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Le Conferenze Episcopali nei rapporti con gli Stati del mondo

Ultimo Aggiornamento: 06/08/2011 20:25
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21/05/2009 14:41
 
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I rapporti tra Santa Sede, Stati e Conferenze episcopali dopo il Vaticano II

Il Concilio non è
la tomba dei concordati


di Giorgio Feliciani

Negli anni immediatamente successivi al Vaticano II si è da più parti sostenuto che gli insegnamenti conciliari costituissero un ripudio o, per lo meno, un radicale cambiamento della dottrina tradizionale della Chiesa in tema di rapporti con gli Stati. In particolare si è ritenuto che l'esplicito riconoscimento della "legittima autonomia" delle istituzioni politiche e la contestuale valorizzazione della responsabilità dei laici nell'ordine temporale comportassero, come logica conseguenza, non solo un assoluto privilegio per i "rapporti di base", ma anche il deciso ripudio di qualunque forma di "rapporto di vertice". E si è quindi giunti a riconoscere nel Concilio la tomba dei concordati.

Attualmente è fin troppo facile obiettare non solo che questa previsione si è rivelata alla prova dei fatti del tutto infondata, ma che l'istituzione concordataria dopo il Vaticano II ha conosciuto e sta conoscendo un'epoca di ampia diffusione e singolare sviluppo.

Non mancherà sicuramente chi consideri tutto questo non già una smentita delle proprie tesi, ma un vero e proprio tradimento degli insegnamenti conciliari. Ma, in realtà, sia le costituzioni Lumen gentium e Gaudium et spes sia la dichiarazione Dignitatis humanae, pur non mancando di significativi apporti di indiscutibile novità e originalità, ribadiscono con assoluta chiarezza i principi essenziali del precedente magistero in materia. Basti qui ricordare come la costituzione Gaudium et spes affermi l'indipendenza della Chiesa nei confronti degli Stati in termini non dissimili da quelli adottati da Leone xiii nell'enciclica Immortale Dei, quale prerogativa irrinunciabile che le autorità ecclesiastiche hanno sempre vigorosamente rivendicato nell'ambito della società.

Per quanto poi specificamente concerne i concordati va ricordato come quanti li avversavano abbiano creduto di trovare chiara conferma ai loro orientamenti nel noto passo della costituzione Gaudium et spes in cui si afferma che la Chiesa "non pone la sua speranza nei privilegi offerti dall'autorità civile", anzi "rinuncerà all'esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constati che il loro uso possa far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze esigano altre disposizioni".

Ma, a ben guardare, il testo in questione, mentre riafferma la dottrina assolutamente pacifica e del tutto tradizionale che la Chiesa può riporre la propria speranza solo nella "potenza del Signore risorto", non nega minimamente che essa possa legittimamente acquisire privilegi dall'autorità civile e liberamente servirsene. Avverte soltanto che la Chiesa rinuncerà autonomamente al loro esercizio qualora risultassero di obiettivo ostacolo alla propria missione o non rispondessero più alle sue esigenze a causa delle mutate circostanze storiche.
D'altro canto, secondo la stessa costituzione conciliare, sia la Chiesa sia la comunità politica sono, sia pure "a titolo diverso", "a servizio della vocazione personale e sociale delle stesse persone umane" e "svolgeranno questo loro servizio a vantaggio di tutti, in maniera tanto più efficace quanto meglio coltivano una sana collaborazione tra di loro".

Una collaborazione, dunque, da realizzare non solo tra i singoli fedeli e gli altri cittadini, ma anche tra lo Stato e la Chiesa in quanto tali, "secondo modalità adeguate alle circostanze di luogo e di tempo", che potrebbero anche richiedere specifiche intese tra le rispettive autorità ai fini della statuizione di una normativa, non necessariamente privilegiaria, di carattere speciale nell'ordinamento civile, e particolare in quello canonico.
Da un punto di vista più generale va poi osservato che, nel loro complesso, gli insegnamenti conciliari circa le relazioni della Chiesa con le comunità politiche legittimano una valutazione dello strumento concordatario ben più positiva di quella emergente dalle precedenti dottrine di ius publicum ecclesiasticum externum.

A tale riguardo basti ricordare come, secondo un autorevole trattato riedito dalla Tipografia Poliglotta Vaticana ancora nell'imminenza del Vaticano II, i concordati avessero come ultima ratio seu (...) causa radicalis il venire meno dell'ossequio delle nazioni verso la religione sì che le loro disposizioni recavano lo stigma delle relazioni imperfectae che si potevano stabilire cum societate laicismi, liberalismi, statolatriae principiis devicta. Un giudizio indubbiamente severo, ma perfettamente coerente con la convinzione che, in forza della indirecta subordinatio potestatis temporalis ad potestatem spiritualem, lo Stato, in caso di conflitto, dovesse per se attenersi omnino al giudizio autoritativo della Chiesa.

Il Concilio, riconoscendo la legittima autonomia degli Stati e rinunciando a rivendicare quella potestas indirecta in temporalibus che ormai sopravviveva solo nei manuali canonistici, supera decisamente questa impostazione:  dal momento che la Chiesa non pretende più di regolare autoritativamente le controversie con gli Stati, i concordati non possono ancora considerarsi solo come una dolorosa necessità o un male minore, ma divengono uno dei modi per così dire "normali" per prevenire e comporre gli eventuali conflitti di competenza e stabilire rapporti di sana cooperatio.
 
Si può, dunque, affermare che, dopo il Vaticano II, "l'istituto pattizio, in tutte le sue possibili forme, conserva caratteristiche di indubbia vitalità e resta tutt'altro che privo di prospettive", come è ormai largamente confermato dalla intensa attività concordataria svolta da Paolo VI e da Giovanni Paolo II fino ai recentissimi accordi di Benedetto XVI con il Portogallo, la Bosnia ed Erzegovina, l'Albania.

Peraltro la tesi che considera il Vaticano II come la tomba dei concordati contiene un aspetto di verità in quanto gli insegnamenti conciliari prospettano in questa materia orientamenti che comportano una profonda revisione dei "modelli" pattizi precedentemente adottati.

Innanzitutto la Chiesa non potrà in nessun caso né cercare né accettare, per se stessa e per i propri fedeli, condizioni di "privilegio" che comportino una limitazione della libertà religiosa degli altri cittadini e delle altre confessioni. A tale riguardo la dichiarazione Dignitatis humanae è assolutamente esplicita, esigendo che là dove, "considerate le circostanze peculiari dei popoli, nell'ordinamento giuridico di una società viene attribuito a una comunità religiosa uno speciale riconoscimento civile", sia riconosciuto e rispettato il diritto alla libertà in materia religiosa di tutti i cittadini e di tutte le comunità.

E mentre si delimita rigorosamente l'ampiezza dei "privilegi" che si possono legittimamente ottenere, si auspica anche una notevole riduzione della portata delle tradizionali concessioni a favore dell'autorità civile. Infatti, come è noto, il decreto Christus Dominus formula il voto che - al fine di meglio tutelare quella libertas Ecclesiae che resta il principio fondamentale delle relazioni con gli Stati - "per l'avvenire non siano più concessi alle autorità civili diritti o privilegi di elezione, nomina, presentazione o designazione all'ufficio episcopale".

Da un punto di vista più generale va poi rilevato, per quanto qui interessa, come gli insegnamenti conciliari abbiano notevolmente valorizzato il ministero episcopale, aprendo così la via a un tipo di concordato che non contempli solo accordi di vertice tra la Santa Sede e le autorità civili, ma lasci uno spazio adeguato all'iniziativa dell'episcopato locale.

Un decisivo impulso alla valorizzazione della funzione delle conferenze episcopali in questo ambito viene dato da Giovanni Paolo II. Il Pontefice polacco, infatti, considera le conferenze come entità rappresentative ad intra e ad extra dell'ambito ecclesiale e insiste su questa loro funzione di rappresentare nel modo più autentico l'episcopato presso le altre istituzioni, comprese quelle civili.

E tale insistenza risulta ancor più significativa se si considera che i vescovi sono a loro volta definiti "una rappresentanza legittima e qualificata del popolo", "una forza sociale che ha una responsabilità nella vita dell'intera nazione". In merito Giovanni Paolo II non si limita a enunciazioni di principio, ma dà a esse concreta attuazione a livello di politica concordataria, attribuendo a diversi episcopati il compito di emanare normative di attuazione dei patti stipulati e persino di pervenire a ulteriori intese con lo Stato.

Le conferenze interessate vengono così chiamate a produrre diritto particolare in diverse materie che esulano da quelle attribuite dal Codice alla loro competenza legislativa, come, ad esempio, il finanziamento della Chiesa e il sostentamento del clero, l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, i beni culturali ecclesiastici; i mezzi di comunicazione sociale; l'assistenza spirituale nelle forze armate, negli ospedali, nelle carceri. Una competenza, dunque, di apprezzabile ampiezza e che appare destinata a incrementarsi notevolmente in un prossimo futuro, come si può evincere da questa disposizione dell'accordo italiano, poi ripresa dal concordato polacco:  "Ulteriori materie per le quali si manifesti l'esigenza di collaborazione tra la Chiesa cattolica e lo Stato potranno essere regolate sia con nuovi accordi tra le due Parti sia con intese tra le competenti autorità dello Stato e la Conferenza episcopale italiana" (articolo 13, numero 2).

Va infine rilevato che questa valorizzazione delle conferenze da parte di Giovanni Paolo II non si traduce solo nelle pur numerose e significative disposizioni contenute nei diversi concordati, ma trova preciso riscontro anche a livello di diritto universale. Infatti la lettera apostolica Apostolos suos del 21 maggio 1998, mentre non ritiene "possibile circoscrivere entro un elenco esauriente" i temi che richiedono una "cooperazione" dei vescovi nell'ambito della conferenza episcopale, ne offre una ampia esemplificazione, menzionando espressamente "i rapporti con le autorità civili" (numero 15).

Ci si trova, dunque, di fronte a una importante evoluzione della prassi concordataria che appare determinata e favorita da fattori di diversa natura. Essa è senz'altro essenzialmente dovuta alla ecclesiologia conciliare che, riscoprendo la dottrina della collegialità, ha riconosciuto piena dignità istituzionale alle conferenze episcopali, definendone uno statuto giuridico comune, inquadrandole nel diritto costituzionale della Chiesa, dotandole di poteri legislativi.

Ma non mancano anche fattori di natura più contingente. La complessità della legislazione degli Stati contemporanei, sempre suscettibile di rilevanti riforme, in materie di notevole interesse per la comunità cristiana - si pensi agli ordinamenti scolastici per quanto riguarda l'insegnamento della religione, al regime fiscale ove legato a forme di finanziamento alla Chiesa o relativo alle sue istituzioni, alla tutela dei beni culturali - rende pressoché impossibile o almeno inopportuna una loro esauriente regolamentazione mediante solenni disposizioni concordatarie, aventi, di norma, una lunga durata.

Si viene così a delineare una nuova figura di concordato, che si può definire come concordato quadro in quanto si limita a stabilire i principi essenziali, affidando ogni ulteriore e necessaria specificazione a successivi intese, per le quali spesso il soggetto ecclesiale più idoneo a trattare con i pubblici poteri risulta essere la conferenza episcopale.


Si aggiunga che, soprattutto in seguito alla dissoluzione dell'Unione Sovietica e alla caduta del regime comunista nei Paesi satelliti, la Santa Sede si è trovata a svolgere una intensa attività concordataria con Stati privi di una tradizione, almeno recente, in tal senso, e che non avevano necessariamente già raggiunto uno stabile assetto politico, costituzionale, giuridico. Ne derivava l'esigenza di limitare i relativi patti a profili di carattere generale, rinviando a successivi accordi, non necessariamente previsti in modo esplicito, la determinazione di ogni ulteriore specificazione.

Per completezza va poi ricordato che l'azione delle conferenze episcopali nei confronti degli Stati non si traduce solo in atti di carattere giuridico-istituzionale ma comporta anche una attività di natura per così dire politica. Si intende alludere a quel complesso di interventi, che frequentemente, in forma pubblica o anche riservata, non poche conferenze operano presso i rispettivi Governi per manifestare esigenze, segnalare inconvenienti, proporre l'adozione di provvedimenti circa questioni che possono anche risultare di notevole rilevanza per l'intera comunità civile.

Non a caso l'epistola Apostolos suos menziona espressamente tra i temi che richiedono la cooperazione dei vescovi "la difesa della vita umana, della pace, dei diritti umani, anche perché vengano tutelati dalla legislazione civile, la promozione della giustizia sociale" (numero 15). Ma si pensi anche a quei problemi che in non pochi Paesi hanno assunto singolare attualità, come ad esempio la bioetica o l'accoglienza dei rifugiati e degli immigrati. Non sorprende, quindi, che gli episcopati seguano con molta attenzione i lavori parlamentari - anche mediante l'istituzione, come avvenuto in forme diverse in Germania e in Italia, di appositi osservatori di carattere giuridico-legislativo - provvedendo a formulare in più occasioni giudizi diretti a orientare l'opinione pubblica e gli stessi comportamenti di deputati e senatori che si professino cattolici o siano comunque interessati al voto dei cattolici.


Tutto questo può porre nei Paesi che mantengono relazioni diplomatiche con la Santa Sede qualche problema di non facile soluzione. In tale situazione, infatti, il Governo si trova di fronte a due distinti soggetti, ambedue legittimati, sia pure a diverso titolo, a rappresentare la comunità cristiana, senza che sia ben chiaro come si articolino e si coordino le loro competenze. Si può agevolmente supporre che di norma il legato pontificio e la conferenza episcopale agiscano di comune intesa, rafforzando così reciprocamente l'autorevolezza delle rispettive prese di posizione presso il Governo. Ma niente esclude che, almeno in un primo tempo, possano anche manifestare differenti orientamenti.

Occorre comunque riconoscere che non è possibile giungere a conclusioni di carattere generale universalmente valide circa il ruolo che le conferenze episcopali effettivamente svolgono nei rapporti con i pubblici poteri. Le materie in cui la Santa Sede ritiene opportuno un loro intervento formale e diretto variano notevolmente da Paese a Paese come pure l'effettiva autonomia riconosciuta agli episcopati nella formulazione delle intese attribuite alla loro competenza. Quanto poi ai possibili interventi di carattere per così dire politico è di tutta evidenza che essi possono avere rilevanza e accenti molto diversi.

Differenze che non devono sorprendere in quanto derivano da fattori di carattere assolutamente contingente relativi alla situazione dei Paesi interessati, quali l'eventuale preferenza delle autorità civili e dello stesso episcopato per accordi direttamente garantiti dall'autorità della Santa Sede, il radicamento e la consistenza della comunità cattolica, l'atteggiamento nei suoi confronti del governo attuale e di quelli precedenti.

Ne segue che, per una valutazione criticamente fondata delle dinamiche concordatarie postconciliari, non è sufficiente proporre, alla luce delle fonti di diritto universale - il Concilio e il Motu proprio Apostolos suos - e di diritto particolare - i concordati e analoghi accordi - pur attente e condivisibili considerazioni di carattere generale. Occorre anche mettere in luce quali effettive corrispondenze e realizzazioni esse trovino nelle concreta esperienza di ogni singolo Paese nella prospettiva di una valutazione comparativa di carattere globale.



(©L'Osservatore Romano 16 gennaio 2009)

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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A colloquio con il vescovo Arborelius, presidente della Conferenza episcopale della Scandinavia

Una Chiesa che unisce
popoli e culture


di Nicola Gori

Una minoranza in Paesi secolarizzati e indifferenti dal punto di vista religioso. Una comunità che deve fare i conti con un flusso notevole di immigrati di diverse lingue e culture. Una voce che chiede il rispetto della dignità umana e della sacralità della vita, dal suo concepimento alla morte naturale. È il volto della Chiesa cattolica in Scandinavia ritratto da monsignor Anders Arborelius, vescovo di Stockholm e presidente della Conferenza episcopale, in questa intervista al nostro giornale in occasione della visita ad limina.

In che modo una Chiesa minoritaria testimonia il Vangelo in una società secolarizzata e indifferente?

La Chiesa cattolica in Scandinavia è una piccola minoranza, ma è composta da persone provenienti da tutto il mondo. Questo carattere multiculturale mostra che la Pentecoste è una realtà, che lo Spirito Santo può unire persone di tutte le razze e le culture e di tutti i gruppi sociali. Questo fatto è molto importante in una società che è stata per secoli tanto uniforme. Un'altra caratteristica della vita cattolica in Scandinavia è la presenza di un buon numero di conventi e di monasteri di vita contemplativa. C'è infatti un interesse crescente per la spiritualità e per la preghiera nei nostri Paesi secolarizzati. Molti si rivolgono alla nostra Chiesa per trarne orientamento. Cerchiamo anche di difendere la dignità della vita umana, dal concepimento fino al suo termine naturale. La nostra Chiesa è una delle poche voci che si fa sentire a difesa di questo diritto.

Lo sviluppo economico ha creato ricchezza materiale per gli abitanti dei Paesi scandinavi. Ritiene che il benessere possa distrarre dal messaggio cristiano?

La maggioranza della popolazione nei nostri Paesi sembra piuttosto indifferente alla vita della Chiesa. Tuttavia, esiste ancora una sorta di angolo nascosto nel cuore di molti, dove si desidera qualcosa di più. Vediamo anche che alcuni si convertono alla fede cristiana. Altri, invece, accettano solo una parte del messaggio cristiano, ma non la pienezza della rivelazione.

Un problema di grande attualità è la formazione e l'integrazione dei sacerdoti e dei religiosi stranieri che vengono in Scandinavia per svolgere attività pastorale. Quali iniziative avete intrapreso?

Per venire incontro alle loro difficoltà cerchiamo di offrire vari corsi e programmi. Le autorità civili nella maggior parte dei nostri Paesi si occupano dei corsi di lingua, in modo che la Chiesa possa impegnarsi su altre questioni, come la presentazione della nostra cultura. La migliore preparazione, però, consiste nel vivere in una parrocchia ed essere gradualmente inseriti nel nuovo Paese.

Dal 14 al 16 maggio si svolgerà il Congresso cattolico della famiglia. Con quali obiettivi? E quali sono le difficoltà che l'istituto familiare incontra nella società scandinava?

Desideriamo rafforzare la vita delle famiglie e aiutare i coniugi in questo compito. La società circostante spesso ha un atteggiamento molto differente rispetto ai principi cristiani riguardo al matrimonio e alla famiglia. Il clima d'individualismo e di materialismo può essere un ostacolo per le numerose persone che desiderano scoprire la visione cristiana della vita familiare. D'altro lato, l'insegnamento cristiano sulla sessualità può essere una buona novella per molti che hanno un atteggiamento piuttosto superficiale verso questo dono di Dio. Speriamo che il prossimo congresso aiuti molti a scoprire la bellezza e il valore profetico del matrimonio e della famiglia.

Il rapporto con i protestanti è al centro della vita della Chiesa cattolica? Ci parli del difficoltà nel cammino ecumenico e dei punti di incontro.

C'è un rapporto molto positivo fra i cristiani di varie denominazioni a livello umano, ma, certamente, esistono ancora questioni dogmatiche ed etiche sulle quali abbiamo punti di vista totalmente diversi, per esempio per quanto riguarda l'interruzione di gravidanza e il matrimonio fra persone delle stesso sesso. Su questioni quali l'immigrazione e i diritti dei richiedenti asilo tutte le Chiese cristiane sono unite e cercano di difendere i diritti umani. L'ecumenismo spirituale sembra proprio unire i cristiani di diverse confessioni.

Come superate gli ostacoli che incontrate nell'esercizio del ministero dovuti alla grande distanza tra le varie comunità dei fedeli disseminate nei Paesi e alle avverse condizioni climatiche in cui dovete operare?

È vero che in alcune parti della Scandinavia può essere estremamente difficile raggiungere una chiesa cattolica o partecipare alla messa mensile celebrata spesso in una chiesa protestante, che ci è stata gentilmente messa a disposizione. Ammiro quei fedeli che, senza lamentarsi, sono disposti a spostarsi per cento o più chilometri per partecipare alla messa.

Il notevole afflusso di immigrati di altre razze e di differenti religioni pone dei nuovi problemi di integrazione nella società, ma anche a livello di dialogo interreligioso. Come vi preparate ad affrontare questa sfida?

Per noi cattolici in Scandinavia è stato un privilegio vivere e praticare il culto insieme con altri fedeli di tutto il mondo. Siamo abituati a incontrare persone provenienti da altri Paesi nelle nostre parrocchie. In un certo qual modo, le nostre parrocchie sono le comunità più integrate. Questo ci permette anche di comunicare con altri immigrati che appartengono a varie religioni. Di fatto, i rapporti fra le varie religioni in Scandinavia sono generalmente buoni, forse perché viviamo tutti in un mondo secolarizzato dove le persone, per la maggior parte, non credono in Dio.


(©L'Osservatore Romano - 25 marzo 2010)
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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18/06/2010 18:16
 
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L'intervento dell'arcivescovo segretario per i Rapporti con gli Stati alla decima Settimana sociale cattolica a Cuba

La libertà religiosa nello Stato laico


Dal 16 al 20 giugno l'arcivescovo segretario per i Rapporti con gli Stati compie una visita a L'Avana per partecipare alla decima Settimana Sociale della Chiesa Cattolica intitolata "Testigos de la esperanza y promotores de paz" e per commemorare il settantacinquesimo anniversario dell'allacciamento dei rapporti diplomatici tra la Santa Sede e Cuba. Pubblichiamo, nella traduzione italiana, il testo integrale del suo intervento pronunciato il 16 giugno durante la sessione di apertura e intitolato "La laicidad del Estado:  algunas consideraciones".

di Dominique Mamberti

Il cortese invito ad aprire i lavori di questa Settimana sociale mi offre la gradita occasione di incontrarmi con voi, autorità della Repubblica di Cuba, ambasciatori accreditati all'Avana, autorità della Chiesa cattolica in Cuba e fedeli laici che partecipano ai lavori. A tutti e a ciascuno vada il mio cordiale saluto. Penso poi specialmente a voi fedeli laici qui presenti, che rappresentate le diverse e più qualificate componenti della Chiesa sull'isola. Un incontro come questo ha fra i suoi scopi principali quello di corroborare la vocazione e la missione del laicato nella Chiesa e nella società. Infatti, come ricorda il Compendio della dottrina sociale della Chiesa (n. 532), le Settimane sociali, che si svolgono anche in altri Paesi del mondo, "costituiscono un luogo qualificato di espressione e di crescita dei fedeli laici, capace di promuovere, ad un livello alto, il loro specifico contributo al rinnovamento dell'ordine temporale".
Ma soprattutto desidero parteciparvi la vicinanza paterna del Papa e l'affettuosa benedizione che Benedetto XVI mi ha affidato per voi. "Sapete - scrisse il Pontefice nel messaggio del 2008 ai vescovi di Cuba per il decimo anniversario della visita di Giovanni Paolo II - che potete contare sulla vicinanza del Papa e sulla fraterna preghiera e collaborazione di altre Chiese particolari disseminate in tutto il mondo". Sono certo che la mia permanenza a Cuba in questi giorni potrà contribuire a rafforzare i vincoli di comunione fra i vescovi e i fedeli delle diocesi cubane con il successore dell'apostolo  Pietro, principio e fondamento visibile  dell'unità  della  Chiesa  cattolica.

Ringrazio l'episcopato cubano e gli organizzatori di questa Settimana sociale per avermi dato anche la possibilità di condividere con tutti voi alcune riflessioni sul tema della laicità dello Stato. Si tratta di un argomento di grande vastità e di viva attualità, al quale sono collegate molte altre importanti tematiche. Inoltre questo tema conduce a prendere in considerazione il plurisecolare percorso storico della comunità umana e della Chiesa cattolica. Né si può dimenticare che non solo nelle diverse epoche della storia, ma anche nei diversi Paesi e aree culturali la questione della laicità dello Stato si è posta e si pone con contenuti e modalità diverse. Ciò basta a far ben comprendere come sarebbe illusorio pensare di esaurire l'argomento nel breve spazio di una prolusione. Mi limiterò quindi ad alcune considerazioni che mi sembrano significative per il contesto di una Settimana sociale e che mi auguro possano servire da stimolo alla vostra ulteriore riflessione e, poi, alla vostra azione.

Laicità e cristianesimo

Va osservato che, mentre il termine "laicità", in passato come oggi, viene anzitutto riferito alla realtà dello Stato e assume non di rado una sfumatura o un'accezione di contrapposizione alla Chiesa e al cristianesimo, in effetti di esso non si parlerebbe neppure senza il cristianesimo stesso. Ciò vale sia per la realtà in sé sia per il termine stesso.
Infatti, senza il Vangelo di Cristo non sarebbe entrata nella storia dell'umanità la fondamentale distinzione fra ciò che l'uomo deve a Dio e ciò che egli deve a Cesare, cioè all'autorità civile (cfr. Luca, 20, 25). Se pensiamo al contesto storico nel quale avvenne l'Incarnazione del Figlio di Dio, cioè all'impero romano o alla stessa comunità d'Israele, non si può non rilevare come fosse lontana dalla mentalità comune all'epoca l'impostazione nuova che Gesù Cristo dà al ruolo dell'autorità dello Stato in rapporto alla coscienza dell'uomo, specialmente per quanto riguarda la sua ricerca e la sua relazione con il trascendente. Per questo Benedetto XVI ha potuto affermare, nell'incontro con i giornalisti in volo verso la Francia il 12 settembre 2008, che "la laicità di per sé non è in contraddizione con la fede. Direi anzi che è un frutto della fede, perché la fede cristiana era, fin dall'inizio, una religione universale, dunque non identificabile con uno Stato, una religione presente in tutti gli Stati e diversa da ogni Stato. Per i cristiani è sempre stato chiaro che la religione e la fede non stanno in una fede politica, ma si pongono in un'altra sfera della vita umana... La politica, lo Stato non è una religione ma una realtà profana con una missione specifica. Le due realtà devono essere aperte l'una all'altra".
Anche lo stesso termine "laicità", derivato da "laico", ha la sua prima origine nell'ambito ecclesiale. Infatti, questa parola - come ha detto il Papa all'Unione dei Giuristi Cattolici Italiani il 9 dicembre 2006 - è "nata come indicazione della condizione del semplice fedele cristiano, non appartenente né al clero né allo stato religioso". Anche oggi nella Chiesa noi riconosciamo quella fondamentale bipartizione creata dal sacramento dell'Ordine fra i battezzati, per cui coloro che hanno ricevuto tale sacramento sono chierici e gli altri sono appunto laici; da entrambi questi stati provengono poi coloro che professano i tre consigli evangelici negli istituti di vita consacrata, come si legge nel canone 207 del Codex iuris canonici. Il laico è dunque anzitutto il "non chierico", anche se, ovviamente, in ciò non si esaurisce il contenuto della specifica vocazione di questa categoria di battezzati. È questa la prima accezione, del tutto intraecclesiale, del termine "laicità".
Anche la successiva tappa dell'evoluzione del suo significato rimane nell'ambito interno la Chiesa. In questo nuovo significato il termine non serve più a designare una categoria di fedeli, ma a descrivere il tipo di rapporto che si instaura fra le autorità della Chiesa e quelle civili:  infatti, "durante il Medioevo ha rivestito il significato di opposizione tra i poteri civili e le gerarchie ecclesiastiche", come ha sottolineato nel discorso appena citato. Badiamo bene però che in quest'epoca, vi fu sì confronto e contrasto fra queste due autorità, ma sempre dentro una realtà sociale che si riconosceva tutta come cristiana. "Il Regnum (il Sacro impero), inserito nella Ecclesia, segnato di sacralità, esercita un ruolo che non è solo di protezione; la Chiesa, a sua volta, è chiamata a compiti anche temporali e fortemente inserita nelle strutture stesse del Regnum", disse Giovanni Paolo II a Salerno il 26 maggio 1985. I sovrani, che rivendicavano una non soggezione al Papa, non per questo si consideravano fuori della Chiesa, semmai volevano esercitare un ruolo di controllo e di organizzazione della Chiesa stessa, ma non vi era alcuna volontà di separazione da essa o di una sua estromissione dalla società.
È soprattutto a partire dall'età dei Lumi e poi in maniera drammatica con la Rivoluzione francese che il termine "laicità" arriva, invece, a esprimere una completa alterità, anzi un'opposizione netta fra l'ambito della vita civile e quello religioso ed ecclesiale. Come rilevava Benedetto XVI nel discorso citato all'Unione dei Giuristi Cattolici Italiani, esso "nei tempi moderni ha assunto [il significato] di esclusione della religione e dei suoi simboli dalla vita pubblica mediante il loro confinamento nell'ambito del privato e della coscienza individuale". E osservava ancora:  "È avvenuto così che al termine di laicità sia stata attribuita un'accezione ideologica opposta a quella che aveva all'origine".
Questo rapido schizzo circa l'evoluzione del termine "laicità" ci permette di osservare che ognuno dei significati assunti nelle tappe fondamentali di tale sviluppo non è stato superato e annullato dalla tappa successiva, ma permane:  infatti, "laicità" designa tuttora sia la condizione ecclesiale dei battezzati che non sono né chierici né religiosi, sia la distinzione fra l'autorità ecclesiale e quella civile, sia l'atteggiamento che porta a estromettere la dimensione religiosa dal complesso della vita sociale. Inoltre possiamo osservare che queste tre diverse accezioni del termine "laicità" sono tra loro strettamente congiunte e interdipendenti, e ciò apparirà ancor più chiaro al termine del nostro discorso.
Ma soprattutto comprendiamo che anche se la laicità viene oggi invocata e usata non di rado per ostacolare la vita e l'attività della Chiesa, nella sua realtà profonda e positiva essa non si sarebbe neppure data senza il cristianesimo. È quanto è avvenuto anche per altri valori che oggi vengono considerati tipici della modernità e sono non di rado invocati per criticare la Chiesa o, in genere, la religione, quali il rispetto della dignità della persona, della libertà, dell'uguaglianza, e così via:  sono in gran parte frutto dell'influenza profonda del Vangelo sulle diverse culture, anche se poi si sono staccati e perfino opposti alle loro radici cristiane.

Laicità e libertà religiosa

A questa prima considerazione di carattere piuttosto storico vorrei aggiungere una seconda, che ci colloca piuttosto nel presente. Mi riferisco al fatto che in molti ordinamenti statali si afferma che la laicità è uno dei propri principi fondamentali, soprattutto, ovviamente, per quanto riguarda il rapporto dello Stato con la dimensione religiosa dell'uomo.
Possiamo chiederci se sia del tutto condivisibile un'impostazione che mette al primo posto la laicità e, a partire da essa, imposta l'atteggiamento che lo Stato deve assumere nei riguardi del credo religioso dei suoi cittadini. Al riguardo, non si può dimenticare che di fatto, in nome di questa concezione, talvolta vengono prese decisioni o emanate norme che sono oggettivamente a danno dell'esercizio personale e comunitario del diritto fondamentale di libertà religiosa.
Se prendiamo le mosse da un concetto adeguato del diritto di libertà religiosa, che si fonda nella dignità intangibile della persona, dobbiamo dire che "la neutralità, la laicità o la separazione non possono essere i principi che definiscono in modo fondamentale la posizione dello Stato nei confronti della religione" (J. T. Martín de Agar, Libertà religiosa, uguaglianza e laicità, in "Ius Ecclesiae", 1995, pp. 199-215). Principi come quello della laicità, "hanno una valenza pratica puramente negativa, di non interferenza (...) dello Stato nelle opzioni religiose dei cittadini; la libertà religiosa, invece, benché si esprima innanzitutto come incompetenza dello Stato in queste opzioni, esige inoltre da questo un'attività positiva in ordine a definire, tutelare e promuovere con giustizia i concreti contenuti, non della religione bensì delle sue manifestazioni aventi una rilevanza sociale" (ivi). La laicità, la neutralità o la separazione sono, dunque, in sé insufficienti a definire in modo completo l'atteggiamento che lo Stato deve avere nei riguardi del credo dei suoi cittadini. Piuttosto, essi "devono servire come ulteriore garanzia della libertà religiosa e se non si riferiscono a questa smettono di aver senso o si trasformano in manifestazione di statalismo" (ivi).
Possiamo notare che la mancata subordinazione logica e ontologica della laicità al rispetto pieno della libertà religiosa costituisce una possibile e anche reale minaccia per quest'ultima. Infatti, "quando si pretende di subordinare la libertà religiosa a qualche altro principio, allora la laicità tende a trasformarsi in laicismo, la neutralità in agnosticismo, la separazione in ostilità" (ivi). In tale caso paradossalmente lo Stato diventerebbe uno Stato confessionale e non più autenticamente laico, perché farebbe della laicità il suo valore supremo, la sua ideologia determinante, una sorta appunto di religione, magari perfino con suoi riti e liturgie civili. Per lo Stato dirsi laico non può significare voler emarginare o rifiutare la dimensione religiosa o la presenza sociale delle confessioni religiose. Al contrario, compito dello Stato dovrebbe essere quello di riconoscere il ruolo centrale della libertà religiosa e promuoverlo positivamente. Proprio a Cuba,  il 25 gennaio 1998, Giovanni Paolo II ribadì che "lo Stato, lontano da ogni fanatismo o secolarismo estremo, deve promuovere un clima sociale sereno e una legislazione adeguata, che permetta a ogni persona e a ogni confessione religiosa di vivere liberamente la propria fede, esprimerla negli ambiti della vita pubblica e poter contare su mezzi e spazi sufficienti per offrire alla vita della Nazione le proprie ricchezze spirituali, morali e civiche".
A questo proposito, va riaffermata quella che è la concezione piena del diritto di libertà religiosa. Infatti, rispettarlo non significa semplicemente non sottoporre a coazione oppure permettere la personale interiore adesione di fede. Riprendendo l'insegnamento del concilio Vaticano ii circa la libertà religiosa, Benedetto XVI ha ricordato, il 20 novembre 2006 visitando il presidente della Repubblica italiana, che la "sollecitudine della comunità civile nei riguardi del bene dei cittadini non si può limitare ad alcune dimensioni della persona, quali la salute fisica, il benessere economico, la formazione intellettuale o le relazioni sociali. L'uomo si presenta di fronte allo Stato anche con la sua dimensione religiosa, che "consiste anzitutto in atti interni volontari e liberi, con i quali l'essere umano si dirige immediatamente verso Dio" (Dignitatis humanae, 3)". Ciò comporta che lo Stato anzitutto non cerchi di impedire questo movimento della persona verso il suo Creatore:  "Tali atti "non possono essere né comandati, né proibiti" dall'autorità umana, la quale, al contrario, è tenuta a rispettare e promuovere questa dimensione:  (...) nessuno può essere costretto "ad agire contro la sua coscienza" né si può "impedirgli di agire in conformità ad essa, soprattutto in campo religioso" (ibid.)". Se il rispetto dell'atto personale di fede è fondamentale, esso però non esaurisce l'attitudine dello Stato verso la dimensione religiosa, perché questa, come la persona umana, ha bisogno di esteriorizzarsi nel mondo e di essere vissuta non solo personalmente, ma anche comunitariamente. "Sarebbe però riduttivo - continua il Papa - ritenere che sia sufficientemente garantito il diritto di libertà religiosa, quando non si fa violenza o non si interviene sulle convinzioni personali o ci si limita a rispettare la manifestazione della fede che avviene nell'ambito del luogo di culto. Non si può infatti dimenticare che "la stessa natura sociale dell'essere umano esige che egli esprima esternamente gli atti interni di religione, comunichi con altri in materia religiosa e professi la propria religione in modo comunitario" (ibid.). La libertà religiosa è pertanto un diritto non solo del singolo, ma altresì della famiglia, dei gruppi religiosi e della stessa Chiesa (cfr. Dignitatis humanae, 4-5.13) e l'esercizio di questo diritto ha un influsso sui molteplici ambiti e situazioni in cui il credente viene a trovarsi e ad operare".
Si tratta, dunque, di coordinare rettamente laicità e libertà religiosa, cogliendo la prima come un mezzo importante, ma non esaustivo per rispettare la seconda, la quale, a sua volta, va colta in tutte le sue dimensioni, senza riduzionismi, che alla fin fine si traducono in una sua negazione.
Permettetemi di aprire brevemente una parentesi. Un discorso analogo a quello sul principio di laicità in rapporto al diritto di libertà religiosa si potrebbe fare a proposito del rapporto fra il principio di uguaglianza e tale libertà. Non si può in nome di un'uguaglianza teorica, che non tiene conto delle diverse realtà, equiparare fra loro tutte le situazioni giuridiche senza tener conto delle loro differenze di fatto. Infatti, "trattare (...) in modo uguale rapporti giuridici diseguali è altrettanto ingiusto quanto il trattare in modo diseguale rapporti giuridici uguali" (F. Ruffini, Libertà religiosa e separazione tra Chiesa e Stato, in Scritti dedicati a G. Chiodini, Torino 1975, p. 272). Anche per quanto riguarda il diritto di libertà religiosa, giustizia non è dare a tutti lo stesso, ma a ciascuno il suo, che gli spetta. È contro il principio di uguaglianza tanto discriminare o privilegiare, quanto uniformare e impedire quel pluralismo, che di fatto esiste fra le confessioni religiose nelle loro manifestazioni vitali nella società.

Cosa richiede la laicità ai cristiani?

Normalmente quando si affronta il tema della laicità, l'attenzione si concentra su ciò che essa comporta per lo Stato, le sue autorità, i suoi organi e le sue norme. Tuttavia, non si deve dimenticare che il rispetto di quella che già Pio xii definì il 23 marzo 1958 la "legittima e sana laicità" - cioè, secondo quanto abbiamo detto, della laicità che serve a tutelare e promuovere la libertà religiosa - interpella anche i credenti. Nella presente circostanza della Settimana sociale ritengo opportuno soffermarmi un po' più ampiamente su questo aspetto.

Legittima autonomia dello Stato

Anzitutto il rispetto del principio di laicità richiede ai cattolici di riconoscere la giusta autonomia delle realtà temporali, fra le quali rientra anche la comunità politica. Si tratta di una dottrina esposta nella costituzione pastorale Gaudium et spes del concilio Vaticano ii, secondo la quale - ha ricordato Benedetto XVI il 24 giugno 2005 visitando il presidente della Repubblica italiana - "le realtà temporali si reggono secondo le norme proprie, senza tuttavia escludere quei riferimenti etici che trovano il loro fondamento ultimo nella religione. L'autonomia della sfera temporale non esclude un'intima armonia con le esigenze superiori e complesse derivanti da una visione integrale dell'uomo e del suo eterno destino". Una delle "norme proprie" di quella realtà temporale che è lo Stato è appunto la laicità, che, però, va sempre compresa e praticata alla luce di una visione integrale della persona umana, da cui discendono appunto chiare esigenze etiche.
Da ciò deriva che per i credenti "la promozione secondo coscienza del bene comune della società politica - come afferma un documento della Congregazione per la Dottrina della Fede sull'impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica (n. 6) - nulla ha a che vedere con il "confessionalismo" o l'intolleranza religiosa". Queste ultime modalità di pensiero e di azione non solo sono incompatibili con la giusta laicità, ma rischiano di essere una minaccia anche per la stessa libertà religiosa. Giovanni Paolo II ha al riguardo ammonito, nel messaggio per la Giornata mondiale della pace del 1991, che "identificare la legge religiosa con quella civile può effettivamente soffocare la libertà religiosa e, persino, limitare o negare altri inalienabili diritti umani".  Possiamo,  quindi,  dire che la  laicità  richiede  anzitutto  al credente  e  alla  comunità di fede in negativo di evitare ogni tipo di confusione fra la sfera religiosa e la sfera politica.

Ordine giusto e purificazione della ragione

Ma, come abbiamo detto, il rispetto della autonomia della realtà temporale "Stato", nella visione cristiana, non significa un'autonomia etica, per cui esso sarebbe sganciato e indipendente da ogni norma morale. La storia testimonia purtroppo con abbondanza di esempi le nefaste conseguenze di forme di governo e di Stato che si sono considerate superiori alle leggi e ai valori morali, cioè che non hanno perseguito la giustizia, che è rispetto dei diritti di tutti e di ciascuno. "Un'attenzione inadeguata verso la dimensione morale conduce alla disumanizzazione della vita associata e delle istituzioni sociali e politiche, consolidando le "strutture di peccato"" (Compendio della dottrina sociale della Chiesa, n. 566).
Ma dove lo Stato trova le istanze etiche cui riferirsi? Come potrà orientarsi per costruire un ordine giusto? Riprendendo la visione cattolica sui rapporti tra fede e ragione, Benedetto XVI nell'enciclica Deus caritas est afferma che la ragione umana è di per sé in grado di riconoscere le istanze morali di riferimento, ma d'altra parte, se essa è lasciata alle sue sole capacità, ciò le risulta assai difficoltoso:  "La ragione deve sempre di nuovo essere purificata, perché il suo accecamento etico, derivante dal prevalere dell'interesse e del potere che l'abbagliano, è un pericolo mai totalmente eliminabile" (n. 28). Dunque, da un lato, sul terreno dell'uso retto della ragione i cristiani possono trovare ampie convergenze anche con gli appartenenti alle altre religioni e con tutti gli uomini di buona volontà per impegnarsi a favore della dignità della persona umana. Dall'altro, la presenza dei cristiani è nella società un lievito che tiene alta la tensione della società nel perseguire l'autentico bene comune. Si colloca qui, ad esempio, l'opera di formazione da parte della Chiesa nei riguardi soprattutto dei giovani.
In concreto questa purificazione della ragione umana, che è il servizio che la Chiesa e i suoi membri offrono alla società, avviene attraverso la proposta della sua dottrina sociale. Infatti, "la dottrina sociale della Chiesa argomenta a partire dalla ragione e dal diritto naturale, cioè a partire da ciò che è conforme alla natura di ogni essere umano", e intende "servire la formazione della coscienza nella politica e contribuire affinché cresca la percezione delle vere esigenze della giustizia e, insieme, la disponibilità ad agire in base ad esse, anche quando ciò contrastasse con situazioni di interesse personale" (ivi).
Sono perciò del tutto pretestuose le ricorrenti accuse di ingerenza che spesso oggi vengono mosse, quando i Pastori della Chiesa ricordano ai fedeli e a tutti gli uomini di buona volontà quei "valori e principi antropologici ed etici radicati nella natura dell'essere umano, riconoscibili anche attraverso il retto uso della ragione" (così il Papa nel discorso già citato del 20 novembre 2006). Come ricorda Benedetto XVI nella Deus caritas est (n. 28), "la Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile. Non può e non deve mettersi al posto dello Stato. Ma non può e non deve neanche restare ai margini nella lotta per la giustizia. Deve inserirsi in essa per la via dell'argomentazione razionale e deve risvegliare le forze spirituali, senza le quali la giustizia, che sempre richiede anche rinunce, non può affermarsi e prosperare".

La missione dei fedeli laici

Nel Corpo mistico di Cristo che è la Chiesa le diverse membra hanno vocazioni e missioni diverse nella stessa Chiesa e nella società, e ciò vale anche in rapporto alla realizzazione di quanto la laicità dello Stato esige dai cristiani. Così al Magistero compete un ruolo diverso da quello che spetta ai laici:  mentre ai Pastori della Chiesa tocca di illuminare le coscienze con l'insegnamento, Benedetto XVI afferma nella Deus caritas est (n. 29) che "il compito immediato di operare per un giusto ordine nella società è (...) proprio dei fedeli laici", che lo fanno "cooperando con gli altri cittadini".
Ciò è una conseguenza dello specifico della vocazione laicale, che il concilio Vaticano ii ha individuato nel "carattere secolare" nella costituzione dogmatica Lumen gentium (n. 31):  "Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio. Vivono nel secolo, cioè implicati in tutti i diversi doveri e lavori del mondo e nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale, di cui la loro esistenza è come intessuta. Ivi sono da Dio chiamati a contribuire, quasi dall'interno a modo di fermento, alla santificazione del mondo esercitando il proprio ufficio sotto la guida dello spirito evangelico, e in questo modo a manifestare Cristo agli altri principalmente con la testimonianza della loro stessa vita e col fulgore della loro fede, della loro speranza e carità. A loro quindi particolarmente spetta di illuminare e ordinare tutte le cose temporali, alle quali sono strettamente legati, in modo che siano fatte e crescano costantemente secondo il Cristo e siano di lode al Creatore e Redentore".
Quella dei laici è dunque una missione di impegno, di testimonianza, di dialogo, di animazione dentro la società e le sue articolazioni e a contatto con tutti gli altri cittadini. Lo ricordava Giovanni Paolo II il 23 gennaio 1998 ai giovani cubani durante la sua memorabile visita in quest'isola:  "Non esiste autentico impegno con la Patria senza il compimento dei propri doveri e obblighi nella famiglia, all'università, in fabbrica o nei campi, nel mondo della cultura e nello sport, nei diversi ambienti in cui la Nazione si fa realtà e la società civile forgia la progressiva creatività della persona umana. Non ci può essere impegno nella fede senza una presenza attiva e audace in tutti gli ambienti della società in cui si incarnano Cristo e la Chiesa".
È una missione, quella che attende i fedeli laici, che richiede di fondarsi su una profonda vita spirituale e su una soda formazione dottrinale, specialmente per quanto riguarda la dottrina sociale della Chiesa, e non meno sull'acquisizione di tutte le competenze che il proprio ruolo, posizione o professione esige.

Conclusione

Con queste considerazioni sulla vocazione laicale siamo ritornati alla prima, all'originaria accezione, tutta intraecclesiale, del termine "laico/laicità", cui accennavo sopra. E, mi sembra che ora possa risultare ancor più chiaro come questo significato di "laicità" sia di per sé connesso con gli altri due che la parola ha assunto lungo la bimillenaria storia della Chiesa nel suo rapporto con la società:  laicità dello Stato, che, lungi dall'essere emarginazione della dimensione religiosa e della comunità dei credenti dalla vita sociale in tutte le sue componenti (laicità nel senso di laicismo), diventa rispetto e collaborazione fra la comunità civile e quella ecclesiale per il vero bene dell'uomo e della famiglia umana (sana laicità o laicità positiva).
Ecco tracciate per sommi capi le linee generali della visione cristiana del tema della laicità dello Stato. Come già dicevo, nella vita di ogni comunità statale esse devono trovare un'attuazione corrispondente alla storia, alla cultura, all'ordinamento del Paese e, soprattutto, devono avere attuazione nella pratica concreta e quotidiana.
Non mi resta perciò che affidare queste mie frammentarie considerazioni alla riflessione di questa Settimana sociale, che entra nel vivo dei suoi lavori e alla quale auguro di offrire su questioni così rilevanti impulsi positivi per l'impegno della Chiesa in Cuba.


(©L'Osservatore Romano - 19 giugno 2010)
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Su invito della Conferenza episcopale e del ministro degli Affari Esteri

Visita a Cuba dell'arcivescovo Mamberti


L'arcivescovo Dominique Mamberti, segretario per i Rapporti con gli Stati, ha compiuto una visita ufficiale a Cuba - su invito della Conferenza episcopale e del ministro degli Affari Esteri, Bruno Rodríguez Parrilla - per inaugurare la decima Settimana sociale cattolica e per celebrare il settantacinquesimo anniversario dell'allacciamento delle relazioni diplomatiche tra la Repubblica di Cuba e la Santa Sede.

Giunto all'aeroporto internazionale José Martí dell'Avana, nel pomeriggio del 15 giugno, l'arcivescovo Dominique Mamberti è stato ricevuto dal cardinale Jaime Ortega y Alamino, arcivescovo dell'Avana. Erano inoltre presenti il vice cancelliere Abelardo Moreno Fernández, la responsabile della Oficina de Atención para los Asuntos Religiosos (Oaar), Caridad Diego Bello, il vice responsabile, Carlos Samper, il nunzio apostolico, arcivescovo Giovanni Angelo Becciu, monsignor Emilio Aranguren, vescovo di Holguín, Orlando Márquez, responsabile per le comunicazioni dell'arcidiocesi dell'Avana, Francisco Roberto Florentino Graupera, del ministero degli Affari Esteri.

La mattina di mercoledì 16 giugno è iniziata con l'offerta floreale al monumento a José Martí nella Plaza de la Revolución. Tra gli altri, erano presenti:  il vice ministro Moreno Fernández, il direttore per l'Europa del ministero degli Affari Esteri, ambasciatore Ernesto Sentí Darias, l'ambasciatore presso la Santa Sede, Eduardo Delgado Bermúdez e il nunzio apostolico. Nella sede del ministero degli Affari Esteri si è poi tenuta una riunione di lavoro col cancelliere Bruno Rodríguez, in un clima cordiale e costruttivo, alla quale hanno fatto seguito una conferenza stampa alla presenza di numerosi giornalisti e un ricevimento con il corpo diplomatico. In serata, l'arcivescovo Mamberti ha pronunciato la conferenza inaugurale della decima Settimana sociale, dedicata al concetto di laicità dello Stato, secondo la dottrina e la cultura cristiana. La giornata si è conclusa con un concerto offerto dal Governo, nella suggestiva cornice del Monasterio de San Jerónimo, per solennizzare i 75 anni di ininterrotte relazioni diplomatiche.

Nella mattina del 17 giugno l'arcivescovo Mamberti ha assistito alla presentazione dell'Enciclica Caritas in veritate da parte del gesuita Jorge Cela, nel contesto dei lavori della decima Settimana sociale. Nel pomeriggio l'arcivescovo Mamberti ha potuto ammirare le pregevoli opere pittoriche e scultoree custodite nel Museo nazionale delle Belle Arti. Quindi, nella cattedrale gremita di fedeli, alla presenza di alte autorità civili e di una nutrita rappresentanza del corpo diplomatico, l'arcivescovo Mamberti ha presieduto una solenne Santa Messa, per celebrare liturgicamente, anche se con qualche giorno d'anticipo, la solennità dei Santi Pietro e Paolo. Nell'omelia, il segretario per i Rapporti con gli Stati ha richiamato l'importanza e la centralità della figura del Papa, simbolo di unità e di universalità nella vita della Chiesa, e la specificità del ministero del successore di Pietro. L'Eucaristia è stata seguita dall'inaugurazione di una lapide commemorativa di padre Felix Varela.

Il giorno successivo si è aperto con una commovente visita alla scuola per bambini con difficoltà motorie "Solidaridad con Panamá", seguita da un pranzo ufficiale offerto all'arcivescovo Mamberti dal ministro Rodríguez. In serata, nei giardini della nunziatura apostolica, è stato organizzato un ricevimento in onore del quinto anniversario di pontificato di Benedetto XVI. Tra le numerose personalità intervenute, erano presenti i ministri degli Affari Esteri, Bruno Rodríguez Parrilla, e della Giustizia, María Esther Reus González, oltre al segretario del consiglio di Stato, Homero Acosta. Nella circostanza, l'arcivescovo Mamberti ha messo in risalto come le attuali relazioni tra Chiesa e Stato stiano evolvendo in modo positivo. In precedenza, il presule si era intrattenuto con alcuni vescovi cubani, che gli avevano brevemente esposto la situazione della Chiesa locale, unitamente ai progetti per il futuro e le sfide che essa quotidianamente deve affrontare.

Le mattine del 19 e del 20 sono state dedicate alla visita di due importanti istituzioni cubane, l'Elam (Escuela Latinoamerica de Medicina), che prepara medici chiamati a lavorare in vari Paesi del mondo, e il complesso monumentale di Belén, che ospita un'opera sociale a favore di anziani e di bisognosi della capitale.

Un lungo e cordiale incontro con il presidente Raúl Castro Ruz ha coronato, nel pomeriggio del 20 giugno, l'intensa e positiva visita all'Avana dell'arcivescovo Mamberti che, in quella stessa serata, ha lasciato l'Isola per fare rientro in Vaticano.


(©L'Osservatore Romano - 2 luglio 2010)
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26/11/2010 19:39
 
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Il discorso del cardinale arcivescovo di Chicago all'assemblea plenaria dei vescovi

Gli Stati Uniti
e la voce della Chiesa


Dal 15 al 18 novembre si è svolta a Baltimore, nel Maryland, l'assemblea generale della United States Conference of Catholic Bishops (Usccb). Pubblichiamo di seguito ampi stralci del discorso presidenziale pronunciato dal cardinale arcivescovo di Chicago, che con questa assemblea ha concluso il suo mandato alla guida dell'organismo episcopale.


di Francis Eugene George

Con l'elezione del primo afro-americano alla presidenza di questo Paese, si è prodotto un cambiamento culturale, che, indipendentemente dalle simpatie politiche, si può accogliere soltanto come un evento di importanza storica e tale è stato considerato da noi e dal resto del mondo. Tuttavia, la nostra nazione continua ad affrontare il problema dell'accoglienza di nuove persone che attraversano i confini alla ricerca di una vita migliore, anche se questa vita migliore per i nostri cittadini è minacciata dal declino economico.

Nel corso di questi anni, le divisioni sociali e politiche nel nostro Paese hanno rappresentato delle sfide per la nostra vocazione a mantenere il popolo cattolico unito in maniera visibile intorno a Cristo, nel suo Corpo, che è la Chiesa. Abbiamo riorganizzato la nostra Conferenza episcopale per affrontare in maniera più efficace le sfide della missione della Chiesa e per essere più utili alle nostre comunità locali, in particolare nel trovare i mezzi per trasmettere la fede ai giovani attraverso una pratica sacramentale regolare e per rafforzare e difendere l'istituzione del matrimonio. Quest'anno, inoltre, abbiamo accolto le modifiche al Diritto canonico sull'abuso sessuale di minori da parte di sacerdoti e diaconi. Alcune di queste disposizioni riflettono o rafforzano aspetti delle norme essenziali che abbiamo chiesto alla Santa Sede di poter utilizzare otto anni fa per governare la Chiesa negli Stati Uniti.

Il rinnovamento dell'ufficio episcopale nella Chiesa, la maggiore unità di intenti e i risultati nell'insegnamento e nel governo sono stati disconosciuti da alcuni che avrebbero voluto o rifare la Chiesa secondo i loro piani o screditarne la voce nei dibattiti pubblici. Nel corso di quest'ultimo anno, la Usccb ha partecipato al dibattito sulla legge relativa all'assistenza sanitaria. Abbiamo detto la stessa cosa che i vescovi dicono da cento anni in questo Paese:  in una buona società, tutti dovrebbero essere assistiti, in particolare i poveri.
 
L'obiettivo dell'assistenza sanitaria di base per tutti continua a essere un imperativo morale, non ancora del tutto soddisfatto, ma non spetta ora e non è mai spettato finora ai vescovi stabilire gli strumenti per raggiungere tale obiettivo. Siamo entrati in modo molto cauto nei dettagli della politica pubblica perché quest'ultima è più propriamente compito dei laici. L'assistenza sanitaria universale può essere fornita in numerosi modi:  finanziando tutto pubblicamente, finanziando tutto privatamente oppure utilizzando un sistema misto. Qualsiasi soluzione potrebbe essere etica e spetta ai laici decidere quali sono i mezzi migliori per far sì che tutti siano assistiti.

Tuttavia, una volta che i responsabili politici e gli esperti di sanità hanno deciso di utilizzare assicurazioni sovvenzionate dal Governo quale veicolo, ovvero strumento, per offrire un'assistenza sanitaria più universale, abbiamo avuto l'obbligo morale, in quanto maestri di fede, di giudicare se gli strumenti superavano l'esame morale, se la legislazione proposta utilizzava fondi pubblici per uccidere quanti sono nel ventre materno. In maniera coerente, e sempre più insistente da quando il peccato, nonché crimine, dell'interruzione di gravidanza è stato legalizzato negli Stati Uniti, abbiamo detto le stesse cose sostenute dai vescovi della Chiesa cattolica fin da quando i primi cristiani condannarono le pratiche abortive degli antichi romani. L'atto è immorale e anche le leggi che hanno permesso l'omicidio di ormai più di cinquanta milioni di bambini nel ventre materno nel nostro Paese sono immorali e ingiuste. Sono leggi che distruggono la nostra società.

Come sapete, nel recente dibattito pubblico, vengono affrontate tre questioni basilari. La prima è empirica:  la legislazione attuale permette il finanziamento dell'interruzione di gravidanza al di là delle restrizioni imposte dall'emendamento Hyde, ovvero da quella testimonianza di un politico cattolico dell'Illinois che ha vietato l'uso dei fondi pubblici per sovvenzionare nella quasi totalità dei casi gli aborti e i programmi extra-assicurativi relativi?

Si tratta di una legislazione che, per voto, prima in Senato e poi nella Camera dei rappresentanti, ha esplicitamente rimosso le restrizioni dell'emendamento Hyde. I laici che hanno esaminato con attenzione i contenuti della legislazione nel modo contorto in cui era stata redatta, hanno sollevato noi vescovi dal dare i necessari giudizi morali. Secondo alcuni la legislazione è complicata e non dovremmo pretendere di giudicarla. Mi perdonerete per quanto sto per dire, ma questo implica che nessuno può capirla né giudicarne le parti complicate, nel qual caso è immorale agire fino a quando non si sarà raggiunta una chiarezza sufficiente, oppure vuole dire che solo i vescovi sono troppo stupidi per capire le parti complicate della legislazione! In effetti, gli sviluppi che hanno seguito l'approvazione della legislazione hanno posto la questione pratica:  la nostra analisi su quanto affermato dalla legge era giusta e i nostri giudizi morali sono certi e corretti. In questo dibattito pubblico i vescovi hanno mantenuto intatta l'integrità morale e intellettuale della fede e ringrazio a vostro nome quanti ci hanno aiutato a svolgere il nostro dovere di maestri morali nella Chiesa.

La seconda questione è di natura ecclesiologica:  chi parla per la Chiesa cattolica? Noi vescovi non ci facciamo delle illusioni sul fatto di parlare per chiunque si consideri cattolico. Parliamo per la fede apostolica e quanti la sostengono si uniscono. Dobbiamo ascoltare il sensus fidei, il senso della fede stessa nella vita del nostro popolo, ma ciò è diverso dalle tendenze intellettuali e dall'opinione pubblica. La fede ha i suoi motivi nelle Scritture e nella tradizione, che consultiamo. Ascoltiamo le voci apostoliche di quanti ci hanno preceduto con la stessa attenzione con cui dobbiamo ascoltare coloro che il Signore ha affidato alla nostra custodia oggi, mentre lottano per la propria salvezza nelle sfide contemporanee.
 
I vescovi in comunione apostolica e in unione con il Successore di Pietro, il Vescovo di Roma, parlano per la Chiesa a proposito di fede, di questioni morali e di leggi a esse relative. Tutto il resto è un'opinione, spesso sensata e importante, che merita un ascolto attento e rispettoso, ma che resta pur sempre un'opinione.

La terza questione è anch'essa pratica:  in che modo i fedeli cattolici dovrebbero affrontare questioni politiche che sono anche morali?

Il dibattito ha chiarito, almeno a me, che, a un certo punto, ci sono stati alcuni che sono partiti dalla fede con la sua integrità e con tutte le sue esigenze e hanno operato scelte politiche nel contesto della pienezza dell'insegnamento della Chiesa, mentre ci sono stati altri per i quali una scelta politica, sia pure con fini buoni, è stata prioritaria e hanno giudicato la Chiesa utile secondo la sua capacità di fornire o meno militanti per il loro impegno politico, sia di destra sia di sinistra. Per troppe persone, la politica è l'orizzonte definitivo del proprio pensiero e della propria azione. Come sappiamo, la fedeltà a Cristo nel suo Corpo, ovvero la Chiesa, pretende due requisiti da quanti si definiscono suoi discepoli:  ortodossia nel credo e obbedienza nella pratica. Nel 1990, l'allora cardinale Joseph Ratzinger citò il beato cardinale John Henry Newman secondo il quale "il dovere e l'opera di un cristiano constano di questi due elementi, fede e obbedienza; "vedere Gesù" (Ebrei 2, 9) e agire secondo la sua volontà".

L'ortodossia è necessaria, ma non sufficiente:  il diavolo è ortodosso. Egli conosce il catechismo meglio di chiunque altro nel suo ambiente, ma non lo serve, non obbedisce. Possono esserci degli errori nel nostro pensiero, ma non può esserci alcuna ipocrisia nella nostra volontà, perché è il peccato contro lo Spirito Santo. Non dovremmo temere l'isolamento politico. Spesso la Chiesa è rimasta isolata nella politica e nella diplomazia. Dobbiamo preoccuparci molto, però, della ferita inferta all'unità della Chiesa in questo dibattito e spero, confidando nella buona volontà di tutti gli interessati, che si possano trovare gli strumenti per riparare la veste  scucita  della  comunione  ecclesiale.

Cari fratelli, il dibattito pubblico nella Chiesa, che Cristo ci ha chiamato a governare, proseguirà, anche se lottiamo per tenere tutti in Cristo con l'autorità che ci deriva da Lui. Le tensioni, sebbene aspre, non sono del tutto nuove, nemmeno nella storia della Chiesa negli Stati Uniti. Forse viviamo in un momento in cui, alla fine, Dorothy Day incontra John Courtney Murray. Hanno portato voci cattoliche diverse nel dibattito politico.
 
In quanto a noi vescovi, parliamo nel miglior modo possibile, a partire dalle nostre debolezze e dai nostri peccati, ma parliamo, grazie alla guida invisibile dello Spirito Santo e alle strutture visibili della Chiesa, con la voce di Cristo, che ascolta le grida dei poveri. La voce di Cristo parla sempre a partire dalla sollecitudine costante per il dono della vita umana, una sollecitudine che giudica tutta la serie ininterrotta della manipolazione tecnologica della vita, dal ricorso alla contraccezione artificiale alla distruzione di embrioni umani, dal concepimento artificiale di esseri umani in provetta alla tracciatura di un profilo genetico e all'uccisione di bambini indesiderati attraverso l'interruzione di gravidanza.

Se ai poveri verrà permesso di nascere, allora la voce di Cristo continuerà a parlare ai senzatetto e ai disoccupati, agli affamati e ai nudi, agli analfabeti, ai migranti, ai detenuti, ai malati e ai moribondi.

Il nostro ministero è coerente come sono coerenti le preoccupazioni di Gesù Cristo. Egli è a fianco dei poveri. Ognuno di noi, a suo modo, parla con la voce di Cristo e ognuno di noi governa una Chiesa particolare che vive con i poveri, che sono i primi cittadini del Regno di Dio. La nostra è un'etica coerente basata sulle preoccupazioni di Cristo per tutto il suo popolo, in particolare per i poveri.

Infine, permettetemi di dire che siamo ordinati vescovi con un titolo particolare, ma anche per la sollecitudine di tutte le Chiese, non sono solo per i poveri del nostro Paese che rivolgono a noi le loro grida. Non siamo una Chiesa nazionale. Ci rifiutiamo di essere trasformati in una denominazione meramente americana. Per questo motivo, non posso andarmene né lasciarvi oggi senza parlare delle nostre sorelle e dei nostri fratelli cattolici in Iraq.

Dalla conquista di Baghdad in poi è stato evidente a tutti coloro di buona volontà che, sebbene siano i gruppi musulmani a essere in conflitto gli uni con gli altri, sono soltanto i cristiani a non avere avuto protezione dopo l'invasione americana dell'Iraq. Alla fine dello scorso mese, il giorno prima della solennità di Ognissanti, nella città di Baghdad, presso la cattedrale siro cattolica Our Lady of Deliverance, cattolici sono stati uccisi a decine mentre partecipavano alla Messa. Due erano sacerdoti:  uno è stato ucciso sull'altare e l'altro mentre usciva dal confessionale. Nella morte sono uniti a centinaia di altri che sono morti per la propria fede in Cristo da quando è cominciato il conflitto attuale.
 
Una suora domenicana americana, amica di amici, ha scritto da lì:  "Ondate di dolore hanno investito il mondo, sollevandosi dalle faglie create nella società irachena a seguito delle migliaia di profughi della minoranza cristiana in Iraq, che sono stato costretti a fuggire da ciò che sta divenendo in maniera evidente una minaccia sempre più grave di genocidio... Un cronista ha chiesto a un sopravvissuto di dire qualcosa ai terroristi. Fra le lacrime ha risposto "Vi perdoniamo...". Fra le vittime di questa tragedia insensata c'è Adam, un bambino. A tre anni ha assistito all'orrore di decine di morti, compresa quella dei suoi genitori. Ha vagato in mezzo ai corpi e al sangue, seguendo i terroristi e ammonendoli:  "basta, basta, basta". Secondo i testimoni, ha continuato per due ore fino a quando non è stato ucciso anche lui". In quanto vescovi, in quanto americani, non possiamo trascurare l'accaduto né permettere al mondo di sottovalutarlo.

Cari fratelli, tutti noi abbiamo vissuto sfide e anche tragedie che, a volte, ci fanno venir voglia di dire "basta". Tutti i nostri sforzi, però, la nostra opera, i nostri fallimenti e il nostro senso di responsabilità impallidiscono di fronte al martirio dei nostri fratelli e delle nostre sorelle in Iraq e alla persecuzione attiva dei cattolici in altre parti del Medio Oriente, in India e in Pakistan, in Cina e in Vietnam, in Sudan e nei Paesi africani dove c'è il conflitto civile. Ricordando sempre i loro volti, stiamo al cospetto del Signore, collettivamente responsabili di tutti coloro per la cui salvezza Gesù Cristo è morto. Questo è più che sufficiente a definirci vescovi e a tenerci uniti nella missione. Che in questi giorni il Signore ci doni discernimento sufficiente per vedere quel che vede Lui e forza sufficiente per agire come vorrebbe che agissimo! Ciò sarà abbastanza.


(©L'Osservatore Romano - 27 novembre 2010)

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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27/11/2010 19:48
 
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Conclusa l'assemblea plenaria dell'episcopato

La Spagna e la nuova evangelizzazione


Madrid, 27. "Conciliare fede e ragione è non soltanto possibile, ma necessario per rispondere ai problemi della modernità". Lo ha sottolineato il cardinale Antonio María Rouco Varela, arcivescovo di Madrid e presidente della Conferenza episcopale spagnola (Cee) a conclusione dei lavori della 96º assemblea plenaria.

Le crisi dell'Europa, della Spagna - ha evidenziato il porporato - sono in fondo crisi della modernità che è il problema etico-morale originato dalla rottura con l'evidenza dei principi originari iscritti nella natura dell'uomo:  "una frattura tra la soggettività e l'oggettività, tra le persone e la natura e la storia, tra la creatura e Dio, tra la ragione e la fede".

Il presidente della Cee ha ricordato la recente visita (il 6 e 7 novembre scorsi) di Benedetto XVI a Santiago de Compostela e a Barcellona, "impressa nei cuori di tutti", annotando alcune riflessioni sulle "lezioni e  sulle consegne" del Papa. "Benedetto XVI è venuto per parlare di Dio", ha detto il porporato ricordando le parole del Papa a riguardo del contributo della Spagna per l'evangelizzazione del mondo.

E la Spagna - ha rimarcato l'arcivescovo di Madrid - è sempre stata un Paese di fede nativa. È un Paese pieno di dinamismo, di forza capace di rispondere alle molte sfide del momento presente. Si tratta, di riscoprire l'originalità del cristianesimo che si basa sull'incontro con una Persona, il Cristo, che dona un nuovo orizzonte alla vita e con questo un orientamento decisivo. Ecco cosa vuole dire nuova evangelizzazione in Spagna e in Europa". Sottolineando il pensiero di Benedetto XVI, il porporato ha però avvertito che relegare Dio nell'ambito del privato "mette in pericolo la sopravvivenza dell'Europa, di una società democratica, di uno Stato di diritto".
 
Il cardinale ha anche ricordato alcuni argomenti fondamentali dei piani di evangelizzazione approvati dai vescovi spagnoli. Infine ha suggerito per i tempi attuali tre obiettivi pastorali:  la formazione nella fede per i bambini, i giovani e gli adulti; l'insegnamento del Vangelo del matrimonio e la famiglia; la riscoperta della celebrazione eucaristica domenicale. Il porporato, nel riferirsi poi alla pubblicazione dell'esortazione postsinodale Verbum Domini, ha espresso soddisfazione per una felice coincidenza:  a breve, uscirà la versione ufficiale delle Sacre Scritture in lingua spagnola, un testo che progressivamente sarà introdotto nei testi liturgici. Il cardinale ha aggiunto che tra il 7 e il 9 febbraio si terrà un importante congresso biblico.

Numerosi gli argomenti affrontati durante l'assemblea. I presuli hanno approvato un documento, "Criteri sulla cooperazione missionaria", presentato dalla Commissione episcopale di missioni e cooperazione tra le Chiese. Un altro documento intitolato "Progetto di coordinamento della parrocchia, della famiglia e della scuola per la trasmissione della fede" è stato presentato da monsignor Casimiro López Llorente, vescovo di Segorbe-Castellón de la Plana e presidente della Commissione episcopale per la catechesi.


(©L'Osservatore Romano - 28 novembre 2010)

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25/02/2011 20:06
 
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Intervista al cardinale presidente del Ccee Péter Erdó

I valori che identificano l'Europa


di VIKTORIA SOMOGYI

Al Consiglio delle conferenze episcopali d'Europa (Ccee) appartengono quali membri le attuali trentatré conferenze episcopali presenti nel continente, rappresentate di diritto dai loro presidenti, oltre agli arcivescovi del Lussemburgo e del Principato di Monaco e al vescovo di Chi?in?u, in Moldova. Presidente del Ccee è l'arcivescovo di Esztergom-Budapest, cardinale Péter Erdó, al quale abbiamo rivolto alcune domande sull'attività dell'organismo.

Quali sono i compiti del Ccee?

Tutti quelli che riguardano la vita pastorale della Chiesa, cioè tutti quelli che interessano le conferenze episcopali. Il Ccce non è un organo decisionale, ma consultivo e di aiuto reciproco. Abbiamo un programma, un metodo operativo: ogni anno organizziamo una sessione plenaria con l'indicazione di un tema centrale che rappresenta il risultato dei lavori svolti l'anno precedente. Realizziamo indagini continentali su temi quali l'insegnamento della religione, la libertà religiosa, le condizioni della Chiesa nei diversi Paesi, o, come quest'anno, la situazione demografica, argomento assai complesso. Esiste inoltre una serie di commissioni composte normalmente dai responsabili delle singole conferenze episcopali, incaricati di uno specifico settore (scuola, università, insegnamento, vocazioni sacerdotali). La commissione Caritas in veritate approfondisce le questioni della giustizia e della pace, della migrazione e dell'ambiente, aspetti intimamente legati fra loro. Ci sono poi commissioni che organizzano una volta all'anno, o ogni due anni, i loro convegni e programmi secondo un piano concordato con la nostra assemblea plenaria. Non mancano le collaborazioni istituzionali con altre organizzazioni, in particolare con il Simposio delle conferenze episcopali di Africa e Madagascar; annualmente è indetto un incontro tematico, una volta in Europa, una volta in Africa. Abbiamo rapporti ecumenici con la Conferenza delle Chiese europee, organizzazione che raccoglie tutte le Chiese e comunità cristiane non cattoliche d'Europa. Esiste poi un forum cattolico-ortodosso che regolarmente organizza riunioni su argomenti riguardanti questioni non tanto dogmatiche quanto etiche e sociali; un'iniziativa che risulta molto utile negli aspetti della vita quotidiana. Manteniamo rapporti costanti con la Commissione degli episcopati della Comunità europea, che ha come vocazione quella di coltivare i rapporti con gli organi dell'Unione europea; informa per questo la nostra segreteria sugli sviluppi in corso presso le singole strutture dell'Ue e a volte aiuta a costituire una posizione cattolica sulle questioni trattate. Per quanto riguarda il Consiglio d'Europa a Strasburgo è la nostra organizzazione che mantiene i rapporti con l'aiuto della rappresentanza della Santa Sede perché il Consiglio d'Europa comprende un territorio più esteso, oltre l'Unione europea. Così anche la Russia, la Turchia e altri Paesi membri vengono coinvolti nelle riunioni; occorre dunque lavorare con i responsabili di queste nazioni quando si tratta di prendere posizione riguardo a questioni sensibili per la Dottrina della Chiesa.

All'assemblea plenaria del Ccee tenutasi a Zagabria dal 30 settembre al 3 ottobre 2010 il tema al centro del dibattito è stato demografia e famiglia in Europa. In che modo la Chiesa può stimolare il confronto per trovare una soluzione adeguata a questo problema, sempre più preoccupante nella società contemporanea?

Il relativo equilibrio del saldo demografico del nostro continente è dovuto al fatto che l'immigrazione supera quasi tre volte il numero delle nascite. Questo vuol dire che per via naturale l'Europa non è oggi capace di assicurare un saldo demografico positivo. Tale realtà ha varie conseguenze, come la crescita delle minoranze religiose, linguistiche, etniche, e degli immigrati che a volte presentano problemi pastorali come cattolici, o come cristiani non cattolici, con la richiesta di una cura pastorale particolare o dell'uso delle nostre strutture. Del resto, le persone provenienti da un'altra cultura, che seguono altre religioni, devono avere la possibilità di convivere non soltanto pacificamente ma in modo costruttivo con la popolazione del continente. In questo contesto la Chiesa tiene presente due valori fondamentali: una è la libertà religiosa, che proviene dalla dignità della persona, come insegna il concilio Vaticano II. Ciò significa che anche le minoranze e gli immigrati hanno la loro dignità e devono essere rispettati per quanto riguarda la libertà religiosa. Esiste poi il valore dell'identità storica, culturale e religiosa dei popoli europei. Questo aspetto viene sempre maggiormente tenuto in considerazione anche dai movimenti politici e dai governi europei. Bisogna però trovare le forme legittime che rispecchino, da una parte, il riconoscimento di tutti questi valori e, dall'altra, il rispetto incondizionato della dignità personale di tutti. Eppure quello che prima veniva chiamata multiculturalità sembra essere stata semplicemente una categoria politica. Anche il rifiuto della multiculturalità appare piuttosto un termine più politico che teologico. Noi dobbiamo guardare l'uomo con gli occhi della fede, cioè nel rispetto della sua dignità. Anche le comunità che formano una nazione, le culture nazionali, sono delle cose preziose agli occhi del Creatore. Se apprezziamo i diversi generi di animali, piante, ancora di più dobbiamo rispettare quella creatura meravigliosa che è una società, una cultura, una lingua umana. In Europa dobbiamo difendere questi valori. Per quanto riguarda la situazione delle persone, degli immigrati, che abitano già in un Paese o che arrivano adesso, siamo irrevocabilmente impegnati per il riconoscimento della loro dignità. Allo stesso tempo, riconosciamo la competenza degli Stati e il valore dell'ordinamento giuridico delle nazioni. L'Europa attrae i migranti provenienti dal resto del mondo proprio perché in essa esistono gli strumenti che garantiscono una tutela giuridica degli individui e dell'ordine pubblico, purtroppo non garantite in alcune regioni, come quelle colpite da sommovimenti politici violenti (terrorismo, guerra civile) o da estrema povertà, corruzione, disordine. Dobbiamo dunque apprezzare la legalità e l'ordine garantito dalle società europee.

Nella missione del Ccee un compito molto importante è rappresentato dai rapporti ecumenici. Nell'ambito della famiglia, per esempio, c'è concreta collaborazione con le Chiese ortodosse.

Due anni fa, a Trento, si è tenuto un forum comune e abbiamo pubblicato un volume con gli interventi e la dichiarazione finale sulla famiglia. I valori concernenti la famiglia difesi dalla Chiesa cattolica sono gli stessi riconoscuiti dal mondo ortodosso. Promuoverli nelle legislazioni nazionali o attraverso l'impegno sociale delle diverse Chiese risulta quindi un compito comune. Forme di collaborazione tra cattolici e ortodossi esistono in molti Stati, compresi i Paesi baltici, ed è da sottolineare la convergenza su temi di grande attualità come il diritto all'obiezione di coscienza dei medici e degli infermieri nel caso di interventi contrari alla dignità della vita umana (recentemente affrontato al Consiglio d'Europa).

È possibile una manifestazione europea per la famiglia, promossa dal Ccee, da svolgere contemporaneamente in ogni nazione?

Il Consiglio delle conferenze episcopali d'Europa non si occupa di organizzare manifestazioni di piazza. Grandi manifestazioni, che hanno visto in prima fila i cattolici, sono state fatte, a esempio in Spagna, per difendere valori cristiani messi in pericolo. Il nostro compito è trasmettere in modo autentico la Dottrina sociale della Chiesa e rendere testimonianza davanti al mondo.

Il mondo industrializzato cerca di risolvere il problema demografico, almeno in parte, agevolando l'immigrazione, che sembra offrire una soluzione immediata. Tuttavia, almeno in Europa, ciò causa tensioni tra cittadini e immigrati, in particolare i non cristiani. Come vede il futuro dell'Europa in questo senso?

Non ho il dono della profezia. È certo che il comportamento di tanti Paesi dell'occidente europeo è duplice. Da una parte, desiderano o necessitano dell'immigrazione perché costa meno ricevere forza di lavoro adulta invece di educare e formare in Europa i giovani che nascono qui. Questo è un calcolo puramente economico, finanziario, che non tiene presente la dignità umana. Questo modo di ragionare considera l'essere umano uno strumento, non un fine. Dall'altra parte, ci sono tendenze nella politica dei Paesi occidentali che frenano l'immigrazione; rifiutano i nuovi arrivati o perché non riescono a integrarsi nella società o perché vogliono continuare a vivere in un modo che, secondo il Paese d'accoglienza, crea disturbo alla cittadinanza. In questo senso, noi abbiamo affrontato la questione dei rom, soprattutto all'interno dell'Unione europea. Non parlo dei migranti provenienti dall'esterno dell'Ue ma dall'interno: per esempio tra Bulgaria, Romania, Ungheria e Slovacchia orientale ci sono masse di popolazione zingara o rom che, spesso, cercano di andare nei Paesi occidentali, in Canada, Francia, Scandinavia, Germania, eccetera. Però anche qui esiste una questione di comprensione. In Occidente la società vede il problema ma non tutti vedono le cause di questa immigrazione o migrazione interna nell'Ue. È da ribadire che nei Paesi sopracitati, nuovi membri dell'Unione europea, fino alla fine dell'epoca socialista tutti avevano un posto di lavoro, non ben pagato, forse nemmeno economicamente giustificabile, ma ne avevano uno, e il mondo del lavoro era un settore di integrazione nella società anche per questi gruppi di persone. Dopo il crollo del sistema, l'industria edilizia che assumeva tutta questa forza lavoro, è stata privatizzata. Molte aziende sono state chiuse, altre modernizzate e, a causa della tecnologia, non hanno più avuto bisogno della manodopera. Per questo motivo, masse di gente sono rimaste senza lavoro e tale situazione dura ormai da una generazione. Queste persone non sono nomadi, in nessuna delle nazioni citate. Hanno un'abitazione fissa, anche se i problemi non mancano. Quindi, possiamo indicare con sicurezza dove abitano, quante sono, qual è la loro età media, che tipo di formazione hanno, o non hanno, giacché la maggioranza non è qualificata. Bisogna tenere in considerazione anche tale circostanza. Parlando con colleghi di questi Paesi dell'Est europeo, si ha la convinzione che per un salario molto modesto, per esempio 1,80 euro all'ora, tutti rimangono a casa. Non si tratta di gente che non vuole lavorare. Ognuno in questo mondo vuole restare dove è nato e vuol vivere in modo dignitoso, vuol poter lavorare e guadagnare per il suo sostentamento. Ciò vale anche per questi popoli. Quindi, una collaborazione più concreta per quanto riguarda l'appoggio alla creazione di posti di lavoro in queste zone dell'Est europeo potrebbe contribuire alla soluzione della tensione sociale in alcuni Paesi occidentali. È una questione che noi, in base ai nostri dati, alle nostre esperienze pastorali, possiamo almeno rilanciare, contribuendo all'organizzazione di convegni e chiedendo agli organismi dell'Unione europea di partecipare a incontri tematici su questo grave problema.

Per quanto riguarda l'immigrazione, il Ccee ha stretti rapporti con i vescovi africani. Principalmente in quali campi si manifesta la collaborazione?

In Africa, è difficile la vita degli stessi vescovi. Molti non riescono a pagare nemmeno i costi di viaggio degli incontri annuali. Bisogna trovare i modi di offrire loro un contributo affinché i nostri confratelli possano avere i mezzi per mantenere contatti regolari con l'esterno. Esiste naturalmente l'immigrazione africana, spesso clandestina o forzata o costretta da incertezze e persecuzioni politiche. Ci sono molti cattolici che emigrano dall'Africa verso l'area del Golfo arabico oppure in Europa. Nel nostro continente è importante non costringere questi individui a integrarsi il più presto possibile nelle parrocchie, ma lasciare che vengano accompagnati dal sacerdote del loro proprio Paese, poiché lo stile di vita religioso è naturalmente diverso nelle nazioni di provenienza. L'accompagnamento da parte della loro Chiesa di origine può aiutarli anche nella conservazione della propria identità e nel reciproco aiuto tra gli immigrati, così come nella creazione del rapporto, via via sempre più stretto, con la Chiesa locale del Paese dove arrivano. Penso che tale accompagnamento ecclesiastico possa contribuire inoltre a una buona integrazione di queste persone nelle società europee, senza la loro assimilazione forzata.

In quest'ottica, diventa sempre più decisivo il rapporto tra Stato e Chiesa. Al Forum cattolico-ortodosso tenutosi a Rodi nell'ottobre 2010, è stato trattato tale argomento. Date le diverse sfide poste dalla secolarizzazione e da una cultura a volte anticristiana, quali sono i punti focali di questa relazione, determinanti per il futuro?

Da una parte la libertà religiosa e la difesa della dignità umana, dall'altra il riconoscimento dell'identità culturale dei popoli, che concerne molto spesso anche le tradizioni religiose. Inoltre, abbiamo la comune convinzione che le Chiese debbano avere la possibilità di partecipare all'educazione delle giovani generazioni secondo le intenzioni dei genitori. L'esistenza delle scuole gestite dalle Chiese o di altre istituzioni culturali e sociali sono manifestazioni della nostra vocazione, così come la libertà di mantenere queste istituzioni fa parte della nostra vita, della nostra identità europea.

A Rodi si è parlato anche della difesa del crocifisso nei luoghi pubblici, o più genericamente della questione dei simboli religiosi.

Di certo, anche se lo Stato in Europa generalmente non è confessionale, la presenza dei simboli religiosi nei luoghi pubblici non è una cosa che viola la separazione tra Stato e Chiesa, ma una manifestazione importante dell'identità culturale dei popoli europei. Sia lo Stato che la Chiesa lavorano per gli uomini. La gente, secondo la propria cultura, le proprie convinzioni e tradizioni, può utilizzare i simboli religiosi che le sono cari. La "facciata urbanistica" presente nelle città del nostro continente, la presenza delle chiese, delle statue o delle immagini (per esempio a Roma le edicole mariane lungo le strade), appartengono all'identità, alla fisionomia di queste città, a questi popoli. Non è che qualcuno possiede una ragione sufficiente per far scomparire tutto questo. Penso che la sana collaborazione con uno Stato correttamente separato dalla Chiesa - cioè tra uno Stato, come dicono alcuni, caratterizzato da una laicità positiva e una Chiesa tradizionalmente presente nel Paese - possa essere anche nel futuro molto regolare, molto utile per il benessere fisico, psichico e spirituale di intere popolazioni.

Anche dalla Chiesa ortodossa ci sono appelli per difendere le radici cristiane dell'Europa. Nel contesto generale di oggi, dove quasi tutto ciò che viene proposto dalle Chiese viene guardato con pregiudizio e sospetto, quali possibilità di intervento rimangono per realizzare questo obiettivo e in quali campi?

Penso che nelle società europee non è la preoccupazione principale la presenza della fede cristiana o delle radici cristiane dell'Europa. Anzi, ci sono preoccupazioni come il crollo finanziario o altre cose che sono, propriamente per il mondo secolare, sfide molto più forti e radicali. La presenza delle Chiese non è per niente una cosa negativa, ma una risorsa che giova persino all'ordine pubblico. Una convinzione morale che sia largamente diffusa, basata sulla realtà dell'essere umano, del mondo, sulla capacità umana di conoscere la realtà del mondo e i criteri di comportamento umano, è una risorsa che può dare stabilità alla società, proteggendola dall'anarchia e dalla criminalità. Per questo è comprensibile che non pochi politici del mondo ex comunista appoggino proprio le Chiese tradizionali nei loro Paesi, vedendo la necessità di riguadagnare una dignità, un'identità del proprio popolo, per evitare il crollo e il conseguente vuoto culturale che si trova in seno alle società secolarizzate di certe nazioni, dove la caduta del comunismo ha lasciato terra bruciata.

Ma nel mondo occidentale, secondo lei, sta accadendo la stessa cosa?

Nel mondo occidentale questi processi erano più organici, cioè non avvenivano "rotture" come l'introduzione del comunismo con la dittatura; neanche il presentarsi del problema era così rapido e chiaro come da noi nel 1989-90, quando è caduto il Muro e sono cadute le barriere anche ideologiche. Quindi, sia la presa di coscienza dei nostri valori tradizionali che la secolarizzazione antecedente sono stati processi più lenti e organici. Però l'analogia esiste anche in Occidente.

Secondo le statistiche, i fedeli praticanti sono sempre di meno in Europa.

Chi lo dice? Non è così. Che cosa significa la prassi religiosa? Alcuni sociologi qualificano non praticanti i cattolici che non cinquantadue volte (il numero delle settimane in un anno), ma soltanto trenta volte, frequentano la messa domenicale, mentre un protestante che una sola volta all'anno va in chiesa viene considerato praticante perché nella sua communità non è prescritta la messa domenicale. Quindi, i criteri dei sociologi non bastano per misurare l'appartenenza religiosa perché ogni persona ha il sacrosanto diritto di definirsi per esempio cattolico. Uno che è battezzato nella Chiesa cattolica e si professa cattolico, deve essere riconosciuto come tale. Non dobbiamo lasciarci troppo impressionare. Per esempio, a Budapest la proporzione dei cattolici battezzati che frequentavano le messe domenicali negli ultimi anni era la stessa che all'inizio del ventesimo secolo. Nel frattempo, si è verificato un grande miglioramento, poi una nuova discesa, però tutto ciò va guardato anche con criteri storici. Io non penso che vi sia una strada a senso unico. Dobbiamo naturalmente combattere per risvegliare l'identità e il senso religioso e approfondire la missione nelle grandi città, proprio per far vedere alla gente, spesso indifferente, che cosa significa la nostra fede e come può dare nuova luce ed energia all'intera società. Essa può anche umanizzare le società delle grandi città, che sono ormai molto spesso senza personalità, molto fredde, oppure senza volto umano. Dobbiamo quindi risvegliare il nostro bisogno e la nostra capacità di umanizzare il mondo intorno a noi. Gesù Cristo è Redentore di tutta l'umanità. La sua persona è la via per la vera felicità, per la vita della società basata sull'amore.

Dobbiamo difendere le radici cristiane. Ma come dovremmo agire?

In mille forme: sui mass media e attraverso i linguaggi della cultura, della musica, della danza, dello spettacolo, ma anche attraverso la predica diretta, persino per le strade, perché no? Bisogna far vedere alla gente che siamo cattolici, far dire alla gente che la Chiesa è presente, ha qualcosa da dire. Bisogna rafforzare le famiglie, le parrocchie, anche come comunità, come luoghi d'incontro e di aiuto reciproco. Bisogna avere una sensibilità speciale per i più poveri, per quelli che sono fuori dalla rete di protezione sociale e che non hanno più né casa né lavoro, né comunità di riferimento. Bisogna cercarli e stare vicino a loro. Non basta mantenere i sistemi anonimi che funzionano soltanto in termini economici, ma bisogna guardare la persona in una situazione di crisi, la persona disoccupata, senza tetto, malata, anziana. Questo sforzo da parte della Chiesa è largamente possibile perché esiste, grazie a Dio, una grande predisposizione al volontariato. A livello parrocchiale, senza organizzazioni con personalità giuridica, senza strutture di finanziamento pubblico, c'è una prontezza ad aiutare che va riconosciuta e rispettata, e questo costituisce un raggio di speranza, un'autentica testimonianza della nostra appartenenza a Cristo.



(©L'Osservatore Romano - 26 febbraio 2011)
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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06/08/2011 20:25
 
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L'episcopato filippino contrario al Reproductive Health Bill

Non si combatte la povertà negando la vita


 

MANILA, 6. Le misure previste dal Reproductive Health Bill sono palesemente irragionevoli riguardo alla lotta alla povertà e non si tratta solo di una questione di carattere teologico. I

vescovi filippini tornano a far sentire la loro voce per contestare il progetto di legge in discussione in Parlamento sulla salute riproduttiva, che ha come obiettivo esplicito di ridurre le nascite per combattere la povertà. Lo fanno attraverso le parole di monsignor Juanito Figura, segretario generale della Conferenza episcopale delle Filippine (Cbcp), il quale ha commentato il recente intervento al Congresso di Manila della senatrice Mirian Defensor-Santiago, la quale, rivolgendosi ai membri della Camera alta, aveva sottolineato che l'RH Bill rappresenta la misura necessaria per proteggere le donne e i bambini da "un'indescrivibile povertà".

Nelle dichiarazioni riportate dal sito in rete della Conferenza episcopale filippina, monsignor Figura ha messo in chiaro che "quanto sostenuto dalla senatrice circa la lotta alla povertà non ha nessuna connessione con quanto è invece previsto dal disegno di legge". "Non riesco neppure a pensare - ha proseguito il segretario generale - come si possa chiedere l'approvazione dell'RH Bill con motivazioni di questo genere. I provvedimenti per combattere la povertà sono di competenza degli organi dell'Esecutivo e per metterli in pratica non c'è alcun bisogno di un nuovo progetto legislativo. La senatrice ha citato nell'intervento anche non meglio precisate "forze sociali d'oppressione". I vescovi cattolici le hanno ormai identificate da lungo tempo e le hanno citate apertamente nei loro documenti: la corruzione nell'amministrazione, l'ineguaglianza nella proprietà della terra, l'ulteriore allargamento della differenza tra ricchi e poveri, l'aumento della criminalità, la perdurante piaga della fame e del traffico di esseri umani".

Il segretario generale della Cbcp ha anche sottolineato di non riuscire a comprendere come l'RH Bill, se fosse approvato, possa essere capace di combattere le "forze sociali di oppressione". "Non riesco proprio a trovare alcuna connessione logica; posso provare a pensare che l'RH Bill possa essere solo una piccola parte di un progetto più ampio per lottare contro il male e per riparare le tante ingiustizie ancora presenti. Se questo fosse vero, non vedo allora la necessità d'insistere sull'approvazione di provvedimenti quali l'uso di fondi pubblici per l'acquisto e la distribuzione gratuita dei contraccettivi artificiali che certo non contribuiscono alla difesa delle famiglie, anzi il loro uso agevola la mercificazione dell'amore e costituisce una grave offesa alla dignità umana".

La campagna dei vescovi per sollecitare i cattolici filippini a opporsi all'approvazione dell'RH Bill si avvale non solo delle strutture parrocchiali e di quelle delle varie organizzazioni cattoliche ma anche dell'uso di mezzi universali di comunicazione. Sui canali televisivi di varie emittenti filippine verranno trasmessi annunci informativi su quanto di negativo verrebbe alle famiglie dall'eventuale approvazione dell'RH Bill da parte dei membri del Congresso. La campagna contro l'approvazione dell'RH Bill sarà condotta su tutti i media cercando di portare il messaggio in ogni ambito domestico.



(©L'Osservatore Romano 7 agosto 2011)

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