si svolgono le azioni liturgiche i candelieri (non meno di due, o quattro, meglio sei)...Sono infatti i candelieri che distinguono l’altare cattolico dall’altare acattolico e ciò è della massima importanza...Si consiglia, anche se la legge permette una maggiore libertà, di mantenere l’uso del Crocifisso sull’altare nella parte mediana in modo che il Celebrante e il popolo abbiano sempre visivamente ricordato che su quell’altare si celebra la rinnovazione dello stesso Sacrificio della Croce...Tra i due modi consentiti dalla legge generale per accostarsi alla santa Comunione, quello più consentaneo alla mentalità delle nostre popolazioni, è quello di porsi in ginocchio. Si prescrive pertanto di distribuire la santa Comunione al fedele inginocchiato. Non è ammessa nella Archidiocesi la Comunione in piedi. Qualora si presentassero fedeli, abituati ad altro cerimoniale si invitano garbatamente, ma fermamente a uniformarsi alle disposizioni diocesane.

(Citazioni tratte dal “Decreto sul culto all’Eucaristia e degli altari” emanato dal Cardinale Giuseppe Siri l'8 dicembre 1974)




Il problema dell’intercomunione è un problema di estrema gravità e può costituire una deviazione dal retto metodo ecumenico, presentarsi come un vero trabocchetto per molti cattolici in buona fede ed offrire una nuova testimonianza dello sviamento di teologi dalla teologia...L'unità non si farà mai sulle mezze parole, sui concetti detti a metà, sulle aperture ed interpretazioni volontarie. Se questa qualcuno la chiamasse unità, o non saprebbe quello che dice, o mentirebbe sapendo di mentire...Un falso approccio ecumenico è inficiato di relativismo sul piano dogmatico; è il tema che oggi è trattato eufemisticamente con il termine di pluralismo. Nella sostanza della dottrina accettata come rivelata o certa dalla Chiesa Cattolica non può esistere pluralismo. Questo suppone il relativismo, il quale porta logicamente al disfacimento di tutto; non dunque unità, ma distruzione. E' forse l'unità un'opera di distruzione? Il pluralismo sta nei gusti, negli aspetti, nelle simpatie, negli onesti adattamenti al linguaggio delle culture - salva veritate -, mai nella sostanza della verità e degli stessi fatti. Sta nelle cose umane, che «Dio ha lasciato alle dispute degli uomini», ma non certo nelle cose, che stabilmente ha definito Lui per il tempo e per l'eternità.

(Brano tratto da un editoriale del Cardinale Giuseppe Siri, pubblicato su “Renovatio”, IX - 1974)





Ritengo di attirare la attenzione su un problema, che sta diventando della massima importanza: quello dell'abito ecclesiastico…Di fatto si sta assistendo alla più grande decadenza dell'abito ecclesiastico…L'abito condiziona fortemente e talvolta forgia addirittura la psicologia di chi lo porta . L'abbigliamento, infatti, impegna per la vestizione, per la sua conservazione, per la sostituzione. È la prima cosa che si vede, l'ultima che si depone. Esso ricorda impegni, appartenenze, decoro, colleganze, spirito di corpo, dignità! Questo fa in modo continuo. Crea pertanto dei limiti alla azione, richiama incessantemente tali limiti, fa scattare la barriera del pudore, del buon nome, del proprio dovere, della risonanza pubblica, delle conseguenze, delle malevoli interpretazioni…L'abito non fa il monaco al 100%, ma lo fa certamente in parte notevole; in parte maggiore, secondo che cresce la sua debolezza di temperamento…Per tale motivo la questione della divisa ingigantisce nel campo ecclesiastico e si impone alla attenzione di quanti vogliono salvare vocazioni, perseveranza negli accettati doveri, disciplina, pietà, santità!…succede che in talune città d'Italia (non citiamo ovviamente i nomi, ma siamo ben sicuri di quello che diciamo) per l'assenza di ritegno imposto dalla sacra divisa si arriva ai divertimenti tuttavia proibiti dal Codice di Diritto Canonico, ai night clubs, alle case malfamate e peggio. Sappiamo di retate di seminaristi fatte in cinema malfamati ed in altri non più consigliabili locali. Tutto per colpa dell'abito tradito!…Il bilancio che ne consegue . Eccolo:
- disistima;
- sfiducia;
- insinuazioni facili e talvolta gravi;
- preti che, cominciando dall'abito e dallo smantellamento della prima umile difesa, finiscono dove finiscono...
- crisi sacerdotali, del tutto colpevoli, perché cominciate col rifiuto delle necessarie cautele, richieste dal Diritto Canonico e dal consiglio dei Vescovi..., con risultati disgraziati e spostati...
- seminari che si svuotano e non resistono; mentre nel mondo, tanto in Europa che in America, rigurgitano i seminari, ordinati secondo la loro genuina origine, col rigoroso abito ecclesiastico, nella vera obbedienza al Decreto conciliare Optatam totius;
- anime che si trascinano innanzi senza più alcuna capacità decisionale, dopo la loro contaminazione col mondo.

…Credo difficile possa esistere nel nostro tempo, proprio per le sue caratteristiche, lo spirito ecclesiastico senza il desiderio e il rispetto dell'abito ecclesiastico…Qui non parliamo solo di «abito ecclesiastico», ma di talare. E guardiamo bene le cose in faccia, senza alcun timore di quel che si può dire…Alcuni, per boicottare l'uso della talare o per giustificarsi nell'aver ceduto alla moda corrente contraria all'abito talare, affermano: «Tanto la talare è un abito liturgico», volendo così esaurire l'eventuale uso della talare alla sola liturgia. Questo è apertamente falso e capziosamente ipocrita!…Francamente è chiaro che il clergyman…non è la soluzione più desiderata. Chi non ama la sua talare resisterà ad amare il suo servizio a Dio? Il prossimo non sostituisce Dio! Non è soldato chi non ama la sua divisa…L'indirizzo da darsi è:
- che anche se la legge ammette il clergyman, esso non rappresenta in mezzo al nostro popolo la soluzione ideale;
- che chi intende avere l'integro spirito ecclesiastico deve amare la sua talare;

- che la difesa della talare è la difesa della vocazione e delle vocazioni.

Il mio dovere di Pastore mi obbliga a guardare assai lontano. Ho dovuto constatare che la introduzione del clergyman oltre la legge e le depravazioni dell'abito ecclesiastico sono una causa, probabilmente la prima, del grave decadimento della disciplina ecclesiastica in Italia. Chi vuol bene al sacerdozio, non scherzi con la sua divisa!

(Testo tratto da: Card. Giuseppe Siri, A Te sacerdote, vol. II, Frigento: Casa Mariana, 1987, pp. 67-73)






Cari Confratelli, Diletti Figli!...la Chiesa ha voluto richiamare al mondo una verità tanto elementare quanto trascurata: il primo atto al quale sono tenuti gli uomini, come singoli e nella loro vita associata, è quello di rendere nell’intimo del cuore per la sincerità, nella pubblica espressione per la giustizia verso il Creatore, quel culto che Gli è dovuto come a dispositore di ogni cosa, salvatore ed eterno amore. Il culto solenne e pubblico a Dio sta prima del progresso, prima di ogni piacere e prima di ogni altro dovere sociale. Tutte le proporzioni si alterano nella vita individuale e sociale, quando questa legge non viene osservata ed il disordine, la insoddisfazione, la noia, la tristezza, la stessa disperazione si impossessano degli uomini e fanno impazzire gli stessi fatti della loro storia. Molti troveranno in questo la vera spiegazione del loro stato arido ed oscuro, pervaso di ombre e di inutili dolori...la Liturgia è il primo strumento ordinario per la salvezza delle anime. Non vi sembri strano: il Santo Sacrificio, i Santi Sacramenti, la più grande preghiera, la erogazione della parola di Dio più autentica fanno parte della Divina Liturgia. Non solo, ma essa, col suo continuo dialogo con Dio, colla Vergine Madre nostra e coi Santi, ricostruisce sempre la famiglia di Dio, quella che resta al disopra delle nere vicissitudini umane. Colla Divina Liturgia, specialmente se capita e seguita, si insegna, si santifica, si eleva tutto.

(Brani tratti dalla lettera pastorale del 2 febbraio 1964)


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Card. Giuseppe Siri: una splendida analisi dei mali sempre attuali per evitare una sorte ingloriosa.

IL PROGRESSISMO
del Cardinal Giuseppe Siri


«Viviamo in un’epoca in cui si ha paura persino delle parole! […] Cova dappertutto, la paura, la timidezza, le compromissioni trovano seguaci, difensori, tutori dappertutto. […] Si ha vergogna di Dio».

**

Viviamo nell’epoca delle «parole». Per vincere battaglie civili (e non solo queste) si coniano parole e detti icastici, riassuntivi (slogans). Per abbattere uomini si impiega qualche termine o classifica, che le circostanze suggeriscono atti allo scopo di demolire. Per anestetizzare cittadini e fedeli si coniano parole.
Ciò che stupisce è il fatto per il quale gli uomini, invece di lasciarsi abbattere da autentiche spade, si lascino abbattere da sole parole. Perciò i termini, gli slogans, le classifiche di moda vanno vagliati, capiti, eventualmente smascherati.

Comincio pertanto a pubblicare delle note chiarificatrici. Spero che il nostro clero vorrà leggersele bene, per evitare una sorte ingloriosa.

Cominciamo dal termine più in voga, usato come un fendente o come una protezione per il proprio operato: «progressismo».

Di tanta gente si dice che è o non è «progressista». Vediamoci chiaro e, se ci fosse da restituire un termine alla esatta funzione, non coartata, come è serena e dolce la nostra italica parlata, non bisogna ricusare quel merito.
Elenchiamo pertanto i casi più frequenti nei quali si usa il termine «progressista». Porgiamo uno specchio perché ognuno ci si guardi.

1. Essere indipendenti dalla logica teologica

Molte volte il «progressismo» significa questo, o, piuttosto quando ci si attribuisce una tale indipendenza, ci si gloria di essere «progressista». Vediamo dunque che vuol significare. Le conclusioni a poi.
Che è questo «disimpegno totale dalla logica teologica»?
Logica teologica è l’insieme di queste norme, applicando le quali si può documentatamente arrivare ad affermare come rivelata od anche come semplicemente certa una proposizione.

Queste norme, costituenti la logica teologica, in realtà si riducono (parliamo, si badi bene, della «logica», non della Rivelazione) ad un principio: il magistero infallibile della Chiesa. Infatti è al magistero infallibile della Chiesa, sia solenne, sia ordinario, che è affidata la certa autentica interpretazione sia della Scrittura che della divina tradizione. Ed è logico. Infatti, se Dio avesse consegnato agli uomini una quantità di rotoli scritti o di nastri magnetici per far udire la viva parola e si fosse fermato lì, ad un certo punto niente avrebbe funzionato, si sarebbe trovato modo di far dire alla divina Parola tutto quello che si vuole, il contrario di quel che si vuole, il contraddittorio di quel che si vuole e non si vuole, all’infinito. La verità salvifica non avrebbe potuto funzionare tra gli uomini. Le prove? Le abbiamo sotto gli occhi e ci appelliamo solo a due.
La prima è che con una natura immensamente nitida, la storia umana ha avuto in continuazione filosofie torbide, il contrario, il contraddittorio di esse. La dimostrazione di quello che sa fare l’uomo nel suo pensiero, lasciato a se stesso ed agli stimoli del proprio io o delle proprie tenebre, la dà la storia della filosofia ed ancor meglio la filosofia della storia della filosofia.

La seconda sta nella sedicente larga produzione teologica d’oggi, dove proprio per l’oblio della logica si afferma il contrario di tutto, non esclusa la morte di Dio.
Il disegno divino nella istituzione del Magistero, al quale è collegato tutto quanto sta nell’opera della salvezza, si leva chiaro e necessario dal turbinio delle sfrenate cose umane.
Quello che oggi accade è la dimostrazione ab absurdo della verità e necessità del magistero ecclesiastico!
Il magistero ecclesiastico canonizza altri strumenti che diventano così «mezzi» per raggiungere nella certezza la verità teologica. Essi sono: i Padri, i Dottori, i Teologi, la Liturgia… purché siano consenzienti ed abbiano avuto la approvazione esplicita o implicita della Chiesa. Tale approvazione rende acquisita al Magistero stesso la verità espressa da altre fonti. Nessun Teologo, nessuna schiera di Teologi o Dottori, senza questa approvazione sicura del Magistero, conta qualcosa nella affermazione teologica. Tutt’al più, se risponderà alle ordinarie regole di un metodo scientifico, potrà condurre a formulare una ipotesi di lavoro. Col che il campo resta spazzato.

Quelli che abbiamo chiamati «mezzi» di riflesso del magistero ecclesiastico costituiscono con lo stesso la «logica» della Teologia.
Questa logica è abbandonata da troppi. Ed è per questo che si leggono riviste e libri i quali contraddicono tranquillamente a quanto il Concilio di Trento ha definito, accettano modi di pensare che sono espressamente condannati nella enciclica Pascendi di s. Pio X nonché nel suo Decreto Lamentabili; fanno le riabilitazioni di Loisy; mettono in dubbio il valore storico dei Libri storici della Sacra Scrittura, elevano a criterio le teorie distruttrici del protestante Bultmann, sentono con indifferenza le proposizioni di qualche scrittore d’oltralpe, anche se toccano il centro della rivelazione divina, ossia la divinità di Cristo.

Naturalmente trattati senza freno i princìpi, si fa quel che si vuole della morale e della disciplina ecclesiastica.
Sotto questo fondamentale angolo di visuale il progressismo consiste nel trattare come relativa la verità rivelata, nel cambiarla il più presto possibile, nel dare agli uomini una libertà della quale in breve non sapranno che farsi, di fronte all’Assoluto.
Ridotto a questa frontiera il «progressismo» coincide col «relativismo» e all’uomo, «adorato», non si lascia più nulla, neppure delle sue speranze!
Naturalmente non tutte le persone etichettate come progressisti sanno queste cose. Ma esse accettano le conseguenze e le logiche deduzioni di quello che ignorano. Se hanno una colpa — questo lo giudichi Dio! — questa consiste nel non domandare il perché di quello in cui si fanatizzano.
In ogni modo l’oblio della logica teologica funge, anche se non conosciuta, da lasciapassare per le altre manifestazioni delle quali dobbiamo discorrere.
Tutto quello che abbiamo sfornato attraverso catechismi di vane lingue, dei quali fu pieno l’aere e che potrebbe venire sfornato in catechismi futuri, significherebbe la lenta distruzione della Fede e l’inganno più colpevole perpetrato ai danni dei piccoli che crescono.
Ne si può tacere la conseguenza ultima di un abbandono della logica teologica: l’assenza della certezza nei fedeli. Alla parola di Dio si può e si deve credere; nessuno può essere condizionato, se non ha giuste e appropriate conferme, dalle opinioni dei teologi. Ricordo il mio grande maestro di Teologia, il tedesco padre Lennerz S.J., che ripeteva sempre e con ragione: «Credo Deo Revelanti et non theologo opinanti!».

2. Il «sociologismo»

Tutti quelli che amano essere chiamati progressisti fanno l’occhiolino al sociologismo anche se non sanno che cosa sia.
Esso consiste nel trasferire il fine della vita, il Paradiso, al quale tendere, la molla direttiva delle azioni, dal Cielo alla Terra. Pertanto non è il caso di occuparsi della salute eterna, bensì del benessere terreno, concentrare tutto nel dare tale benessere e godimento egualmente a tutti in questo mondo.
La manifestazione esterna di questo sociologismo è fare l’agitatore, il demagogo, il rivendicatore di beni fuggevoli, il consenziente a tutte le manifestazioni che esprimano la foga di questa tendenza.
Questo costituisce la più comune ed espressiva nota del progressismo. Sia ben chiaro che noi dobbiamo essere con la giustizia e che l’ordine della carità ci impone di avere come primi nell’oggetto dell’amore i bisognosi. Ma si tratta di altra cosa, perché il sociologismo non si cura della salvezza eterna dei poveri ed usa tutti i metodi, anche immorali, che giudica bene o male favorevoli al benessere terreno, cercando di fatto di mandarli all’inferno.

Siamo anche qui ben lontani dal credere che tutto quello che si tinge di sociale sia sociologismo e che i moltissimi attori di questa scena siano sociologisti coscienti della apostasia insita nel sociologismo. Diciamo solo che in realtà accettano le conseguenze di una concezione materialistica del mondo. Forse non lo sanno, forse sono semplicemente degli imitatori, forse seguono il vento credendo che esso spiri da quella parte; forse credono di far la parte degli stupidi, forse temono soltanto di essere etichettati per conservatori. Viviamo in un’epoca in cui si ha paura persino delle parole!

Forse si tratta di un modo per ingraziarsi qualche potente, per fare strada e, quel che è più ovvio, per fare soldi: se ne predica il dovere verso gli altri e intanto si intascano. Gli esempi abbondano! La sociologia pratica è diventata certamente una industria ed anche qui gli esempi non mancano.
Le massime del sociologismo avendo qualche — solo qualche — contatto con la dottrina cristiana della giustizia e della carità, pur involvendo altri ideali che tutte le verità cristiane acerbamente smentiscono, sono piuttosto semplici, sbrigative, atte al comizio, al facile consenso, al certo applauso, quasi visive, traducibili in termini di spesa quotidiana e pertanto rappresentano una via brevissima per stare al passo coi tempi!
Ma si sa dove vanno i tempi?
Questa terribile domanda, con quello che coinvolge, non se la rivolgono. Le esperienze dove sono arrivate, dove si sono fermate? E proprio necessario rinnegare il Cielo, la carità verso tutti, per portare benessere ai nostri simili? E proprio necessario essere rivoltosi, travolgere dighe, distruggere sacre tradizioni per rendersi utili ai nostri simili?
Ma, infine, nel Santuario, al quale siamo legati da sacre promesse, tutto questo è progresso, o non piuttosto congiura per strappare agli uomini l’ultimo lembo dell’umana dignità e della speranza eterna?

continua...........

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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3. La nuova storiografia

Per i colti il progressismo ha un modo suo di rivelarsi a proposito di storia; sono progressista se giustifico Giordano Bruno, sono conservatore se lodo l’austero san Pier Damiani. Tutto qui!
Ripetiamo che si parla di storiografia nell’area della produzione, che vorrebbe chiamarsi «cattolica». Dell’altro qui non ci interessiamo.

La parte maggiore della produzione – ci sono, è vero, nobili e importanti eccezioni – pare obbedisca, per essere in sintonia col progresso, ai seguenti canoni:
— la società ecclesiastica è la prima causa dei guai che hanno colpito i popoli;
— la Chiesa – detta per l’occasione postcostantiniana – avrebbe fatto con continui voltafaccia alleanza coi potentati di questo mondo per mantenersi una posizione di privilegio e di comodità;
— le intenzioni impure, le più recondite e malevole, vengono attribuite a personaggi fino a ieri ritenuti degni di ammirazione. Per questo sistema di giudizio alcuni Papi sono stati quasi radiati dalla Storia, non si sa con quale motivazione;
— tutta la storia ecclesiastica fino al 1962 è stata panegirica, unilaterale, concepita con costante pregiudizio laudatorio, mentre non è che un accumulo di pleonasmi i quali hanno alterato il volto di Cristo. Questa conclusione – tutti lo vedono – costituisce il fondamento per distruggere il più possibile nella Chiesa e ridurla ad un meschino ricalco del Protestantesimo. San Tommaso Moro, martire, è stato messo addirittura sul piano di Lutero;
— le vite dei Santi vanno riportate a dimensioni «umane» con difetti, peccati, persino delitti, mentre gli aspetti soprannaturali tendono ad essere relegati nel solaio dei miti;
— il valore della Tradizione e delle tradizioni è del tutto irriso, con evidente oltraggio alla obiettività storica, perché, se non sempre, le tradizioni che attraversano senza inquinamenti i secoli hanno sempre una causa che le ha generate.

Si potrebbe continuare.

Ma non si può tacere il rovescio della medaglia: i personaggi vengono magnificati perché si sono rivoltati, perché hanno messo a posto la legittima Autorità, perché hanno avuto il coraggio di distruggere quello che altri hanno edificato, hanno rivendicato la «libertà» dell’uomo con la indipendenza del loro pensiero, incurante della verità. Gli eretici diventano vittime, mezzi galantuomini… qualcuno ha osato parlare di una canonizzazione di Lutero. È condannevole chi ha difeso la libertà della Chiesa, la libertà della scuola cattolica, che ha imposto ai renitenti la disciplina ecclesiastica. Tutti sanno la sorte riservata a coloro che ancora osano salvaguardarla!

Si capisce benissimo la logica interna di questo andazzo della storiografia: la santità, la penitenza, la vera povertà, il distacco dal mondo hanno sempre dato fastidio e continuano a darlo dalle tombe, come se queste non potessero mai essere chiuse.

È difficile sia accolto nel club progressista chi dice bene del passato!

4. La Bibbia va interpretata solo e liberamente dai biblisti

Siamo arrivati ad una questione, o meglio ad una affermazione veramente nodale in tutta la storia del progressismo ecclesiastico moderno.
Bisogna rifarsi ai fatti, i quali non cominciarono precisamente in quella seconda seduta del Vaticano secondo, nella prima sessione, nella quale taluni gioirono, credendo che due interventi niente affatto felici avessero posto una buona volta la scure alla radice della divina tradizione ed avessero spianato la via alla conversione verso il Protestantesimo.
Quei due interventi, consci o no di portare l’afflato di male intenzionate persone, avevano dei precedenti. Eravamo presenti in mezzo a tutti gli avvenimenti e siamo ben sicuri di quello che diciamo. Da tempo, e molti atti di Pio XII ne fanno fede, il bacillo di volere interpretare la Sacra Scrittura in modo «privato» detto scientifico era entrato, pur non osando entrare nella editoria di divulgazione per la stretta vigilanza degli Imprimatur. La storia è dunque assai vecchia, ma solo negli ultimi tempi è diventata di portata comune. Eccone i punti.

— La filologia, l’archeologia, le ricerche linguistiche, i procedimenti comparati (ad usum delphini), ma soprattutto le svariate opinioni di tutti gli scrittori specialmente d’oltralpe, ai quali generalmente si fa credenza solo citandone il nome e il titolo (mai o quasi mai chiedendo le ragioni e vagliandole), costituiscono il vero, unico modo de facto di interpretare la Bibbia.

Non importa si pronunci una parola; la pronunciamo Noi: questo è libero esame, perché sostituisce il «placitum» privato al primo vero mezzo stabilito da Dio per la interpretazione della sua natura: il Magistero. La parola «libero esame» viene accuratamente taciuta e continuamente applicata.
— Il complesso sopra citato, a parte che è la ripetizione di teorie propinate nel secolo scorso e sulle quali le scuole cattoliche hanno riso per più di mezzo secolo, è soggetto ad un flusso e riflusso, ad un susseguirsi di affermazioni e di smentite, ad una produzione di fantasia, che da solo non può essere, in cosa tanto grave, vera garanzia.
— La ermeneutica cattolica ha sempre insegnato che la prima interpretazione delle Scritture, comparata con le Scritture e con la divina tradizione, riceve la autentica garanzia di certezza dal Magistero.
Se la scioltezza di interpretazione della Bibbia da ogni vincolo precostituito da Dio stesso si chiama «progresso», ciò significa che tale progresso porta con sé alla eresia ed alla apostasia. Come è ben sovente accaduto sotto gli occhi di tutti. Ogni elemento è utile alla più adeguata interpretazione della Bibbia, certo! Ma il primo, condizionante tutti gli altri, è quello che ha determinato Iddio. Niente di più logico e di più ovvio.
Non è compito di questa lettera vedere le conseguenze pratiche di tutto ciò. La materia biblica non è in fin dei conti una materia esoterica, nella quale solo gli iniziati possono entrare con perfetta riverenza e grande circospezione. Qualunque uomo, pratico di pensiero e di logica, messo dinanzi ad una protasi (putacaso una locuzione siriaca) ed una apodosi (p.e. la interpretazione di un passo di Matteo) quando la prima gli è spiegata (e non occorre molto; spesso basta un dizionario), è in grado di vedere se è valevole il rapporto di causa, di effetto affermato tra i due termini. Non è il caso di assumere la sufficienza che il buon don Ferrante assumeva quando dissertava sulle strane parole «sostanza» ed «accidente» cavandone la inesistenza della peste. Il che non era vero!

Insistiamo sull’argomento perché proprio qui sta un centro di tutto il fenomeno che va sotto il nome di «progressismo».

5. Le allegre «teologie»

Pare che un buon progressista si debba mettere qui in fila.
Ecco il fatto: si sta costruendo una teologia per ogni cosa, a proposito e a sproposito: del lavoro, dell’uomo (antropologia), della tecnica, delle comunicazioni sociali, della comunità, della morte di Dio (?), della speranza, della liberazione e della rivoluzione… Quasi tutte queste voci sono decorate di notevoli volumi. Non c’è alcun dubbio che tale proliferazione è una delle più grandi caratteristiche del progressismo. Vediamo di capirci.

Queste sono vere «teologie», anzitutto?

È «teologia» quella in cui le affermazioni sono dimostrate dalle fonti teologiche. Quando le affermazioni vengono basandosi sui criteri di qualunque manifestazione saggistica, non abbiamo Teologia. Avremo tutto quello che si vuole, vero o falso, ma certo non avremo Teologia. Queste teologie, salvo in qualche parte e taluna soltanto, non sono affatto «Teologia». Noi dobbiamo protestare contro l’abuso di un termine che la fatica dei secoli ha reso venerandi e assolutamente proprio.
In secondo luogo dovremmo porci la domanda se queste teologie contengono verità. Non è nell’intento e nell’assunto di questa nota occuparci del merito, ossia dei «contenuti» di queste teologie o sedicenti teologie.

Ci limitiamo solo a fissarne alcuni caratteri comuni.

— Lo schema di queste teologie segue gli stati d’animo che si vivono nel nostro tormentato secolo e pertanto hanno più un carattere di rivelazione della nostra situazione concreta che un vero contenuto oggettivo e permanente.
— Difatti puntano su assiomi cari a qualche pensatore dell’Ottocento o del Novecento. Vanno secondo il vento che tira. Il «sociologismo», del quale abbiamo già parlato e che tiene il campo, derivando da un principio messo dal “cristianissimo” e “devoto” Mounier, di fatto si ispira al marxismo, del quale la povera gente ha già esaurito la esperienza che non ha invece ancora illuminato i suoi più o meno stanchi assertori.
Sarebbe forse questa la «Nova Theologia»? Risentiamo ancora oggi con perfetta vivezza una voce potente, modulata magnificamente in modo oratorio, che nel Vaticano secondo si levò per chiedere – con altre cose – una «Nova Theologia». Non potevamo vedere dal nostro posto il Padre al quale apparteneva quella magnifica voce. Sono passati più di dieci anni e non sono riuscito a capire che cosa l’Oratore intendesse propriamente per «Nova Theologia». Se le varie teologie delle quali abbiamo parlato, denominandole «allegre», sono una risposta alla domanda, bisogna dichiararsi al tutto insoddisfatti.
Ma sotto il fatto, presentato come un fenomeno «caratterizzante il progressismo», c’è ben altro e ben più importante.

C’è la valutazione negativa di tutta la Teologia fino al 1962.

E questo è grave. Infatti.
La Teologia ha condotto per tanti secoli questo grande lavoro.

Ha preso da tutte le Fonti autentiche il pensiero della rivelazione divina e, senza forzature o deformazioni (parliamo del filone, non dei cantanti extra chorum), le ha messe insieme pazientemente, riducendole in formule accessibili all’indagine del nostro pensiero. Lavoro paziente di ricerca, di accostamento, di sintesi. A tutto ha dato un ordine che fosse più scorrevole per la logica dell’apprendimento umano. Niente ha accolto che non fosse secondo la mente delle Fonti. Questo lavoro immenso e prezioso si chiama «istituzionalizzazione». Tutto quello che documentatamente raccolto ha cercato di penetrare, aiutandosi coi principî del buon senso umano, nella misura in cui era consono alle Fonti o addirittura derivato da esse, tutto questo costituisce la parte «speculativa» della Teologia, senza della quale la parte sopra descritta (positiva) non aprirebbe sufficientemente il suo significato alla intelligenza umana. Intendiamoci bene: non ha accolto le filosofie transeunti, ma il buon senso umano, quello assunto da Dio stesso nell’atto di calare la Sua Rivelazione nelle forme concettuali a noi solite.

Ed ecco la finale interessante: tutto questo, per la serietà del procedimento, ossia del metodo, non permette di fare quello che si vuole, quello che comoda, quello che mette a vento secondo le mode transeunti. Per questo la Teologia speculativa è venuta a noia; meglio è dilettarsi sulle «variazioni» estranee al metodo.
Tutto ciò è in odio alla Teologia. Non dunque «Nova Theologia», ma «anatematizzata Teologia».
La Teologia, occupandosi del pensiero da Dio comunicato agli uomini, ha da camminare fino alla fine dei tempi e solo così compirà la sua missione. Vi sono in essa filoni ancora inesplorati, che possono dare ansa al genio di molti santi Tommasi d’Aquino. Ben vengano, ma sarà una cosa seria!
La questione sarà chiarita da quanto stiamo per dire al numero seguente.

6. Accogliere ed imparentarsi quanto è possibile con tutte le varie filosofie

Altro appannaggio che assicura la qualifica ambita di «progressista». Un principio decantato in tutti i modi dal progressismo è quello di accogliere tutto il pensiero via via fluente, cercare di adeguare a quello il messaggio cristiano e, se occorre, fare secondo quello, via via, una reinterpretazione della rivelazione divina.
Chi non accede a questo punto di vista è un trito conservatore, un vecchio inutile rudere, al quale nessuna persona colta crederà più.
Abbiamo detto il fatto in forma assolutamente cruda; molti, che amano essere progressisti, un punto di vista del genere amano presentarlo in dosi variabili, anche omeopatiche, sì da permettere sempre una tempestiva ritirata strategica.

Guardiamo bene in faccia questa faccenda.

— Il pensiero umano cambia, si dice. Meglio: cambia il pensiero accademico a seconda degli idoli del momento. Fuori della professione filosofica ed intellettuale etichettata, continua a vivere bene o male il buon senso umano. È vero però che gli strumenti della cultura si orientano secondo i placita di moda e così influenzano molti spiriti e molti avvenimenti, come accade nel nostro tempo per i metodi hegeliano e freudiano dopo che i loro autori sono sconosciuti ai più e sono, comunque, morti.
— Accettare qualunque pensiero umano, spesso contraddittorio, significa qualcosa di più che cambiare testa, ma significa soprattutto non credere alla esistenza della verità. Se questa oggi è bianca, domani è nera, vuol dire che non esiste.

La conseguenza logica è patente: se si deve aggiustare sempre la Parola di Dio a seconda di questo cangiante scenario, si accetta che non esiste la verità, la Rivelazione, Dio. La consequenzialità è tremenda, ma non la si sfugge. Lo stesso vale per la reinterpretazione del dogma.
Il progressismo qui accetta il relativismo. Che cosa può più difendere nella Fede? È distrutto tutto. Non eresia, ma anche apostasia!

Con tutto questo non si esclude affatto che le diverse e contraddittorie manifestazioni del pensiero possano avere qualche parte od aspetto immune dalla sua interna logica distruttiva e pertanto accettabile, che taluni aspetti vengano illuminati, che talune stimolazioni siano afferenti. Tanto meno si esclude che il messaggio evangelico vada presentato in modo comprensibile agli uomini del proprio tempo, usando con la dovuta cautela il suo linguaggio ed i suoi mezzi espressivi.
La parentela tra il progressismo ed il relativismo, ossia il modernismo condannato, è una parentela troppo vergognosa per gloriarsene.

continua....................





Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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7. Il rifiuto della apologetica

Siamo sempre nel bagaglio che autorizza ad essere progressisti.
Le premesse della Fede (apologetica) non si dimostrano più. La ragione? È stata già detta e scende logica dalle sue premesse: abbiamo visto che il progressismo accetta il relativismo (anche quando smentisce, nei suoi più pavidi e i meno aperti cultori). Abbiamo visto che per questo non esiste verità obiettiva. Dobbiamo dedurne che la questione della Fede è una mera questione di fede devozionale, insufflata dal sentimento (modernismo); che c’è dunque da dimostrare? Niente.
Difatti in campo biblico si mette in dubbio o il testo qualunque o il significato che la Chiesa (Magistero) gli ha sempre attribuito, si mette in dubbio la storicità dei Vangeli, della Resurrezione di Cristo… Non occorre dimostrare queste cose. La Fede viene bene e la si tiene; è inutile cercare degli elementi di prova.

Non vale che nessun libro storico della antichità abbia dimostrazioni di critica esterna e interna, quale hanno i libri della Bibbia. Queste cose non servono più.
Abbiamo visto e vediamo tuttora tanta gente tornare a Dio, solo perché è possibile dare una dimostrazione scientifica, poniamo dello Evangelo di Matteo. Ma bisogna rinnegare anche questa onesta capacità che il Vangelo di Matteo – come gli altri – ha di farsi precedere dalla più rigorosa documentazione della sua autenticità. Questo è il progressismo. Molti anni innanzi non riuscivamo a capire perché uno scrittore di non troppa vaglia non volesse sentir parlare di «apologetica»; ora abbiamo capito. Ma non che lui lo sapesse, non era da tanto; era manovrato da chi tacendo lo sapeva.
Molti che nella più perfetta buona fede hanno dato un certo ordine nuovo alle materie teologiche da studiare, ordine al quale mai abbiamo consentito, non sapevano di eseguire un comando del modernismo latente sotto la cenere.

Il silenzio in fatto di apologetica, che si sente tutto intorno, le meraviglie sincere espresse a chi ritiene sempre necessaria la apologetica, il fingere di ignorare la sequela logica dei «perché» della mente degli uomini, indica fin dove è entrato il modernismo anche in uomini integerrimi ed onesti.
Si guardi bene e, soprattutto, si lasci da parte l’inutile erudizione, usando la propria testa, e si vedrà che tutto il progressismo è venato di modernismo. Forse il rifiuto della apologetica ne è la manifestazione più rivelatrice. Citare, sì; ragionare, no! Perché la ragione e il suo valore non può venire accolta dal modernista. Ci voleva poi tanto a capirlo?

8. La riabilitazione degli eretici

Qui c’è la larghezza di cuore del progressismo.

Abbiamo già ricordato al n. 3 la trovata di chi ha proposto la canonizzazione di Lutero. Ma c’è altro: i colpiti dagli anatemi del passato riscuotono una notevole simpatia ed hanno molti avvocati difensori, per lo meno in cerca di attenuanti. Giordano Bruno, ad esempio, in talune riviste riemerge dalle ceneri con l’aria di dire «mi avete fatto aspettare quattro secoli, ma ce l’ho fatta». Gli scritti di autori protestanti, che dovrebbero essere all’Indice in forza del canone 1399, sono citati abitualmente al posto di sant’Agostino e di san Tommaso. L’euforia più entusiasta accoglie tutti quelli che sono stati colpiti da censure canoniche, mai come oggi, meritate.

Ma, è normale tutto questo?
I figli che elogiano in casa quelli che hanno fatto andare in rovina i vecchi, che tengono bordone coi persecutori dei propri parenti, si chiamano «degeneri».

Evidentemente la capacità logica di distinguere tra la divina istituzione della Chiesa e gli uomini che la conducono fa al tutto difetto.

Ma l’intendimento sotterraneo non è poi tanto invisibile. Si innalzano le presunte vittime del magistero ecclesiastico, per colpire il magistero ecclesiastico; si magnificano i distruttori della disciplina ecclesiastica per umiliare quella Gerarchia, che tutela la stessa disciplina. Agli eretici ed ai ribelli consiglieremmo di non fidarsi troppo di tali contorti amici. e infatti essi non si sono minimamente schiodati dalle loro posizioni

Molti errori si affermano, si difendono, si divulgano, non tanto per se stessi, ma solo per far dispetto a qualcuno. Essi sono semplicemente lo sfogo delle più bambinesche passioni umane.

Tutto fa brodo e, elogiando un po’ i ribelli, sostenendo un po’ gli sbandati, rivoltando le cose a modo proprio, si fanno le vendette, si manifestano le invidie, si rendono noti i disappunti di quelli che credono di non esser potuti «arrivare»; soprattutto, nella gran fiera, si fanno meglio i propri comodi. I peggiori!

Le condanne ci sono, eccome, ma sono, in via storica, per coloro che nel passato hanno tenuto duro e fatto il loro dovere e per quelli che oggi, rendendosi conto della confusione e del regresso spirituale, vorrebbero fermarne le cause.

Si direbbe che i Santi appartengano al passato e gli eretici al futuro: è un pericoloso paradosso.

9. L’antigiuridicismo

Chi lo afferma è sempre stimato vero progressista.

Non tutti hanno il coraggio di dire che ogni legge dovrebbe essere abolita, ma moltissimi lo pensano e non vogliono rendersi conto che la legge è l’unico strumento per tenere in ordine e col minimo loro danno degli uomini liberi. L’affermazione sta proprio all’estremo confine della ragionevolezza.
La mania è come un vento del deserto, che brucia tutto e lo si trova dappertutto, anche sotto mentite spoglie. Enumeriamo le più ovvie applicazioni, alle quali un numero enorme di persone perbene abbocca, mentre potrebbe in tempo utile evitare delle dannose conseguenze.
Ovunque si vogliono le Assemblee: esse indichino, esse decidano.

La ragione? Il numero diluisce e fa scomparire — così credono — uno che comandi, il regolamento che limiti. Autorità e regolamenti sono strumenti — oltre tutto — anche giuridici.

Poiché non pochi capiscono come vanno a finire le Assemblee cercano di restringere ed usare qualcosa che rassomigli ad una «assemblea ridotta» con qualche regolamento e con un responsabile. Sì, parliamo di «responsabili», perché il terrore di macchiarsi di giudiricismo è tale che non si vuole più sentir chiamarsi «presidente», termine troppo giuridico, e ci si salva con una semplice variazione lessicale.
Altra forma è l’uso maldestro della «base». Diciamo maldestro perché il termine può essere usato anche in senso buono. Ma l’uso più ricorrente è quello in cui il timore del temutissimo giuridicismo è tale da far paventare le «responsabilità» (termine giuridico, oltreché morale) e pertanto tutto si scarica sulla «base».
Non diciamo affatto che i termini, qui proposti come esempio della posizione avversa al giuridicismo, siano cattivi. Tutt’altro! Diciamo solo che mascherano sulla bocca di taluni una debolezza.

Per parlare chiaro diciamo che mascherano facilmente una «ipocrisia». Molti — e lo si osserva nei gruppuscoli, anche minori — temono di dirsi «capo» o «presidente», ma aspirano in ogni modo, anche violento, a fare i «tiranni».

La verità è tutta qui: gli uomini liberi si tengono a freno, in modo da realizzare una compatibile vita sociale solo in due modi: «la violenza o la legge».

Ricordiamo che la paura è un riflesso della violenza.

Non si vuole la legge? Si sceglie la violenza?

E questo sarebbe progresso? Ma si sa quello che si dice e si scrive?

Quando fu pubblicato — alla macchia — un abbozzo di «Legge Fondamentale» per il futuro Codice di Diritto Canonico, fu il finimondo, anche e soprattutto in taluni ambienti cattolici. La ragione non era tanto il fatto che quell’abbozzo metteva insieme poco opportunamente elementi di diritto divino ed elementi di diritto umano (il che sarebbe stato buon motivo per criticare), ma solo perché era una «Legge». Si preferivano dei predicozzi.
La contestazione entro la Chiesa fu tutta qui od almeno originariamente qui. E nasceva da una mancanza di logica, come appare dal sopra detto e dal fatto che alla legge si sostituisce la forza. E pensare che a gridare più forte era gente adusa a cantare a Lodi e a Vespro l’inno alla «divina» libertà dell’uomo, o meglio della «persona umana»!
Ecco dove si arriva a forza di svuotare la Teologia e dileggiare il vecchio catechismo dalle idee chiare e precise!

10. La crociata antitrionfalistica

Chi è antitrionfalista, nessuno lo dubita, è progressista.
È la principale caratteristica esterna — ma non solo esterna — del progressismo tra i cristiani.
La parola trionfalismo, davanti alla quale tante persone sentono tremare le vene e i polsi o dalla quale si sentono spinti a far imprese giganti di ripulitura, fa d’ogni erba fascio.
Vediamo questo fascio.
L’autorità dà noia. Ne devono scomparire i segni esterni, perché muoia essa stessa di esaurimento. Essa ha bisogno di segni visibili, dato che il valore morale per il quale ordina e comanda non lo si vede e non lo si tocca. Quando cerca semplicemente di far sì che gli altrui s’accorgano di essa e del suo dovere, fa del trionfalismo.

La Fede, i Sacramenti, il divin sacrificio si manifestano attraverso atti semplici ed anche dimessi. Hanno bisogno, i fedeli, di essere aiutati a vedere quello che è reale, ma che non si vede con gli occhi della carne. Ebbene, se si fa qualcosa di esteriore che indichi la grandezza delle cose divine, la maestà di Dio, la infinita importanza del santo sacrificio ed in genere del culto divino, si fa del trionfalismo: bisogna stroncare. Ma, se si rivela la voglia di ballare a suon di ritmo durante le azioni liturgiche, non si ha trionfalismo e tutto si può fare.

Se al Tempio si dà un decoro per aiutare gli uomini a rendersi conto della grandezza di Dio, della vita, del suo fine; se si domanda per esso di tenere lontane le stranezze che disturbano, che disambientano il raccoglimento e che aiutano la devozione, si fa del trionfalismo. Spoliazione sempre!
Se si porta rispetto al Papa, a quanto denota esternamente la Sua suprema potestà, necessaria alla Chiesa, e pertanto alla salute, si fa del trionfalismo. Bisogna umiliare, avvilire, possibilmente deturpare e lordare: quella sarebbe la vera Fede vissuta.
Chi ha pronunciato per primo la disgraziata parola «trionfalismo» non ha riflettuto che dava modo di fare una sintesi di tutti gli appetiti psicologici, patologici, distruttori che potessero trovarsi tra i fedeli e tra gli uomini di Chiesa.

Il terrore del trionfalismo fa sì che tutto starebbe bene solo nella Gehenna. Non è solo questione di gusti.
Il terrore del trionfalismo — questa parola ha quasi tanto potere di agire sugli spiritelli quanto un termine qualificativo vociferato nella politica italiana — ha delle sottospecie che si notano nel conformismo col quale si accettano e osservano — non le leggi liturgiche emesse dalla legittima Autorità — ma le mode introdotte col criterio del pugno in faccia.
Il progressismo ha aspetti che interessano il piano culturale e questo pone limiti di numero e di qualità, ma, quando mette in moto la macchina antitrionfalistica, raccoglie gente come nei paesi le bande dei suonatori.

11. La indisciplina endemica

Cova dappertutto, la paura, la timidezza, le compromissioni trovano seguaci, difensori, tutori dappertutto. Per tale motivo abbiamo usato la parola «endemica». Chi dimostra questo in modo sbarazzino ha diritto al titolo.
Guardiamo bene in faccia la triste realtà; essa sembra avere tali coordinate, tali ritmi da doversi ritenere che risponda ad un piano diabolicamente congegnato. C’è infatti una tale logica nella successione degli atti o manifestazioni di questa indisciplina che bisogna pensare ad un disegno preciso ed intelligente.
In un primo momento si è gettata una confusione nel campo delle idee. Ricordo la reazione isterica di un personaggio del quale un dipendente era stato multato da altri di «neomodernismo»! A ragione!
In un secondo momento, dopo aver gettato la confusione nella Fede, fondamento di tutto, si è aggredita la morale, per rendere nulla la norma e lasciare libertà di espressione ad ogni atto umano.

A questo punto si sono attaccati gli elementi esterni che «tenevano insieme la compagine ecclesiastica del clero»: abito, seminari, studi, con una confusione estrosissima di iniziative culturali innumerevoli.
Poi si è immessa la idea sociologistica del paradiso in terra al posto del Cielo, della rivoluzione permanente invece della pace e si è dato un valore simbolico agli atti di culto verso un Signore ormai confinato nelle nebbie.

Si è discusso del celibato sacerdotale, anche da maestri, ignorando che la Chiesa non era stata più in grado — almeno questo! — di migliorare e fare avanzare i popoli dove il celibato era abolito. Ultimo e permanente ritrovato: discutere su cose certe, come se non lo fossero, e non lo fossero da Gesù Cristo.
Non tutti sono arrivati in fondo, molti sono arroccati senza aver una idea delle conseguenze sugli stati intermedi, altri hanno di pari passo saltato tutto e tutti. Al di sotto resta ancora il popolo, che è buono e al quale pensa Dio evidentemente. Si moltiplicano gli slogans, non si insegna il catechismo; si parla di pastorale e si disertano gradatamente tutti i ministeri; si parla della Parola di Dio e si insegna tranquillamente che è quasi tutta una fiaba, si disserta della vicinanza con Dio e si irride o la si tratta come se fosse risibile la santissima Eucarestia. Almeno in pratica. Tutto questo è progresso!


continua...................

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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12. La bassa quota

Fin qui, non lo nego, ho raccolto le posizioni mentali e pratiche alle quali si fa l’onore di attribuire il termine «progressismo». Si tratta di quelle piuttosto intellettuali. E l’ho fatto coscientemente, perché il rimanente, specie per mezzo della comunicazione sociale, discende da quello che in un modo o nell’altro sta al piano superiore della esperienza intellettuale.

Ma c’è un «modo di agire» più semplice, più «pop», che forma il loggione per il palcoscenico descritto sopra, che costituisce il codazzo confuso e sparpagliato del corteo. In tale codazzo stanno tutti coloro che leggono a vanvera o credono di capire o non hanno senso critico per giudicare. Va da sé che la maggior parte delle cose pubblicate in campo cattolico cercano di tingersi secondo quello che piace al «progressismo». Ed ecco.
Nel clero la tessera del progressismo è l’abito, borghese naturalmente, o camuffato in modo tale da crearne la impressione. La norma italiana permette il clergyman, ma ha chiaramente detto che l’abito «normale» è la talare. Forma e colore: due cose che per l’Italia sono ben poco rispettate. Chi porta la talare sta fuori del progresso.

Invece la talare, «difesa dalla norma di Legge come abito normale», permette di non perdersi mai nella massa, di restare in evidenza, di costituire una testimonianza di sacralità e di coraggio. Su questo punto credo dovrò ritornare. Infatti in questo momento il pericolo più grave per il clero è quello di scomparire. Sta scomparendo, perché tutto ormai non s’accorge nel mondo ufficiale, della cultura, della politica, dell’arte che ci siamo anche noi. Tra noi si arriva anche al punto di proclamare che non c’è più il «cristianesimo». Forse che non è indicativo il Referendum sul divorzio? Ho la impressione che quasi nessuno si sia provato a studiare il nesso tra l’esito del Referendum e l’abito del prete, tra il Referendum e la pratica distruzione in gran parte d’Italia della Azione Cattolica. So benissimo che il popolo ha ancora la Fede nel fondo del suo cuore e la rinverdisce ad ogni spinta, ma tutto il livore anticlericale e massonico che si è impadronito di quasi tutti i mezzi di espressione fa credere il contrario, agisce come se la Chiesa fosse morta (il che è tutt’altro che vero!); ma sono molti di casa nostra che danno mano a tutto questo.

Amare la promiscuità, tinteggiarsi di mondanità, discutere la legittima Autorità e Cristo che l’ha costituita, costituisce benemerenza progressista.
Andare a Taizé invece che a Lourdes o a Roma costituisce progressismo, mentre si va ad uno dei più grandi equivoci religiosi del secolo.

Animare gruppi detti magari «di spiritualità» (parola della quale si potrebbe dire come «montes a movendo, tamquam lucus a lucendo e canonicus a canendo»), nei quali ci si infischia soprattutto del parroco e del Vescovo e del Papa, costituisce una delle più soddisfacenti esercitazioni del progressismo. Invitare persone discusse, dubbie nella Fede, dubbie nella disciplina, permette l’acquisire il sorriso compiacente di quanti amano classificarsi progressisti.

Soprattutto: chi parla più tra costoro di santità, di ascetica, di mortificazione, di dedizioni senza plausi sospetti? Chi accetta la povertà, quella alla quale ci lega il nostro dovere, non ostentata, ma praticata? Nella Diocesi di Genova si sono salvati Altari e Tabernacoli, ma si deve lavorare molto per riportare tutto e tutti al vero culto della SS. Eucarestia. Quanto si parla della santissima Vergine? Recentemente si sono dette pubblicamente delle bestemmie autentiche contro la santissima Madre del Signore e nostra e — che si sappia — nessuno di quelli che le hanno ascoltate ha reagito.

Al posto delle Associazioni possono sorgere gruppi, che non impegnano nessuno, per parlare ai quali non occorre prepararsi, ma dei quali è sufficiente accarezzare le debolezze, magari ammannendo discussioni sul sesso.
Dove è andato a finire per taluni il discorso sulla purezza e sulla modestia? Non se ne parla perché, orribile a dirsi, si ha vergogna di Dio.
Ecco il progressismo «pop», da pochi soldi, ma dalle molte colpe.
Questo discorso non è affatto finito, perché si rivolge ad un fatto che tenta di mettere al posto del sacrificio, richiestoci da Dio, il nostro comodo, il nostro piacere, la nostra anarchica indipendenza. La via dell’inferno.

Conclusione

Abbiamo parlato del «progressismo», non del «progresso». Il primo cammina a grandi passi, quando non c’è già arrivato, verso la eresia, lo scisma, l’apostasia, la scollatura di tutto. Il secondo va rispettato come è sempre stato rispettato, nelle sue leggi fisiologiche che rinnovano l’organismo, ma non lo alterano, né lo distruggono. La parola «progresso» va difesa dalla contaminazione con la parola «progressismo». Questo è una accolta di perversioni, di errori e di viltà; quello è un segno di vita degli spiriti migliori.

Ho scritto perché il clero sia illuminato. Le note sull’argomento continueranno

Card. Giuseppe Siri



da «Rivista Diocesana Genovese» – gennaio 1975 (a cura di don Curzio Nitoglia)

Fraternamente CaterinaLD

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Dogma e liturgia. Il Concilio secondo il cardinale Giuseppe Siri





 

 




Giugno 15, 2014 Giuseppe Brienza


In un nuovo libro le istruzioni pastorali date dall’arcivescovo di Genova alla sua diocesi sull’applicazione della riforma liturgica del Vaticano II



 


 

 



 



Nell’ultima riunione della Congregazione dei vescovi, che papa Francesco ha tenuto in Vaticano il 27 febbraio scorso, il Pontefice ha tracciato le linee della missione episcopale secondo il suo pensiero. Non è stato molto ripreso dai media ma, in tale rilevante circostanza, Bergoglio ha indicato l’esempio di un pastore poco amato dai “progressisti” come il cardinale Giuseppe Siri (1906-1989, sopra nella foto con re Baldovino del Belgio), noto soprattutto per il suo impegno, durante il Concilio Vaticano II, nel cercare d’innestare i necessari “aggiornamenti” nella solida cornice della tradizione. Per esempio in campo ecclesiologico quando, all’inizio della discussione sullo schema De ecclesia nel dicembre 1962, al fine di contrastare una visione “troppo orizzontale” della Chiesa che andava profilandosi nelle discussioni e nelle prime bozze del documento, l’allora arcivescovo di Genova (lo fu dal 1946 al l987) pronunciò un vigoroso intervento per chiedere ai padri conciliari di dedicare piuttosto un doveroso approfondimento al rapporto tra chiesa visibile e Corpo mistico di Cristo.


WOJTYLA E BERGOGLIO. Siri fu pubblicamente elogiato, per il suo encomiabile ruolo di pastore, da san Giovanni Paolo II quando si recò in visita pastorale a Genova nel giugno del 1985 e, come anticipato, anche Francesco ne ha richiamato di recente il luminoso insegnamento. Nel suo discorso alla Congregazione dei vescovi, infatti, ricordando la loro chiamata ad essere custodi ed apostoli della Verità, Bergoglio ha richiamato al proposito «[…] che il Cardinale Siri soleva ripetere: “sono le virtù di un Vescovo: prima la pazienza, seconda la pazienza, terza la pazienza, quarta la pazienza e ultima la pazienza con coloro che ci invitano ad avere pazienza”» (L’Osservatore Romano, 28 febbraio 2014).


LA RIFORMA LITURGICA. Del cardinal Siri, che per lunghi anni è stato presidente della Conferenza Episcopale Italiana ed è considerato uno dei maggiori teologi del XX secolo, esce ora la raccolta Dogma e liturgia, che riunisce scritti e discorsi del porporato raccolti e commentati da monsignor Antonio Livi.
Dalla lettura di tutti questi testi emerge una costante e “profetica” preoccupazione di Siri per salvaguardare, nell’applicazione delle riforme del Concilio, quel motivo teologico di fondo per cui il dogma dovrebbe continuare a suscitare ed orientare, anche in tempi di rinnovamento profondo, la vita liturgica e la prassi sacramentale della Chiesa. Nell’inviare i fedeli a rispondere alla rispettiva e specifica missione nel mondo, infatti, quella dottrina custodita e trasmessa infallibilmente che è il dogma, rappresenta l’unico mezzo in grado di far conoscere e guarire le malattie mortali dell’anima. «La fede viva e vissuta – scrive Livi nella presentazione -, che non può esistere senza una sempre più convinta adesione al dogma – porta innanzitutto allo spirito di adorazione, cioè a lodare e a ringraziare Dio che ci ha rivelato la sua natura (la trinità delle Persone nell’unità della sostanza divina) e i suoi disegni di salvezza in Cristo (l’Incarnazione, la Redenzione, la Chiesa). Ma l’adorazione non si esprime solo nell’intimità della preghiera individuale ma anche nella preghiera comunitaria e nei riti pubblici, e questo è appunto la liturgia».

DOGMA E LITURGIA. Le norme liturgiche oggi vigenti, dopo la riforma voluta dal Vaticano II, prevedono infatti l’istruzione catechistica (omelia) dopo le letture scritturistiche della santa Messa, all’inizio del rito del Battesimo e anche del Matrimonio fuori della Messa, come anche un ricordo esplicito della dottrina rivelata all’inizio del rito della Penitenza sacramentale. Ai tempi di Siri, la Conferenza Episcopale Italiana ebbe cura appunto di fissare delle norme precise in merito nel celebre documento che si intitola appunto “Evangelizzazione e sacramenti” e che fissa il piano pastorale per gli anni dal 1973 al 1980. Questi principi teologici riguardanti il rapporto tra dogma e liturgia hanno guidato i Pontefici che nell’ultimo secolo sono intervenuti con l’aggiornamento dottrinale e le necessarie riforme in materia liturgica, a partire da Pio XII, che pubblicò un’enciclica sul rinnovamento liturgico (la Mediator Dei et hominum, del 20 novembre 1947) e inoltre provvide a un’importante ristrutturazione dei riti della Settimana Santa.
Tra i vescovi italiani diversi sono stati quelli che, nel “post-Concilio”, hanno tentato con successo d’impostare la loro azione pastorale assicurando nella propria diocesi l’osservanza delle norme liturgiche, sia tradizionali che nuove, facendo sì che l’adeguata conoscenza e a personale interiorizzazione dei misteri rivelati servissero a incrementare lo spirito di adorazione di tutti i fedeli e la loro la fruttuoso partecipazione all’azione liturgica comunitaria nelle parrocchie e negli istituti religiosi.

PASTORALE DEL LAVORO. Ma il card. Siri è stato anche un precursore dell’azione pastorale in Italia nei luoghi di lavoro. Infatti, come è stato recentemente ricordato anche dal suo successore della diocesi di Genova e nella CEI, il cardinal Angelo Bagnasco, nell’omelia pronunciata per la scorsa solennità di San Giuseppe patrono dei lavoratori, l’apostolato svolto nella diocesi dai Cappellani del lavoro è soprattutto «merito della tenacia lungimirante del cardinale Giuseppe Siri, che volle garantire questa forma di servizio pastorale anche in tempi difficili».
Per rendere accessibili oggi a un pubblico vasto i documenti dell’illuminata azione pastorale del cardinale Siri la raccolta in questo libro dei suoi più significativi interventi dottrinali e disciplinari che vanno dal 1955 al 1972, è sicuramente opera meritoria ed, anzi, necessaria, per alimentare la santità del popolo di Dio a partire soprattutto dalla vita liturgica e sacramentale.



Leggi di Più: Giuseppe Siri, Dogma e liturgia | Tempi.it 





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09/04/2015 21:01
 
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  RISPONDE SERGIO ROMANO

Giuseppe Siri, principe vescovo di Genova

 

 

Vorrei un suo giudizio sulla contraddittoria figura del Cardinal Giuseppe Siri, arcivescovo di Genova, di cui a breve ricorrerà il centenario della nascita. Esistono libri sulla sua persona?

- Caro Carpani, ho abitato a Genova per parecchi anni e ho conosciuto Siri negli anni in cui la borghesia industriale e mercantile lo chiamava scherzosamente la «First Lady» della città. Ogniqualvolta avevo occasione di sentirlo parlare mi colpiva una straordinaria combinazione di sussiego, solennità, alterigia, paternalismo e familiarità, toni aulici e toni popolareschi, frasi dotte ed espressioni dialettali. Parlava come un manuale teologico (aveva insegnato per molti anni al seminario vescovile), ma poteva accentuare l' accento genovese e usare parole volutamente sciatte, un po' rudi. Non credo che i toni popolareschi fossero l' insopprimibile residuo delle sue origini sociali. Credo piuttosto che negli anni trascorsi in curia, come vescovo ausiliario del vecchio cardinale Boetto, avesse imparato a recitare la parte del principe vescovo. Aveva capito che a Genova un aristocratico deve parlare il dialetto e deve avere un rapporto diretto con il popolo scavalcando i mercanti, gli armatori, gli industriali, i banchieri. Ma deve essere anche ieratico, autoritario e principesco. Fu questo stile che gli permise di regnare su Genova per quarant' anni e di mobilitare contro i comunisti una larga area di consenso popolare. Fece il suo apprendistato di leader religioso fra il 1943 e il 1945 quando le circostanze lo costrinsero a recitare una parte classica nella storia d' Italia: quella del vescovo che protegge la pieve contro i barbari e può essere ora umile e implorante, ora energico e minaccioso.
In alcune conversazioni con Benny Lai, pubblicate in un libro del 1994 edito da Laterza («Il Papa non eletto. Giuseppe Siri, Cardinale di Santa Romana Chiesa»), raccontò di avere avuto una tempestosa conversazione con un comandante partigiano che non voleva permettere il transito di un convoglio di viveri. A un certo punto, raccontò a Lai, perse la pazienza: «Vomitai tutte le parolacce udite da bambino nei vicoli di Genova e che mai avevo usato, parlai il linguaggio dei facchini e dei portuali». Poco tempo dopo, dovette trattare con i tedeschi per evitare la distruzione del porto di Genova al momento della ritirata. Poiché la conversazione si prolungava inutilmente, si alzò, dette un pugno sul tavolo e disse, quasi urlando: «Vi garantisco che se toccherete il porto di Genova nessun tedesco ne uscirà vivo perché lei sa meglio di me che prestissimo scapperete tutti».
Un altro pugno sul tavolo lo dette durante un altro negoziato, quello che precedette l' elezione di Giovanni XIII.
Raccontò a Benny Lai: «Prima dell' inizio del Conclave, perché solo di quel periodo posso parlare senza cadere nella scomunica, venne un tale a sondarmi circa l' eventuale candidatura dell' arcivescovo di Milano (Giovanni Battista Montini, ndr). Detti un pugno sul tavolo così forte da far saltare la pietra dell' anello che portavo al dito».
Fu esattamente l' opposto di Paolo VI. Mentre Montini era sensibile alle suggestioni spirituali di Maritain e alle tesi «democratiche» dell' intellighenzia cattolica francese sul ruolo dei laici nella vita ecclesiastica, Siri era ostile alle influenze francesi, tedesche, olandesi, e deciso ad affermare l' influenza della Chiesa nella società e della gerarchia all' interno della Chiesa.
Mentre Montini accompagnò benevolmente l' apertura a sinistra della Dc, Siri fece del suo meglio per evitare l' alleanza con i socialisti e utilizzò a questo fine la Conferenza episcopale sino al giorno in cui Paolo VI gliene tolse la presidenza.
Combatté per le sue convinzioni in ogni sede in cui ebbe posizioni di autorità, ma perdette quasi tutte le sue battaglie e dovette accettare il Concilio, il centro-sinistra, la solidarietà nazionale, il populismo becero di una parte della Chiesa post-conciliare, la riforma della liturgia, la sciatteria vestimentaria dei preti in maglione e giacca a vento.
Perdette soprattutto la battaglia per un trono che fu, più di una volta, a portata di mano e che in due circostanze, forse, avrebbe potuto avere. Si richiuse nella sua diocesi dove continuò a difendere la «sua» Chiesa opponendosi alla costruzione di altari posticci, alla distribuzione dell' eucaristia ai fedeli in piedi, all' abbandono dei paramenti preziosi, al clergyman per i sacerdoti e ai pantaloni per le donne.
Nella sua ultima conversazione con Benny Lai, il 18 settembre 1988, lasciò intendere tutta la sua amarezza per ciò che la Chiesa era diventata dopo la morte di Pio XII.
Lo fece indirettamente chiedendo perdono a Dio per non avere accettato l' offerta di elezione nei primi due Conclavi a cui aveva partecipato. «Ho fatto male perché avrei evitato di compiere certe azioni... Vorrei dire, ma ho timore a dirlo, certi errori. Quindi ho avuto un grande rimorso e ho chiesto perdono a Dio. Spero che Dio mi perdoni».

Romano Sergio

Pagina 39
(1 giugno 2006) - Corriere della Sera







Fraternamente CaterinaLD

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