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TEOLOGIA DELLA SOSTITUZIONE: chiariamo il concetto

Ultimo Aggiornamento: 02/10/2009 18:46
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Sesso: Femminile
17/05/2009 22:32
 
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Continua da sopra.....si prega di NON estrapolare singole frasi isolandole dal contesto di tutto il testo....[SM=g1740733]
 

Dopo il racconto della crocefissione, ha inizio un secondo gruppo di passi neotestamentari, dei quali qualche cenno, a puro titolo esemplificativo, ho anticipato nella parte iniziale di questo scritto: sono quelli riguardanti, direttamente o no, la parte avuta dagli Ebrei nella morte di Gesù.


Appena cominciaron a diffondersi i primi indizi della sua risurrezione, l'insieme del mondo ebraico unitamente ai suoi capi ritornò in primo piano. Alla scoperta del sepolcro vuoto, "quidam de custodibus venerunt in civitatem et nunciaverunt principibus sacerdotum omnia quae facta fuerant" (Mt 28,11). L'Evangelista mette subito in evidenza la doppiezza di quei capi, i quali, per non piegarsi né all'evidenza del sepolcro vuoto, né al racconto delle pie donne che giuravano d'aver visto il Risorto e parlato con Lui, inventarono la storiella del trafugamento del cadavere: "Dicite quia discipuli eius nocte venerunt et furati sunt eum, nobis dormientibus" (Mt 28,12-13). La loro falsità è resa più grave dal denaro ("pecuniam copiosam") con cui la sostennero e dall'apparente zelo con cui richiesero a Pilato una sorveglianza speciale "ne forte veniant discipuli eius et furentur eum" (Mt 27,64). Raffinata doppiezza, che passerà poi emblematicamente nel nome stesso di Fariseo.


Una circostanza fa riflettere. In Gv 7,13 s'avverte l'atmosfera che già prima dell'esecuzione capitale di Cristo s'era largamente diffusa: "Nemo palam loquebatur de illo propter metum Judaeorum". Questo medesimo timore, ad esecuzione compiuta, imprigionò i discepoli nel cenacolo, che i medesimi sprangarono accuratamente sempre "propter metum Judaeorum" (Gv 20,19). Evidentemente, le reticenti esigenze del dialogo eran ancora di là da venire e la paura che il trattamento usato con Cristo fosse esteso anche ai cristiani, per un verso tenne costoro alla larga dagli Ebrei, per un altro non impedì che la ricostruzione storica fosse fedele alla realtà dei fatti.


Nello sbarrato cenacolo, dunque, s'eran nascosti i Dodici, unitamente a Maria e alle pie donne, "perseverantes unanimiter in oratione" (Act 1,14). In occasione della Pentecoste successiva alla morte e risurrezione di Gesù, ripieni di Spirito Santo usciron all'aperto. In Gerusalemme, con gli Ebrei c'eran "viri religiosi ex omni natione quae sub caelo est" (Act 2,5); essi avevano ascoltato gli Apostoli ciascuno nella propria lingua (Act 2,8). Rivolto direttamente agli Ebrei, Pietro non nascose la verità dei fatti dietro parole di comodo; fu perentorio: "Jesum Nazarenum...per manus iniquorum affligentes, interemistis" (2,22.23).

Con la consapevolezza del testimone oculare, continuò: "Hunc Jesum resuscitavit Deus, cuius omnes nos testes sumus...certissime sciat ergo omnis domus Israel, quia Dominum eum et Christum fecit Deus, hunc Jesum, quem vos crucifixistis" (Act 2,29.32.36). Contrariamente a quanto oggi avviene, i destinatari delle parole di Pietro né le rifiutarono, né s'inalberarono, ma umilmente chiesero che cosa dovessero fare: fu un implicito riconoscimento delle proprie responsabilità. "Poenitentiam agite - rispose subito Pietro - et baptizetur unusquisque vestrum in nomine Jesu Christi in remissionem peccatorum vestrorum: et accipietis donum Spiritus Sancti. Vobis enim est repromissio, et filiis vestris, et omnibus qui longe sunt, quoscumque advocaverit Dominus Deus noster" Act 2,37-39. Sulla questione della "repromissio" dovrò ritornar in seguito; per ora, sarà sufficiente leggerne attentamente testo e contesto.


Pietro aveva appena risanato lo zoppo che chiedeva l'elemosina presso la Porta Speciosa del Tempio (Act 3,1-10), quando arringò la gente colà riunitasi, dicendo: "Viri Israelitae, ... Deus...glorificavit filium suum Jesum, quem vos tradidistis et negastis ante faciem Pilati, iudicante illo dimitti. Vos autem sanctum et justum negastis et petistis virum homicidam donari vobis : auctorem vero vitae interfecistis, quem Deus suscitavit a mortuis, cuius nos testes sumus...Poenitemini igitur et convertimini, ut deleantur peccata vestra" (Act 3,13-15.19; Mt 27,20.21.22). II giorno dopo, i principi dei sacerdoti, gli anziani del popolo e gli Scribi di Gerusalemme vollero indagare ancora sul miracolo verificatosi presso la Porta Speciosa; sotto l'azione dello Spirito Santo, Pietro fece loro osservare che ciò era avvenuto "in nomine Domini nostri Jesu Christi Nazareni, quem vos crucifixistis, quem Deus suscitavit a mortuis...Hic est lapis qui reprobatus est a vobis aedificantibus" (Act 3,5-11).


Il testo che segue modifica alquanto l'orizzonte, passando dall'incriminazione degl'Israeliti per la morte di Cristo al coinvolgimento di vari responsabili: Erode e Ponzio Pilato, i quali in occasione della condanna di Cristo divennero amici, i Gentili, la popolazione israelitica (Act 427; Lc 23,12). Evidentemente l'enumerazione dei responsabili, anziché toglier il carico di responsabilità dalle spalle d'ognuno, lo sottintende e vi si richiama.


Dopo di che gli Apostoli vennero incarcerati e per intervento divino liberati. I capi ebraici riuniron il tribunale per decider il da farsi e protestarono perché gli Apostoli li consideravan responsabili della morte cruenta di Cristo: "vultis inducere super nos sanguinem hominis istius". Pietro e gli Apostoli, invece, rinnovaron l'accusa: "Deus patrum nostrorum suscitavit Jesum, quem vos interemistis suspendentes in ligno". Dopo l'accusa, il richiamo e l'evangelizzazione: "Hunc principem et salvatorem Deus exaltavit dextera sua ad dandam poenitentiam Israeli et remissionem peccatorum". Ma gli Ebrei non recedevano: "Haec cum audissent, dissecabantur et cogitabant interficere illos...(Apostoli) ibant gaudentes a conspectu concilii, quoniam digni habiti sunt pro nomine Jesu contumeliam pati" (Act 5,17-19.30-33.41-42).


Poco dopo, seguendo il filo narrativo degli Atti degli Apostoli, s'incontra il protomartire Stefano, un intrepido giovane che, al servizio della verità e con la forza di essa, polemizza vigorosamente con gli Ebrei, rievocando le loro responsabilità storiche: "Dura cervice et incircumcisis cordibus et auribus, vos semper Spiritui sancto resistitis, sicut Patres vestri ita et vos. Quem Prophetarum non sunt persecuti Patres vestri"? Il richiamo storico non era fine a se stesso; doveva introdurre l'attenzione dell'uditorio all'ultimo atto di codesta persecuzione, dominato dalla passione e morte di Cristo. In effetti, "(Patres vestri) occiderunt eos qui praenunciabant de adventu lusti, cuius vos proditores et homicidae fuistis" (Act 7,50-53). Ne seguì non soltanto il martirio di Stefano, ma una "persecutio magna in Ecclesia" (Act 8,2). Gli Ebrei, in effetti, rifiutaron per la prima volta la memoria e la responsabilità della crocefissione di Cristo, disperdendo i cristiani con la speranza che anche il nome e il ricordo di Cristo venissero per sempre dimenticati; ma "qui dispersi erant pertransibant, evangelizantes verbum Dei" (Act 8,4).


Con l'evento sulla via di Damasco, ha poi inizio l'epopea di Paolo. Rispetto a quello di Pietro, egli formula un kerygma diverso: non più direttamente rivolto ai correligionari ebraici, bensì ai pagani. Cambia il modo di presentare Cristo, non Cristo, non la sua storia, non la sua verità. Pietro, tuttavia, non scompare dalla scena degli Atti. Lo si ritrova presto accanto al Centurione Cornelio, ai suoi parenti ed amici, nell'atto d'evangelizzar loro Gesù e di render testimonianza "omnium quae fecit in regione Judaeorum et Jerusalem, quem occiderunt suspendentes in ligno" (Act 10,39).

È una costante: il solo evocare gli Ebrei richiama alla mente dell'Apostolo la responsabilità da loro contratta nel mandar a morte il Signore.


Il pensiero di Paolo è più sfumato, ma sostanzialmente non diverso. Ad Antiochia di Pisidia, tuttavia, le sue parole son chiare: "Nullam causam mortis invenientes in eo, petierunt Pilato ut interficeret eum" (At 13,28). È vero che nel suo epistolario Paolo addita nei nostri peccati la causa proporzionata della morte di Cristo (1 Cor 15,2; Rm 4,25; 5,8.9.10) e mette in risalto lo spirito oblativo di Lui (Ef 5,2.25) nel darsi volontariamente e per puro amore alla morte:"Tradidit semetipsum pro nobis oblationem et hostiam Deo in odorem suavitatis.... dilexit Ecclesiam et seipsum tradidit pro ea"(Ef 5,2.25); "Dilexit me et tradidit semetipsum pro me" (Gal 2,20). È vero pure che in Rm 8,32 Paolo collega direttamente la morte del Signore alla volontà del Padre "qui etiam proprio Filio suo non pepercit, sed pro nobis omnibus tradidit illum". Tuttavia, per esser egli stesso israelita e della fazione farisaica, conosceva bene come fossero andate le cose. E se questo "come" non è esplicitamente denunziato nel suo epistolario, non significa che abbia voluto dissociarne i suoi ex-correligionari.

Lo descrive anzi in una cornice prettamente ebraica: una condanna a morte, inflitta "fuori dalla porta" della città santa (Ebr 13,12), in piena aderenza alle disposizioni della Legge, ad un condannato che per ciò stesso, cioè per la croce, era da Dio maledetto e rinnegato dal suo popolo (Gal 3,13). C'è poi un'altra ragione per la quale c'è reticenza sulle responsabilità del popolo ebraico: quella croce, che nel paganesimo contrassegnava d'infamia uno schiavo criminale e nell'ebraismo sommergeva nell'ignominia il delinquente, in Paolo diventa lo strumento d'una redenzione cosmica. Gli "arconti" o principi di questo mondo, identificabili nelle potenze angeliche (Ef 1,21; Col. 1,16) che provvedono all'ordine sociale al cui mantenimento è preposto Pilato per i Romani e il sinedrio per gli Ebrei, se avessero conosciuto la sapienza di Dio, che non è umana sapienza, ma il piano eterno della salvezza universale, "numquam Dominum gloriae crucifixissent" (1 Cor 2,6-8).


3 - Interpretazione dei suddetti testi - [SM=g1740733]

Per non incorrere nel pericolo d'interpretazioni soggettive ai danni della Sacra Scrittura che, proprio perché tale e come tale affidata alla Chiesa, sfugge nettamente ai limiti del soggetto, m'affido ai criteri più volte determinati dal Magistero ecclesiastico, nonché alla sua dottrina. Ciò non comporta un'adesione indiscussa a tutto quanto si legge nella Dei Verbum del Vaticano II, sia perché ciò che di dogmatico il Vaticano II espose, appartiene per sua stessa confessione al magistero precedente, sia perché alcune novità della Dei Verbum lascian alquanto insoddisfatti.

Essa, pur senza dichiararlo esplicitamente, rinunzia di fatto alla dottrina classica dell'assoluta inerranza biblica e limita l'inerranza stessa alla sola "verità salutare"
(18). Se si pensa che l'inerranza assoluta della Sacra Scrittura non è soltanto una tra le varie premesse d'ogni lavoro esegetico, ma è anche una verità della fede cattolica, a più riprese almeno implicitamente confermata dal Magistero ecclesiastico e dalla tradizione scolastica(19), s'intravede per quale motivo abbia poco sopra definito non soddisfacenti alcune novità della Dei Verbum; esse suscitano - a dir il vero - non poche perplessità. Per uscire dalle quali, sarà bene che l'esegeta cattolico si lasci guidare dai capisaldi del Magistero, in special modo dalla "Providentissimus Deus" di Leone XIII e dalla "Divino afflante Spiritu" di Pio XII: l'una infatti stabilisce un'esatta nozione d'ispirazione biblica, nozione che chiamerei teologica in quanto ripugna alla dissociazione della fede dall'ispirazione stessa e dall'inerranza; l'altra mette in evidenza e richiama la varietà dei generi letterari presenti nella Scrittura, le regole per la loro interpretazione ed il senso letterale che ne discende(20).


La tendenza odierna è, invece, per il superamento dei due accennati capisaldi, dando, proprio per questo, la fondata impressione di staccarsi direttamente dall'ambito autenticamente cattolico. Si tratta d'un ambito determinato non da scelte soggettive, ma dalla fedeltà alla linea segnalata dal Magistero. A tale linea è certamente fedele il Vaticano II, specie con la sua formulazione d'un criterio indiscutibile: "in lumine fidei - sub Ecclesiae Magisterii ductu"
(21). Questo, e non la tendenza sopra accennata, sarà dunque anche il mio criterio.


Prima però di riprender il discorso sul significato dei passi neotestamentari riguardanti il mondo ebraico, mi permetto - per i non addetti ai lavori - qualche parola sui sensi biblici. Anzitutto, due son quelli relativi a tutta la Scrittura in quanto umano-divina: il senso letterale e quello tipico. Padri, Dottori, Sommi Pontefici e tutti gli Autori classici invitano alla ricerca del senso letterale attraverso testo-contesto-passi paralleli-scienze ausiliarie, come quello che maggiormente chiarisce il pensiero d'un determinato passaggio. Il senso tipico è quello dell'Antico Testamento che allude al Nuovo e lo prepara. Fondamentale per determinare con chiarezza l'intenzione divina, quale fu percepita dall'agiografo sotto ispirazione, è il senso letterale in tutte le sue forme e figure stilistiche (metafore, parabole, allegorie, simboli); non appartengono, ovviamente, ad esso il c.d. senso accomodatizio - vi ricorre talvolta la Liturgia - nonché i non-sensi ed i controsensi, in quanto offensivi della verità rivelata
(22).


La conseguenza da trarre è che anche i passi del Nuovo Testamento non favorevoli al mondo ebraico debbano esser interpretati in senso letterale: la qual cosa comporta un'interpretazione delle parole secondo il loro valore, stabilito o ricuperato:


a. attraverso l'esame interno del testo e del suo contesto;

b. attraverso la filologia, la semantica, la storia, l'archeologia, l'orientalistica, cioè con l'ausilio di tutte le scienze ausiliarie,

c. ferma però restando la base dogmatico-teologica d'ogni interpretazione neotestamentaria, cioè l'origine apostolica e la storicità dei quattro Evangeli.


Alla luce di ciò, è a dir poco strano il modo sbrigativo e solo apparentemente storico-scientifico di chi, dinanzi al ripetuto "quem vos crucifixistis, vos interemistis", se n'esce con la trovata d'una mentalità antiebraica che avrebbe contraddistinto i primi cristiani, e non è nemmeno sfiorato dall'evidenza d'un testo, dal quale trasuda la mentalità anticristiana che portò alla crocefissione di Cristo. Del resto, tutt'era stato previsto dallo stesso Gesù: "...Filius hominis tradetur principibus sacerdotum et Scribis, et condemnabunt eum morte, et tradent eum Gentibus ad illudendum et fagellandum- et crucifigendum" (Mt 20,18-19). I responsabili della crocefissione son qui segnalati ancor prima ch'essa venga messa in atto:


1. i grandi sacerdoti e gli Scribi, cioè i capi del popolo ebraico, il quale consegnerà loro Gesù perché venga condannato a morte;

2. i Gentili, vale a dire il rappresentante dell'impero romano, Pilato, ed i suoi soldati.


Sulla diversa colpevolezza di questi due gruppi, è ancora Gesù a far luce: "Qui me tradidit tibi - dice a Pilato - maius peccatum habet" (Gv 19,11). Ora, dal racconto evangelico emergono, senza possibilità d'errore, i responsabili di codesta consegna: Caifa e tutte le autorità ebraiche, sostenute dalla folla esacerbata (Gv 11,49-53; 18,14), nonché Giuda iscariota, che di fatto eseguì la consegna (Gv 18,2.5; cf 6,71; 13,2.11.21)
(23).


Analizzando, dunque, i contesti, se ne deduce che, seppur condivisa con quella d'altri soggetti (Giuda ed i Romani)
(24), la responsabilità degli Ebrei è fuori discussione: non solo "i grandi sacerdoti e gli anziani persuasero il popolo a chiedere (la salvezza di) Barabba e la morte di Gesù" (Mt 27,20), ma la folla stessa, qui chiamata "popolo-Xaòg", urla che "il sangue di Lui ricada su di noi ed i nostri figli" (Mt 27,25)(25). E quando Pilato "se ne lava le mani" e si dichiara "innocente" del sangue di Cristo, rimette ogni decisione alla discrezione degli Ebrei: "Pensateci voi" (Mt 27,24). Il loro verdetto è allora "Crucifigatur"(Mt 27,23)!


L'interpretazione letterale, attenta a tutte le sfumature del testo e del suo contesto immediato e remoto, non può esser altro che univoca: la responsabilità ebraica della crocefissione non è certo inferiore rispetto a quella romana ed a quella personale di Giuda.


Ciò nonostante, specie dopo che Nostra aetate rifiutò formalmente l'espressione "popolo deicida" e l'accusa di deicidio contro il popolo ebraico, s'è assistito alle grandi manovre per attenuar o addirittura negare le gravi responsabilità di questo popolo. Come se il quarto Evangelista fosse il solo ad insistere sulle dette responsabilità, s'è preteso di vedere il racconto del quarto evangelista nell'ottica delle sue categorie spirituali e di leggerlo quindi secondo i suggerimenti del senso tipico. Ed un primo suggerimento sarebbe quello di veder simboli e sensi traslati in tutto quello che riguarda le responsabilità ebraiche della crocefissione di Cristo.(26)
 
Cioè, in pratica una destoricizzazione del testo, con un benservito se non all'origine apostolica dell'intero messaggio neotestamentario, almeno alla storicità di quella parte del quarto Evangelo che riguarda il popolo ebraico ed i suoi capi nel decidere l'esecuzione capitale di Cristo. Come se, quanto a storicità e senso letterale, non si disponesse dell'evidenza critica nei Sinottici e negli Atti, e ciò non trovasse conferma anche nell'epistolario paolino.


È possibile, pertanto, cioè tenendo presenti i testi "incriminati" ed i criteri esegetici con cui è doveroso interpretar il Libro Sacro, pervenire ad ineludibili conclusioni. I fatti son noti: dopo l'ultima Cena, durante la quale Cristo suggella con il suo Sangue, sacramentalmente reso presente e disponibile, l'Alleanza nuova predetta dai profeti (Mt 26,26-28; 1Cr 11,23-25), si sottopone alla tremenda notte della sua agonia nell'Orto degli Olivi (Gv 18,1-27 e luoghi paralleli). Qui vien arrestato dalle orde scomposte di Giuda, il traditore prezzólato dai capi ebraici. In quella medesima notte, sul far dell'alba, si riunisce ufficialmente il Sinedrio e condanna Gesù come bestemmiatore; s'era infatti autoproclamato Figlio di Dio (Mt 26,63-66; Gv 10,33; Act 7,56).

La condanna è formalmente ineccepibile: una volta stabilita la veridicità dell'accusa, la condanna diventava un adempimento dovuto. Poiché Pilato, al quale spettava il diritto di vita e di morte, poteva rimaner poco convinto da un delitto di "lesa maestà divina" - e di fatto se ne uscì con un "vedetevela voi" (Mt 27,24) per trarsi fuori dalle strettoie del discorso teologico o semplicemente religioso -, il Sinedrio, con abilità luciferina, portò l'attenzione del procuratore romano sul piano politico, insinuando a carico di Gesù la colpa di "lesa maestà imperiale" (Lc 23,2). Vista insufficiente anche codesta insinuazione, l'attenzione fu concentrata sulla vera ed unica causale: Gesù è un bestemmiatore, soggetto come tale al giudizio del supremo tribunale ebraico, che Pilato, secondo la legge romana, deve rigorosamente rispettare.


Se non che Pilato non solo non riconosce alcuna colpevolezza in Gesù, ma, al contrario, si convince sempre più della sua innocenza e cerca di salvarlo. Giuridicamente parlando, il suo comportamento non è affatto esemplare: rimette Gesù al giudizio di Erode, poi ne propone l'alternativa con il malfattore Barabba, infine pensa di placare l'odio giudaico contro l'innocente decretandone la flagellazione. Il Sinedrio e la plebaglia né s'accontentano né demordono. Pilato, allora, ancor meno correttamente, fa propria la condanna già formulata dalle autorità ebraiche (Mt 27,24-25), ma se ne lava le mani.


Sempre dal punto di vista giuridico, non han rilevanza gli strani prodigi che accompagnano la crocefissione di, Cristo e scuotono non poche coscienze (Mt 27,51-54). L'ha tutta, invece, il fatto che, alle tre del pomeriggio del venerdì dopo l'ultima Cena, in mezzo a due ladroni, "lesus... iterum clamans voce magna, emisit spiritum" (Mt 27,50).


La condanna e l'esecuzione, basate sull'accusa di "blasphemia", portano una chiara impronta di provenienza ebraica. Nostra aetate 41f tenta però di sollevar il popolo ebraico da ogni responsabilità. Vi si legge, sì, un piccolo riconoscimento, introdotto da una proposizione concessiva - "Etsi auctoritates Judaeorum cum suis asseclis mortem Christi urxerunt" - , ma il seguito è tutto a discolpa degli Ebrei: "quae in passione eius perpetrata sunt, nec omnibus indistinte Judaeis tunc viventibus, nec Judaeis hodiernis imputari possunt".
La proposizione concessiva, nonostante la sua solida base neotestamentaria, perde quasi tutto il suo valore storico in conseguenza della proposizione principale, che dichiara innocenti gli Ebrei d'allora e di oggi. Seguono anche altre dichiarazioni che riguarderanno il prossimo paragrafo, e che, per il momento, non prendo in esame.


Accennando alla larga base neotestamentaria, mi riferivo ai testi sopra riportati ed esaminati. Nessuno poteva, né può ignorarli; nemmeno il decreto conciliare Nostra aetate. Esso, però, volle indebolirne o negarne la forza testimoniale. Da qui la distinzione tra gli Ebrei d'allora e quelli d'oggi, tutti ugualmente discolpati.

C'è qui un'incongruenza neanche troppo latente: se "auctoritates" sintetizza le espressioni neotestamentarie già incontrate, come "principes sacerdotum et seniores populi", chi se non il popolo è sottinteso in "cum suis asseclis"? E vero che, solo in regime democratico, dietro la sentenza d'un tribunale c'è tutto il popolo, in nome del quale quel tribunale opera; ma il popolo non è affatto assente neanche nell'operato del tribunale teocratico d'Israele che condanna Gesù per bestemmia.

Le autorità stesse, infatti, s'appellano al popolo, lo interrogano, lo sobillano, lo coinvolgono nell'uccisione di Cristo e ne precostituiscono le gravissime responsabilità storiche. Pertanto, la distinzione tra gli Ebrei d'ieri e quelli d'oggi avrebbe un senso, se alludesse agli Ebrei che allora rifiutarono Cristo e quelli che oggi l'hanno riconosciuto e lo confessano. Non c'è senso, invece, nell'aver fatto d'ogni erba un fascio.


Più grave ancora è il tentativo, in atto prima e dopo il decreto conciliare, di non riconoscere realtà di popolo alla massa che grida sulla piazza contro Cristo. Poche centinaia, si dice, non sono il popolo, non lo rappresentano, non ne esprimono la volontà27. Come se il popolo ,fosse la somma di determinati individui. "Ciò che caratterizza in primo luogo un popolo è la condivisione di vita e di valori, che è fonte di comunione a livello spirituale e morale"28.

Quanti durante il processo a Cristo gridavano: "sia crocefisso...il suo sangue scenda su di noi e sui nostri figli", non eran certamente tutti gli Ebrei, ma eran gli Ebrei presenti nella Città santa per la festa di Pasqua, abbarbicati fin a rimanerne accecati ai loro valori di razza e di religione, individuati come Ebrei proprio da codesti valori, in nome dei quali si sgolavano dinanzi al Sinedrio ed a Pilato perché Gesù venisse dichiarato reo di morte. Rivendicando l'osservanza dei detti valori, essi stessi si riconoscono popolo ed agiscono come popolo. E quando Caifa, il sommo pontefice di quell'anno, rimprovera ai suoi colleghi di non aver capito nulla non avendo considerato che "expedit ut unus moriatur homo pro populo (?.aoi)" (Gv 11,50), riconosce realtà di popolo a quanti stanno reclamando l'esecuzione capitale di Cristo.


Nostra aetate
4/f vuole che "Judaei neque ut a Deo reprobati neque ut maledicti exhibeantur". Il discorso è d'estrema delicatezza; lo riprenderò unitamente a quello sul popolo deicida nell'ultimo paragrafo. Per ora mi si permetta di richiamare la connessione di Mt 27,25 con Mt 23,31-39 dove Gesù denuncia le gravi responsabilità storiche delle "guide cieche" d'Israele e ne preannuncia le conseguenze: la crocefissione del Salvatore come ultimo anello delle dette responsabilità e l'abbandono della "vostra casa", chiara allusione a Ger 12,7 (22,5; Ez 10,18-19; 11,22-23) che predice l'allontanarsi di Jahvèh da Gerusalemme.

Per concludere, mi sembra innegabile, alla luce del senso letterale di quei testi sacri che ne costituiscono la fonte storica, quanto segue:


a. il popolo ebraico passò dall'"osanna" al "crucifige" sotto l'azione perversa dei suoi capi;

b. questi infatti tutto fecero pur di mandar ad effetto la loro volontà di "perdere" Gesù;

c. lo fecero come "capi" nel rispetto della Legge e quindi dei valori riguardanti l'intero popolo israelitico, il quale ne assecondò gl'intenti;

d. e rimasero, per questo, i primi - anche se non gli unici - responsabili del drammatico evento.





CONTINUA........[SM=g1740720]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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