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LA CHIESA NON PUO' DARE LA COMUNIONE AI DIVORZIATI RISPOSATI PERCHE' LI AMA

Ultimo Aggiornamento: 27/05/2014 13:43
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Amici....dopo: l'  Iniziativa SBALLATA DELLA CEI (Dio ci salvi!)  ci risiamo....il card. Martini che stimo per molte altre attività, ritorna alla carica con don Verzè per risottolineare l'urgenza, secondo loro, di dare la comunione ai divorziati...e per togliere il celibato ai preti (il cui argomento è trattato qui:  Elogio del celibato sacerdotale (P. Cornelio Fabro)  )[SM=g1740729]

Cerchiamo allora di affrontare l'argomento partendo NON dal divieto in sè della comunione ai divorziati, ma dalle motivazioni....facendoci aiutare da una "lettera aperta" che il sig. Pippo Baudo ha scritto sul corriere.it

il dibattito sull’apertura ai divorziati da parte della Chiesa proposta dal card Martini

«Vorrei far la comunione
alle nozze di mia figlia»


Ieri è intervenuto Gerry Scotti. Oggi scrive Pippo Baudo, cattolico, due volte divorziato


Caro direttore,
ho sempre apprezzato il pensiero del cardinale Carlo Maria Martini, che considero illuminato e moderno. La sua apertura ai divorziati, quindi, non può che sorprendermi favorevolmente. E se la Chiesa decidesse di fare propria questa istanza sarebbe un bel passo avanti per quanti, come me, hanno vissuto «nel peccato» secondo il codice canonico, ma sono rimasti nel loro intimo credenti e praticanti. Io la comunione non la faccio più da molti anni: poiché sono un personaggio molto noto, non so mai come potrebbe reagire il prete in chiesa, riconoscendomi, o se magari qualcuno dei fedeli possa restarne turbato o offeso. A fine maggio, però, si sposa mia figlia Tiziana. Sarà un matrimonio cattolico, la qual cosa mi fa molto piacere. E confesso che mi avrebbe reso felice l’idea di partecipare anche attraverso il rito eucaristico. Invece ne sono escluso. Sono cattolico di nascita.


Non molto tempo fa mi trovavo a una messa e quando ho visto il prete che distribuiva la comunione mentre tutti gli si avvicinavano, ho avuto un pensiero: perché a me no?

Sinceramente non trovo giustificazione. Quando ero sposato con Katia Ricciarelli ho subito atteggiamenti molto duri da parte della Chiesa. Onestamente non ho mai pensato di far annullare il mio primo matrimonio, per due motivi: non mi piacciono questi ricorsi alla Sacra Rota agevolati dal fatto di essere benestanti; e poi non ho mai voluto cancellare, come se non fosse mai esistita, una unione dalla quale è nata mia figlia. La Chiesa si sta trovando a vivere un momento difficilissimo, il mondo sta cambiando in modo drammatico, e credo che la sua evoluzione ortodossa le stia nuocendo.

Per tutti questi motivi che le ho spiegato, sono felice che l’apertura ai divorziati sia arrivata proprio dal cardinale Martini. Sono un ammiratore del suo apostolato, trovo che sia un cardinale uomo, vero interprete del proprio tempo. Un rappresentante della Chiesa, ma con il termometro sulla società. Emana serenità e forza, la forza dei suoi grandi pensieri.

Insomma, spero davvero che la sua richiesta venga ascoltata.

Pippo Baudo
22 maggio 2009


**************************************************************
Dice dunque Pippo Baudo:

Non molto tempo fa mi trovavo a una messa e quando ho visto il prete che distribuiva la comunione mentre tutti gli si avvicinavano, ho avuto un pensiero: perché a me no?

Sinceramente non trovo giustificazione
.

[SM=g1740733]

Occhiolino bisogna riconoscere che lo stile di Pippo Baudo resta ancorato ancora alla vecchia e buona educazione.....pur non condividendo i suoi pensieri, essi sono esposti in maniera educata e direi anche SOFFERTA....
egli appunto NON COMPRENDE  e non trova giustificazione al fatto che non può comunicarsi, vedendo gli altri ne soffre....ma tutto ciò fa comprendere che evidentemente NESSUNO GLI HA SPIEGATO che tale esclusione E' E PUO' ESSERE LA SUA SALVEZZA....[SM=g1740733]  se a queste persone si spiegasse più che il divieto in se posto dalla dottrina, l'origine di tale divieto che non proviene da una Norma ma da una situazione che nel comunicarsi "MANGEREBBE LA PROPRIA CONDANNA" come dice san Paolo, forse essi stessi comprenderebbero che la Chiesa, che è MADRE, sta facendo loro un favore....e che comunicandosi SPIRITUALMENTE riuscirebbero a trovare quella PACE CHE CERCANO....

C'è molta sofferenza si, ma spesso causata proprio da coloro che, posti alla guida del gregge, cercano in vane dottrine una SCORCIATOIA anzichè spiegare a queste persone che la Misericordia di Dio non li ha abbandonati e che possono usare il loro stato come offerta dei propri limiti ed unirli alla Croce di Cristo, e vivere così con lo sforzo di non pretendere che la Chiesa si macchi di un delitto più grave: quello di far "MANGIARE AI SUOI FIGLI IN ERRORE, LA PROPRIA CONDANNA" (cfr san Paolo)

 Occhi al cielo

Nella
Esortazione Apostolica Post-sinodale Sacramentum Caritatis

così spiega la questione Benedetto XVI:

Eucaristia e Sacramenti

V. Eucaristia e Matrimonio
Eucaristia, sacramento sponsale [27]
Eucaristia e unicità del matrimonio [28]
Eucaristia e indissolubilità del matrimonio [29]

Eucaristia e unicità del matrimonio


28. È propriamente alla luce di questa relazione intrinseca tra matrimonio, famiglia ed Eucaristia che è possibile considerare alcuni problemi pastorali. Il legame fedele, indissolubile ed esclusivo che unisce Cristo e la Chiesa, e che trova espressione sacramentale nell'Eucaristia, si incontra con il dato antropologico originario per cui l'uomo deve essere unito in modo definitivo ad una sola donna e viceversa (cfr Gn 2,24; Mt 19,5). In questo orizzonte di pensieri, il Sinodo dei Vescovi ha affrontato il tema della prassi pastorale nei confronti di chi incontra l'annuncio del Vangelo provenendo da culture in cui è praticata la poligamia. Coloro che si trovano in una tale situazione e che si aprono alla fede cristiana devono essere aiutati ad integrare il loro progetto umano nella novità radicale di Cristo. Nel percorso di catecumenato, Cristo li raggiunge nella loro condizione specifica e li chiama alla piena verità dell'amore passando attraverso le rinunce necessarie, in vista della comunione ecclesiale perfetta. La Chiesa li accompagna con una pastorale piena di dolcezza e insieme di fermezza,(90) soprattutto mostrando loro la luce che dai misteri cristiani si riverbera sulla natura e sugli affetti umani.


Eucaristia e indissolubilità del matrimonio


29. Se l'Eucaristia esprime l'irreversibilità dell'amore di Dio in Cristo per la sua Chiesa, si comprende perché essa implichi, in relazione al sacramento del Matrimonio, quella indissolubilità alla quale ogni vero amore non può che anelare.(91) Più che giustificata quindi l'attenzione pastorale che il Sinodo ha riservato alle situazioni dolorose in cui si trovano non pochi fedeli che, dopo aver celebrato il sacramento del Matrimonio, hanno divorziato e contratto nuove nozze. Si tratta di un problema pastorale spinoso e complesso, una vera piaga dell'odierno contesto sociale che intacca in misura crescente gli stessi ambienti cattolici.

I Pastori, per amore della verità, sono obbligati a discernere bene le diverse situazioni, per aiutare spiritualmente nei modi adeguati i fedeli coinvolti.(92) Il Sinodo dei Vescovi ha confermato la prassi della Chiesa, fondata sulla Sacra Scrittura (cfr Mc 10,2-12), di non ammettere ai Sacramenti i divorziati risposati, perché il loro stato e la loro condizione di vita oggettivamente contraddicono quell'unione di amore tra Cristo e la Chiesa che è significata ed attuata nell'Eucaristia.

I divorziati risposati, tuttavia, nonostante la loro situazione, continuano ad appartenere alla Chiesa, che li segue con speciale attenzione, nel desiderio che coltivino, per quanto possibile, uno stile cristiano di vita attraverso la partecipazione alla santa Messa, pur senza ricevere la Comunione, l'ascolto della Parola di Dio, l'Adorazione eucaristica, la preghiera, la partecipazione alla vita comunitaria, il dialogo confidente con un sacerdote o un maestro di vita spirituale, la dedizione alla carità vissuta, le opere di penitenza, l'impegno educativo verso i figli.


Là dove sorgono legittimamente dei dubbi sulla validità del Matrimonio sacramentale contratto, si deve intraprendere quanto è necessario per verificarne la fondatezza. Bisogna poi assicurare, nel pieno rispetto del diritto canonico,(93) la presenza sul territorio dei tribunali ecclesiastici, il loro carattere pastorale, la loro corretta e pronta attività.(94)
Occorre che in ogni Diocesi ci sia un numero sufficiente di persone preparate per il sollecito funzionamento dei tribunali ecclesiastici.
Ricordo che « è un obbligo grave quello di rendere l'operato istituzionale della Chiesa nei tribunali sempre più vicino ai fedeli ».(95) È necessario, tuttavia, evitare di intendere la preoccupazione pastorale come se fosse in contrapposizione col diritto.

Si deve piuttosto partire dal presupposto che fondamentale punto d'incontro tra diritto e pastorale è l'amore per la verità: questa infatti non è mai astratta, ma « si integra nell'itinerario umano e cristiano di ogni fedele ».(96)

Infine, là dove non viene riconosciuta la nullità del vincolo matrimoniale e si danno condizioni oggettive che di fatto rendono la convivenza irreversibile, la Chiesa incoraggia questi fedeli a impegnarsi a vivere la loro relazione secondo le esigenze della legge di Dio, come amici, come fratello e sorella; così potranno riaccostarsi alla mensa eucaristica, con le attenzioni previste dalla provata prassi ecclesiale. Tale cammino, perché sia possibile e porti frutti, deve essere sostenuto dall'aiuto dei pastori e da adeguate iniziative ecclesiali, evitando, in ogni caso, di benedire queste relazioni, perché tra i fedeli non sorgano confusioni circa il valore del Matrimonio.(97)


Data la complessità del contesto culturale in cui vive la Chiesa in molti Paesi, il Sinodo ha, poi, raccomandato di avere la massima cura pastorale nella formazione dei nubendi e nella previa verifica delle loro convinzioni circa gli impegni irrinunciabili per la validità del sacramento del Matrimonio.

Un serio discernimento a questo riguardo potrà evitare che impulsi emotivi o ragioni superficiali inducano i due giovani ad assumere responsabilità che non sapranno poi onorare.(98)

Troppo grande è il bene che la Chiesa e l'intera società s'attendono dal matrimonio e dalla famiglia su di esso fondata per non impegnarsi a fondo in questo specifico ambito pastorale. Matrimonio e famiglia sono istituzioni che devono essere promosse e difese da ogni possibile equivoco sulla loro verità, perché ogni danno arrecato ad esse è di fatto una ferita che si arreca alla convivenza umana come tale.

[SM=g1740722] [SM=g1740717] [SM=g1740720] [SM=g1740717]

Benedetto XVI ha spiegato, IRRIVERSIBILMENTE, le ragioni per cui la Chiesa CHE E' MADRE, non può oscurare LA VERITA' attraverso la quale si imporrebbe invece UNA FALSA DOTTRINA sull'Eucarestia perchè il prendere, ricevere l'Eucarestia E' INDOSSOLUBILMENTE LEGATO E ASSOCIATO AL RAPPORTO SPONSALE DI CRISTO CON LA CHIESA...ergo la Chiesa per sua Natura NON può dare la comunione ai divorziati perchè se lo facesse DISTRUGGEREBBE ESSA STESSA L'UNIONE CHE C'è FRA CRISTO E LA CHIESA SUA SPOSA (cfr Efesini 5)[SM=g1740730]

Va dunque spiegato, principalmente, ai divorziati che la Chiesa NON può dare loro la Comunione PROPRIO PERCHE' LI AMA....se non li amasse non si preoccuperebbe del monito paolino che dice:

1Corinzi 11,27-29

Perciò chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore.
perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna.

[SM=g1740733] riconoscere IL CORPO DEL SIGNORE  significa appunto riconoscerlo IN QUESTO RAPPORTO SPONSALE CON LA CHIESA, una unione che i coniugi rendono VIVA E PALESE ATTRAVERSO IL LORO SACRAMENTO...
La Chiesa che è MADRE non può tacere ai coniugi questa VERITA' e non può tacere questo monito...
non è la Chiesa a condannare, lo vogliamo capire o no? [SM=g1740730] E' L'UOMO CHE SI RENDE REO, E' L'UOMO CHE SI AUTOCONDANNA, i moniti della Chiesa, che è Madre, non sono fatti per condannare l'uomo MA PER SALVARLO....

Ci attendiamo che preti, vescovi e cardinali, AVANZANDO CON IL MAGISTERO ECCLESIALE e non con le proprie opinioni, invitassero i divorziati, e non, a guardare le dottrine DAL PUNTO DI VISTA DI DIO E NON IL LORO....

Dio NON si è mai posto contro la Legge, Gesù stesso venne non per abolirla, ma per portarla a compimento, non si può chiedere, nè pretendere dalla Chiesa che sia Lei ad abolire la Legge di Dio...[SM=g1740730]
 
Ricordate le tentazioni che Gesù deve affrontare nel deserto? Ecco, la Chiesa che è il SUO CORPO GLORIOSO subisce, come il Cristo la presenza fastidiosa di Satana[SM=g1740732] che vuole TENTARLA...lo ripete Gesù in Luca 22
31 Simone, Simone, ecco satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; 32 ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli.

Preti, vescovi o cardinali, che avanzassero con dottrine CONTRARIE, confondendo i fedeli dalla retta dottrina, agiscono come Satana, mettendo a dura prova la Chiesa stessa....
e ILLUDENDO I FEDELI attraverso FALSI TRAGUARDI[SM=g1740730]

[SM=g1740739] [SM=g1740739] [SM=g1740739]

[Modificato da Caterina63 22/05/2009 18:00]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Altro caso in cui la Chiesa NON può dare la Comunione....

Un sacerdote risponde

Io e il mio ragazzo siamo conviventi, e siamo rimasti molto male per il fatto che il prete si è rifiutato di darci la Comunione

Quesito

Caro padre Angelo,
Io e il mio ragazzo stiamo facendo il corso prematrimoniale all'istituto “...”, ci sposeremo a luglio 2009 e abbiamo chiesto al prete che ci sta facendo il corso di sposarci.
Se non che è nato un problema con lui.
Io e il mio ragazzo siamo conviventi, né io né lui siamo stati sposati prima ma stiamo affrontando un periodo di prova prematrimoniale.
Il prete si è rifiutato alla messa di sabato scorso di darci l'eucarestia rispedendoci a posto. Nessuna spiegazione né prima né dopo. Il mio ragazzo c'è rimasto molto male. Ha addirittura pianto, ha detto che avrebbe almeno potuto dirci due parole prima della funzione dato che presenziavano tutte le altre coppie del corso. Lei cosa ne pensa?





Risposta del sacerdote

Carissima,

1. probabilmente non sei al corrente della dottrina della Chiesa sull’ammissione alla Santa Comunione.
La Santa Comunione va fatta nella maniera più pura.
Ti ricordo quanto dice San Paolo in 1 Cor 11, 27-30: “Perciò chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna. È per questo che tra voi ci sono molti ammalati e infermi, e un buon numero sono morti”.
Quando la Chiesa non ammette alcune persone alla Santa Comunione non lo fa per esercitare un dispotismo nei loro confronti, ma per un atto di misericordia: vuole che non si danneggino da se stessi.

2. Il Codice di diritto Canonico dice che non si può dare la Comunione a chi ostinatamente persevera in peccato grave manifesto (can. 915).
La convivenza di due persone che si comportano fra loro come fossero marito e moglie rientra nel caso di chi ostinatamente persevera in peccato grave manifesto.
La convivenza infatti tra le sue componenti ha anche la relazione sessuale, e questa, compiuta fuori del matrimonio, è al di fuori del progetto di Dio e la svuota del suo vero significato.
Secondo il progetto di Dio l’atto sessuale è il segno della donazione totale dei due, che ormai si appartengono irreversibilmente l’uno all’altro.

Ma i conviventi sanno di non appartenersi l’un l’altro in questo modo. Anzi, scelgono la convivenza proprio per evitare la definitività che il matrimonio comporta.
E tuttavia compiono gli atti che sono propri ed esclusivi del matrimonio.
C’è una finzione in quell’atto.
Inoltre questa finzione aumenta per il fatto che l’atto sessuale viene svuotato del suo intrinseco ordinamento alla procreazione.
Per questo Giovanni Paolo II diceva che i rapporti prematrimoniali sono menzogneri, e cioè una bugia.

3. I conviventi sanno di non appartenersi. E per questo chiamano il proprio socio o la propria socia “compagno” o “compagna”.
Sanno benissimo che essere sposi è una cosa diversa. Sanno di non esserlo. E con la convivenza escludono, almeno per ora, di esserlo.
In poche parole, sanno che col matrimonio diventano davvero uno proprietà dell’altro.
Ed è per questo che il gesto sessuale non corrisponde alla realtà delle cose, ma è una deformazione e una profanazione di quanto è tipico degli sposi.
Proprio perché non è vissuto secondo il disegno di Dio è un peccato grave.

4. La perseveranza in questo comportamento oggettivamente e manifestamente peccaminoso preclude la possibilità di accostarvi alla Santa Comunione con le disposizioni dovute.
Con un peccato del genere, voi avreste dovuto confessarvi prima di accostarvi alla Comunione. E in tal caso il sacerdote vi avrebbe detto che non poteva darvi l’assoluzione se voi non promettevate di separarvi e di vivere castamente, come Dio vuole, fino al matrimonio.
Solo in questo caso poteva assolvervi e voi potevate fare la Santa Comunione.

5. Sono d’accordo con te nel riconoscere che il sacerdote doveva dirvi qualcosa o prima o dopo.
Da parte mia sono convinto che voi non avevate alcuna intenzione di profanare il sacramento. Semplicemente vi portava lì la vostra buona fede o per meglio dire (permettimi di dirlo) la vostra... ignoranza religiosa.
Se io fossi stato al posto del sacerdote, anziché rispedirvi al posto in maniera secca, vi avrei detto: “non posso darvela; finita la Messa, venite il sacrestia e vi dirò il motivo”.
Può darsi che il sacerdote in questione abbia atteso in sacrestia la vostra richiesta di spiegazione e che sia rimasto deluso di non avervi più visto.
Come vedi, i motivi di incomprensione vicendevole sono davvero tanti.

6. Ormai mancano pochi mesi al vostro matrimonio.
Se mi permetti un consiglio, vi direi di tornare nelle vostre rispettive case, di vivere castamente e nel frattempo di imparare i metodi naturali di regolazione della natalità (la contraccezione, come ti ho detto, è un peccato grave anche nel matrimonio).
Sarebbe un bel gesto anche nei confronti di tanti che saranno rimasti male e dispiaciuti della vostra convivenza prematrimoniale.

7. Se non fosse più possibile tornare nelle vostre case, vi direi di vivere insieme solo come amici, senza rapporti sessuali.
L’edificio del matrimonio, per rimanere in piedi e per resistere a tutte le difficoltà, ha bisogno di solide basi.
E la convivenza, proprio perché si esprime con le finzioni sessuali (perché di finzioni si tratta), non è una solida base; anzi è non solo sdrucciolevole, ma sdrucciolevolissima.

Ti ringrazio per la fiducia, assicuro per te e per il tuo fidanzato la mia preghiera, soprattutto nella santa Comunione che stasera farò per voi, e vi benedico.
Padre Angelo


Pubblicato 14.05.2009

e ancora:

Se i divorziati non risposati che vivono da soli e nella continenza più assoluta possano ricevere i Sacramenti

Quesito

Caro Padre Angelo,
visto che i divorziati risposati non potrebbero accedere alla Santa comunione se non vivono come fratelli e sorelle, allora Vi chiedo: i divorziati non risposati che vivono da soli e nella continenza più assoluta possono ricevere tale Sacramento?
In caso di risposta negativa se uno dei due è il colpevole della rottura coniugale l'altro può accedere a tale Vitale Sacramento? E nella fattispecie come si può dimostrare tale estraneità alla rottura del vincolo coniugale in ispecie nei confronti del sacerdote che deve procedere alla preventiva confessione.
Vi ringrazio per la risposta ed un abbraccio fraterno.
Calorosissimi saluti.



Risposta del sacerdote


Carissimo,
sono diverse le questioni che mi poni.

1. La prima è questa: se i divorziati non risposati che vivono da soli e nella continenza più assoluta possano ricevere l’Eucaristia.
La risposta è affermativa, soprattutto se uno è stato vittima del divorzio.

2. Mi chiedi anche se il coniuge colpevole della rottura possa fare la santa Comunione.
Per fare la Comunione deve essere pentito di ciò che ha fatto.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica ricorda che “il divorzio è una grave offesa alla legge naturale. Esso pretende di sciogliere il patto liberamente stipulato dagli sposi, di vivere l’uno con l’altro fino alla morte” (CCC 2384).
Ma se chi è responsabile del divorzio si pente e poi vede che è impossibile riprendere la coabitazione, può fare la Santa Comunione.

3. Mi chiedi infine come si possa dimostrare di aver subìto il divorzio davanti al sacerdote confessore.
Di per sé è sufficiente la buona coscienza di chi si confessa. E il confessore ne deve prendere atto.
Tuttavia spesso succede che anche chi ha subìto il divorzio non si sia sempre comportato in maniera retta e abbia dato motivo all’altra parte di rompere la coabitazione e di giungere al divorzio.
Ma anche in questo caso, se è sinceramente pentito, nulla vieta che possa fare la santa Comunione.

4. Devo anche aggiungere che non sempre chi cerca il divorzio è colpevole della situazione. Può darsi che cerchi il divorzio per mettere fine a una situazione che diversamente non è riparabile.
Dice il Catechismo della Chiesa cattolica: “Se il divorzio civile rimane l’unico modo possibile di assicurare certi diritti legittimi, quali la cura dei figli o la tutela del patrimonio, può essere tollerato, senza che costituisca una colpa morale” (CCC 2383).

5. Come vedi dalle risposte, il problema grosso è quello del divorziato risposato. Dal momento che si risposa va a stare con una persona che non è suo marito o sua moglie. E in questo modo vive in una situazione permanente di adulterio.
Dice il Catechismo della Chiesa Cattolica: “Il fatto di contrarre un nuovo vincolo nuziale, anche se riconosciuto dalla legge civile, accresce la gravità della rottura: il coniuge risposato si trova in tal caso in una condizione di adulterio pubblico e permanente” (CCC 2384)

Ti ringrazio del quesito, ti assicuro la mia preghiera e ti benedico.
Padre Angelo


Pubblicato 01.02.2008

AMICI DOMENICANI


[Modificato da Caterina63 11/08/2009 15:36]
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“È senz’altro giusto il consiglio che hai dato alle donne, dicendo che esse non devono lasciare un marito adultero e sposarne un altro [...]; anzi, devono sopportare il coniuge benché infedele, o sembrerà che vogliano approfittare di questa occasione per passare da un uomo all’altro; infatti difficilmente troveranno da sposare un uomo diverso da quello che hanno lasciato, perché gli uomini sono molto inclini a questo vizio.”

Agostino di Ippona, I connubi adulterini (I, 6, 6)








Fraternamente CaterinaLD

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Un sacerdote risponde

Sui due punti che presento, la Chiesa cattolica è ipocrita, anzi molto ipocrita

Quesito

Sono cattolica praticante, dopo periodi altalenanti di raffreddamento della fede.
Sono divorziata, ho due figli, non ho compagni di vita, sono laica nei miei comportamenti pubblici, perché penso che la religione e la spiritualità siano estremamente personali e privati, prego con serenità e quasi sempre con gioia.
Sono malata di cirrosi (da astemia!) per una epatite contratta in ospedale e seguo terapie molto dure, ma non dispero, se non nei momenti più bui.

Ho alcuni quesiti/commenti, che non vogliono essere provocatori, ma che nascono da un mio desiderio di capire:

1) Il divorzio pone fine agli effetti CIVILI del matrimonio, in quanto nasce da una legge civile di uno stato laico. Mi sembra che ci sia molta ipocrisia da parte della chiesa sull'argomento. Io sono divorziata, gli effetti civili del mio matrimonio sono cessati, ma il sacramento è ancora valido. E faccio la comunione quando ne sento il bisogno, perché non credo di commettere peccato nel farla. Cosa ne pensa?

2) L'aborto. Anche qui mi sembra che ci sia molta ipocrisia da parte della chiesa. Sembra quasi che la legge 194 (legge civile di uno stato laico) incoraggi la pratica dell'aborto, una pratica dolorosissima, una scelta difficilissima, un rimorso indelebile. Ma non è così: l'aborto c'è sempre stato, solo che la legge 194 consente di abortire in ambiente pulito e con più sicurezza, invece di andare da mammane e finti obiettori di coscienza che praticano l'aborto con ferri da calza, infusi pericolosi e grucce di metallo. Può dirmi cosa ne pensa?

La ringrazio molto della sua attenzione e le invio cordiali saluti
Anna




Risposta del sacerdote

Cara Anna,

1. ti esprimo anzitutto la mia vicinanza spirituale e morale per la malattia che ti ha colpito.
Confido che con l’aiuto di Dio e della scienza tu possa uscirne perfettamente guarita.
Tra le cose positive che mi scrivi e che desidero sottolineare c’è anche la tua affermazione sulla preghiera: “prego con serenità e quasi sempre con gioia”.
Come può essere diversamente? Nella preghiera portiamo Dio, che è fonte di ogni gioia, dentro la nostra vita.

2. Prima di rispondere alle tue due domande, desidero fare qualche osservazione su un’affermazione centrale: sono laica nei miei comportamenti pubblici, perché penso che la religione e la spiritualità siano estremamente personali e privati.
Se per essere laico intendi fare uso della ragione, allora sono laico anch’io e voglio esserlo.
Se invece per essere laico intendi che la vita civile e sociale non abbia niente a che fare con Dio, allora non ci sto.
La religione è un fatto naturale prima ancora che soprannaturale.
La società non può prescindere dal fatto che la persona umana è chiamata a realizzarsi ultimamente in un fine trascendente. Ogni religione ricorda questa verità, che per ora non è ancora una verità cristiana.
E il ricordare questa verità contribuisce moltissimo a riconoscere la dignità di ogni essere umano.

Papa Giovanni XXIII, nella Mater et Magistra, che è un’enciclica di carattere sociale scritta a tutti gli uomini di buona volontà, afferma: “Ma resta sempre che l’aspetto più sinistramente tipico dell’epoca moderna sta nell’assurdo tentativo di voler ricomporre un ordine temporale solido e fecondo prescindendo da Dio, unico fondamento sul quale soltanto può reggere; e di voler celebrare la grandezza dell’uomo disseccando la fonte da cui quella grandezza scaturisce e della quale si alimenta e cioè reprimendo e, se fosse possibile, estinguendo il suo anelito verso Dio. Senonché l’esperienza di tutti i giorni continua ad attestare, fra le delusioni più amare e non di rado in termini di sangue, quanto si afferma nel Libro ispirato: «Se il Signore non edifica la casa, si affaticano invano quelli che l’edificano»” (MM 226).
Mi spiace che tu voglia contribuire al mantenimento dell’aspetto più sinistramente tipico dell’epoca moderna.

Evangelizzare ogni creatura non significa anche ricordare al mondo il suo punto di partenza e di arrivo?
Papa Giovanni parla anche dell’assurdo tentativo di voler ricomporre un ordine temporale solido e fecondo prescindendo da Dio.
Solo Dio è il principio e il fine di ogni vita umana.
Ugualmente solo Dio è il principio e il fine della società.
Non può essere realizzato nella sua integrità il bene comune se si misconosce l’obiettivo cui esso deve servire.

3. La tua prima domanda, nonostante l’esplicita volontà di non essere provocatoria, rimane acre nei confronti della Chiesa: dare dell’ipocrita non è mai bel titolo, soprattutto se la persona o società cui viene applicato è convinta di dire la verità. Ma su questo sorvolo.
Scrivi: “Il divorzio pone fine agli effetti CIVILI del matrimonio, in quanto nasce da una legge civile di uno stato laico. Mi sembra che ci sia molta ipocrisia da parte della chiesa sull'argomento. Io sono divorziata, gli effetti civili del mio matrimonio sono cessati, ma il sacramento è ancora valido. E faccio la comunione quando ne sento il bisogno, perché non credo di commettere peccato nel farla”.

È vero quello che tu scrivi: con il divorzio cessano gli effetti civili del matrimonio.
Certamente il divorzio sembra contraddire il comando di Cristo: “E non separi l’uomo quanto Dio ha unito
” (Mc 10,9.)

In realtà, però, se uno non passa a nuove nozze testimonia a suo modo che il matrimonio è indissolubile, anche se la convivenza è cessata.
A volte ci sono dei motivi così gravi che obbligano ad attuare la separazione e perfino il divorzio (la fine degli effetti civili). La Chiesa lo sa e lo ammette.
E per questo la Chiesa non nega la Santa Comunione a coloro che sono solo separati o divorziati. La nega ai coloro che sono divorziati risposati
.

Pertanto tu non agisci in contrasto con il volere della Chiesa quando vai a fare la Santa Comunione. Lo faresti invece nel caso in cui tu fossi risposata o convivessi.

4. Dici ancora che la Chiesa è “molto ipocrita” quando non ammette la legalizzazione dell’aborto.
Il motivo sarebbe questo: l’aborto legalizzato impedisce gli aborti clandestini, lo sfruttamento, ecc. ecc.
Cara Anna, qui bisogna essere chiari, anzi molto chiari.
È necessario chiamare ogni cosa col suo nome.

Che cosa è l’aborto? È la soppressione volontaria di un essere umano innocente e indifeso.
Lo stato può permettere, anzi, può offrire gratuitamente le strutture e il personale perché venga ucciso un essere umano innocente e indifeso?
Lo stato ha molti doveri. Ma principalmente ha il dovere di tutelare la vita dei più deboli e dei più indifesi nei confronti di chi si crede di essere padrone della loro esistenza.
Se non fa questo, viene meno alla principale delle sue ragion d’essere.

5. Come vedi, non è la Chiesa ad essere ipocrita, ma è ipocrita una società “laica” perché da una parte afferma la democrazia, e dall’altra permette una tirannia e un dispotismo assoluto nei confronti dei più deboli.
Né puoi dire che gli aborti, con la loro legalizzazione, siano numericamente diminuiti. Anzi!
E non puoi non tener conto del fatto che la legge, quando permette una cosa intrinsecamente immorale, induce a generare una mentalità secondo cui si ritiene che sia una cosa lecita. Tanto più che la società presenta strutture e personale gratis! Si pensa che sia un servizio!

Giustamente Giovanni Paolo II ha affermato: “Le leggi che favoriscono l’aborto si pongono dunque radicalmente non solo contro il bene del singolo, ma anche contro il bene comune e, pertanto, sono del tutto prive di autentica validità giuridica. Il misconoscimento del diritto alla vita, infatti, proprio perché porta a sopprimere la persona per il cui servizio la società ha motivo di essere, è ciò che si contrappone più frontalmente e irreparabilmente alla possibilità di realizzare il bene comune. Ne segue che, quando una legge civile legittima l’aborto o l’eutanasia cessa, per ciò stesso, di essere una vera legge civile, moralmente obbligante” (Evagelium Vitae 72).
Non è necessario scomodare la fede per capire questo.

6. Ti dirai: “ci sono gli aborti clandestini. Bisogna combatterli!”.
Ti dò ragione: si combattano con tutti i mezzi.
Dicendo con tutti i mezzi sottintendo anzitutto con tutti gli aiuti che la società deve offrire alle mamme che vivono situazioni difficili e pensano di disfarsi della loro creatura.
Ma non si combattono legalizzandoli e incrementando il loro numero.
Che cosa diresti all’affermazione: “vi sono sparatorie ogni giorno nel conflitto tra ladri e tutori dell’ordine sociale. Cerchiamo di diminuire stragi e morti offrendo gratuitamente un giubbotto antiproiettile a tutti i ladri?”
Gli orefici e tutti quelli che sono presi d’assalto dai banditi direbbero che uno stato che legiferasse in questo senso sarebbe molto ipocrita!

Ed è proprio quanto lo stato fa quando legalizza l’aborto: protegge gli usurpatori della vita altrui e lascia che gli indifesi vengano uccisi.
Questo sarebbe il bene che lo stato laico vuole alle persone più deboli!
Questo sarebbe il bene che lo stato laico vuole alle donne: che aumenti sempre di più il numero di quelle che, per usare una tua affermazione (peraltro corrispondente alla realtà), si portino dietro “un rimorso indelebile”. E io, che sono prete, lo posso testimoniare con abbondanza di documentazione!

Come vedi, mi sono un pò acceso, ma la posta in gioco è molto alta.
Ti ringrazio di avermi dato l’opportunità di mettere in pubblico tutte queste riflessioni.
Ti prometto una preghiera anche per i tuoi figli (che sono i tuoi tesori) e ti, anzi, Vi benedico.
Padre Angelo

da
www.amicidomenicani.it


Pubblicato 05.02.2009




Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Un sacerdote risponde

Nel giorno della prima comunione dei figli, il nostro parroco da la Santa Comunione anche ai genitori divorziati e risposati

Quesito

Caro Padre Angelo,
Innanzitutto La ringrazio per l'impegno quotidiano con cui cerca di aiutare quanti di noi, dubbiosi su argomenti così importanti e fondamentali per la nostra fede cattolica si rivolgono a Lei.
Il mio problema è nato qualche giorno fa a seguito ad un dibattito parrocchiale sorto in merito alla comunione a cui ha partecipato il governatore Giuliani durante la S. Messa celebrata da Sua Santità Benedetto XVI.

Il nocciolo della questione però per me è stato un altro. Ad un certo momento le catechiste e successivamente il parroco che nel frattempo era presente ha ribadito che nella Ns parrocchia, in occasione della prima Comunione dei bambini, per non turbare il loro animo e non creare discriminazione Lui concede, assumendosene comunque la responsabilità, di fare eccezionalmente e solo per quel giorno la Santa Comunione a tutti i genitori divorziati e legalmente risposati.

- Ma è possibile accedere al sacrificio di Gesù a queste condizioni?
- Non è l'esempio quotidiano della famiglia , piccola chiesa , a permettere una sana crescita dei nostri figli?
- Quale sarà l'esempio dei genitori per gli altri 364 giorni?
- Non sarebbe più giusto spiegare ai nostri figli che in questo momento abbiamo fatto delle scelte diverse e pertanto non possiamo condividere il sacramento della Eucaristia??
- I figli ci osservano e sanno benissimo quanto avviene all'interno della propria famiglia e, a mio modesto parere questa partecipazione dei genitori con seri problemi di credo potrebbe comportare più confusione nelle scelte future di fede.
Diverso è invece il discorso sulla Misericordia di Dio che tutto copre e tutto perdona: sicuramente senza la Sua Misericordia nessuno di noi forse potrebbe avere la gioia di godere un giorno del Suo Volto Santo nella gloria eterna e sicuramente ci sono tantissimi divorziati che vivono una vita con valori che altri che ci professiamo cristiani possiamo non avere.
In attesa di un Sua risposta, un sincero e caloroso saluto.
Rosa




Risposta del sacerdote

Carissima Rosa,


1. rimango sconcertato dal comportamento del tuo parroco che si assume davanti a Dio responsabilità gravissime.
Mi auguro che ci siano dei genitori che resistano al suo invito. Non li può costringere a commettere un sacrilegio.

Sarebbe questa la benedizione che si riversa sulla loro famiglia nel giorno della prima Comunione dei loro figli?
C’è da chiedersi: ha ancora la fede nell’Eucaristia? Sa che è comunione di vita e di sentimenti con nostro Signore?


2. I divorziati risposati (civilmente) non sono oggettivamente in sintonia con i sentimenti di nostro Signore.
Mi domando se il Parroco non si domandi che cosa possono pensare i suoi parrocchiani.
Non pensa che la gente è capace di ragionare e che anche i bambini capiscono che se i genitori non possono fare la Comunione nelle altre occasione (Pasqua, Natale... ) non possono farla neanche nel giorno della loro prima Comunione?

3. Sono convinto che i genitori possano spiegare ai loro figli il motivo per cui non possono fare la Comunione.
Possono dirgli ad esempio:
“Guarda, nella nostra vita abbiamo commesso un errore; ci siamo sposati una prima volta e la persona che avevano incontrato non era quella giusta.
Poi ci siamo incontrati io e tuo padre/madre; ci siamo capiti, ci siamo voluti bene. Ma per ora non possiamo fare la Santa Comunione perché Gesù ha detto: “L’uomo non separi ciò che Dio ha unito (Mc 10,10).
Ma nel momento in cui tu farai la tua prima Comunione, noi faremo per te la Comunione spirituale, pregheremo molto per te, perché la tua Comunione riempia di grazia e di benedizione celeste non solo te, ma anche noi due, tutta la nostra famiglia”.

4. Il parroco poi dovrebbe anche spiegare come possa dare la Santa Comunione ai genitori divorziati e risposati senza previa confessione.
E anche qualora li confessasse, l’assoluzione evidentemente sarebbe invalida.
Conviene dunque che si attenga alle determinazioni della Chiesa e che non agisca di proprio arbitrio.

5. C’è da chiedersi infine: come può chiedere ai parrocchiani di essere obbedienti alla Chiesa quando lui è il primo a essere disobbediente?
Certamente agisce in buona fede. Ma questa non basta. La nostra intelligenza deve lasciarsi illuminare.

Ti ringrazio per la fiducia e la stima.
Ti prometto una preghiera e ti benedico.


Padre Angelo

da
www.amicidomenicani.it


Pubblicato 17.10.2008

Fraternamente CaterinaLD

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Un sacerdote risponde
dice Gesù: IL VOSTRO PARLARE SIA  "SI,SI-NO,NO" IL DI PIU' VIENE DAL MALIGNO...

Sono divorziata, ho figli, adesso vivo con un compagno e mi domando

Quesito

Caro Padre Angelo,
mi chiamo M., ho 37, 3 figli stupendi e sono divorziata.
Io e mio marito ci siamo separati 4 anni fa di comune accordo, anche se l’iniziativa è partita da me, la nostra storia era finita da tempo, non c’era più amore, solo litigi e male sopportazione.
Ora sia io che il mio ex marito abbiamo altri due compagni.
Ma quindi io sono destinata ad andare all’inferno?
La ringrazio per l’attenzione e la saluto.


Risposta del sacerdote

Carissima M.,

1. rispondendo al tuo quesito, so di accostarmi ad una persona che, pur essendo ancora giovane, ha avuto un vissuto notevole di sofferenze. Perché i litigi prima e la separazione poi sono fatti dolorosi.
Inoltre il pensiero che anche i tre figli, stupendi certamente, vivono sapendo che il loro papà dona il suo affetto ad un’altra donna è un pensiero accompagnato da tristezza. È una tristezza per te e anche per loro.
Questi figli hanno il diritto di avere la presenza del padre e della madre, proprio perché sono i loro genitori.
Forse sarebbe stato legittimo da parte tua giungere ad una separazione. Ma metterti insieme con un altro uomo non è ammissibile.
In questo momento lascio perdere la legge, anche la legge di Dio riguardante l’indissolubilità del matrimonio. Perfino la legge di Dio che vieta l’adulterio. Mi metto dalla parte dei figli.

Io, mettendomi nei panni dei figli, non vorrei mai vivere in una situazione del genere.
Anche se questo comportamento purtroppo sta diventando un fatto abbastanza comune, tuttavia non può essere giustificato.
È vero che tu farai di tutto perché i tuoi figli stiano bene e abbiano una buona educazione. Ma dentro di loro c’è una sofferenza tacita, nascosta, rassegnata. Per amore dei figli, io ti direi di lasciare questo compagno.
So che ti chiedo una cosa dura. Ma la tua testimonianza di madre e di sposa fedele sarebbe per loro il dono più bello.

2. Scusami se mi son permesso di dirti questo, perché la tua domanda era un’altra. Mi chiedevi se sei destinata all’inferno.
Se io fossi San Giovanni Battista ti direi: Non ti è lecito stare con quest’uomo (Mc 6,18).
E, ascoltando l’insegnamento del Signore, so che Lui ha detto: “se la donna ripudia il marito e ne sposa un altro, commette adulterio” (Mc 10,12).
Pertanto anch’io non posso dirti che tutto va bene.
Ti posso dire che, con un pò di buona volontà, se vuoi, puoi porre rimedio a questa situazione, soprattutto nella presunzione che questa nuova unione non sia ancora consolidata. Il Signore non ti lascia sola.

Intanto ti chiedo di pregare e di pregare molto. Fa pregare anche i tuoi figli, soprattutto i più piccoli. Il Signore ascolta le preghiere degli innocenti. Non tralasciare di andare a Messa la domenica, anche se non puoi fare la Santa Comunione. A Messa incontri il Signore, che non ti caccia via. Lui sa che tu hai bisogno di Lui. Lui ti darà tutti i lumi e tutti gli aiuti di cui hai bisogno.
La Messa non è un rito. Ma è l’incontro con il nostro Salvatore che si mette a nostra totale disposizione. Si mette a disposizione di tutti, ripeto, di tutti. Pertanto mi immagino di vederti inginocchiata davanti a Lui quando il sacerdote alza la particola ormai consacrata nella quale noi adoriamo la Sua divina presenza. Mi immagino di vederti in chiesa nel momento in cui i fedeli si alzano dal loro banco per andare a ricevere il Signore nella santa Comunione. Tu li vedi andare e tornare, mentre vivono segretamente nel loro cuore l’evento stupendo dell’incontro dell’uomo con Dio. E provano dentro il loro cuore una grande pace. Tu starai ugualmente lì, dicendo al Signore: abbi misericordia di me, abbi misericordia dei miei figli.
Mi immagino di vederti anche con qualche lacrima agli occhi.
E poi te ne verrai a casa, sapendo e sentendo che il Signore non ti abbandona perché è venuto per gli infelici, per i peccatori.

Tra breve scendo per celebrare la messa. Ti porterò con me e porterò anche i tuoi figli perché il Signore li benedica e li protegga sempre.
Intanto io benedico voi.


Un'altra situazione differente

Mia figlia sta per fare la Prima Comunione e io sono sposata solo civilmente; chiedo se posso confessarmi e comunicarmi

Quesito
 

Caro Padre,
per caso sono venuta a conoscenza del sito e mi rivolgo a  Lei che non conosco perchè mi "vergogno" di parlare con il mio parroco, che mi mette a disagio.
Mia figlia sta per fare la Prima Comunione. In una recente riunione il nostro parroco ha ricordato ai genitori divorziati di non accostarsi all'Eucarestia. Da quel momento io mi sento angosciata. Il motivo è che io e mio marito siamo sposati semplicemente in comune ma non siamo reduci da precedenti matrimoni. Allora non trovando altri punti di contatto, decidemmo di creare comunque famiglia, impegnando noi stessi, anche se con idee diverse.
Sono passati 17 anni (più 9 di fidanzamento) e nel bene e nel male, abbiamo superato scogli faticosi e goduto dei momenti sereni. Il risultato lo si vede dai nostri figli. Io in questi anni mi sono confessata e preso la Comunione SENZA ASSOLUTAMENTE SAPERE E CAPIRE che la mia posizione di sposa civile non fosse la posizione corretta davanti a Dio. Ho commesso peccato mortale? ed ora posso ancora confessarmi? Non devo più accostarmi alla Comunione? Sono triste e mi sento a disagio. La prego, se possibile, di inviarmi una risposta.
Grazie!!
Patrizia




Risposta del sacerdote



Cara Patrizia,

1. per commettere peccato grave si devono verificare tre condizioni:

  1. materia grave;
  2. piena avvertenza della mente;
  3.  deliberato consenso della volontà.

2. Dal momento che tu mi scrivi: “SENZA ASSOLUTAMENTE SAPERE E CAPIRE che la mia posizione di sposa civile non fosse la posizione corretta davanti a Dio”, concludo che in te non c’era la consapevolezza di compiere un peccato grave.
E pertanto dovrei concludere che soggettivamente non c’era peccato grave. C’era ignoranza invincibile, così la chiamerebbero i teologi.

3. Tuttavia l’ignoranza invincibile può essere invincibile e incolpevole, e invincibile e colpevole.
C’è ignoranza invincibile e colpevole quando a suo tempo non ci si è dato da fare per conoscere la dottrina cristiana oppure perché nel frattempo ci si è allontanati dal Signore così che poco per volta si è perso il senso del bene e del male.
Vedi tu, se questo potrebbe essere anche il tuo caso
.

4. Mi chiedi se ora puoi confessarti e se devi astenerti dalla Comunione.
Certamente ti trovi in una situazione oggettivamente irregolare. La Chiesa riconosce come valido fra battezzati solo il matrimonio sacramento.
La soluzione che si prospetta, visto che sei giustamente desiderosa della Confessione e della Santa Comunione (sono infatti beni inestimabili e preziosissimi), è quella di andare dal vostro parroco perché vi unisca anche col matrimonio sacramento. Non è necessario fare celebrazioni eclatanti. Lo si può fare anche in maniera semplice e dimessa, alla presenza dei testimoni.
Così avresti risolto tutti i problemi. Se tuo marito ti vuole bene, non deve opporsi
.
Diversamente ti trovi nella situazione degli irregolari e, perdurante l’irregolarità, non puoi accedere alla confessione e alla santa Comunione perché faresti dei sacrilegi.

Prego il Signore che ti dia la forza per fare tutti i passi dovuti e che possa risolvere al meglio la tua situazione.
Ti saluto e ti benedico.


Pubblicato 05.08.2007

Padre Angelo






 

[Modificato da Caterina63 11/08/2009 15:48]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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08/09/2009 16:55
 
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DIVORZIO NON DIRITTO MA DELITTO LEGALIZZATO
distrugge le famiglie, disorienta i figli, corrompe la società



NON E’ NECESSARIO ESSERE CATTOLICI per capirlo

Qualche mese fa, nella trasmissione di Porta a Porta di Bruno Vespa dedicata alla legge della procreazione assistita, ossia in provetta, l’on. Carla Castellani (An) esordiva così: “Io sono cattolica, quindi...”. Ed è stata bravissima nel confutare il permissivismo in tale problema. Tuttavia, non possiamo non chiederci: è necessario essere cattolici per difendere il diritto alla vita del figlio concepito, il diritto del figlio ad essere generato secondo natura e non fabbricato in provetta, il diritto del figlio a non essere soppresso mediante aborto legalizzato, il diritto del figlio ad avere due genitori indissolubilmente uniti in legittimo matrimonio da amare ed essere amato?
Assolutamente no, poiché non si tratta di principi di fede né di morale cattolica, bensì di morale naturale. L’appiccicare la qualifica di “cattolico” a tali principi e alle leggi che ad essi si ispirerebbero è un gioco massonico, anticlericale, libertario, ideologico da parte dei nemici di Dio e della Chiesa di Gesù Cristo per avere le mani libere al fine di scardinare le basi morali della società in nome del pluralismo e dello Stato laico, col pretesto (infondato e artefatto) di impedire l’imposizione della fede mediante le leggi dello Stato.

La laicità dello Stato, ossia la distinzione del potere religioso da quello civile e politico, è un dato evangelico. Lo afferma perciò la Chiesa cattolica, e solo la Chiesa cattolica. Le altre religioni identificano il potere religioso con quello civile come l’islam per esempio, per il quale il Corano non è solo codice di fede e di vita religiosa, ma anche codice civile e politico.
Purtroppo questa strategia disonesta e diabolica che si manifesta soprattutto, e non solo, attraverso il radicalismo pannelliano ha ingannato gran parte del popolo italiano, che ha diffidato e diffida stoltamente della Chiesa e del Papa, e ha portato lo sconquasso nelle famiglie italiane. E siccome le famiglie sono le cellule di una nazione; dalla loro disintegrazione ne è venuta una società amorale, che non sa più distinguere il bene dal male e perciò destinata a vivere in continue tragedie familiari e nazionali.
Siamo pessimisti? No. Come discepoli di Cristo non lo possiamo né lo vogliamo, poiché crediamo che Egli è risorto e sarà sempre Lui il vincitore.

UOMO E RAGIONE:
COORDINATE DELLA LAICITÀ


Anzitutto bisogna stabilire quel che significa essere laico almeno dal punto di vista politico, poiché anche il cattolico, appunto perché cattolico, è radicalmente laico sul piano politico; laicità che gli deriva, come già detto, proprio dalla sua fede.
Norberto Bobbio (1909-2003), filosofo tra i massimi esponenti della cultura laica, alla vigilia del referendum sull’aborto del 1981, concesse un’intervista al giornalista G. Nascibeni in cui si dichiarava contro l’aborto legalizzato. L’ultima domanda era questa: “Immagina, professor Bobbio, che ci sarà sorpresa nel mondo laico per queste sue dichiarazioni?”. Rispose: “Vorrei chiedere quale sorpresa ci può essere che un laico consideri come valido in senso assoluto, come un imperativo categorico, il “non uccidere”. E mi stupisco a mia volta che i laici lascino ai credenti il privilegio e l’onore di affermare che non si deve uccidere” (Corriere della Sera, 8.5.1981).
Insomma, laicità non significa negazione di qualsiasi valore di riferimento, né totale sfiducia nella ricerca della verità; bensì porre il valore dell’uomo al centro del viver civile, nonché dell’azione sociale e politica (come è detto in tutte le dichiarazioni dei diritti dell’uomo) e cercare di affermarlo e promuoverlo usando la ragione.
L’uomo e la ragione sono le coordinate della laicità; coordinate che possono consentire a tutti, credenti e non credenti, di cooperare alla promozione del bene comune indipendentemente dalle fedi religiose. La fede, soprattutto quella evangelica, illumina ancor più il valore dell’uomo; ma in politica il cattolico afferma e propone sempre leggi e ordinamenti secondo ragione, in conformità alla natura e al valore dell’uomo. Perciò è tempo che si smetta con l’ingiusta e ricattatoria contrapposizione tra cattolici e laici.

L’INDISSOLUBILITA’ DEL MATRIMONIO
VALORE LAICO


Giuseppe Mazzini scrisse nel 1860 un’opera, dedicata agli operai italiani, intitolata: I doveri dell’uomo. Tra l’altro vi afferma lapidariamente: “Se non esiste una legge santa, inviolabile, non creata dagli uomini, quale criterio avremo per giudicare se un atto è giusto o non lo è?”. Noi non arriviamo a tanto per giudicare se una legge è giusta o non lo è. Noi cattolici non ci richiamiamo infatti, in politica, come credenti ad una legge “santa”, ma alla legge “naturale“, di cui parlano anche i filosofi pagani come, per esempio, Cicerone; il quale nell’orazione Pro Milone scrisse: “La legge naturale non è stata stesa per iscritto, ma è nata con noi; non l’abbiamo imparata, ricevuta o letta, ma presa, attinta e ricavata, dalla stessa natura; secondo tale legge non siamo stati ammaestrati, ma fatti; non educati, ma imbevuti”.
Ecco perché i partiti che si ispirano alla dottrina sociale della Chiesa, ad incominciare dal Partito Popolare di don Luigi Sturzo, sono partiti laici e perciò aconfessionali, cui anche atei e agnostici possono appartenere: poiché non richiedono un atto di fede, ma solo l’adesione ad un programma ispirato a un ordinamento della società su basi di leggi ispirate al valore dell’uomo, alla ragione, al buon senso e al bene comune che tutti gli uomini di buona volontà possono accettare ed impegnarsi ad attuare.
La legge naturale, insomma, trae le norme, i criteri dell’agire umano direttamente dalla natura specifica dell’uomo. È la ragione che, comprendendo le esigenze naturali dell’uomo, stabilisce come gli conviene agire per realizzare pienamente se stesso. “Sicché - scrive san Tommaso, filosofo e teologo - ogni legge introdotta dall’uomo ha la natura di legge, in quanto deriva dalla legge naturale. Che se in qualche modo è contraria alla legge naturale, non è più legge ma corruzione della legge” (Sum.theol.I/II,95,2).
Con la legge naturale concorda la Costituzione della Repubblica Italiana che, all’art.29, “ riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio... con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”.
La famiglia, dunque, è “società naturale“; ed in quanto tale esige “l’unità familiare“. Le leggi perciò, che la riguardano devono essere “a garanzia dell’unità familiare”, indispensabile (art.30) perché “è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli”.
È, senza dubbio, evidente che il divorzio mina disastrosamente la stabilità della famiglia, la sua unità, ed ostacola fortemente l’educazione del figli.

L’AFFETTO DEI GENITORI DIVORZIATI
NON E’ UN AFFETTO NORMALE:
PAROLA DI MIKE BONGIORNO


La legge deve essere la forza del debole; se al più forte concedesse dei diritti che lo danneggino, sarebbe una legge ingiusta. Ad affermarlo è nientedimeno John Locke, il padre dell’empirismo, quando scrive: “C’è una legge di natura che obbliga ognuno: e la ragione insegna a tutta l’umanità, appena questa la consulta, che essendo tutti eguali e indipendenti, nessuno deve danneggiare l’altro nella sua vita, nella sua salute, nella sua libertà” (M.Latteri, Dizionario delle idee, v. diritto naturale).
Bisognerebbe ascoltare i figli dei divorziati per capire la loro tragedia e sentirsi ribollire il sangue per l’incoscienza di chi ha provocato tali irreparabili disastri.
Ma nessuno si rischia a scoprire e ad esaminare i traumi psicologici, affettivi, mentali, educativi causati dal fatale abbandono dei figli ad un sicuro difficile e, spesso, disastroso destino. Si teme che la triste verità che emergerebbe potrebbe sconfessare i divorzisti ad oltranza, ciechi ed ottusi. Eppure nell’Inghilterra degli anni sessanta dello scorso secolo ci fu chi questo coraggio lo ebbe. “In Inghilterra, una Commissione reale di diciannove membri, incaricata di studiare a fondo tale problema, concludeva i suoi lavori con queste parole di ammonimento: “Se tale tendenza al divorzio continuerà senza alcun freno, si arriverà al punto in cui sarà necessario chiedersi se non vale la pena abolirlo per il bene della comunità ed obbligare i coniugi ad accettare le durezze connesse con un tale provvedimento”. E ciò per risparmiare ai ventimila bambini che ogni anno sono coinvolti in azioni di divorzio uno choc che si ripercuoterà in ogni fase della loro esistenza” (A. Ferruzza, Oggi, 7.6.1962).

Mike Bongiorno, il popolare personaggio televisivo, in una pagina di “confessioni” pubblicata sul Messaggero (26 marzo 1972), affermava di sentire molto la mancanza di una famiglia essendo egli figlio di divorziati (in U.S.A. da dove proveniva). “Non è che i miei genitori - diceva Mike - non mi volessero bene, ma il loro amore me lo davano al 50% e a turno; e per un figlio l’affetto, quando non viene contemporaneamente dal padre e dalla madre, non è un affetto normale”.
Qualcosa di simile, anzi di più drammatico, mi diceva una bambina di appena otto anni della Casa della Fanciulla di cui sono cappellano. Si chiama Mariuccia e i suoi genitori avevano in corso il processo di divorzio. Un giorno, si fece trovare all’ingresso dell’istituto e, col visino triste e la voce stizzita, mi disse: “Senti. Il giudice deve dire se io devo stare con mia madre o con mio padre. Ma io dico: lei è mia madre, e lui è mio padre; io voglio stare con tutti e due. E tu cosa ne dici?”. Io non dissi niente. L’accarezzai, la presi per la manina, la condussi in chiesa e la feci pregare dicendole che Gesù e la sua Mamma l’avrebbero tenuta sempre vicina, mentre cercavo di frenare la commozione. Crudeltà non è negare il divorzio, ma negare a tante inermi e indifese Mariucce di avere un papà e una mamma che stiano insieme e la amino insieme.

Un giovane, condannato a fare la spola tra la casa della madre risposata e del padre risposato, mi diceva: “Come mai non si trova nessun partito, nessun deputato, nessun senatore che proponga una legge che condanni i genitori che abbandonano i figli col divorzio, anziché premiarli risposandoli in municipio con un sindaco in pompa magna?”.
Ho dovuto dargli ragione, poiché porre i figli in una tale situazione è contro natura; tanto è vero che anche le bestie più feroci non lo fanno. Ma l’uomo, diceva mio padre, è la bestia più feroce che ci sia quando, cedendo alla passione, riesce a mettere la ragione a servizio dell’istinto e arriva così ad una crudeltà senza limiti.

IN NOME E NELL’INTERESSE
DEL LIBERALISMO ITALIANO:
PAROLA DI ANTONIO SALANDRA


In un manifesto di propaganda contro il divorzio, ai tempi del referendum, si vedevano due coniugi darsi le spalle e andare per la loro strada, mentre il figlio restava fermo nel mezzo esclamando: “Ma io non posso dividermi!”.
Proprio così: il figlio è come l’incarnazione dell’amore e delle stesse persone fisiche e spirituali dei genitori; ed è un dato scientifico. Non solo, la natura stabilisce tra i genitori e i figli (a differenza del mondo animale) delle relazioni e dei vincoli che neppure la morte riesce a spezzare. Per cui, se il figlio... non si può dividere; se sono indissolubili i vincoli tra i coniugi e il figlio, deve essere indissolubile anche il matrimonio che produce tali effetti, perché gli effetti non possono essere maggiori della causa.

La discussione sul matrimonio e il divorzio è iniziata in Italia, non appena conseguita la sua unità. Eppure ad opporsi all’introduzione a tale istituto (per il matrimonio civile, evidentemente) non furono i cattolici, che non erano rappresentati in Parlamento, bensì politici liberali e anticlericali tutt’altro che teneri con la Chiesa.
L’on. Giuseppe Pisanelli liberale, ministro di Grazia e Giustizia dal 1862 al 1874, in un suo discorso alla Camera dei Deputati sul matrimonio, tra l’altro, diceva: “Si è detto che il matrimonio è un contratto; ma si cade in errore quando con quella posizione si voglia intendere che il matrimonio non sia altro che un contratto... Il matrimonio, una volta celebrato, non è più un contratto ma uno stato” (Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, 14.2.1865).
Il matrimonio è un fatto privato ma solo all’inizio: due persone, di sesso diverso, decidono liberamente di sposarsi, essendo pienamente libere di non farlo. Però, non appena contraggono il matrimonio, si pongono in “uno stato di vita”, danno vita ad una istituzione - la famiglia - che non riguarda più solo essi stessi, ma tutta la società, di cui la famiglia à la cellula essenziale.
Il 26 novembre 1902 Giuseppe Zanardelli presentò un disegno di legge sul divorzio, annunziato addirittura nel discorso della Corona di re Vittorio Emanuele III del 20 febbraio dello stesso anno. Ebbene, nonostante l’impegno e il forte influsso della massoneria, venne respinto soprattutto ad opera di Antonio Salandra, statista di spicco che si ispirava al liberalismo classico di Cavour.

In un suo magistrale discorso al Senato, da grande studioso di problemi economici e giuridici, tra l’altro disse: “I divorzisti rappresentano la campagna antidivorzista come un’agitazione clericale, vaticanista, temporalista... Ma noi protestiamo, in nome e nell’interesse del liberalismo italiano, contro questo tentativo di annoverare tra la schiera dei nemici dello Stato tutti coloro i quali vogliono che la famiglia rimanga costituita qual è dalle vigenti leggi; vogliamo escludere affatto l’idea del divorzio non per motivi religiosi, ma per motivi dettati dall’interesse della società civile; bolliamo di santa ragione quelli che propugnano il divorzio per far dispetto ai cattolici”.

SOCIETÀ DIVORZISTA
OSSIA CIVILTÀ DELL’EGOISMO


“Le società ove esiste il divorzio (e purtroppo sono la maggior parte) esprimono una civiltà dell’egoismo, in cui i singoli sono incoraggiati a servirsi di tutti gli altri - compreso il coniuge - per il proprio maggiore (presunto) godimento e benessere; mentre le società (ormai poche) ove il matrimonio è indissolubile esprimono una civiltà della serietà e del rispetto dei valori, per cui i singoli sono incoraggiati a vivere con senso di responsabilità nei confronti di tutti: in particolare del coniuge e dei figli.
Non bisogna confondere la civiltà dei valori con la civiltà della tecnica. Non c’è coincidenza tra civiltà e divorzio, come provano i fatti...
La “libertà di fare quel che si vuole” non è riconosciuta in alcuna legislazione, perché farebbe cadere nel caos la vita sociale e individuale. Altro è affermare i diritti fondamentali dell’uomo, altro è voler dare riconoscimento giuridico a qualsiasi “libertà” individuale. Ciò non avviene, per esempio, nei rapporti di carattere economico-sociale: al datore di lavoro, infatti, vengono imposte, per legge, dei comportamenti a difesa del più debole: il lavoratore.
È un controsenso, pertanto, affermare che il divorzio è un diritto di libertà, cioè un valore illimitato, e sostenerlo poi come rimedio per alcuni casi, concedendone l’esercizio persino al disonesto contro la persona onesta, al colpevole a danno dell’innocente.
Non essendo quindi il divorzio un fondamentale diritto di libertà, può legittimamente essere escluso, se l’escluderlo significa tutelare altri diritti fondamentali, soprattutto quello dei figli e il bene comune” (Un popolo al bivio, ed. C.N.R.D., Roma 1972, pp. 36; 32).

ADA ALESSANDRINI COMUNISTA:
SONO ANTIDIVORZISTA PERCHÉ DONNA!


Poiché siamo in Italia, la cui cultura dominante è ancora sinistroide, comunistoide, materialista di estrazione marxista, vogliamo ricordare che le radici di una tale cultura furono per la legge naturale dell’indissolubilità del matrimonio.
Carlo Marx (proprio lui, anche se da giovane) scriveva: “Se il matrimonio non fosse a base della famiglia, non sarebbe oggetto della legislazione come non lo è, per esempio, l’amicizia. I divorzisti prendono quindi in considerazione soltanto la volontà o più esattamente l’arbitrio, non la sostanza morale di tale legame.
Il legislatore invece deve considerarsi come un naturalista. Egli non fa le leggi, non le scopre: le formula soltanto; esprime in leggi consce e positive le intime leggi dei rapporti sociali.
Come si potrebbe accusare il legislatore di sfrenato arbitrio se al posto della natura della cosa facesse subentrare i propri capricci, così egli ha non di meno il diritto di considerare arbitrio sfrenato il fatto che dei privati vogliano far prevalere i loro capricci a danno della natura della cosa” (Scritti politici giovanili, ed. Einaudi 1950, p. 245).

Il deputato socialista Loris Fortuna fu colui che propose il disegno di legge del divorzio. Sul quotidiano socialista Avanti (30.11.1969) definiva il divorzio “una vittoria... sulla condizione servile della donna” e precisava che “il divorzio accresce e potenzia la lotta per la libertà e l’emancipazione della donna da condizioni di millenario servaggio, di soggezione conscia o inconscia”.
Ben diversa però era (allora) la posizione dell’UDI (l’organizzazione delle donne comuniste) che nel suo 7° Congresso Nazionale affermava:
“L’unione matrimoniale non sarebbe perfetta se non fosse univoca, duratura e irrevocabile. L’indissolubilità è storicamente una conquista della donna, sottoposta precedentemente alle condizioni umilianti vuoi della poligamia vuoi del ripudio” (Unità, 3.6.1964).
Il 1° dicembre 1970 il divorzio diventava legge dello Stato, col voto determinante del Partito Comunista. Ciononostante Ada Alessandrini comunista, che aveva fatto parte della Direzione Nazionale dell’UDI, in una Conferenza Stampa del 20.10.1971 dichiarava:
“Sono antidivorzista perché sono donna, perché mi sono sempre interessata dei movimenti femminili, del problema delicato della emancipazione della donna italiana in questo momento storico; sono antidivorzista perché sono consapevole dell’importanza che ha la famiglia nella società italiana.

Di famiglia ce ne può essere una sola: non due o tre, un pezzo qua e un pezzo là. O si crede nella famiglia o non ci si crede.
Non è obbligatorio fondare una famiglia... Però quando uno crea una famiglia, ne crea una sola, e ha il dovere di rispettare le creature che nascono in quella famiglia, le quali sono state generate da due esseri insieme, che restano sempre gli stessi; e non è possibile tagliare a metà i bambini che si sono messi al mondo”.
Pietro Nenni, figura storica del socialismo italiano, durante la dittatura fascista era emigrato in Francia. Ritornato in Italia, pubblicò una specie di diario: Taccuino 1942. Sotto la data del 31 maggio, dopo avere assistito a Saint Flour alla “giornata delle madri”, scriveva: “Che cosa di più patetico, in piena guerra, della celebrazione dei valori morali della famiglia e della madre? Nessuno ha nuociuto al socialismo quanto gli pseudo socialisti in salsa borghese, che hanno fatto del cinismo sulla famiglia e sui rapporti sessuali. Non ricordo chi abbia detto che una società socialista ha da essere una società di più casti costumi. Ed è sacrosantamente vero” (cit. di M.Missiroli in Epoca 7.1.1968).
“Il matrimonio - scriveva San Tommaso da filosofo, e non da teologo - è ordinato, secondo l’intenzione della natura, all’educazione della prole, non solo per qualche tempo, ma per l’intera vita della prole. Pertanto, essendo la prole un bene comune del marito e della moglie, è necessario che la società coniugale permanga sempre indivisa secondo il dettame della legge di natura. Perciò, l’indissolubilità del matrimonio è secondo la legge naturale” (Sum. theol. suppl., q.67).

IL RIMEDIO: FARE MARCIA INDIETRO
ABOLENDO IL DIVORZIO


Si dice che l’onestà non si può imporre per legge. È vero: le leggi non rendono automaticamente onesti i cittadini; però tendono a dissuaderli dal commettere azioni disoneste, dannose al vivere civile. L’indissolubilità non crea l’amore; tuttavia ne favorisce le premesse, aiuta gli sposi a superare i momenti difficili. Il divorzio favorisce, protegge e premia l’egoismo, che è il contrario dell’amore. Insomma, se la legislazione non può prescrivere la moralità, tanto meno può rendere legale l’immoralità.
La situazione dei figli dei divorziati è drammatica. Contesi dai genitori o abbandonati a se stessi, non hanno punti di riferimento.
“Sto con mio madre - mi dice un ragazzo di seconda media - e c’è un maschio che non posso sopportare: lo ucciderei. Passo qualche giorno con mio padre, e trovo una femmina che mi è tanto antipatica: mi viene di sputarle in faccia”.
Condottomi dai genitori, mi trovo davanti a un ragazzo che, mi si dice, è sempre triste e preoccupato. Quando riesco a farlo parlare, mi confessa: “Ho paura che papà e mamma si dividano”.
Di questi casi ormai ne conosco parecchi. E la conclusione è questa ed è tremenda: i figli dei divorziati subiscono il trauma del divorzio. I figli che non hanno la sfortuna di trovarsi in questa situazione, vivono nell’incubo di una probabile divisione dei genitori.

Che c’è da fare?

Fare marcia indietro: poiché il divorzio, per i guasti che ha prodotto e di cui tutti siamo testimoni, è un male tremendo, è un delitto. Ed è da insensati averlo trasformato in un diritto. Nessun cittadino onesto può ricorrervi, tanto più se cristiano: lo si può subire, ma non promuoverlo; non solo, ma è anche da cancellare dal Codice civile dello Stato perché, oltre quanto detto, il divorzio, corrompendo la famiglia corrode la società nelle sue cellule vitali.

don GERLANDO LENTINI


Matteo 5,37
Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno.


Colossesi 4,6
Il vostro parlare sia sempre con grazia, condito di sapienza, per sapere come rispondere a ciascuno






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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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29/01/2010 14:07
 
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UDIENZA AL TRIBUNALE DELLA ROTA ROMANA IN OCCASIONE DELL’INAUGURAZIONE DELL’ANNO GIUDIZIARIO, 29.01.2010


UN CHIARO "ALT" DEL PONTEFICE ALLE SENTENZE FACILI CHE GIUDICANO NULLO IL SACRAMENTO

"Occorre rifuggire da richiami pseudopastorali che situano le questioni su un piano meramente orizzontale, in cui ciò che conta è soddisfare le richieste soggettive per giungere ad ogni costo alla dichiarazione di nullità, al fine di poter superare, tra l’altro, gli ostacoli alla ricezione dei sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia. Il bene altissimo della riammissione alla Comunione eucaristica dopo la riconciliazione sacramentale, esige invece di considerare l'autentico bene delle persone, inscindibile dalla verità della loro situazione canonica. Sarebbe un bene fittizio, e una grave mancanza di giustizia e di amore, spianare loro comunque la strada verso la ricezione dei sacramenti, con il pericolo di farli vivere in contrasto oggettivo con la verità della propria condizione personale".

Alle ore 12 di questa mattina, nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, il Santo Padre Benedetto XVI riceve in Udienza i Prelati Uditori, gli Officiali e gli Avvocati del Tribunale della Rota Romana in occasione della solenne inaugurazione dell’Anno giudiziario.
Pubblichiamo di seguito il discorso che il Papa rivolge loro:




DISCORSO DEL SANTO PADRE

Cari Componenti del Tribunale della Rota Romana!

Sono lieto di incontrarvi ancora una volta per l’inaugurazione dell’Anno Giudiziario. Saluto cordialmente il Collegio dei Prelati Uditori, ad iniziare dal Decano, Mons. Antoni Stankiewicz, che ringrazio per le parole che mi ha rivolto a nome dei presenti. Estendo il mio saluto ai Promotori di Giustizia, ai Difensori del Vincolo, agli altri Officiali, agli Avvocati e a tutti i Collaboratori di codesto Tribunale Apostolico, come pure ai Membri dello Studio Rotale. Colgo volentieri l’occasione per rinnovarvi l’espressione della mia profonda stima e della mia sincera gratitudine per il vostro ministero ecclesiale, ribadendo, allo stesso tempo, la necessità della vostra attività giudiziaria. Il prezioso lavoro che i Prelati Uditori sono chiamati a svolgere con diligenza, a nome e per mandato di questa Sede Apostolica, è sostenuto dalle autorevoli e consolidate tradizioni di codesto Tribunale, al cui rispetto ciascuno di voi deve sentirsi personalmente impegnato.

Oggi desidero soffermarmi sul nucleo essenziale del vostro ministero, cercando di approfondirne i rapporti con la giustizia, la carità e la verità. Farò riferimento soprattutto ad alcune considerazioni esposte
nell’Enciclica Caritas in veritate, le quali, pur essendo considerate nel contesto della dottrina sociale della Chiesa, possono illuminare anche altri ambiti ecclesiali.

Occorre prendere atto della diffusa e radicata tendenza, anche se non sempre manifesta, che porta a contrapporre la giustizia alla carità, quasi che una escluda l’altra. In questa linea, riferendosi più specificamente alla vita della Chiesa, alcuni ritengono che la carità pastorale potrebbe giustificare ogni passo verso la dichiarazione della nullità del vincolo matrimoniale per venire incontro alle persone che si trovano in situazione matrimoniale irregolare. La stessa verità, pur invocata a parole, tenderebbe così ad essere vista in un'ottica strumentale, che l’adatterebbe di volta in volta alle diverse esigenze che si presentano.

Partendo dall’espressione "amministrazione della giustizia", vorrei ricordare innanzitutto che il vostro ministero è essenzialmente opera di giustizia: una virtù - "che consiste nella costante e ferma volontà di dare a Dio e al prossimo ciò che è loro dovuto" (CCC, n. 1807) - della quale è quanto mai importante riscoprire il valore umano e cristiano, anche all'interno della Chiesa.

Il Diritto Canonico, a volte, è sottovalutato, come se esso fosse un mero strumento tecnico al servizio di qualsiasi interesse soggettivo, anche non fondato sulla verità. Occorre invece che tale Diritto venga sempre considerato nel suo rapporto essenziale con la giustizia, nella consapevolezza che nella Chiesa l’attività giuridica ha come fine la salvezza delle anime e "costituisce una peculiare partecipazione alla missione di Cristo Pastore… nell’attualizzare l’ordine voluto dallo stesso Cristo" (Giovanni Paolo II, Allocuzione alla Rota Romana, 18 gennaio 1990, in AAS 82 [1990], p. 874, n.4).

In questa prospettiva è da tenere presente, qualunque sia la situazione, che il processo e la sentenza sono legati in modo fondamentale alla giustizia e si pongono al suo servizio. Il processo e la sentenza hanno una grande rilevanza sia per le parti, sia per l’intera compagine ecclesiale e ciò acquista un valore del tutto singolare quando si tratta di pronunciarsi sulla nullità di un matrimonio, il quale riguarda direttamente il bene umano e soprannaturale dei coniugi, nonché il bene pubblico della Chiesa. Oltre a questa dimensione che potremmo definire "oggettiva" della giustizia, ne esiste un’altra, inseparabile da essa, che riguarda gli "operatori del diritto", coloro, cioè, che la rendono possibile.

Vorrei sottolineare come essi devono essere caratterizzati da un alto esercizio delle virtù umane e cristiane, in particolare della prudenza e della giustizia, ma anche della fortezza. Quest’ultima diventa più rilevante quando l'ingiustizia appare la via più facile da seguire, in quanto implica accondiscendenza ai desideri e alle aspettative delle parti, oppure ai condizionamenti dell'ambiente sociale.

In tale contesto, il giudice che desidera essere giusto e vuole adeguarsi al paradigma classico della "giustizia vivente" (cfr Aristotele, Etica nicomachea, V, 1132a), sperimenta la grave responsabilità davanti a Dio e agli uomini della sua funzione, che include altresì la dovuta tempestività in ogni fase del processo: «quam primum, salva iustitia» (Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, Instr. Dignitas connubii, art. 72). Tutti coloro che operano nel campo del Diritto, ognuno secondo la propria funzione, devono essere guidati dalla giustizia. Penso in particolare agli avvocati, i quali devono non soltanto porre ogni attenzione al rispetto della verità delle prove, ma anche evitare con cura di assumere, come legali di fiducia, il patrocinio di cause che, secondo la loro coscienza, non siano oggettivamente sostenibili.

L’azione, poi, di chi amministra la giustizia non può prescindere dalla carità. L'amore verso Dio e verso il prossimo deve informare ogni attività, anche quella apparentemente più tecnica e burocratica. Lo sguardo e la misura della carità aiuterà a non dimenticare che si è sempre davanti a persone segnate da problemi e da sofferenze.

Anche nell’ambito specifico del servizio di operatori della giustizia vale il principio secondo cui "la carità eccede la giustizia" (Enc. Caritas in veritate, n. 6).

Di conseguenza, l'approccio alle persone, pur avendo una sua specifica modalità legata al processo, deve calarsi nel caso concreto per facilitare alle parti, mediante la delicatezza e la sollecitudine, il contatto con il competente tribunale. In pari tempo, è importante adoperarsi fattivamente ogni qualvolta si intraveda una speranza di buon esito, per indurre i coniugi a convalidare eventualmente il matrimonio e a ristabilire la convivenza coniugale (cfr CIC, can. 1676).

Non va, inoltre, tralasciato lo sforzo di instaurare tra le parti un clima di disponibilità umana e cristiana, fondata sulla ricerca della verità (cfr Instr. Dignitas connubii, art. 65 §§ 2-3).

Tuttavia occorre ribadire che ogni opera di autentica carità comprende il riferimento indispensabile alla giustizia, tanto più nel nostro caso. "L'amore – «caritas» – è una forza straordinaria, che spinge le persone a impegnarsi con coraggio e generosità nel campo della giustizia e della pace" (Enc. Caritas in veritate, n. 1). "Chi ama con carità gli altri è anzitutto giusto verso di loro. Non solo la giustizia non è estranea alla carità, non solo non è una via alternativa o parallela alla carità: la giustizia è «inseparabile dalla carità», intrinseca ad essa" (Ibid., n. 6). La carità senza giustizia non è tale, ma soltanto una contraffazione, perché la stessa carità richiede quella oggettività tipica della giustizia, che non va confusa con disumana freddezza. A tale riguardo, come ebbe ad affermare il mio Predecessore, il venerabile Giovanni Paolo II, nell’allocuzione dedicata ai rapporti tra pastorale e diritto: "Il giudice […] deve sempre guardarsi dal rischio di una malintesa compassione che scadrebbe in sentimentalismo, solo apparentemente pastorale" (18 gennaio 1990, in AAS, 82 [1990], p. 875, n. 5).

Occorre rifuggire da richiami pseudopastorali che situano le questioni su un piano meramente orizzontale, in cui ciò che conta è soddisfare le richieste soggettive per giungere ad ogni costo alla dichiarazione di nullità, al fine di poter superare, tra l’altro, gli ostacoli alla ricezione dei sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia. Il bene altissimo della riammissione alla Comunione eucaristica dopo la riconciliazione sacramentale, esige invece di considerare l'autentico bene delle persone, inscindibile dalla verità della loro situazione canonica. Sarebbe un bene fittizio, e una grave mancanza di giustizia e di amore, spianare loro comunque la strada verso la ricezione dei sacramenti, con il pericolo di farli vivere in contrasto oggettivo con la verità della propria condizione personale.

Circa la verità, nelle allocuzioni rivolte a codesto Tribunale Apostolico, nel 2006 e nel 2007, ho ribadito la possibilità di raggiungere la verità sull'essenza del matrimonio e sulla realtà di ogni situazione personale che viene sottoposta al giudizio del tribunale (28 gennaio 2006, in AAS 98 [2006], pp. 135-138; e 27 gennaio 2007, in AAS 99 [2007], pp. 86-91; come pure sulla verità nei processi matrimoniali (cfr Instr. Dignitas connubii, artt. 65 §§ 1-2, 95 § 1, 167, 177, 178). Vorrei oggi sottolineare come sia la giustizia, sia la carità, postulino l'amore alla verità e comportino essenzialmente la ricerca del vero. In particolare, la carità rende il riferimento alla verità ancora più esigente. "Difendere la verità, proporla con umiltà e convinzione e testimoniarla nella vita sono pertanto forme esigenti e insostituibili di carità. Questa, infatti, «si compiace della verità» (1 Cor 13, 6)" (Enc. Caritas in veritate, n. 1). "Solo nella verità la carità risplende e può essere autenticamente vissuta […]. Senza verità la carità scivola nel sentimentalismo. L'amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. È il fatale rischio dell'amore in una cultura senza verità. Esso è preda delle emozioni e delle opinioni contingenti dei soggetti, una parola abusata e distorta, fino a significare il contrario" (Ibid., n. 3).

Bisogna tener presente che un simile svuotamento può verificarsi non solo nell'attività pratica del giudicare, ma anche nelle impostazioni teoriche, che tanto influiscono poi sui giudizi concreti. Il problema si pone quando viene più o meno oscurata la stessa essenza del matrimonio, radicata nella natura dell'uomo e della donna, che consente di esprimere giudizi oggettivi sul singolo matrimonio. In questo senso, la considerazione esistenziale, personalistica e relazionale dell'unione coniugale non può mai essere fatta a scapito dell’indissolubilità, essenziale proprietà che nel matrimonio cristiano consegue, con l’unità, una peculiare stabilità in ragione del sacramento (cfr CIC, can. 1056). Non va, altresì, dimenticato che il matrimonio gode del favore del diritto. Pertanto, in caso di dubbio, esso si deve intendere valido fino a che non sia stato provato il contrario (cfr CIC, can. 1060). Altrimenti, si corre il grave rischio di rimanere senza un punto di riferimento oggettivo per le pronunce circa la nullità, trasformando ogni difficoltà coniugale in un sintomo di mancata attuazione di un'unione il cui nucleo essenziale di giustizia – il vincolo indissolubile – viene di fatto negato.

Illustri Prelati Uditori, Officiali ed Avvocati, vi affido queste riflessioni, ben conoscendo lo spirito di fedeltà che vi anima e l’impegno che profondete nel dare attuazione piena alle norme della Chiesa, nella ricerca del vero bene del Popolo di Dio. A conforto della vostra preziosa attività, su ciascuno di voi e sul vostro quotidiano lavoro invoco la materna protezione di Maria Santissima Speculum iustitiae e imparto con affetto la Benedizione Apostolica.

GRAZIE SANTO PADRE!!

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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09/02/2010 20:33
 
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Gesù, Hillel, Shammai ed il matrimonio, di Andrea Lonardo
- Scritto da Redazione de Gliscritti: 07 Febbraio 10 - 22:42
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Riprendiamo sul nostro sito l'articolo scritto da Andrea Lonardo il 5/2/2010 per la rubrica In cammino verso Gesù del sito Romasette di Avvenire. Per altri articoli sulla Sacra Scrittura, vedi su questo stesso sito la sezione Sacra Scrittura.
Il Centro culturale Gli scritti (7/2/2010)




«La scuola di Shammai insegna che il marito non deve divorziare dalla propria moglie a meno che abbia trovato in lei qualcosa di immorale, conformemente al testo che dice: “Avendo trovato in lei qualcosa di vergognoso” (Dt 24,1). La scuola di Hillel opina invece: anche se essa ha bruciato il suo cibo. Rabbi Aqiba dice: Anche se trova un’altra più bella di lei, conformemente al testo che dice “che accada anche se essa non trovi grazia ai suoi occhi” (Dt 24,1)» (Mishnah Ghittin VIII,9-10).

Così la Mishnah, la raccolta dei detti dei rabbini dei primi due secoli d.C. – Mishnah vuol dire, letteralmente “ripetizione”, quindi “insegnamento” - presenta le diverse opinioni sul divorzio al tempo di Gesù.

A partire dalla concessione del divorzio contenuta nella Legge di Mosè ed, in particolare, nel libro del Deuteronomio, le diverse scuole argomentavano sulle condizioni del divorzio stesso.

Per Shammai, rabbino più rigorista, il divorzio era possibile solo se l’uomo scopriva l’adulterio della moglie (“qualcosa di immorale”), mentre Hillel, più lassista, permetteva il divorzio anche se la donna non sapeva cucinare. Ovviamente non era previsto che fosse la moglie a poter divorziare, ma era solo il maschio a poter ottenere di separarsi dalla donna che aveva sposato.

Il Talmud (letteralmente “Studio”), che contiene invece le riflessioni dei rabbini dal III al V secolo e che si presenta come un commento allargato alla Mishnah, spiega ulteriormente che in caso di adulterio il divorzio è necessario e che la donna ripudiata non potrà essere poi ripresa in moglie dal suo precedente marito (bGit 90a/b).

Rabbi Aqiba, il rabbino che aiutò Bar Kokhba nella rivolta contro i romani riconoscendolo come inviato da Dio e che morì per questo martire, famoso anche per la sua storia di amore con la moglie Rachel che lo sostenne per tutta la vita, aveva invece secondo la Mishnah una posizione ancora più duttile, ritenendo possibile il divorzio anche se una donna non trovava più grazia agli occhi del marito (Rabbi Aqiba, vissuto nella prima metà del II secolo è di poco posteriore a Shammai ed Hillel vissuti a cavallo dell’inizio dell’era cristiana).

Gesù visse così in un contesto in cui la possibilità del divorzio era tranquillamente ammessa, anche se il Talmud si affretta a precisare, citando Malachia 2,15-16, che il Signore detesta il ripudio, pur concedendolo (bGit 90b): «Nessuno tradisca la donna della sua giovinezza. Perché io detesto il ripudio, dice il Signore Dio d'Israele».

Anche il mondo greco e romano conosceva l’istituto del divorzio. L’antichità ha conservato contratti di separazione come quello di Zois ed Antipatro che dichiarano di essersi accordati «di essere separati l’uno dall’altro, rompendo l’unione formatasi per contratto davanti allo stesso tribunale nel corrente anno XVII di Cesare Augusto, e Zois riconosce di aver ricevuto da Antipatro di mano dalla casa di lui ciò che egli ebbe in dote: abiti per il valore di 120 dracme d’argento e un paio di orecchini d’oro. Perciò d’ora in poi è nullo il contratto di matrimonio, e né Zois né un altro per lei potrà procedere contro Antipatro per richiedere la restituzione della dote, né alcuna delle due parti contro l’altra per quanto riguarda la coabitazione o altra materia fino al presente giorno, a partire dal quale è lecito a Zois sposare un altro uomo e ad Antipatro un’altra donna, senza che nessuno dei due sia perseguibile».

In taluni ordinamenti del mondo ellenistico era lecito che anche la donna – e non solo l’uomo – chiedesse il divorzio. Ne è testimone lo stesso Nuovo Testamento: infatti il vangelo di Marco, che evidentemente mostra di conoscere un contesto greco-romano e non solo ebraico, aggiunge al divieto per l’uomo cristiano di divorziare, anche il reciproco femminile: «Se la donna ripudia il marito e ne sposa un altro, commette adulterio» (Mc 10,12).

Le stesse domande che i discepoli pongono al maestro, mostrano quanto fosse nuovo e scandaloso il suo insegnamento (cfr. Mc 10,10 «Rientrati a casa, i discepoli lo interrogarono di nuovo su questo argomento»).

Il nuovo insegnamento di Gesù sul matrimonio è evidentemente un’espressione della nuova alleanza e del nuovo precetto dell’amore, che però si radica in quel disegno originario di Dio sull’uomo che è narrato in Genesi: è un comandamento antico e nuovo (cfr. 1Gv 2,7), antico quanto il Padre nei cieli e nuovo quanto il dono di Cristo in croce. Pietro Lombardo, riprendendo un’esegesi che già era stata dei rabbini, scriveva commentando l’immagine biblica della donna tratta dal fianco dell’uomo e non dal capo, né dai piedi: «Veniva formata non una dominatrice e neppure una schiava dell’uomo, ma una sua compagna» (Sentenze 3, 18, 3).

Nel disegno di Dio l’uomo e la donna sono pensati non come esseri isolati, bensì per divenire “una sola carne”. Gesù annuncia l’evento straordinario che Dio stesso è presente nel loro amore sponsale («l’uomo non separi ciò che Dio ha congiunto» Mc 10,9).

Proprio il dolore che si scatena alla scoperta del tradimento manifesta quanto l’amore sia nato per durare, perché solo la «carità resta»: essa sola può entrare nell’eternità. Dinanzi al tradimento dell’amore, la persona percepisce che la fine della relazione attenta al senso stesso della vita. Se l’amore finisce, allora tutto muore, allora niente ha significato.

E quando domandano al Cristo perché Dio abbia permesso nell’antica alleanza tramite Mosè il divorzio, Gesù risponde facendo riferimento al grande nemico dell’uomo: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma» (Mc 10,5).

L’amore si può corrompere proprio perché esiste il male nel cuore dell’uomo, ma, per questo, può anche ritrovare la sua linfa vitale, nel mistero della croce di Cristo e del perdono che essa conferisce.

L’indissolubilità dell’amore sponsale di Cristo per gli uomini si consumerà il venerdì santo, nel dono totale che Cristo farà di sé, dinanzi all’umanità dimentica di lui. Di quell’amore l’amore umano diviene sacramento.

Come canterà Iacopone da Todi:
«
O Amor, devino Amore,
Amor, che non èi amato!
» (Lauda 39).

Come gli farà eco Santa Maria Maddalena de’ Pazzi che ripeterà: «Amore, Amore! O Amore, che non sei né amato né conosciuto! O anime create d’amore e per amore, perché non amate l’Amore? E chi è l’Amore se non Dio, e Dio è l’amore? Deus charitas est!».


Fraternamente CaterinaLD

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13/03/2010 21:01
 
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IL MATRIMONIO
E' INDISSOLUBILE, LO DICE LA RAGIONE

di Giacomo Samek Lodovici

Il divorzio è una violazione della promessa solenne con cui i coniugi si impegnano per tutta la vita, donando la propria identità (che non muta). Ed è un grave torto nel confronti dei figli.

Nel dibattito sul divorzio che si svolse trent’anni fa all’epoca del referendum, e nei discorsi su questo tema che si fanno tutt’oggi, si deve rilevare un grande equivoco, cioè l’erronea convinzione secondo cui solo i credenti, mediante la fede, possono sostenere l’indissolubilità del matrimonio.

Quest’opinione è un errore madornale, perché l’indissolubilità del matrimonio religioso non è solo una verità di fede, bensì anche una verità che qualunque uomo può comprendere, anche so non è cristiano, anche se é ateo, mediante la sola ragione. Sembra paradossale, ma possiamo dimostrare che non lo è.

Per comprenderlo bisogna riflettere sul contenuto del consenso che gli sposi esprimono nel momento del matrimonio. Infatti il matrimonio nasce dal consenso libero degli sposi che si promettono:
a) l’amore esclusivo, la donazione per tutta la vita;
b) l’apertura alla generazione/educazione dei figli.

Chi non promette queste due cose, o le promette ma senza essere sincero, non è mai state sposato. Perciò in casi simili è improprio dire che il matrimonio tra due persone é annullato, perché più propriamente esso è nullo fin dal principio, vale a dire non c’è mai stato. Quindi, in questi casi non si verifica una rescissione del legame matrimoniale e dunque non c’è divorzio, bensì solo la presa di consapevolezza che tale legame non è mai sussistito.

Cerchiamo ora di chiarire un altro punto: due coniugi promettono di amarsi, ma che cosa significa amare? Che cos’e l’amore a cui si impegnano vicendevolmente? Amare una persona non significa, almeno non primariamente, provare trasporto verso di essa, avvertirne il fascino, esserne emotivamente attratti, «stare bene insieme». L’amore è accompagnato sovente dal sentimento, dal fascino, dallo stare bene insieme, ma non coincide con il sentimento (che pure è importante), col fascino e con lo stare bene insieme. Il greco e non cristiano Aristotele già nel IV sec. a.C. ha spiegato che l’amore è un atto della volontà, che amare significa volere il bene dell’altro (cfr. Retorica 2,4). Dire «ti voglio bene» significa cioè «io voglio il tuo bene», cioè io desidero il tuo bene, cerco di realizzare il tuo bene, di procurarlo, di favorirlo. Per es., anche se mio figlio mi disgusta per il suo comportamento, al punto che ne sono emotivamente respinto, io lo amo se cerco di favorire lo stesso il suo bene, la sua crescita, ecc. Non solo, ma amare una persona significa amarla nella sua identità, cioè amare il suo io, che è unico e irripetibile, amarla per ciò che è in modo irripetibile, non per delle caratteristiche che anche altre persone possono avere, come la simpatia, la bellezza, la ricchezza, la gradevolezza, la gentilezza, ecc. Amare veramente una persona non significa tendere verso la sua simpatia, bellezza, ricchezza, ecc.; chi ama la simpatia, bellezza, ricchezza di una persona, in realtà non sta amando quella persona, ma sta amando se stesso e, consapevolmente o inconsapevolmente, sta usando l’altra persona per il proprio bene. È sempre il grande e non cristiano Aristotele (Etica Nicomachea 1156a 14-24) a dirlo.

Ciò significa che due persone sposate, avendo promesso di amarsi per tutta la vita hanno promesso di cercare il bene del coniuge, di amarlo nella sua identità irripetibile ed unica. Se il contenuto della loro promessa non era questo, essi non sono mai stati sposati.

Ebbene, se consideriamo che nel momento del consenso due sposi si sono impegnati liberamente e consapevolmente:
a) ad amarsi (cioè a volere e cercare il bene dell’altro) in mode esclusivo;
b) ad essere aperti alla vita,
possiamo comprendere con la sola ragione, senza ricorrere alla fede, che il matrimonio è indissolubile.
Infatti, i coniugi si sono presi l’impegno di volersi reciprocamente bene, di donarsi all’altro, al suo io unico e irripetibile, alla sua identità personale. Ora, le caratteristiche fisiche e psicologiche di un uomo possono mutare: un uomo bello, simpatico ed estroverso, può diventare brutto, antipatico, e introverso; un uomo ricco, famoso può diventare povero, disonorato; ma l’identità personale di un uomo non può mutare: è lo stesso uomo quello che si vede nelle foto da neonato, da bambino, da adolescente, da adulto, da vecchio, anche se le sue caratteristiche fisiche fossero completamente cambiate, anche se da ricco, bello, potente, simpatico, ecc., fosse diventato povero, brutto e antipatico.

Ma, allora, se gli sposi si sono impegnati ad amare per tutta la vita il coniuge in ciò che costituisce la sua identità personale, visto che questa identità non muta mai, la loro promessa non può essere sciolta, dunque il matrimonio è indissolubile e il divorzio è un atto gravemente immorale.

Si potrebbe obbiettare: quando tra due coniugi non c’è più il sentimento iniziale il matrimonio non sussiste più, perché il sentimento non si può produrre.

Rispondiamo: a parte il fatto che il sentimento lo si può in parte favorire (per es. cercando di vivere tutta la vita come dei fidanzati, che si fanno sorprese e regali, che escono alla sera, ecc.), comunque, come abbiamo già detto, nel consenso gli sposi non promettono di restare insieme finché provano uno slancio emotivo nel confronti del proprio sposo, bensì promettono di cercare il suo bene per tutta la vita.

Con ciò possiamo anche comprendere perché la separazione, a certe condizioni, è ammissibile. I coniugi possono separarsi se si giunge ad una situazione in cui la stessa convivenza è diventata veramente insostenibile. perché essi non hanno promesso di vivere insieme per tutta la vita, bensì hanno promesso di volere il bene dell’altro per tutta la vita, quindi possono separarsi se la convivenza provoca realmente del male all’altro; ma ciascuno dovrà continuare a cercare il bene dell’altro, perciò dovrà sempre mantenere la disponibilità a tornare a vivere insieme, dovrà cercare di restaurare il rapporto, cioè cercare di ripristinare le condizioni della convivenza, in quanto dalla convivenza sortisce per ciascuno degli sposi quel bene che è il mutuo aiuto, il sostegno e la collaborazione reciproca. L’esperienza insegna che con questa disposizione la ricomposizione non è un’utopia, ed esistono dei casi di ricongiungimento.

Con ciò abbiamo ricostruito una prima motivazione dell’indissolubilità del matrimonio, che vale per qualsiasi matrimonio. Ma se ne può indicare una seconda, che vale nel caso in cui dal matrimonio siano nati dei figli. E chiaro che il contesto propizio per la nascita, la crescita e l’educazione di un figlio è quello di una famiglia stabile e solida. Ebbene, il divorzio è una grave ingiustizia nei riguardi del figli, li fa sempre soffrire molto, li ferisce psicologicamente e affettivamente. Ci sono inoltre studi che rilevano i rischi di problemi interpersonali dei figli dei divorziati (Cfr. bibliografia) e che mostrano come sia falso sostenere che quando i genitori non vanno d’accordo è meglio per i figli che essi divorzino: soltanto nelle famiglie dove i conflitti sono fortissimi il bambino può trarre beneficio dalla eliminazione del conflitto, ma tale tipo di conflittualità è rara, perciò nella stragrande maggioranza dei casi sarebbe meglio per i figli se i genitori, invece di divorziare, rimanessero insieme e affrontassero i loro problemi.

Ora, gli sposi si impegnano nel momento del matrimonio ad educare e a crescere figli. Essendosi presi questo impegno, o anche per il solo fatto di aver generato i figli, siccome col divorzio fanno soffrire i figli, essi compiono una grave ingiustizia nei loro riguardi. Ci sono poi dei dati interessanti (cfr. box) che mostrano che sono molto più felici i coniugi che decidono di non divorziare rispetto a quelli che decidono di farlo, e che il divorzio e tutt’altro che indolore, ed ha rilevanti ripercussioni penali, compresi molti omicidi. A chi ritiene, come faceva Montaigne, che il divorzio favorisce la durata del matrimonio, perché i mariti amano di più le mogli nel timore di perderle, bisogna ribattere che chi sa di essere unito indissolubilmente cerca in tutti i modi di far andar bene il matrimonio; chi invece sa che il matrimonio si può sciogliere, si impegnerà di meno per assicurarne la riuscita (per esempio avrà meno scrupoli a tradire il coniuge), perché sa che tanto esso non è definitivo (uno studente che studia in una scuola difficile, si impegna di meno so sa che i suoi genitori lo trasferiranno in una scuola facile per evitargli la bocciatura, nel caso in cui egli vada male). Un’ultima considerazione. Poiché il matrimonio è indissolubile, è fondamentale un cammino accurato di preparazione ad esso, e non bisogna farsi scoraggiare dalla rappresentazione offerta dai media circa il matrimonio: non è vero che è impossibile restare insieme tutta la vita e che i matrimoni si sfasciano inesorabilmente. Ci sono moltissimi casi di matrimoni riusciti ed inossidabili, che non vengono perô mai rappresentati, dove i problemi che sorgono vengono superati, e dove la fedeltà non è rigidità, perché l’amore ricomincia ogni giorno, e può essere creativamente inventato ogni giorno.

Perciò il matrimonio non è il porto dell’amore o la sua morte, ma la sua scuola, in cui continuamente si scopre l’inesauribile ricchezza dello sposo: come dice Plutarco, l’amore «non solo non va mai soggetto all’autunno, ma fiorisce anche tra i capelli bianchi e le rughe, e si prolunga fino alla morte e alla tomba».

© il Timone n. 30, Febbraio 2004
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Domande e risposte sulla questione dei divorziati e risposati


Avvenire 6 giugno 2010
INTERVISTA

«Divorziati e risposati perché no e quando sì alla Comunione»


Separati e divorziati possono fare la Comunione? E se no, perché? Sono le domande che molti si fanno di fronte a una norma della Chiesa cattolica che spesso ha suscitato, anche tra i credenti, non pochi dubbi e dolorose lacerazioni di coscienza. Quando poi alcuni casi di cronaca ripropongono il problema a dimensione mediatica, la questione torna di grande attualità.

Avvenire ha girato le domande più diffuse a monsignor Eugenio Zanetti, patrono stabile presso il Tribunale ecclesiastico regionale lombardo e responsabile del gruppo «La Casa», che nella diocesi di Bergamo fa accompagnamento spirituale e consulenza canonica per persone separate, divorziate o risposate.

Monsignor Zanetti, qual è esattamente la posizione dei separati e dei divorziati di fronte all’accesso ai sacramenti?
È quella descritta molto bene nel Direttorio di pastorale familiare per la Chiesa in Italia e in altri documenti. Occorre distinguere fra coloro che si trovano in una situazione di «separazione», di «divorzio», di «nuova unione». Per i separati (che non hanno in corso una convivenza), soprattutto per chi ha subito la separazione, di per sé non ci sono impedimenti oggettivi ad accedere a Confessione e Comunione. Tuttavia, se un separato ha avuto grosse responsabilità e magari ha fatto del male all’altro coniuge o ai figli, questi per accedere fruttuosamente ai sacramenti dovrà fare un cammino di pentimento e, per quanto possibile, di riparazione del male fatto. Inoltre non vengono meno i suoi doveri nei confronti dei figli. Non bisogna dimenticare che i sacramenti non sono degli atti magici, ma comportano degli autentici cammini di conversione e di fede. Se una persona separata, pur non convivendo, vivesse dissolutamente, non sarebbe nelle condizioni di poter ricevere i sacramenti.

E per chi, dopo la separazione, si trova ora divorziato, che cosa succede?
Parliamo per ora dei divorziati che non hanno avviato una nuova convivenza o un matrimonio civile. Per la Chiesa il matrimonio, una volta celebrato in modo valido, è per sempre, cioè non può esser cancellato da nessuna potestà umana. Per questo, se in certe occasioni e a certe condizioni la Chiesa può riconoscere la legittimità della separazione per evitare mali maggiori, ritiene invece negativo il ricorso al divorzio. Quindi, se una persona è ricorsa al divorzio volendo cancellare definitivamente il suo matrimonio e magari, così facendo, ha causato ulteriore male e dolore all’altro coniuge o ai figli, per accedere ai sacramenti essa dovrà attestare un sincero pentimento e, per quanto possibile, attuare qualche gesto riparatore. Per chi, invece, ha subito il divorzio o ha dovuto accedervi per tutelare legittimi interessi propri o dei figli (senza tuttavia disprezzo verso il matrimonio, ritenuto comunque ancora in essere davanti a Dio e alla Chiesa), non vi sono impedimenti oggettivi per accedere ai sacramenti.

Dunque qual è l’impedimento effettivo: il divorzio in sé o la convivenza con altra persona successiva al divorzio?
Per separati o divorziati ciò che impedisce l’accesso ai sacramenti, oltre a eventuali condizioni morali soggettive non adeguate, è il fatto oggettivo di aver avviato una nuova convivenza o un matrimonio civile. È questa scelta, ulteriore rispetto alla separazione o al divorzio, che pone in una condizione in grave contrasto con il Vangelo del Signore riguardante l’amore fra un uomo e una donna sigillato con il matrimonio. L’insegnamento cristiano che la Chiesa cattolica continua a trasmettere propone agli uomini una scelta matrimoniale unica e indissolubile, fedele e aperta alla vita, per il bene dei coniugi e quello dei figli: un amore che riflette e testimonia la stessa qualità di amore che Dio ha verso gli uomini e che trova nel rapporto di Gesù con la Chiesa il suo riferimento e la sua mediazione ecclesiale. Il matrimonio religioso è una realtà incancellabile, proprio come incancellabile ed eterno è l’amore divino per l’umanità. Chi avvia una nuova unione contraddice con la sua scelta quanto indicato dal Signore e quindi si pone in una condizione oggettiva cosiddetta irregolare. Ed è proprio questa condizione irregolare che non pone i presupposti sufficienti per accedere ai sacramenti. Ciò però non significa emettere un giudizio sulle coscienze, dove solo Dio vede. Inoltre, il fatto di non poter accedere ai sacramenti non è assolutamente un indice di esclusione dalla vita della Chiesa; anche i divorziati risposati possono continuare a fare cammini di fede che li rendano partecipi e attivi nella comunità ecclesiale.

Qualcuno si chiede: perché non può comunicarsi neanche il coniuge che, pur non avendo alle spalle un matrimonio religioso, ha sposato civilmente una persona divorziata?

L’impedimento per accedere ai sacramenti è, come già detto, la scelta di avviare un’unione di tipo coniugale non fondata sul matrimonio religioso. Quindi le persone non sposate che decidono di avviare una convivenza o un matrimonio civile con persona separata o divorziata sanno che il loro partner è già legato ad un matrimonio e che quindi non potranno realizzare con esso un matrimonio cristiano; e tuttavia decidono di avviare un’unione con lui. La Chiesa, posta davanti a questa decisione, pur rispettando le persone, deve tuttavia esercitare un servizio di verità, che è anche un atto di carità, nel richiamare queste persone alle conseguenze della loro scelta. Ma anche queste persone possono continuare a fare un cammino nella Chiesa.

Ma perché l’omicida pentito e regolarmente confessato può comunicarsi e il divorziato risposato che eventualmente si riveli ottimo marito e buon genitore non può farlo?
Il giudizio sul fatto che una persona sia nelle condizioni oggettive di accedere o meno ai sacramenti non è da intendersi come un giudizio sulla sua coscienza: giudizio questo che spetta solo a Dio. Perciò, soffermarsi a fare confronti con gli altri non giova; al contrario dovremmo sempre avere a cuore, oltre alla nostra salvezza, anche quella degli altri, come Gesù ci insegna.

Non dobbiamo allora scandalizzarci se un nostro fratello, che ha commesso anche gravi delitti come per esempio l’omicidio, compiendo un autentico cammino di pentimento, revisione e riparazione, riceve il perdono di Dio anche attraverso la Confessione. Anche a chi vive in una situazione matrimoniale irregolare Gesù propone un cammino di conversione; e certamente in questo cammino ha il suo valore un serio impegno nel voler bene alle persone vicine, nell’educare bene i figli, nel partecipare alla vita della comunità, nell’essere attivo nella carità e nell’impegno sociale.

Quanto poi ai mezzi spirituali che la Chiesa è chiamata ad amministrare, coloro che vivono in queste situazioni matrimoniali potranno usufruirne nella misura in cui le loro scelte di vita lo permettono. Se essi decidono di non modificare il loro stile di vita di indole coniugale, contrario quindi all’insegnamento cristiano, non potranno accedere ai sacramenti, poiché i sacramenti per essere ricevuti con frutto esigono appunto il proposito di vivere secondo tale insegnamento. Per loro però ci saranno altri mezzi e cammini penitenziali e di comunione che, sia pur non arrivando attualmente alla pienezza sacramentale, comunque tendono all’incontro con la misericordia e l’amore di Dio.

Che cosa succede se il divorziato risposato cessa la convivenza con la persona sposata in seconde nozze civili?
Inoltre può accostarsi alla comunione una persona che pur trovandosi nelle condizioni della domanda precedente abbia notoriamente relazioni extraconiugali o si trovi in una situazione di notorietà personale tale da suscitare scandalo nella comunità ecclesiale?
Non dovremmo mai porci di fronte ai nostri fratelli con un atteggiamento giudicante o condannante; questo, anche perché dall’esterno non sempre è possibile conoscere e valutare la complessità della vita di una persona. Ciò non significa però lasciare tutto al giudizio e alle decisioni private o individualistiche; al contrario tutti devono confrontasi con l’insegnamento della Chiesa ed anche affidarsi all’accompagnamento di sapienti guide spirituali. Se quindi, a un certo punto chi vive una situazione matrimoniale irregolare decide di continuare a vivere insieme, ma astenendosi dai rapporti sessuali; o se cessa la convivenza, c’è separazione o divorzio dal matrimonio civile, o morte di uno dei partner, viene meno un impedimento oggettivo per accedere ai sacramenti.

Tuttavia, occorrerà valutare la globalità della vita morale e religiosa della persona, l’effettivo cammino di conversione in atto, così che l’essere riammessi ai sacramenti si inserisca in un autentico cammino di fede e in una rispettosa vita ecclesiale. In tutto ciò la Chiesa ha a cuore sia il singolo, sia l’attenzione ad evitare che il cammino di questi sia di scandalo per gli altri fedeli. Questo vale per tutti, anche (e forse con maggiore attenzione) per coloro che ricoprono un particolare ruolo pubblico.

Mimmo Muolo

Fraternamente CaterinaLD

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PAPA: BISOGNA APPROFONDIRE RIFLESSIONE SU DIVORZIATI RISPOSATI

(ASCA) - Citta' del Vaticano, 23 nov

''Certo che bisogna farlo'': papa Benedetto XVI risponde senza esitazioni al giornalista Peter Seewald, che nel libro-intervista 'Luce del mondo' gli chiede se, come aveva gia' affermato una volta da cardinale, il tema della comunione ai divorziati risposati debba essere ''approfondito''.

''Da un lato - spiega papa Ratzinger - vi e' la certezza di quello che il Signore ci dice: il matrimonio contratto nella fede e' indissolubile. E' una parola che non possiamo manipolare, dobbiamo mantenerla intatta, anche se contraddice gli stili di vita oggi dominanti''.

Tuttavia, aggiunge il pontefice, ''quello che si puo' fare e' da un lato analizzare piu' a fondo la questione della validita' dei matrimoni. Fino ad oggi il diritto ecclesiastico ha presupposto che chi contraeva matrimonio sapesse che cos'e' il matrimonio. Nell'odierno groviglio di opinioni e in una costellazione totalmente mutata, e' piu' facile che si creda che corrisponde maggiormente alla normalita' rompere un matrimonio. E allora e' necessario chiedersi come riconoscere la validita' e come sia possibile operare per una guarigione''.

Per il pontefice, pero', ''cedere o abbassare l'indice non aiuterebbe la societa' ad innalzare il proprio livello morale. Mantenere come criterio di giudizio cio' che e' difficile, fare in modo che sia questo il metro al quale gli uomini possano sempre commisurarsi, e' un compito necessario affinche' non seguano altre cadute''. Per questo, ''la pastorale dovra' allora vedere come restare vicina alla singola persona e, anche nella situazione diciamo irregolare, aiutarla a credere in Gesu' Cristo Redentore, a credere alla sua bonta', e che Lui e' ancora li' per lei, anche se non puo' ricevere la Comunione; ed e' restare nella Chiesa, anche se la condizione in cui vive non e' in ordine dal punto di vista del diritto ecclesiastico''.



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05/01/2011 12:46
 
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Comunione ai divorziati risposati. Le giuste precisazioni di Andrea Tornielli e la sofferenza di Benedetto XVI

Carissimi amici, si nota una grande confusione quando si parla di separati, divorziati e divorziati risposati. Non e' mai chiara la differenza fra gli uni e gli altri e soprattutto chi e' ammesso alla Comunione. Addirittura c'e' chi pensa che i divorziati siano fuori dalla Chiesa (falso ed assurdo!).
Diciamo che i soliti preti televisivi contribuiscono, e non poco, a generare confusione e spesso si ha la sensazione che nemmeno loro conoscano le regole. Ci sono poi alcuni presentatori (piu' le donne degli uomini) che diffondono il loro verbo via etere e sono sicuri che il sacerdote li caccerebbe vedendoli davanti all'altare. C'e' poi chi e' convinto che la Comunione sia una sorta di diritto sindacale da rivendicare.
L'articolo di Tornielli chiarisce molti punti
.

Raffaella blog.

Il dramma dei divorziati esclusi dalla comunione

di Andrea Tornielli

Quando Silvio Berlusconi si accosta alla comunione, magari sotto l’occhio di qualche telecamera, la polemica è assicurata. Il Cavaliere lo ha fatto anche due giorni fa, durante i funerali di Matteo Miotto, l’alpino ucciso in Afghanistan, e L’Unità di ieri l’ha notato, seppur sommessamente, con un trafiletto, nel quale si leggeva: «Alla fine il premier con un guizzo va davanti al sacerdote che gli dà l’ostia, nonostante sia divorziato e quindi, per la Chiesa, “macchiato dal peccato”».

Una polemica ben più grande era stata sollevata nell’aprile 2010, in occasione dei funerali di Raimondo Vianello. Anche quella volta Berlusconi fece la comunione e il filmato che lo ritrae mentre riceve la particola è ancora scaricabile sul sito di Famiglia Cristiana. Il settimanale dei Paolini scrisse delle proteste di numerosissimi lettori i quali chiedevano «come mai un noto divorziato risposato» potesse accedere ai sacramenti e fece commentare l’accaduto al teologo don Silvano Sirboni. Quest’ultimo, pur lamentando la spettacolarizzazione del gesto, riconobbe, a norma di diritto canonico, che stava alla coscienza del fedele giudicare se avesse o no le disposizioni interiori richieste per fare la comunione, spiegando che non spettava al sacerdote impedire il gesto, «a meno che la persona in questione non sia scomunicata o interdetta con pubblica sentenza».

Il teologo precisò pure che «dal punto di vista formale, cioè secondo un’interpretazione strettamente giuridica delle norme canoniche che riguardano la situazione coniugale», a Berlusconi era «concesso di accostarsi alla mensa eucaristica», in quanto sì divorziato e in attesa di un secondo divorzio, «ma giuridicamente è al momento un semplice separato e non convivente».

Al di là delle chiarificazioni, resta invece aperto il problema. Un problema che non riguarda soltanto alcuni leader politici con più di un matrimonio alle spalle, ma centinaia di migliaia di persone, le quali vorrebbero accostarsi al sacramento dell’eucaristia ma non possono farlo perché vivono in situazioni irregolari.

Talvolta si rischiano generalizzazioni, come quella di pensare che i divorziati siano in quanto tali esclusi dalla comunione. Non è vero. Lo sono soltanto i divorziati che essendosi sposati in chiesa la prima volta, hanno contratto dopo la separazione un nuovo matrimonio civile oppure convivono stabilmente con un nuovo compagno o compagna
.

Pur essendo la prassi dell’esclusione molto antica, ancora nei primi anni Settanta, la Congregazione per la dottrina della fede ammetteva la «probata praxis in foro interno», cioè l’ammissione ai sacramenti per scelta di coscienza approvata dal confessore. Le rigorose norme attuali risalgono all’esortazione apostolica «Familiaris Consortio», di Giovanni Paolo II (1981) e sono state ribadite da Benedetto XVI nella «Sacramentum Caritatis» (2007). Papa Ratzinger, che più di una volta ha mostrato attenzione al problema, raccogliendo le indicazioni emerse dal Sinodo dei vescovi definisce «situazioni dolorose» quelle «in cui si trovano non pochi fedeli che, dopo aver celebrato il sacramento del matrimonio, hanno divorziato e contratto nuove nozze».

Un problema pastorale «spinoso e complesso, una vera piaga dell’odierno contesto sociale che intacca in misura crescente gli stessi ambienti cattolici». Ma ribadisce la prassi della Chiesa, «fondata sulla Sacra Scrittura», di non ammettere ai sacramenti i divorziati risposati. Ratzinger invita comunque i divorziati risposati, «nonostante la loro situazione», ad appartenere alla Chiesa, «che li segue con speciale attenzione, nel desiderio che coltivino, per quanto possibile, uno stile cristiano di vita attraverso la partecipazione» alla messa.

Poco dopo l’elezione, nel luglio 2005,
dialogando con i sacerdoti in Valle d’Aosta, Benedetto XVI ammise che «il problema» sul quale «nessuno di noi ha una ricetta fatta», è «molto difficile e deve essere ancora approfondito»: «Da una parte dobbiamo rispettare l’inscindibilità del sacramento» del matrimonio e dall’altra si deve fare sentire «che amiamo queste persone che soffrono anche per noi. E noi dobbiamo anche soffrire con loro».

 Il Giornale, 5 gennaio 2011

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19/03/2011 18:03
 
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[SM=g1740733]  ATTENZIONE!!!!!

sul Corriere della sera di oggi 19 marzo 2011 è uscita la consueta provocazione:


Milano, la Diocesi sdogana il divorzio
al via il corso su come educare i figli

L'iniziativa per aiutare le coppie che si separano a non provocare danni ai loro bambini
"Non vogliamo entrare nelle cause della separazione", spiega il responsabile del progetto

di ZITA DAZZI

Genitori ancora. È il titolo di un corso voluto dalla Diocesi di Milano per aiutare le famiglie che si separano a non fare danni ai loro figli. Un corso che sdogana ufficialmente il divorzio e che si terrà in una sede grande come quella del Centro diocesano di via Sant’Antonio 5, in una sala da 300 posti. Assunto di partenza è che «in una crisi familiare bisogna tutelare i bambini. Non lavorare perché la coppia resti unita a tutti i costi».

Inizia fra una settimana, l’obiettivo è quello che viene coltivato da decenni nei consultori pubblici che organizzano incontri per spiegare ai genitori separati quel che è necessario fare per non danneggiare i figli nel corso delle inevitabili diatribe legate alla rottura della famiglia. «Non vogliamo entrare nei motivi della separazione, cerchiamo solo di parlare agli adulti del vissuto dei bambini e dei ragazzi durante il crollo familiare», spiega il professo Ezio Aceti, psicologo coordinatore del progetto.

La Chiesa di Milano già da tempo ha avviato una profonda riflessione sul tema delle famiglie in crisi. Lo stesso arcivescovo Dionigi Tettamanzi, con la celebre “Lettera ai separati e divorziati”, due anni fa, invitò le parrocchie a non escludere chi viveva una situazione di crisi e chiedeva perdono per il passato atteggiamento di chiusura verso persone così sofferenti. Ne sono seguite conseguenze pratiche sempre più importanti. Da un mese, la parrocchia del Redentore in via Palestrina ha iniziato un percorso spirituale rivolto ai separati. Adesso parte il corso per tutelare i bambini coinvolti nei divorzi.

«Abbiamo deciso di scendere in campo perché nei nostri 34 consultori vediamo sempre più coppie in crisi, un fenomeno di massa e trasversale — spiega Alfonso Colzani, responsabile del Servizio diocesano per la famiglia — che non può essere affrontato in un’ottica confessionale. È necessario offrire un contributo di riflessione che apra spiragli di speranza a chi vive questi drammi. Il punto di partenza è che si rimane padri e madri anche quando la famiglia finisce. Il nostro titolo è “genitori ancora”, non “coniugi ancora”».

Nella sala del Centro San’Antonio non verranno affrontati i singoli casi — per le consulenze personali ci sono i consultori della Diocesi — ma verrà fornita una chiave di lettura generale. «Il bambino piccolo — spiega lo psicologo Aceti — vive la separazione in modo angosciante perché pensa di esserne lui la causa e mette in moto una serie di strategie perché ha paura di essere abbandonato. I più grandi invece capiscono che i genitori hanno deciso di separarsi autonomamente, ma cercano di manipolare il papà e la mamma. Gli adulti a loro volta cercano di manipolare i figli per usarli nello scontro con l’ex partner. Ma così si fanno solo danni».

Il suggerimento degli esperti convocati dalla Diocesi non sarà quello di ricostruire un’unione ormai disfatta. Non più. «Oltre a un’impostazione generale per favorire il dialogo e la speranza — dice Aceti —  daremo anche consigli molto pratici. Perché il rapporto con i figli sia pedagogicamente corretto, perché i bambini vivano in modo sereno pur nella ferita, i genitori devono cercare di non parlar male l’uno dell’altro, fin dove possibile. E devono cercare di avere sulle scelte importanti un atteggiamento condiviso».



*******************************************************

 Come dobbiamo interpretare questa notizia?

bè, così come è stata data lascia ameraggiati e perplessi, sopratutto per la frase:
«in una crisi familiare bisogna tutelare i bambini. Non lavorare perché la coppia resti unita a tutti i costi».

se è vero il primo contesto che è la tutela dei figli, non è affatto vero che non possa o non debba intesserarci verificare se qualche divisione può essere ricostruita, specialmente laddove non ci sono ancora figli dalle nuove coppie concubine e adulterine....

Possiamo dire che l'iniziativa può essere buona ed utile soprattutto per quella quantità di famiglie allargate con più figli da genitori diversi....queste famiglie o concubinati sono irrisolvibili, soprattutto appunto, se si sono risposati civilmente.... in tal caso non possiamo fare più nulla, loro potrebbero ricorrere alla Sacra Rota, ma resterebbe un problema loro personale mentre a livello comunitario è interessante il futuro di questi figli....
 
Il nostro compito ha queste priorità in caso di separati o divorziati:
 
- se solo separati, tentare ogni strada per farli riappacificare.....
- se separati con figli usare anche la loro disponibilità e partecipazione affinchè la Famiglia possa ricomporsi....
- se divorziati ma NON risposati... POSSIAMO LAVORARE ANCORA affinchè cessino l'adulterio e si concentrino sulla testimonianza che devono dare ai figli, preoccupandosi esclusivamente di loro....
- se divorziati e risposati, l'unica soluzione è recuperare il rapporto CRISTIANO CON I FIGLI e con loro.... affinchè RICONOSCENDO L'ERRORE e non potendo purtroppo tornare indietro, vivano cercando di mettere riparo ai danni fatti, con una vita esemplare, SENZA PRETENDERE L'EUCARESTIA, approfondire la Comunione SPIRITUALE ed aiutare i figli a non commettere gli stessi errori...
 

Il tutto ovviamente non deve far sentire queste persone ripudiate dalla Chiesa o dalla comunità, al contrario, pur manifestando ad essi il loro errore, far sentire loro che sono amati e che Cristo chiede ad essi degli sforzi in più, dei sacrifici per riparare il danno fatto, ma SENZA SENSI DI COLPA piuttosto BATTAGLIERI invece, andare incontro al Signore, cercando di superare ogni falso moralismo, ma anche ogni facile indulgenza....

 Così si è espresso Benedetto XVI, infatti, nel Discorso alla Sacra Rota del gennaio 2011:


Non esiste, pertanto, un matrimonio della vita ed un altro del diritto: non vi è che un solo matrimonio, il quale è costitutivamente vincolo giuridico reale tra l'uomo e la donna, un vincolo su cui poggia l'autentica dinamica coniugale di vita e di amore. Il matrimonio celebrato dagli sposi, quello di cui si occupa la pastorale e quello messo a fuoco dalla dottrina canonica, sono una sola realtà naturale e salvifica, la cui ricchezza dà certamente luogo a una varietà di approcci, senza però che ne venga meno l'essenziale identità. L'aspetto giuridico è intrinsecamente legato all'essenza del matrimonio. Ciò si comprende alla luce di una nozione non positivistica del diritto, ma considerata nell'ottica della relazionalità secondo giustizia.

Il diritto a sposarsi, o ius connubii, va visto in tale prospettiva. Non si tratta, cioè, di una pretesa soggettiva che debba essere soddisfatta dai pastori mediante un mero riconoscimento formale, indipendentemente dal contenuto effettivo dell'unione.

Il diritto a contrarre matrimonio presuppone che si possa e si intenda celebrarlo davvero, dunque nella verità della sua essenza così come è insegnata dalla Chiesa. Nessuno può vantare il diritto a una cerimonia nuziale. Lo ius connubii, infatti, si riferisce al diritto di celebrare un autentico matrimonio. Non si negherebbe, quindi, lo ius connubii laddove fosse evidente che non sussistono le premesse per il suo esercizio, se mancasse, cioè, palesemente la capacità richiesta per sposarsi, oppure la volontà si ponesse un obiettivo che è in contrasto con la realtà naturale del matrimonio.

A questo proposito vorrei ribadire quanto ho scritto dopo il Sinodo dei Vescovi sull'Eucaristia: «Data la complessità del contesto culturale in cui vive la Chiesa in molti Paesi, il Sinodo ha, poi, raccomandato di avere la massima cura pastorale nella formazione dei nubendi e nella previa verifica delle loro convinzioni circa gli impegni irrinunciabili per la validità del sacramento del Matrimonio. Un serio discernimento a questo riguardo potrà evitare che impulsi emotivi o ragioni superficiali inducano i due giovani ad assumere responsabilità che non sapranno poi onorare (cfr Propositio 40). Troppo grande è il bene che la Chiesa e l'intera società s'attendono dal matrimonio e dalla famiglia su di esso fondata per non impegnarsi a fondo in questo specifico ambito pastorale. Matrimonio e famiglia sono istituzioni che devono essere promosse e difese da ogni possibile equivoco sulla loro verità, perché ogni danno arrecato ad esse è di fatto una ferita che si arreca alla convivenza umana come tale» (Esort. ap. postsinodale Sacramentum caritatis, 22 febbraio 2007, n. 29: AAS 99 [2007], p. 130).

IL DIRITTO A CONTRARRE MATRIMONIO CATTOLICO PRESUPPONE L'ACCETTAZIONE DELLA DOTTRINA STESSA SULL'INTERO SACRAMENTO...
SPOSARSI IN CHIESA NON E' UN DIRITTO SE ALLA BASE MANCASSE QUESTO PRESUPPOSTO...



nel gennaio 2010, nel medesimo incontro il Papa ebbe a ricordare:


"Occorre rifuggire da richiami pseudopastorali che situano le questioni su un piano meramente orizzontale, in cui ciò che conta è soddisfare le richieste soggettive per giungere ad ogni costo alla dichiarazione di nullità, al fine di poter superare, tra l’altro, gli ostacoli alla ricezione dei sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia. Il bene altissimo della riammissione alla Comunione eucaristica dopo la riconciliazione sacramentale, esige invece di considerare l'autentico bene delle persone, inscindibile dalla verità della loro situazione canonica. Sarebbe un bene fittizio, e una grave mancanza di giustizia e di amore, spianare loro comunque la strada verso la ricezione dei sacramenti, con il pericolo di farli vivere in contrasto oggettivo con la verità della propria condizione personale".



 impossibile fraintendere le sue parole.....

benvengano dunque iniziative che sostengano il progresso di fede dei Figli dei coniugi separati, divorziati o risposati ed anche il recupero alla fede dei genitori, MA SENZA COMPROMESSI ALLA DOTTRINA SUL SACRAMENTO DEL MATRIMONIO O PER LA RICEZIONE DELL'EUCARESTIA.....


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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"Man mano che la Chiesa rinuncia a ribadire opportune et importune soprattutto le verità più scomode, il mondo moderno erode il territorio della libertas Ecclesiae e la riduce al silenzio" (Mario Palmaro)

Se l'assoluzione diventa un diritto civile
di Mario Palmaro

Un sacerdote cattolico può negare l’assoluzione a un penitente?

Sembrerebbe di no, almeno a leggere certa stampa laica. A Treviso una donna, determinata a sposare civilmente un uomo divorziato, si è vista rifiutare l’assoluzione dal confessore. Apriti cielo: la Repubblica, usando le tinte fosche del dramma, descrive la signora che esce “dal confessionale con le lacrime agli occhi”, e parla di “fedele trevigiana messa alla porta”.

Il superiore del convento, da un lato, e il reggente della penitenzieria apostolica, dall’altro, hanno spiegato che il comportamento del religioso non ha nulla di anomalo, e che anzi «quel sacerdote non poteva comportarsi diversamente». Normale amministrazione dei sacramenti, insomma. Ma allora, come è possibile che la Chiesa venga processata in pubblica piazza mediatica, per aver agito in coerenza con ciò che continua a fare da secoli? Lo “scandalo” del mondo secolarizzato ha i suoi perché, e converrà provare a metterli in fila.

In primo luogo, l’uomo moderno è stato abituato a ragionare con le categorie dei diritti, abolendo completamente la prospettiva dei doveri. In questa visione distorta, Dio non ha diritti, mentre l’uomo detiene i cosiddetti diritti civili, che implicano la perfetta sovrapposizione tra desiderio e sua realizzazione. Se un fedele desidera confessarsi, significa che desidera l’assoluzione: ergo, qualcuno gliela deve dare. Il fedele è come un consumatore, la Chiesa eroga un servizio a richiesta. Il fedele è un cliente, che com’è noto, ha sempre ragione anche quando a torto. Ovviamente, questa non è più la Chiesa, ma la sua caricatura; e tuttavia, i maitre à penser della cultura laica esigono dal Papa e dai preti questa “attualizzazione” del cattolicesimo alle esigenze della modernità.

Seconda osservazione: quando parlano di dottrina cattolica, i giornali laici dimostrano un’ignoranza enciclopedica, alimentata da un atteggiamento pretestuoso: tutto serve per gettare una cattiva luce sul cattolicesimo e, soprattutto, sulla sua esigente morale in materia sessuale e familiare. Se il confessore avesse rifiutato l’assoluzione a un evasore impenitente, quelli di Repubblica l’avrebbero portato in trionfo, perché per loro “divorziare è bello”, mentre non pagare le tasse è imperdonabile.

Terza, fondamentale considerazione: se questi falsi scandali contro la Chiesa stanno diventando sempre più frequenti, lo dobbiamo all’esistenza di un “cattolicesimo senza dottrina”. Un cattolicesimo che ha deciso di abolire alcuni spezzoni delle verità insegnate della Chiesa, con la scusa che “tanto queste cose la gente le sa”, argomento perfetto per fare in modo che la gente smetta di saperle. Ma ogni volta che una verità cattolica viene taciuta o non viene testimoniata, lo spazio di libertà della Chiesa si riduce. Se, ad esempio, per decenni si abolisce la categoria teologia del “castigo di Dio”, quando poi un buon cattolico la rispolvera, subisce il linciaggio mediatico. Se si ripete per decenni che l’inferno è vuoto, quando poi qualcuno torna a parlare della salvezza delle anime viene chiesta la sua perizia psichiatrica.

Se taluni sacerdoti sviliscono la confessione, trasformandola in una chiacchierata dal lieto fine garantito, ecco che il prete che rifiuta l’assoluzione per mancanza del proposito di non più peccare viene messo in croce dai media. Man mano che la Chiesa rinuncia a ribadire opportune et importune soprattutto le verità più scomode, il mondo moderno erode il territorio della libertas Ecclesiae e la riduce al silenzio.


Come sempre, insomma, l’apologetica fronteggia due minacce: da un lato, l’animosità dei nemici della Chiesa; dall’altro, lo stato confusionale interno al mondo cattolico, incarnato da quei cattolici che hanno pensato fosse buona cosa sostituire – metaforicamente – i tarallucci al pane azzimo delle ostie. Come se la Chiesa fosse statafondata da Cristo perché tutto finisse, appunto, a tarallucci e vino.

Come se i cristiani fossero stati chiamati a portare nel mondo zucchero piuttosto che sale. Una religione dell’amore, ma senza il sacrificio.

Un cattolicesimo rappresentato, più che da Roma, da Woodstock, dove i confessori assolvono tutti, a prescindere. E dove Gesù perdona la peccatrice, ma le raccomanda di tornarsene a peccare come e più di prima. Per fare contenta Repubblica.

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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[SM=g1740733] ATTENZIONE! Da un pò di giorni, in rete, gira voce di un Documento firmato dall'allora cardinale Ratzinger il quale avrebbe aperto una strada, a suo tempo, per "ripensare" sulla dottrina della Comunione ai divorziati .... è vero? non è vero? o è piuttosto un problema di interpretazioni? e come intenderla questa interpretazione?
che il Matrimonio, intanto, è indissolubile e su questo nessun cardinale, nessun Papa può modificare questa dottrina.... [SM=g1740727]
ciò che la Chiesa può fare, non modificare, è intervenire sulla cosìddetta DISCIPLINA della Chiesa la quale si regola appunto, sulla dottrina che non è modificabile...
la Chiesa che è MADRE E MAESTRA può intervenire specificando, anche caso per caso, una disciplina che NON modificando la Dottrina, può venire incontro agli "indisciplinati", ossia, in questo caso, i divorziati risposati.... [SM=g1740733]

Ma leggiamo attentamente questo Documento.....

Cinque domande-quesiti, una risposta: la carità nella verità. Un'analisi del testo di Joseph Ratzinger sui divorziati risposati

L’Osservatore Romano ha pubblicato in questi giorni uno dei testi meno conosciuti del card. Joseph Ratzinger, presentato nel 1998 in qualità di Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, a proposito di alcune obiezioni contro la dottrina della Chiesa circa la recezione della Comunione eucaristica da parte di fedeli divorziati risposati.
L’esigenza di fare chiarezza su un argomento così delicato è molto grande, soprattutto nel contesto storico odierno dove i criteri di unità familiare e di indissolubilità coniugale sono quotidianamente messi alla prova. Il testo di J. Ratzinger, “La pastorale del matrimonio  deve fondarsi sulla verità”, prende le mosse da una Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede – firmata dallo stesso Ratzinger il 14 settembre 1994 – circa la recezione della Comunione eucaristica da parte di fedeli divorziati risposati, accolta con qualche critica in diversi ambiti ecclesiastici.
Nel 1998, il Prefetto del Sant’Uffizio ritenne opportuno pubblicare un ulteriore documento chiarificatore per rispondere ad alcune obiezioni contro la dottrina e la prassi della Chiesa, e che proveremo adesso a sintetizzare in questa nostra riflessione.

***
1. Molti ritengono, adducendo alcuni passi del Nuovo Testamento, che la parola di Gesù sull'indissolubilità del matrimonio permetta un'applicazione flessibile.


A questa prima obiezione – rivolta al Magistero che, in relazione all'indissolubilità del matrimonio, non considererebbe in modo sufficiente quei passi biblici dove verrebbe menzionata una qualche "eccezione" alla parola del Signore sull'indissolubilità del matrimonio (Mt 5, 32; 19, 9) e riguardo al caso di separazione a motivo della fede (1 Cor 7, 12-16) – il card. Ratzinger fa notare che: “la dottrina della Chiesa sull'indissolubilità del matrimonio deriva dalla fedeltà nei confronti della parola di Gesù. Gesù definisce chiaramente la prassi veterotestamentaria del divorzio come una conseguenza della durezza di cuore dell'uomo. Egli rinvia – al di là della legge – all'inizio della creazione, alla volontà del Creatore, e riassume il suo insegnamento con le parole: «L'uomo dunque non separi ciò che Dio ha congiunto» (Mc 10, 9).
Con la venuta del Redentore il matrimonio viene quindi riportato alla sua forma originaria a partire dalla creazione e sottratto all'arbitrio umano […]. La parola di Gesù sull'indissolubilità del matrimonio è il superamento dell'antico ordine della legge nel nuovo ordine della fede e della grazia”.
La possibilità di separazione,  prospetta da S. Paolo in 1 Cor 7, riguarda i matrimoni fra un coniuge cristiano e uno non battezzato. [SM=g1740733] Come ha poi chiarito, infatti, la riflessione teologica successiva sono da considerare “sacramento” – e dunque orientati al rispetto  dell'indissolubilità assoluta – i matrimoni tra battezzati che per loro natura si collocano nell'ambito della fede in Cristo. “Così – precisa Ratzinger – la sistematizzazione teologica ha classificato giuridicamente l'indicazione di San Paolo come «privilegium paulinum», cioè come possibilità di sciogliere per il bene della fede un matrimonio non sacramentale. L'indissolubilità del matrimonio veramente sacramentale rimane salvaguardata; non si tratta quindi di una eccezione alla parola del Signore”.




2. Altri obiettano che la tradizione patristica lascerebbe spazio per una prassi più differenziata, che renderebbe meglio giustizia alle situazioni difficili; la Chiesa cattolica in proposito potrebbe imparare dal principio di "economia" delle Chiese orientali separate da Roma.

La seconda obiezione pone in rilievo una certa tolleranza e flessibilità sul piano pastorale, accolta da alcuni in epoca patristica in riferimento a singole situazioni difficili (sebbene i Padri si attenessero chiaramente al principio dottrinale dell'indissolubilità del matrimonio).
In base a questo criterio le Chiese orientali separate da Roma avrebbero sviluppato una certa condiscendenza benevola in singole situazioni difficili, pur rimanendo fedeli alla dottrina dell'indissolubilità del matrimonio. In determinati casi, infatti, le Chiese orientali permetterebbero un secondo e anche un terzo matrimonio. Prassi, quest’ultima, che la Chiesa cattolica non avrebbe mai condannato esplicitamente.
[SM=g1740733] Ma a tale obiezione il Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede risponde: “Esiste un chiaro consenso dei Padri a riguardo dell'indissolubilità del matrimonio. Poiché questa deriva dalla volontà del Signore, la chiesa non ha nessun potere in proposito. Proprio per questo il matrimonio cristiano fu fin dall'inizio diverso dal matrimonio della civiltà romana […]. La Chiesa del tempo dei Padri esclude chiaramente divorzio e nuove nozze, e ciò per fedele obbedienza al Nuovo Testamento”.

In seconda battuta, J. Ratzinger – tenuto conto che singoli Padri, a esempio Leone Magno, cercarono soluzioni «pastorali» per rari casi limite – riferisce che: “nella Chiesa del tempo dei Padri i fedeli divorziati risposati non furono mai ammessi ufficialmente alla sacra comunione dopo un tempo di penitenza. E' vero invece che la Chiesa non ha sempre rigorosamente revocato in singoli paesi concessioni in materia, anche se esse erano qualificate come non compatibili con la dottrina e la disciplina”.
Si giunse così a due sviluppi contrapposti: nelle Chiese orientali separate da Roma, una maggiore flessibilità e disponibilità al compromesso in situazioni matrimoniali difficili si protrasse ulteriormente nel secondo millennio e condusse ad una prassi sempre più liberale; “oggi – sottolinea Ratzinger – in molte Chiese orientali esiste una serie di motivazioni di divorzio, anzi già una «teologia del divorzio», che non è in nessun modo conciliabile con le parole di Gesù sull'indissolubilità del matrimonio”.  [SM=g1740722]
Nella Chiesa d’Occidente, grazie alla riforma gregoriana, fu recuperata la concezione originaria dei Padri. “Al riguardo – chiarisce il Prefetto del Sant’Uffizio – non è esatta l'affermazione che la Chiesa cattolica avrebbe semplicemente tollerato la prassi orientale. Certamente Trento non ha pronunciato nessuna condanna formale. I canonisti medievali nondimeno ne parlavano continuamente come di una prassi abusiva. Inoltre vi sono testimonianze secondo cui gruppi di fedeli ortodossi, che divenivano cattolici, dovevano firmare una confessione di fede con un'indicazione espressa dell'impossibilità di un secondo matrimonio”.




3. Molti propongono di permettere eccezioni dalla norma ecclesiale, sulla base dei tradizionali principi dell'epicheia e della aequitas canonica.

“Epicheia” ed “aequitas canonica” sono due termini di matrice filosofico-teologica molto vasti, utilizzati in questo nostro caso specifico nell’ambito giuridico del Diritto Canonico.
L’obiezione relativa al significato teologico del primo termine (Epicheia) farebbe riferimento  al cosiddetto caso di «buona fede»: se un fedele è convinto che il suo primo matrimonio è stato nullo, anche se non è riuscito ad ottenere la dichiarazione di nullità, sulla base dell’epicheia potrebbe contrarre una seconda unione canonica e, sempre sulla stessa base, la Chiesa dovrebbe permetterlo (cf. Angel Rodríguez Luño, in “L’Osservatore Romano”, 26.11.1997).
Ma, “Epicheia ed aequitas canonica – afferma il card. Ratzinger citando i contributi teologici di don Marcuzzi e del prof. Rodríguez Luño – sono di grande importanza nell'ambito delle norme umane e puramente ecclesiali, ma non possono essere applicate nell'ambito di norme, sulle quali la Chiesa non ha nessun potere discrezionale. L'indissolubilità del matrimonio è una di queste norme, che risalgono al Signore stesso e pertanto vengono designate come norme di «diritto divino». La Chiesa non può neppure approvare pratiche pastorali – ad esempio nella pastorale dei Sacramenti –, che contraddirebbero il chiaro comandamento del Signore.
In altre parole: se il matrimonio precedente di fedeli divorziati risposati era valido, la loro nuova unione in nessuna circostanza può essere considerata come conforme al diritto, e pertanto per motivi intrinseci non è possibile una recezione dei sacramenti.
La coscienza del singolo è vincolata senza eccezioni a questa norma”; e ancora, spiega Ratzinger divenuto Pontefice: “Poiché il matrimonio ha essenzialmente un carattere pubblico-ecclesiale e vale il principio fondamentale «Nemo iudex in propria causa» («Nessuno è giudice nella propria causa»), le questioni matrimoniali devono essere risolte in foro esterno. Qualora fedeli divorziati risposati ritengano che il loro precedente matrimonio non era mai stato valido, essi sono pertanto obbligati a rivolgersi al competente tribunale ecclesiastico, che dovrà esaminare il problema obiettivamente e con l'applicazione di tutte le possibilità giuridicamente disponibili”.



4. Molti accusano l'attuale Magistero di proporre una visione preconciliare del matrimonio.

C’è chi sostiene, fra i teologi, che i documenti magisteriali più recenti mostrano una concezione naturalistica e legalistica del matrimonio; il Concilio Vaticano II – dicono ancora – ha superato questo ostacolo descrivendo il matrimonio in modo più personalistico come patto di amore e di vita, aprendo così la possibilità di risolvere le situazioni difficili in modo più umano.
Fondato sul medesimo concetto alcuni studiosi si chiedono se non si possa parlare di “morte del matrimonio”, quando il legame personale dell'amore fra due sposi non esiste più, e se in questo caso  il Papa non abbia la possibilità di sciogliere il matrimonio.
Il futuro Pontefice ricorda però che nei recenti pronunciamenti ecclesiastici alcune affermazioni centrali si fondano sulla “Gaudium et spes” (una delle quattro Costituzioni prodotte dal Concilio). “E' tuttavia inadeguato – precisa J. Ratzinger – introdurre una contrapposizione fra la visione personalistica e quella giuridica del matrimonio. Il Concilio non ha rotto con la concezione tradizionale del matrimonio, ma l'ha sviluppata ulteriormente”; e ancora: “Che il matrimonio vada molto al di là dell'aspetto puramente giuridico affondando nella profondità dell'umano e nel mistero del divino, è già in realtà sempre stato affermato con la parola "sacramento", ma certamente spesso non è stato messo in luce con la chiarezza che il Concilio ha dato a questi aspetti”. [SM=g1740733]
Per quanto concerne la seconda obiezione Ratzinger risponde: “Se la Chiesa accettasse la teoria che un matrimonio è morto, quando i due coniugi non si amano più, allora approverebbe con questo il divorzio e sosterrebbe l'indissolubilità del matrimonio in modo ormai solo verbale, ma non più in modo fattuale. L'opinione, secondo cui il Papa potrebbe eventualmente sciogliere un matrimonio sacramentale consumato, irrimediabilmente fallito, deve pertanto essere qualificata come erronea. Un tale matrimonio non può essere sciolto da nessuno. Gli sposi nella celebrazione nuziale si promettono la fedeltà fino alla morte”.
[SM=g1740721]


5. Molti affermano che l'atteggiamento della Chiesa nella questione dei fedeli divorziati risposati è unilateralmente normativo e non pastorale.

La quinta ed ultima obiezione critica contro la dottrina e la prassi della Chiesa riguarda alcuni problemi di carattere pastorale. Si reputa eccessivamente legalistico il linguaggio dei documenti ecclesiali, e la durezza della legge prevarrebbe sulla comprensione per situazioni umane drammatiche.
L’uomo moderno, così, non riuscirebbe più a comprendere un simile linguaggio, e mentre la storia sacra racconta di un Gesù disponibile all’ascolto per le necessità di tutti gli uomini (soprattutto per quanti vivono ai margini della società), la Chiesa mostrerebbe un atteggiamento rigoroso e da giudice nei confronti di alcune persone – ferite per alcuni errori commessi – escludendole dai sacramenti o da certi incarichi.
Il Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede ammette che determinate forme espressive del Magistero ecclesiale risultino, talvolta, di difficile comprensione. “Queste – precisa – devono essere tradotte dai predicatori e dai catechisti in un linguaggio, che corrisponda alle diverse persone e al loro rispettivo ambiente culturale. Il contenuto essenziale del Magistero ecclesiale in proposito deve però essere mantenuto. Non può essere annacquato per supposti motivi pastorali, perché esso trasmette la verità rivelata”.  [SM=g1740733]
Per quanto riguarda la posizione del Magistero sul problema dei fedeli divorziati risposati, J. Ratzinger sottolinea che “i recenti documenti della Chiesa uniscono in modo molto equilibrato le esigenze della verità con quelle della carità”.
 “Se in passato – conclude il Prefetto del Sant’Uffizio – nella presentazione della verità talvolta la carità forse non risplendeva abbastanza, oggi è invece grande il pericolo di tacere o di compromettere la verità in nome della carità. Certamente la parola della verità può far male ed essere scomoda. Ma è la via verso la guarigione, verso la pace, verso la libertà interiore. Una pastorale, che voglia veramente aiutare le persone, deve sempre fondarsi sulla verità. Solo ciò che è vero può in definitiva essere anche pastorale. «Allora conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,32)”.




[SM=g1740733] appare dunque evidente che l'interpretazione di alcuni che vorrebbero Ratzinger favorevole al divorzio è errata ....





[Modificato da Caterina63 10/12/2011 12:24]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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[SM=g1740733] Benedetto XVI invita a riscoprire la vocazione al Matrimonio

Cari Amici, dopo avervi offerto il Messaggio del santo Padre ai Fidanzati e che trovate qui: www.gloria.tv/?media=263072
vi offriamo ora il meraviglioso insegnamento che il Papa ha recenteme offerto alla Chiesa per riscoprire la vocazione al Matrimonio, ed impostare le catechesi e le pastorali sull'importanza di una corretta sessualità e la riscoperta della castità per valorizzare il vero ed autentico amore....
Buona meditazione.
it.gloria.tv/?media=266744

Movimento Domenicano del Rosario
www.sulrosario.org
info@sulrosario.org



[SM=g1740717]

[SM=g1740738]
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23/04/2012 15:38
 
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CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE

LETTERA
AI VESCOVI DELLA CHIESA CATTOLICA
CIRCA LA RECEZIONE
DELLA COMUNIONE EUCARISTICA
DA PARTE DI FEDELI DIVORZIATI
RISPOSATI

 

Eccellenza Reverendissima,

1. L'Anno Internazionale della Famiglia è un'occasione particolarmente importante per riscoprire le testimonianze dell'amore e della sollecitudine della Chiesa per la famiglia(1) e, nel contempo, per riproporre le inestimabili ricchezze del matrimonio cristiano che della famiglia costituisce il fondamento.

2. In questo contesto una speciale attenzione meritano le difficoltà e le sofferenze di quei fedeli che si trovano in situazioni matrimoniali irregolari(2). I pastori sono chiamati a far sentire la carità di Cristo e la materna vicinanza della Chiesa; li accolgano con amore, esortandoli a confidare nella misericordia di Dio, e suggerendo loro con prudenza e rispetto concreti cammini di conversione e di partecipazione alla vita della comunità eccesiale(3).

3. Consapevoli però che l'autentica comprensione e la genuina misericordia non sono mai disgiunti dalla verità(4), i pastori hanno il dovere di richiamare a questi fedeli la dottrina della Chiesa riguardante la celebrazione dei sacramenti e in particolare la recezione dell'Eucaristia. Su questo punto negli ultimi anni in varie regioni sono state proposte diverse soluzioni pastorali secondo cui certamente non sarebbe possibile un'ammissione generale dei divorziati risposati alla Comunione eucaristica, ma essi potrebbero accedervi in determinati casi, quando secondo il giudizio della loro coscienza si ritenessero a ciò autorizzati. Così, ad esempio, quando fossero stati abbandonati del tutto ingiustamente, sebbene si fossero sinceramente sforzati di salvare il precedente matrimonio, ovvero quando fossero convinti della nullità del precedente matrimonio, pur non potendola dimostrare nel foro esterno, oppure quando avessero già trascorso un lungo cammino di riflessione e di penitenza, o anche quando per motivi moralmente validi non potessero soddisfare l'obbligo della separazione.

Da alcune parti è stato anche proposto che, per esaminare oggettivamente la loro situazione effettiva, i divorziati risposati dovrebbero intessere un colloquio con un sacerdote prudente ed esperto. Questo sacerdote però sarebbe tenuto a rispettare la loro eventuale decisione di coscienza ad accedere all'Eucaristia, senza che ciò implichi una autorizzazione ufficiale.

In questi e simili casi si tratterebbe di una soluzione pastorale tollerante e benevola per poter rendere giustizia alle diverse situazioni dei divorziati risposati.

4. Anche se è noto che soluzioni pastorali analoghe furono proposte da alcuni Padri della Chiesa ed entrarono in qualche misura anche nella prassi, tuttavia esse non ottennero mai il consenso dei Padri e in nessun modo vennero a costituire la dottrina comune della Chiesa né a determinarne la disciplina. Spetta al Magistero universale della Chiesa, in fedeltà alla Sacra Scrittura e alla Tradizione, insegnare ed interpretare autenticamente il «depositum fidei».

Di fronte alle nuove proposte pastorali sopra menzionate questa Congregazione ritiene pertanto doveroso richiamare la dottrina e la disciplina della Chiesa in materia. Fedele alla parola di Gesù Cristo(5), la Chiesa afferma di non poter riconoscere come valida una nuova unione, se era valido il precedente matrimonio. Se i divorziati si sono risposati civilmente, essi si trovano in una situazione che oggettivamente contrasta con la legge di Dio e perciò non possono accedere alla Comunione eucaristica, per tutto il tempo che perdura tale situazione(6).

Questa norma non ha affatto un carattere punitivo o comunque discriminatorio verso i divorziati risposati, ma esprime piuttosto una situazione oggettiva che rende di per sé impossibile l'accesso alla Comunione eucaristica: «Sono essi a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell'unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall'Eucaristia. C'è inoltre un altro peculiare motivo pastorale; se si ammettessero queste persone all'Eucaristia, i fedeli rimarrebbero indotti in errore e confusione circa la dottrina della Chiesa sull'indissolubilità del matrimonio»(7).

Per i fedeli che permangono in tale situazione matrimoniale, l'accesso alla Comunione eucaristica è aperto unicamente dall'assoluzione sacramentale, che può essere data «solo a quelli che, pentiti di aver violato il segno dell'Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l'indissolubilità del matrimonio. Ciò importa, in concreto, che quando l'uomo e la donna, per seri motivi - quali, ad esempio, l'educazione dei figli - non possono soddisfare l'obbligo della separazione, "assumano l'impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi"»(8). In tal caso essi possono accedere alla comunione eucaristica, fermo restando tuttavia l'obbligo di evitare lo scandalo.

5. La dottrina e la disciplina della Chiesa su questa materia sono state ampiamente esposte nel periodo postconciliare dall'Esortazione Apostolica «Familiaris consortio». L'Esortazione, tra l'altro, ricorda ai pastori che, per amore della verità, sono obbligati a ben discernere le diverse situazioni e li esorta a incoraggiare la partecipazione dei divorziati risposati a diversi momenti della vita della Chiesa. Nello stesso tempo ribadisce la prassi costante e universale, «fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla Comunione eucaristica i divorziati risposati»(9), indicandone i motivi. La struttura dell'Esortazione e il tenore delle sue parole fanno capire chiaramente che tale prassi, presentata come vincolante, non può essere modificata in base alle differenti situazioni.

6. Il fedele che convive abitualmente «more uxorio» con una persona che non è la legittima moglie o il legittimo marito, non può accedere alla Comunione eucaristica. Qualora egli lo giudicasse possibile, i pastori e i confessori, date la gravità della materia e le esigenze del bene spirituale della persona(10) e del bene comune della Chiesa, hanno il grave dovere di ammonirlo che tale giudizio di coscienza è in aperto contrasto con la dottrina della Chiesa(11). Devono anche ricordare questa dottrina nell'insegnamento a tutti i fedeli loro affidati.

Ciò non significa che la Chiesa non abbia a cuore la situazione di questi fedeli, che, del resto, non sono affatto esclusi dalla comunione ecclesiale. Essa si preoccupa di accompagnarli pastoralmente e di invitarli a partecipare alla vita ecclesiale nella misura in cui ciò è compatibile con le disposizioni del diritto divino, sulle quali la Chiesa non possiede alcun potere di dispensa(12). D'altra parte, è necessario illuminare i fedeli interessati affinché non ritengano che la loro partecipazione alla vita della Chiesa sia esclusivamente ridotta alla questione della recezione dell'Eucaristia. I fedeli devono essere aiutati ad approfondire la loro comprensione del valore della partecipazione al sacrificio di Cristo nella Messa, della comunione spirituale(13), della preghiera, della meditazione della Parola di Dio, delle opere di carità e di giustizia(14).

7. L'errata convinzione di poter accedere alla Comunione eucaristica da parte di un divorziato risposato, presuppone normalmente che alla coscienza personale si attribuisca il potere di decidere in ultima analisi, sulla base della propria convinzione(15), dell'esistenza o meno del precedente matrimonio e del valore della nuova unione. Ma una tale attribuzione è inammissibile(16). Il matrimonio infatti, in quanto immagine dell'unione sponsale tra Cristo e la sua Chiesa, e nucleo di base e fattore importante nella vita della società civile, è essenzialmente una realtà pubblica.

8. É certamente vero che il giudizio sulle proprie disposizioni per l'accesso all'Eucaristia deve essere formulato dalla coscienza morale adeguatamente formata. Ma è altrettanto vero che il consenso, col quale è costituito il matrimonio, non è una semplice decisione privata, poiché crea per ciascuno dei coniugi e per la coppia una situazione specificamente ecclesiale e sociale. Pertanto il giudizio della coscienza sulla propria situazione matrimoniale non riguarda solo un rapporto immediato tra l'uomo e Dio, come se si potesse fare a meno di quella mediazione ecclesiale, che include anche le leggi canoniche obbliganti in coscienza. Non riconoscere questo essenziale aspetto significherebbe negare di fatto che il matrimonio esiste come realtà della Chiesa, vale a dire, come sacramento.

9. D'altronde l'Esortazione «Familiaris consortio», quando invita i pastori a ben distinguere le varie situazioni dei divorziati risposati, ricorda anche il caso di coloro che sono soggettivamente certi in coscienza che il precedente matrimonio, irreparabilmente distrutto, non era mai stato valido(17). Si deve certamente discernere se attraverso la via di foro esterno stabilita dalla Chiesa vi sia oggettivamente una tale nullità di matrimonio. La disciplina della Chiesa, mentre conferma la competenza esclusiva dei tribunali ecclesiastici nell'esame della validità del matrimonio dei cattolici, offre anche nuove vie per dimostrare la nullità della precedente unione, allo scopo di escludere per quanto possibile ogni divario tra la verità verificabile nel processo e la verità oggettiva conosciuta dalla retta coscienza(18).

Attenersi al giudizio della Chiesa e osservare la vigente disciplina circa I obbligatorietà della forma canonica in quanto necessaria per la validità dei matrimoni dei cattolici, è ciò che veramente giova al bene spirituale dei fedeli interessati. Infatti, la Chiesa è il Corpo di Cristo e vivere nella comunione ecclesiale è vivere nel Corpo di Cristo e nutrirsi del Corpo di Cristo. Ricevendo il sacramento dell'Eucaristia, la comunione con Cristo Capo non può mai essere separata dalla comunione con i suoi membri, cioè con la sua Chiesa. Per questo il sacramento della nostra unione con Cristo è anche il sacramento dell'unità della Chiesa. Ricevere la Comunione eucaristica in contrasto con le norme della comunione ecclesiale è quindi una cosa in sé contraddittoria. La comunione sacramentale con Cristo include e presuppone l'osservanza, anche se talvolta difficile, dell'ordinamento della comunione ecclesiale, e non può essere retta e fruttifera se il fedele, volendo accostarsi direttamente a Cristo, non rispetta questo ordinamento.

10. In armonia con quanto sinora detto, è da realizzare pienamente il desiderio espresso dal Sinodo dei Vescovi, fatto proprio dal Santo Padre Giovanni Paolo II e attuato con impegno e con lodevoli iniziative da parte di Vescovi, sacerdoti, religiosi e fedeli laici: con sollecita carità fare tutto quanto può fortificare nell'amore di Cristo e della Chiesa i fedeli che si trovano in situazione matrimoniale irregolare. Solo così sarà possibile per loro accogliere pienamente il messaggio del matrimonio cristiano e sopportare nella fede la sofferenza della loro situazione. Nell'azione pastorale si dovrà compiere ogni sforzo perché venga compreso bene che non si tratta di nessuna discriminazione, ma soltanto di fedeltà assoluta alla volontà di Cristo che ci ha ridato e nuovamente affidato l'indissolubilità del matrimonio come dono del Creatore. Sarà necessario che i pastori e la comunità dei fedeli soffrano e amino insieme con le persone interessate, perché possano riconoscere anche nel loro carico il giogo dolce e il carico leggero di Gesù(19). Il loro carico non è dolce e leggero in quanto piccolo o insignificante, ma diventa leggero perché il Signore - e insieme con lui tutta la Chiesa - lo condivide. É compito dell'azione pastorale che deve essere svolta con totale dedizione, offrire questo aiuto fondato nella verità e insieme nell'amore.

Uniti nell'impegno collegiale di far risplendere la verità di Gesù Cristo nella vita e nella prassi della Chiesa, mi è grato professarmi dell'Eccellenza Vostra Reverendissima dev.mo in Cristo

Joseph Card. Ratzinger
Prefetto

+ Alberto Bovone
Arcivescovo tit. di Cesarea di Numidia
Segretario

Il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, nel corso dell'Udienza concessa al Cardinale Prefetto, ha approvato la presente Lettera, decisa nella riunione ordinaria di questa Congregazione, e ne ha ordinato la pubblicazione.

Roma, dalla Sede della Congregazione per la Dottrina della Fede, il 14 Settembre 1994, nella festa dell'Esaltazione della Santa Croce.


(1) Cf. Giovanni Paolo II, Lettera alle Famiglie (2 febbraio 1994), n. 3.

(2) Cf. Giovanni Paolo II, Esort. apost. Familiaris consortio, nn. 79-84: AAS 74 (1982) 180-186.

(3) Cf. Ibid., n. 84: AAS 74 (1982) 185; Lettera alle Famiglie, n. 5; Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1651.

(4) Cf. Paolo VI, Lett. enc. Humanae vitae, n. 29: AAS 60 (1968) 501; Giovanni Paolo II, Esort. apost. Reconciliatio et paenitentia, n. 34: AAS 77 (1985) 272; Lett. enc. Veritatis splendor, n. 95: AAS 85 (1993) 1208.

(5) Mc 10,11-12: «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un'altra, commette adulterio contro di lei; se la donna ripudia il marito e ne sposa un altro, commette adulterio».

(6) Cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1650; cf. anche n. 1640 e Concilio Tridentino, sess. XXIV: Denz.-Schoenm. 1797-1812.

(7) Esort. apost. Familiaris consortio, n. 84: AAS 74 (1982) 185-186.

(8) Ibid,. n. 84: AAS 74 (1982) 186; cf. Giovanni Paolo II, Omelia per la chiusura del VI Sinodo dei Vescovi, n. 7: AAS 72 (1982) 1082.

(9) Esort. apost. Familiaris consortio, n. 84: AAS 74 (1982) 185.

(10) Cf. 1 Cor 11,27-29.

(11) Cf. Codice di Diritto Canonico, can. 978 § 2.

(12) Cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1640.

(13) Cf. Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica su alcune questioni concernenti il Ministro dell'Eucaristia, III/4: AAS 74 (1983) 1007; S. Teresa di Avila, Camino de perfección, 35, 1; S. Alfonso M. de' Liguori, Visite al SS. Sacramento e a Maria Santissima.

(14) Cf. Esort. apost. Familiaris consortio, n. 84: AAS 74 (1982) 185.

(15) Cf. Lett. enc. Veritatis splendor, n. 55: AAS 85 (1993) 1178.

(16) Cf. Codice di Diritto Canonico, can. 1085 § 2.

(17) Cf. Esort. apost. Familiaris consortio, n. 84: AAS 74 (1982) 185.

(18) Cf. CIC, cann. 1536 § 2 e 1679 e CCEO, cann. 1217 § 2 e 1365 circa la forza probante delle dichiarazioni delle parti in tali processi.

(19) Cf. Mt 11,30.

 

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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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A proposito di alcune obiezioni contro la dottrina della Chiesa
circa la recezione della Comunione eucaristica
da parte di fedeli divorziati risposati
[1]

Joseph Card. Ratzinger

 

La Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede circa la recezione della Comunione eucaristica da parte di fedeli divorziati risposati del 14 settembre 1994 ha avuto una vivace eco in diverse parti della Chiesa. Accanto a molte reazioni positive si sono udite anche non poche voci critiche. Le obiezioni essenziali contro la dottrina e la prassi della Chiesa sono presentate qui di seguito in forma per altro semplificata.

Alcune obiezioni più significative - soprattutto il riferimento alla prassi ritenuta più flessibile dei Padri della Chiesa, che ispirerebbe la prassi delle Chiese orientali separate da Roma, così come il richiamo ai principi tradizionali dell'epicheia e della "aequitas canonica" - sono state studiate in modo approfondito dalla Congregazione per la Dottrina della Fede. Gli articoli dei Professori Pelland, Marcuzzi e Rodriguez Luño[2] sono stati elaborati nel corso di questo studio. I risultati principali della ricerca, che indicano la direzione di una risposta alle obiezioni avanzate, saranno ugualmente qui brevemente riassunti.

1. Molti ritengono, adducendo alcuni passi del Nuovo Testamento, che la parola di Gesù sull'indissolubilità del matrimonio permetta un'applicazione flessibile e non possa essere classificata in una categoria rigidamente giuridica.

Alcuni esegeti rilevano criticamente che il Magistero in relazione all'indissolubilità del matrimonio citerebbe quasi esclusivamente una sola pericope - e cioè Mc 10, 11-12 - e non considererebbe in modo sufficiente altri passi del Vangelo di Matteo e della 1a Lettera ai Corinzi. Questi passi biblici menzionerebbero una qualche "eccezione" alla parola del Signore sull'indissolubilità del matrimonio, e cioè nel caso di "porneia" (Mt 5, 32; 19, 9) e nel caso di separazione a motivo della fede (1 Cor 7, 12-16). Tali testi sarebbero indicazioni che i cristiani in situazioni difficili avrebbero conosciuto già nel tempo apostolico un'applicazione flessibile della parola di Gesù.

A questa obiezione si deve rispondere che i documenti magisteriali non intendono presentare in modo completo ed esaustivo i fondamenti biblici della dottrina sul matrimonio. Essi lasciano questo importante compito agli esperti competenti. Il Magistero sottolinea però che la dottrina della Chiesa sull'indissolubilità del matrimonio deriva dalla fedeltà nei confronti della parola di Gesù. Gesù definisce chiaramente la prassi veterotestamentaria del divorzio come una conseguenza della durezza di cuore dell'uomo. Egli rinvia - al di là della legge - all'inizio della creazione, alla volontà del Creatore, e riassume il suo insegnamento con le parole: "L'uomo dunque non separi ciò che Dio ha congiunto" (Mc 10, 9). Con la venuta del Redentore il matrimonio viene quindi riportato alla sua forma originaria a partire dalla creazione e sottratto all'arbitrio umano - soprattutto all'arbitrio del marito, per la moglie infatti non vi era in realtà la possibilità del divorzio. La parola di Gesù sull'indissolubilità del matrimonio è il superamento dell'antico ordine della legge nel nuovo ordine della fede e della grazia. Solo così il matrimonio può rendere pienamente giustizia alla vocazione di Dio all'amore ed alla dignità umana e divenire segno dell'alleanza di amore incondizionato di Dio, cioè "Sacramento" (cfr Ef 5, 32).

La possibilità di separazione, che Paolo prospetta in 1 Cor 7, riguarda matrimoni fra un coniuge cristiano ed uno non battezzato. La riflessione teologica successiva ha chiarito che solo i matrimoni tra battezzati sono "sacramento" nel senso stretto della parola e che l'indissolubilità assoluta vale solo per questi matrimoni che si collocano nell'ambito della fede in Cristo. Il cosiddetto "matrimonio naturale" ha la sua dignità a partire dall'ordine della creazione ed è pertanto orientato all'indissolubilità, ma può essere sciolto in determinate circostanze a motivo di un bene più alto - nel caso la fede. Così la sistematizzazione teologica ha classificato giuridicamente l'indicazione di San Paolo come "privilegium paulinum", cioè come possibilità di sciogliere per il bene della fede un matrimonio non sacramentale. L'indissolubilità del matrimonio veramente sacramentale rimane salvaguardata; non si tratta quindi di una eccezione alla parola del Signore. Su questo ritorneremo più avanti.

A riguardo della retta comprensione delle clausole sulla "porneia" esiste una vasta letteratura con molte ipotesi diverse, anche contrastanti. Fra gli esegeti non vi è affatto unanimità su questa questione. Molti ritengono che si tratti qui di unioni matrimoniali invalide e non di eccezioni all'indissolubilità del matrimonio. In ogni caso la Chiesa non può edificare la sua dottrina e la sua prassi su ipotesi esegetiche incerte. Essa deve attenersi all'insegnamento chiaro di Cristo.

2. Altri obiettano che la tradizione patristica lascerebbe spazio per una prassi più differenziata, che renderebbe meglio giustizia alle situazioni difficili; la Chiesa cattolica in proposito potrebbe imparare dal principio di "economia" delle Chiese orientali separate da Roma.

Si afferma che il Magistero attuale si appoggerebbe solo su di un filone della tradizione patristica, ma non su tutta l'eredità della Chiesa antica. Sebbene i Padri si attenessero chiaramente al principio dottrinale dell'indissolubilità del matrimonio, alcuni di loro hanno tollerato sul piano pastorale una certa flessibilità in riferimento a singole situazioni difficili. Su questo fondamento le Chiese orientali separate da Roma avrebbero sviluppato più tardi accanto al principio della "akribia", della fedeltà alla verità rivelata, quello della "oikonomia", della condiscendenza benevola in singole situazioni difficili. Senza rinunciare alla dottrina dell'indissolubilità del matrimonio, essi permetterebbero in determinati casi un secondo ed anche un terzo matrimonio, che d'altra parte è differente dal primo matrimonio sacramentale ed è segnato dal carattere della penitenza. Questa prassi non sarebbe mai stata condannata esplicitamente dalla Chiesa cattolica. Il Sinodo dei Vescovi del 1980 avrebbe suggerito di studiare a fondo questa tradizione, per far meglio risplendere la misericordia di Dio.

Lo studio di Padre Pelland mostra la direzione, in cui si deve cercare la risposta a queste questioni. Per l'interpretazione dei singoli testi patristici resta naturalmente competente lo storico. A motivo della difficile situazione testuale le controversie anche in futuro non si placheranno. Dal punto di vista teologico si deve affermare:

a. Esiste un chiaro consenso dei Padri a riguardo dell'indissolubilità del matrimonio. Poiché questa deriva dalla volontà del Signore, la chiesa non ha nessun potere in proposito. Proprio per questo il matrimonio cristiano fu fin dall'inizio diverso dal matrimonio della civiltà romana, anche se nei primi secoli non esisteva ancora nessun ordinamento canonico proprio. La Chiesa del tempo dei Padri esclude chiaramente divorzio e nuove nozze, e ciò per fedele obbedienza al Nuovo Testamento.

b. Nella Chiesa del tempo dei Padri i fedeli divorziati risposati non furono mai ammessi ufficialmente alla sacra comunione dopo un tempo di penitenza. E' vero invece che la Chiesa non ha sempre rigorosamente revocato in singoli paesi concessioni in materia, anche se esse erano qualificate come non compatibili con la dottrina e la disciplina. Sembra anche vero che singoli Padri, ad es. Leone Magno, cercarono soluzioni “pastorali” per rari casi limite.

c. In seguito si giunse a due sviluppi contrapposti:

- Nella Chiesa imperiale dopo Costantino si cercò, a seguito dell'intreccio sempre più forte di Stato e Chiesa, una maggiore flessibilità e disponibilità al compromesso in situazioni matrimoniali difficili. Fino alla riforma gregoriana una simile tendenza si manifestò anche nell'ambito gallico e germanico. Nelle Chiese orientali separate da Roma questo sviluppo continuò ulteriormente nel secondo millennio e condusse ad una prassi sempre più liberale. Oggi in molte Chiese orientali esiste una serie di motivazioni di divorzio, anzi già una "teologia del divorzio", che non è in nessun modo conciliabile con le parole di Gesù sull'indissolubilità del matrimonio. Nel dialogo ecumenico questo problema deve essere assolutamente affrontato.

- Nell'Occidente fu recuperata grazie alla riforma gregoriana la concezione originaria dei Padri. Questo sviluppo trovò in qualche modo una sanzione nel Concilio di Trento e fu riproposto come dottrina della Chiesa nel Concilio Vaticano II.

La prassi delle Chiese orientali separate da Roma, che è conseguenza di un processo storico complesso, di una interpretazione sempre più liberale - e che si allontanava sempre più dalla parola del Signore - di alcuni oscuri passi patristici così come di un non trascurabile influsso della legislazione civile, non può per motivi dottrinali essere assunta dalla Chiesa cattolica. Al riguardo non è esatta l'affermazione che la Chiesa cattolica avrebbe semplicemente tollerato la prassi orientale. Certamente Trento non ha pronunciato nessuna condanna formale. I canonisti medievali nondimeno ne parlavano continuamente come di una prassi abusiva. Inoltre vi sono testimonianze secondo cui gruppi di fedeli ortodossi, che divenivano cattolici, dovevano firmare una confessione di fede con un'indicazione espressa dell'impossibilità di un secondo matrimonio.

3. Molti propongono di permettere eccezioni dalla norma ecclesiale, sulla base dei tradizionali principi dell'epicheia e della aequitas canonica.

Alcuni casi matrimoniali, così si dice, non possono venire regolati in foro esterno. La Chiesa potrebbe non solo rinviare a norme giuridiche, ma dovrebbe anche rispettare e tollerare la coscienza dei singoli. Le dottrine tradizionali dell'epicheia e della aequitas canonica potrebbero giustificare dal punto di vista della teologia morale ovvero dal punto di vista giuridico una decisione della coscienza, che si allontani dalla norma generale. Soprattutto nella questione della recezione dei sacramenti la Chiesa dovrebbe qui fare dei passi avanti e non soltanto opporre ai fedeli dei divieti.

I due contributi di don Marcuzzi e del prof. Rodríguez Luño illustrano questa complessa problematica. In proposito si devono distinguere chiaramente tre ambiti di questioni:

a. Epicheia ed aequitas canonica sono di grande importanza nell'ambito delle norme umane e puramente ecclesiali, ma non possono essere applicate nell'ambito di norme, sulle quali la Chiesa non ha nessun potere discrezionale. L'indissolubilità del matrimonio è una di queste norme, che risalgono al Signore stesso e pertanto vengono designate come norme di "diritto divino". La Chiesa non può neppure approvare pratiche pastorali - ad esempio nella pastorale dei Sacramenti -, che contraddirebbero il chiaro comandamento del Signore. In altre parole: se il matrimonio precedente di fedeli divorziati risposati era valido, la loro nuova unione in nessuna circostanza può essere considerata come conforme al diritto, e pertanto per motivi intrinseci non è possibile una recezione dei sacramenti. La coscienza del singolo è vincolata senza eccezioni a questa norma.[3]

b. La Chiesa ha invece il potere di chiarire quali condizioni devono essere adempiute, perché un matrimonio possa essere considerato come indissolubile secondo l’insegnamento di Gesù. Nella linea delle affermazioni paoline in 1ª Cor 7 essa ha stabilito che solo due cristiani possano contrarre un matrimonio sacramentale. Essa ha sviluppato le figure giuridiche del "privilegium paulinum" e del "privilegium petrinum". Con riferimento alle clausole sulla "porneia" in Matteo e in Atti 15, 20 furono formulati impedimenti matrimoniali. Inoltre furono individuati sempre più chiaramente motivi di nullità matrimoniale e furono ampiamente sviluppate le procedure processuali. Tutto questo contribuì a delimitare e precisare il concetto di matrimonio indissolubile. Si potrebbe dire che in questo modo anche nella Chiesa occidentale fu dato spazio al principio della "oikonomia", senza toccare tuttavia l'indissolubilità del matrimonio come tale.

In questa linea si colloca anche l'ulteriore sviluppo giuridico nel Codice di Diritto Canonico del 1983, secondo il quale anche le dichiarazioni delle parti hanno forza probante. Di per se, secondo il giudizio di persone competenti, sembrano così praticamente esclusi i casi, in cui un matrimonio invalido non sia dimostrabile come tale per via processuale. Poiché il matrimonio ha essenzialmente un carattere pubblico-ecclesiale e vale il principio fondamentale "Nemo iudex in propria causa" ("Nessuno è giudice nella propria causa"), le questioni matrimoniali devono essere risolte in foro esterno. Qualora fedeli divorziati risposati ritengano che il loro precedente matrimonio non era mai stato valido, essi sono pertanto obbligati a rivolgersi al competente tribunale ecclesiastico, che dovrà esaminare il problema obiettivamente e con l'applicazione di tutte le possibilità giuridicamente disponibili.

c. Certamente non è escluso che in processi matrimoniali intervengano errori. In alcune parti della Chiesa non esistono ancora tribunali ecclesiastici che funzionino bene. Talora i processi durano in modo eccessivamente lungo. In alcuni casi terminano con sentenze problematiche. Non sembra qui in linea di principio esclusa l'applicazione della epicheia in "foro interno". Nella Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede del 1994 si fa cenno a questo, quando viene detto che con le nuove vie canoniche dovrebbe essere escluso "per quanto possibile" ogni divario tra la verità verificabile nel processo e la verità oggettiva (cfr Lettera 9). Molti teologi sono dell'opinione che i fedeli debbano assolutamente attenersi anche in "foro interno" ai giudizi del tribunale a loro parere falsi. Altri ritengono che qui in "foro interno" sono pensabili delle eccezioni, perché nell'ordinamento processuale non si tratta di norme di diritto divino, ma di norme di diritto ecclesiale. Questa questione esige però ulteriori studi e chiarificazioni. Dovrebbero infatti essere chiarite in modo molto preciso le condizioni per il verificarsi di una "eccezione", allo scopo di evitare arbitri e di proteggere il carattere pubblico - sottratto al giudizio soggettivo - del matrimonio.

4. Molti accusano l'attuale Magistero di involuzione rispetto al Magistero del Concilio e di proporre una visione preconciliare del matrimonio.

Alcuni teologi affermano che alla base dei nuovi documenti magisteriali sulle questioni del matrimonio starebbe una concezione naturalistica, legalistica del matrimonio. L'accento sarebbe posto sul contratto fra gli sposi e sullo "ius in corpus". Il Concilio avrebbe superato questa comprensione statica e descritto il matrimonio in un modo più personalistico come patto di amore e di vita. Così avrebbe aperto possibilità per risolvere in modo più umano situazioni difficili. Sviluppando questa linea di pensiero alcuni studiosi pongono la domanda se non si possa parlare di "morte del matrimonio", quando il legame personale dell'amore fra due sposi non esiste più. Altri sollevano l'antica questione se il Papa non abbia in tali casi la possibilità di sciogliere il matrimonio.

Chi però legga attentamente i recenti pronunciamenti ecclesiastici riconoscerà che essi nelle affermazioni centrali si fondano su "Gaudium et spes" e con tratti totalmente personalistici sviluppano ulteriormente sulla traccia indicata dal Concilio la dottrina ivi contenuta. E' tuttavia inadeguato introdurre una contrapposizione fra la visione personalistica e quella giuridica del matrimonio. Il Concilio non ha rotto con la concezione tradizionale del matrimonio, ma l'ha sviluppata ulteriormente. Quando ad esempio si ripete continuamente che il Concilio ha sostituito il concetto strettamente giuridico di "contratto" con il concetto più ampio e teologicamente più profondo di "patto", non si può dimenticare in proposito che anche nel "patto" è contenuto l'elemento del "contratto" pur essendo collocato in una prospettiva più ampia. Che il matrimonio vada molto al di là dell'aspetto puramente giuridico affondando nella profondità dell'umano e nel mistero del divino, è già in realtà sempre stato affermato con la parola "sacramento", ma certamente spesso non è stato messo in luce con la chiarezza che il Concilio ha dato a questi aspetti. Il diritto non è tutto, ma è una parte irrinunciabile, una dimensione del tutto. Non esiste un matrimonio senza normativa giuridica, che lo inserisce in un insieme globale di società e Chiesa. Se il riordinamento del diritto dopo il Concilio tocca anche l'ambito del matrimonio, allora questo non è tradimento del Concilio, ma esecuzione del suo compito.

Se la Chiesa accettasse la teoria che un matrimonio è morto, quando i due coniugi non si amano più, allora approverebbe con questo il divorzio e sosterrebbe l'indissolubilità del matrimonio in modo ormai solo verbale, ma non più in modo fattuale. L'opinione, secondo cui il Papa potrebbe eventualmente sciogliere un matrimonio sacramentale consumato, irrimediabilmente fallito, deve pertanto essere qualificata come erronea. Un tale matrimonio non può essere sciolto da nessuno. Gli sposi nella celebrazione nuziale si promettono la fedeltà fino alla morte.

Ulteriori studi approfonditi esige invece la questione se cristiani non credenti - battezzati, che non hanno mai creduto o non credono più in Dio - veramente possano contrarre un matrimonio sacramentale. In altre parole: si dovrebbe chiarire se veramente ogni matrimonio tra due battezzati è "ipso facto" un matrimonio sacramentale. Di fatto anche il Codice indica che solo il contratto matrimoniale "valido" fra battezzati è allo stesso tempo sacramento (cfr CIC, can. 1055, § 2). All'essenza del sacramento appartiene la fede; resta da chiarire la questione giuridica circa quale evidenza di "non fede" abbia come conseguenza che un sacramento non si realizzi.[4]

5. Molti affermano che l'atteggiamento della Chiesa nella questione dei fedeli divorziati risposati è unilateralmente normativo e non pastorale.

Una serie di obiezioni critiche contro la dottrina e la prassi della Chiesa concerne problemi di carattere pastorale. Si dice ad esempio che il linguaggio dei documenti ecclesiali sarebbe troppo legalistico, che la durezza della legge prevarrebbe sulla comprensione per situazioni umane drammatiche. L'uomo di oggi non potrebbe più comprendere tale linguaggio. Gesù avrebbe avuto un orecchio disponibile per le necessità di tutti gli uomini, soprattutto per quelli al margine della società. La Chiesa al contrario si mostrerebbe piuttosto come un giudice, che esclude dai sacramenti e da certi incarichi pubblici persone ferite.

Si può senz'altro ammettere che le forme espressive del Magistero ecclesiale talvolta non appaiano proprio come facilmente comprensibili. Queste devono essere tradotte dai predicatori e dai catechisti in un linguaggio, che corrisponda alle diverse persone e al loro rispettivo ambiente culturale. Il contenuto essenziale del Magistero ecclesiale in proposito deve però essere mantenuto. Non può essere annacquato per supposti motivi pastorali, perché esso trasmette la verità rivelata. Certamente è difficile rendere comprensibili all'uomo secolarizzato le esigenze del Vangelo. Ma questa difficoltà pastorale non può condurre a compromessi con la verità. Giovanni Paolo II nella Lettera Enciclica "Veritatis splendor" ha chiaramente respinto le soluzioni cosiddette "pastorali", che si pongono in contrasto con le dichiarazioni del Magistero (cfr ibid. 56).

Per quanto riguarda la posizione del Magistero sul problema dei fedeli divorziati risposati, si deve inoltre sottolineare che i recenti documenti della Chiesa uniscono in modo molto equilibrato le esigenze della verità con quelle della carità. Se in passato nella presentazione della verità talvolta la carità forse non risplendeva abbastanza, oggi è invece grande il pericolo di tacere o di compromettere la verità in nome della carità. Certamente la parola della verità può far male ed essere scomoda. Ma è la via verso la guarigione, verso la pace, verso la libertà interiore. Una pastorale, che voglia veramente aiutare le persone, deve sempre fondarsi sulla verità. Solo ciò che è vero può in definitiva essere anche pastorale. "Allora conoscerete la verità e la verità vi farà liberi" (Gv 8,32).


[1] Questo testo riprende la terza parte della Introduzione del Cardinale Joseph Ratzinger al numero 17 della Collana "Documenti e Studi", diretta dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, Sulla pastorale dei divorziati risposati, LEV, Città del Vaticano 1998, p. 20-29. Le note sono state aggiunte.

[2] Cf. Angel Rodríguez Luño, L’epicheia nella cura pastorale dei fedeli divorziati risposati, ibid., p. 75-87; Piero Giorgio Marcuzzi, S.D.B., Applicazione di "aequitas et epikeia" ai contenuti della Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede del 14 settembre 1994, ibid., p. 88-98; Gilles Pelland, S.J., La pratica della Chiesa antica relativa ai fedeli divorziati risposati, ibid., p. 99-131.

[3] A tale riguardo vale la norma ribadita da Giovanni Paolo II nella Esortazione apostolica postsinodale "Familiaris consortio", n. 84: "La riconciliazione nel sacramento della penitenza - che aprirebbe la strada al sacramento eucaristico - può essere accordata solo a quelli che, pentiti di aver violato il segno dell'Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l'indissolubilità del matrimonio. Ciò comporta, in concreto, che quando l'uomo e la donna, per seri motivi - quali, ad esempio, l'educazione dei figli - non possono soddisfare l'obbligo della separazione, «assumono l'impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi." Cfr. anche Benedetto XVI, Esortazione apostolica postsinodale "Sacramentum caritatis", n. 29.

[4] Durante un incontro con il clero della Diocesi di Aosta, svoltosi il 25 luglio 2005, Papa Benedetto XVI ha affermato in merito a questa difficile questione: "particolarmente dolorosa è la situazione di quanti erano sposati in Chiesa, ma non erano veramente credenti e lo hanno fatto per tradizione, e poi trovandosi in un nuovo matrimonio non valido si convertono, trovano la fede e si sentono esclusi dal Sacramento. Questa è realmente una sofferenza grande e quando sono stato Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede ho invitato diverse Conferenze episcopali e specialisti a studiare questo problema: un sacramento celebrato senza fede. Se realmente si possa trovare qui un momento di invalidità perché al sacramento mancava una dimensione fondamentale non oso dire. Io personalmente lo pensavo, ma dalle discussioni che abbiamo avuto ho capito che il problema è molto difficile e deve essere ancora approfondito. "

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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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26/06/2012 17:27
 
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  LA CHIESA NON CHIEDE: “SEI INNAMORATO?”

 

MA: “VUOI” SPOSARTI?

 

 

 

Ecco perché nel matrimonio non conta solo il sentimento contingente dei coniugi ed ecco perche il Santo Padre così si è espresso: “Nel Rito del Matrimonio, la Chiesa non dice: Sei innamorato?, ma Vuoi?, Sei deciso? Cioè: l’innamoramento deve divenire vero amore coinvolgendo la volontà e la ragione in un cammino, che è quello del fidanzamento, di purificazione, di più grande profondità, così che realmente tutto l’uomo, con tutte le sue capacità, con il discernimento della ragione, la forza di volontà, dice: Sì, questa è la mia vita

 

 

 

di  Riccardo Rodelli da papalepapale.com

 

 

Benedetto XVI, in occasione del viaggio a Milano, ha aperto o ha “solo” riaffermato quella che è sempre stata la posizione ufficiale della Chiesa nei confronti dei separati o divorziati? In realtà la Chiesa, quale corpo mistico di Cristo, non ha mai chiuso la porta a nessun tipo di dramma umano, compresi la separazione e il divorzio. Una piaga sociale, quest’ultimo, che viene pian piano riconosciuta anche da quel mondo che lo aveva considerato un diritto irrinunciabile. Il matrimonio è un istituto di impegno sociale, anche se per taluni il vincolo, religioso o meno che sia, rappresenta un rapporto esclusivamente personalistico, cioè che riguarda solo i coniugi.

LO “VUOI”? SEI PROPRIO “SICURO”?

Ecco perché nel matrimonio non conta solo il sentimento contingente dei coniugi ed ecco perche il Santo Padre così si è espresso: “Nel Rito del Matrimonio, la Chiesa non dice: Sei innamorato?, ma Vuoi, Sei deciso. Cioè: l’innamoramento deve divenire vero amore coinvolgendo la volontà e la ragione in un cammino, che è quello del fidanzamento, di purificazione, di più grande profondità, così che realmente tutto l’uomo, con tutte le sue capacità, con il discernimento della ragione, la forza di volontà, dice: Sì, questa è la mia vita“. Oltre ad un vincolo che lega gli sposi, il matrimonio lega le due carni direttamente con Dio. Il vincolo è pluri personale, lega l’umano e il divino. Allora a quale apertura il Santo Padre faceva riferimento? Quella a cui la Chiesa è chiamata, cioè essere il canale di collegamento tra la decaduta natura umana e l’incorrotta natura divina di Cristo. Questo “aiuto” avviene in differenti modi e risponde alle varie opere di Carità cui la Chiesa, comunità di anime, è vocata.

LA CHIESA “APRE” CON MISERICORDIA: QUELLA CATTOLICA, PERÒ, NON QUELLA SECONDO IL MONDO

Le opere di misericordia sono quelle opere che servono per ottenere misericordia, cioè pace, cioè perdono dei peccati; queste sono di due tipi: opere di misericordia spirituale e corporale. Spirituale e corporale perché l’uomo è il luogo in cui le due diverse nature trovano unione. E’ su quelle di tipo spirituale che ci soffermeremo e cioè: consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori,consolare gli afflitti, perdonare le offese, sopportare pazientemente le persone moleste,pregare Dio per i vivi e per i morti. Dio è amore dice Sant’Agostino. Gesù Cristo dice di sé: Io sono la Via la Verità e la Vita. Amore è Verità quindi. La Verità di Cristo che porta all’Amore di Dio.

La Chiesa, quindi, solcando i passi dei secoli non può che ripercorrere questo stesso percorso e lo fa amministrando i sacramenti e compiendo anche quelle opere di misericordia cui prima si è fatto riferimento. Questo è l’Amore della Chiesa, questa è l’apertura della Chiesa, è la madre che si piega e raccoglie il figlio sofferente, non cambiando regole e smentendo se stessa, ma insegnando, consigliando, ammonendo, consolando, sopportando e pregando. Tutto il resto è una immonda distorsione della realtà, è un demoniaco tentativo di piegare, inquinare, falsificare il Vero. Questo non è altro che l’attacco che il Romano Pontefice sofferente ma gioioso, stanco ma battagliero sta conducendo diretto al cuore del problema umano: il relativismo. Dallo scisma d’Oriente, passando per la riforma protestante, tutta la cristianità ha dovuto combattere contro questo dramma, generato dal peccato d’orgoglio.

SI RESTA UNITI A CRISTO ANCHE SENZA SACRAMENTI…

L’apertura del Papa ai divorziati e ai separati, per non diventare solo un’arma contro il Magistero della Chiesa e alla sua immutabilità, deve essere spiegata, ricordando che nulla è cambiato rispetto ad una settimana fa. Fondamentale resta sempre il punto fermo di non contrarre altro legame sentimentale: il matrimonio celebrato in chiesa rimane l’unico patto d’amore valido perché benedetto da Dio, anche quando due coniugi hanno deciso di separare le loro strade. Tuttavia, il Santo Padre ha detto che coloro che si trovano in una situazione che contraddice l’indissolubilità del matrimonio perché hanno contratto un altro legame: “anche se non possono ricevere l’assoluzione e l’eucaristia, vivono pienamente nella Chiesa”. Benedetto XVI ha chiarito: “il contatto con un sacerdote per loro può essere ugualmente importante, poi seguano la liturgia eucaristica vera e partecipata: se entrano in comunione possono essere spiritualmente uniti a Cristo”.L’amore per i sofferenti quindi non si realizza con lo sdoganamento dei dogmi o delle regole, al pari delle battaglie per la liberalizzazione delle droghe leggere, ma attraverso l’insegnamento e l’avvicinamento a Cristo.

SENZA LA VERITÀ LA CARITÀ SCIVOLA NEL SENTIMENTALISMO

Non è cambiato quindi nulla rispetto all’esortazione apostolica di Giovanni Paolo II del 1981 che nella Familiaris Consortio stabilisce (al paragrafo 84) le regole sulla comunione ai divorziati: “la Chiesa, tuttavia, ribadisce la sua prassi, fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati. Sono essi a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell’unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall’Eucaristia. C’è inoltre un altro peculiare motivo pastorale: se si ammettessero queste persone all’Eucaristia, i fedeli rimarrebbero indotti in errore e confusione circa la dottrina della Chiesa sull’indissolubilità del matrimonio”. Quello che spetta quindi ai sacerdoti dalle più remote parrocchie di campagna, alle più prospere comunità di metropoli è che l’insegnamento e l’Amore della Chiesa è un Amore ordinato e naturale e come dice Benedetto XVI al punto 3 della Caritas in Veritate : Senza la verità, la carità scivola nel sentimentalismo.. la verità libera la carità dalle strettoie di emotivismo che la priva di contenuti relazionali e sociali, e di un fideismo che la priva di respiro umano e universale.






**************

[SM=g1740722]

Mi piace associare un passo integrale delle parole del Papa sul tema dei Divorziati e incarnare in noi quelle parole attraverso le quali il Papa, pur ribadendo il “NO” alla Comunione, spinge verso la COMUNIONE SPIRITUALE di cui nessuno parla più e i Sacerdoti non la insegnano purtroppo… e capire anche il perchè il Papa spinge i divorziati rispostati a restare cattolici offrendo la loro sofferta situazione proprio per dare testimonianza al fatto che la Chiesa insegna la verità…
leggiamolo attentamente, specialmente sul finale ;-)

In realtà, questo problema dei divorziati risposati è una delle grandi sofferenze della Chiesa di oggi. E non abbiamo semplici ricette. La sofferenza è grande e possiamo solo aiutare le parrocchie, i singoli ad aiutare queste persone a sopportare la sofferenza di questo divorzio. Io direi che molto importante sarebbe, naturalmente, la prevenzione, cioè approfondire fin dall’inizio l’innamoramento in una decisione profonda, maturata; inoltre, l’accompagnamento durante il matrimonio, affinché le famiglie non siano mai sole ma siano realmente accompagnate nel loro cammino.
E poi, quanto a queste persone, dobbiamo dire – come lei ha detto – che la Chiesa le ama, ma esse devono vedere e sentire questo amore. Mi sembra un grande compito di una parrocchia, di una comunità cattolica, di fare realmente il possibile perché esse sentano di essere amate, accettate, che non sono «fuori» anche se non possono ricevere l’assoluzione e l’Eucaristia: devono vedere che anche così vivono pienamente nella Chiesa. Forse, se non è possibile l’assoluzione nella Confessione, tuttavia un contatto permanente con un sacerdote, con una guida dell’anima, è molto importante perché possano vedere che sono accompagnati, guidati. Poi è anche molto importante che sentano che l’Eucaristia è vera e partecipata se realmente entrano in comunione con il Corpo di Cristo.
Anche senza la ricezione «corporale» del Sacramento, possiamo essere spiritualmente uniti a Cristo nel suo Corpo. E far capire questo è importante. [SM=g1740721]

Che realmente trovino la possibilità di vivere una vita di fede, con la Parola di Dio, con la comunione della Chiesa e possano vedere che la loro sofferenza è un dono per la Chiesa, perché servono così a tutti anche per difendere la stabilità dell’amore, del Matrimonio; e che questa sofferenza non è solo un tormento fisico e psichico, ma è anche un soffrire nella comunità della Chiesa per i grandi valori della nostra fede. Penso che la loro sofferenza, se realmente interiormente accettata, sia un dono per la Chiesa. Devono saperlo, che proprio così servono la Chiesa, sono nel cuore della Chiesa. Grazie per il vostro impegno.

[SM=g1740722]

Nel blog qui sopra riportato, una persona ha chiesto ed affermato:

Novissimus chiede:
Quindi una situazione senza uscita, nonostante le formali attenzioni ed i proclami all’inclusività, a cui si riferisce, i divorziati risposati rimarrano sempre nella “tenebra esteriore” del peccato mortale, eternamente separati dal Corpo della Chiesa. Grazie comunque della risposta.

*****

[SM=g1740733]  rispondiamo:
Dipende da come interpreta lei la situazione ;-)
Vede, il Papa, all’incontro delle famiglie a milano, ribadendo il medesimo concetto lo ha fatto però dando una chiave di lettura squisitamente cattolica.
Il Papa nel confermare la posizione della Chiesa ha chiesto ai divorziati di fare ogni sforzo per comprendere che proprio LA LORO SOFFERENZA offerta a Gesù, darà vigore, sostanza e PIù CREDIBILITA’ alla legge di Dio che la Chiesa non può contrattare… nè barattare…
Comprende?
In sostanza il Papa chiede ai divorziati che, risposati ovviamente, non possono più tornare indietro, di comprendere il loro stato e viverlo come un atto di sofferenza in quanto è uno stato imperfetto, ma al tempo stesso di offerta di questa pena, unendosi alle sofferenze di Cristo e della Chiesa che deve proclamare al mondo LA VERITA’ anche quando costa fatica, sofferenza, incomprensioni, maldicenze…. persecuzioni….

La situazione senza via di uscita non l’ha creata la Chiesa che conserva la dottrina di Cristo, ma l’ha creata l’uomo con la sua scelta libera di andare CONTRO la legge di Dio ;-)
ma una via di uscita c’è sempre… PENTIRSI…. e laddove non è possibile riparare il danno fatto (in questo caso con nuovi matrimoni laici è impossibile ritornare indietro) offrirsi a Cristo PER LA CHIESA… offrire la propria situazione e cercare di VIVERE IN CONTINENZA, magari arrivandoci giorno dopo giorno, maturando la verità racchiusa nella legge di Dio e il danno che fa la legge degli uomini!

Non sono le leggi di Dio che la Chiesa predica a farci schiavi, ma le leggi degli uomini quando IMPONGONO stili di vita contrari alla morale di Dio….
questo significa cambiare ottica e leggere i fatti stando dalla parte di Dio…

[SM=g1740738]

[Modificato da Caterina63 22/08/2012 09:24]
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02/02/2013 12:35
 
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Attenzione: vi ricordiamo anche il Documento recente della CEI SU MATRIMONIO E FAMIGLIA...CLICCATE QUI... importante soprattutto in questo tempo di votazioni....







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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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[SM=g1740758] ATTENZIONE: CIRCOLA IN RETE UNA NOTIZIA A RIGUARDO DELLA COMUNIONE EUCARISTICA AI DIVORZIATI.... E' FALSA. ECCO IL COMUNICATO UFFICIALE:
COMUNICATO DEL PONTIFICIO CONSIGLIO PER LA FAMIGLIA

Città del Vaticano, 25 aprile 2013 (VIS). Il Pontificio Consiglio per la Famiglia in un Comunicato reso pubblico questa mattina dichiara che "non c’è fondamento alcuno in merito alla notizia, diffusa da alcuni organi di stampa, che sia in preparazione un documento sulla comunione ai divorziati risposati".

Comunione ai divorziati. Chiariamoci le idee.

 

Nel segno della speranza.

 
La Chiesa e i divorziati risposati: molti ne parlano ma pochi conoscono la vera dottrina cattolica sull’argomento. Il Timone ristabilisce in questo articolo tutta la verità, senza scorciatoie. Ma anche senza disperazione.
 
di Mario Palmaro, da Il Timone (05/2010)
 
La posizione della Chiesa nei confronti dei fedeli divorziati è molto chiara. Ma quanti la conoscono veramente? Basta ascoltare i discorsi della gente per accorgersi che equivoci, fraintendimenti ed errori clamorosi sono assai diffusi: si confondono situazioni oggettivamente molto diverse tra loro, in un tripudio di luoghi comuni e di nozioni raccogliticce orecchiate dalla Tv o spigolate su qualche giornale sfogliato dal parrucchiere. Questa situazione dipende certamente da una diffusa superficialità in materia di fede e di morale, alla quale non sono estranei gli stessi credenti. Ma è anche conseguenza di colpevoli omissioni da parte di coloro che nella Chiesa hanno il compito di insegnare e di “pascere” il gregge affidato da Gesù. Non è raro infatti sentirsi dire che “queste cose ormai si sanno”, e che – per ragioni pastorali, per carità, per rispetto umano – “è meglio non parlare di queste cose nelle prediche o nella catechesi”. Il risultato è che i fedeli in realtà “queste cose non le sanno”, o le sanno in modo approssimativo, ignorando le precise indicazioni del Magistero e soprattutto le ragioni che stanno alla base di questo rigoroso insegnamento.
Il fatto è reso ancor più grave dalla enorme diffusione del divorzio nella nostra società, al punto che quasi tutti ormai hanno almeno un parente o un amico o un collega che vive un fallimento matrimoniale e che, come si usa dire, “si rifà una vita” con un altro partner. È dunque ancora più urgente sapere che cosa la Chiesa dice esattamente, anche per poter fare davvero del bene a coloro che si trovano in questa profonda sofferenza umana e spirituale. Anche per questi fratelli, infatti, Cristo ha parole di speranza. Anche per loro il bene proposto dal Vangelo è possibile.
 
Luoghi comuni e mala fede
 
La gente sa in maniera assai vaga che se sei divorziato non puoi ricevere la Comunione. Così capita che ci siano dei divorziati erroneamente convinti di essere colpiti da questa preclusione, mentre in realtà il divieto si riferisce ai divorziati risposati, cioè a coloro che hanno contratto matrimonio civile dopo aver celebrato un precedente matrimonio valido. E ancora: la maggior parte delle persone non sa che anche ai divorziati risposati la Chiesa offre una strada per ritornare alla Comunione. Di più: in alcune parrocchie si va diffondendo l’idea che ogni divorziato risposato decide in coscienza se vuole fare la Comunione, e che nessuno, tanto meno il sacerdote, può interferire in questa scelta. Altri pensano che i divorziati risposati siano degli scomunicati. E in generale si ritiene che la Chiesa escluda questi fedeli dall’eucarestia con un intento punitivo. Come vedremo in questo articolo, tutti questi luoghi comuni sono davvero molto lontani dalla verità. Sono lontani dal vero anche quei cattolici che inveiscono contro la Chiesa, colpevole di “discriminare” i fedeli divorziati. Un atteggiamento di ribellione davvero singolare, soprattutto se assunto da coloro che magari per anni hanno snobbato la vita cristiana, la Messa domenicale, la confessione, le devozioni, e che improvvisamente “riscoprono” una sospetta “fame eucaristica” proprio nel momento in cui – per loro libera scelta – si sono messi in una condizione irregolare.
 
L’atteggiamento della Chiesa
 
I divorziati risposati possono pensare che la Chiesa provi nei loro confronti disprezzo. Nulla di più falso: i pastori sono chiamati ad accogliere questi fedeli «con carità e amore, esortandoli a confidare nella misericordia di Dio». Sono le parole testuali dell’autorevolissima Congregazione per la Dottrina della Fede, che nel 1994 ha inviato a tutti i vescovi del mondo un documento sulla materia. La Congregazione – allora guidata dal Cardinal Ratzinger – aggiunge che i pastori devono suggerire a questi fedeli «con prudenza e rispetto concreti cammini di conversione». In queste parole c’è tutto il Magistero: la carità di Cristo, la maternità della Chiesa, la possibilità di lasciare alla spalle il male per fare il bene.
 
Il giudizio della Chiesa
 
Comprendere non significa però giustificare. La misericordia è autentica solo quando procede insieme alla verità. Ed è per questo che vescovi e sacerdoti hanno il dovere (non quindi una generica possibilità discrezionale) di richiamare ai fedeli divorziati la dottrina della Chiesa, in particolare sulla ricezione dell’Eucarestia. Qual è questa dottrina? Eccola: «Fedele alla parola di Gesù Cristo, la Chiesa afferma di non poter riconoscere come valida una nuova unione, se era valido il precedente matrimonio. Se i divorziati si sono risposati civilmente, essi si trovano in una situazione che oggettivamente contrasta con la legge di Dio e perciò non possono accedere alla Comunione eucaristica, per tutto il tempo che perdura questa situazione».
 
Una punizione?
 
Qualcuno può pensare che questa norma contenga una pena, inflitta ai divorziati per sanzionare la loro condotta. Non è così. Nella Familiaris consortio (1982) Giovanni Paolo II spiega limpidamente che il rifiuto della Comunione deriva da due fondamentali ragioni: la prima, che consiste nella oggettiva condizione in cui si trovano questi fedeli, che non sono in grazia di Dio; la seconda, che é di ordine pastorale, perché se queste persone fossero ammesse all’eucarestia ne deriverebbe una grave confusione per i fedeli, indotti in errore circa la dottrina della Chiesa sulla indissolubilità del matrimonio. I vescovi e i sacerdoti dovranno inoltre compiere ogni sforzo affinché venga compreso bene che questa disciplina è frutto «soltanto di fedeltà assoluta alla volontà di Cristo».
 
Chi decide?
 
Secondo qualche sacerdote, la disciplina della Chiesa su questa materia si risolverebbe in una classica questione di coscienza. Poiché valutare la giusta disposizione d’animo a ricevere l’eucarestia spetta normalmente al singolo fedele, anche in questo caso sarebbe il divorziato risposato a dover decidere che fare. Con la conseguenza pratica che, sempre secondo taluni sacerdoti, «se un fedele si presenta a fare la comunione, io ho il dovere di dargliela in ogni caso, anche se so che è un divorziato risposato». Questa posizione non è conforme all’insegnamento della Chiesa, che impone un “grave dovere a tutti i pastori”. Qual è questo obbligo grave? Quando qualcuno, convivendo more uxorio con una persona che non è la legittima moglie o il legittimo marito, giudicasse possibile ricevere la Comunione, allora vescovi e sacerdoti – in particolare nel ruolo di confessori – «hanno il grave dovere di ammonire che tale giudizio è in aperto contrasto con la dottrina della Chiesa». Questa dottrina dovrà essere ricordata «anche nell’insegnamento a tutti i fedeli». Dunque ai sacerdoti è richiesta una specifica vigilanza, rispetto ad altri peccati, e la ragione è evidente: il matrimonio è essenzialmente una realtà pubblica.
 
Nemmeno in certi casi?
 
Secondo alcuni, in svariati casi bisognerebbe eliminare il divieto di accesso alla Comunione. Tali situazioni particolari sono state evocate dallo stesso documento della Congregazione per la Dottrina della Fede: a. Quando il divorziato risposato era stato abbandonato ingiustamente dal coniuge, pur cercando in ogni modo di salvare il matrimonio; b. Quando il divorziato risposato è convinto in coscienza che il precedente matrimonio sia nullo, pur non potendolo dimostrare nel foro esterno; c. Quando il divorziato risposato si è sottoposto a un lungo cammino di penitenza, ed è assistito da un sacerdote prudente ed esperto. Nel n. 84 della Familiaris Consortio Giovanni Paolo II esorta i pastori a tenere in considerazione queste situazioni, distinguendole da atteggiamenti colpevoli. D’altra parte, il n. 4 del documento della Congregazione per la Dottrina della Fede usa parole inequivocabili, che non lasciano scampo a interpretazioni lassiste. Anche in questi casi molto particolari, l’accesso alla Comunione non può essere consentito.
 
Esiste una via di uscita?
 
A questo punto, i divorziati risposati potrebbero sembrare dei condannati a una sorta di “ergastolo morale”, una gabbia senza scampo. Ma non è così. Il documento della Congregazione per la Dottrina della Fede è anche qui molto preciso: «Per i fedeli che permangono in tale situazione matrimoniale, l’acceso alla Comunione eucaristica è aperto unicamente dall’assoluzione sacramentale». E a chi può essere data tale assoluzione? «Solo a quelli che, pentiti di aver violato il segno dell’Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l’indissolubilità del matrimonio». In concreto ciò significa che i due hanno l’obbligo di separarsi. Ma qualora i due non possono più separarsi, perché ad esempio devono educare i figli, assumeranno «l’obbligo di vivere in piena continenza, astenendosi dagli atti propri dei coniugi». Quindi, due divorziati che vivano “come fratello e sorella” possono accedere alla Comunione «fermo restando l’obbligo di evitare lo scandalo», ad esempio ricevendo l’eucarestia in una chiesa diversa da quella della propria comunità.
 
La Chiesa potrà cambiare la sua posizione?
 
No. La prassi di escludere i divorziati risposati dalla Comunione è costante e universale, ed è fondata sulla Sacra Scrittura. Questa prassi è vincolante, e «non può essere modificata in base alle diverse situazioni», poiché «agendo in tal modo la Chiesa professa la propria fedeltà a Cristo e alla sua verità».
 
Due scomunicati?
 
I divorziati risposati non sono affatto degli “scomunicati”. Questo significa che non sono colpiti da una sanzione grave da parte della Chiesa – come avviene ad esempio nei confronti di chi ha commesso il peccato di aborto volontario – e significa anche che essi devono essere incoraggiati a partecipare alla vita cristiana. In particolare, la Chiesa li incoraggia a non abbandonare la pratica della Messa, anche quando fossero impossibilitati a ricevere la Comunione, perché questa loro partecipazione al sacrificio di Cristo non è senza valore e senza significato. La Congregazione per la Dottrina della Fede nel documento del 1994 li esorta «ad approfondire il valore della comunione spirituale», a pregare, a educare i figli nella fede cristiana, a impegnarsi in opere di carità.
 
Segnali di speranza
 
Non ci sono dubbi: un cattolico sincero, trovandosi nella condizione di divorziato risposato, vive nella sua coscienza una sofferenza molto profonda. Le motivazioni umane che lo hanno spinto verso certe decisioni, la forza coinvolgente degli affetti umani, le conseguenze talvolta irrimediabili degli errori, lo avviluppano da ogni parte. È proprio in questa dura prova che il divorziato risposato dovrà resistere ad alcune tentazioni: ribellarsi alla Chiesa; abbandonare la vita cristiana; perdere ogni speranza. Per quanto grave sia la nostra colpa, per quanto ardua sia la strada da percorrere, con l’aiuto di Dio tutto è possibile. Realmente tutto.
 
 
****
 
 
 
Né Comunione né scomunica
 
Monsignor Luigi Negri spiega: il primo dovere della Chiesa è difendere i diritti di Dio, mentre non esiste per nessuno un “diritto ai sacramenti”. I divorziati risposati esclusi dalla vita cristiana? È una menzogna frutto della mentalità laicista e terroristica.
 
di Roberto Beretta, da Il Timone (09/01/2010)
 
I giornali lo cercano spesso perché, in genere, le sue parole sono piuttosto lontane dalle maniere moderate e clericali tipiche di tanti altri suoi colleghi e – dunque – «fanno notizia». In effetti a volte le dichiarazioni di monsignor Luigi Negri – teologo e vescovo di San Marino Montefeltro – risultano spigolose, persino rudi; ma di sicuro hanno il pregio di una chiarezza quasi didascalica. E riservano quasi sempre qualche sorpresa anche agli habitués.
 
Monsignor Negri, cominciamo subito dall’obiezione più comune, fors’anche qualunquista ma con una certa presa pure tra i cattolici: perché tanta intransigenza della Chiesa verso i divorziati non sposati, tanto da essere ritenuta più severa nei loro riguardi che verso altre categorie di peccatori, per esempio i ladri o i disonesti?
 
Dato e non concesso che sia vera la seconda parte della domanda, e cioè che la Chiesa non usi una bilancia corretta per la gravità dei peccati, non si tratta tanto di intransigenza verso i divorziati, quanto di un dovere nei confronti di Dio. La prima difesa che la Chiesa deve mettere in pratica è infatti quella dei diritti di Dio. La fedeltà e l’unità degli sposi si radicano nella fedeltà di Dio, il matrimonio è un sacramento di Cristo e la Chiesa deve rispettare quanto le è affidato non perché venga manipolato, ma perché si resti il più possibile fedeli al messaggio originario. Bisogna poi dire una cosa molto chiara: sostenere che i divorziati risposati sono esclusi dalla vita cristiana è sbagliato, è il frutto di una mentalità laicista e terroristica; ogni fedele vive nella Chiesa secondo la sua capacità e non è detto che la partecipazione alla vita ecclesiale si debba livellare sulla pratica dell’eucaristia: c’è tutta una gradualità di posizioni, che rispondono a casi in cui ci si può trovare anche per propria volontà. Non possiamo dunque ragionare solo nell’ottica delle condizioni individuali, in quanto c’è pure un coinvolgimento della libertà personale nella scelta di mettersi in una certa situazione; e ognuno deve assumersi le responsabilità delle decisioni che prende. Verso i divorziati che non passano a nuove nozze, difatti, la Chiesa si è ben guardata dal praticare una cosiddetta intransigenza.
 
Altra accusa ricorrente: il processo di annullamento dei matrimoni cattolici costa molto, è lungo, ottiene esito positivo solo per chi ha conoscenze altolocate e in fondo è solo un “trucchetto” per concedere il divorzio ai soliti privilegiati… Come smentire?
 
Queste affermazioni fanno parte di una classica “leggenda nera” che va decisamente smontata. La Chiesa è estremamente garantista, conduce processi in cui tutti i fattori vengono tenuti presenti, senza pregiudizio verso nessuna parte. La questione economica poi non si pone proprio: addirittura, a volte è la diocesi che offre il patrocinio d’ufficio e si può fare tutto senza spendere praticamente niente. Il problema è semmai un altro: anche a detta dei due ultimi Papi, nei loro discorsi ai tribunali ecclesiastici, si verifica una certa disinvoltura nella concessione delle nullità matrimoniali. Credo in effetti che ci sia il pericolo che la Chiesa ceda qualche volta con una certa facilità a pressioni massmediatiche o alla mentalità comune. Ma questo va esattamente in senso opposto all’obiezione da cui siamo partiti.
 
A proposito del divieto di comunicarsi per i divorziati risposati, lei ha scritto: «I sacramenti non sono un diritto acquisito. Nella mentalità di tanti cristiani, a volte, si insinua invece un’idea di rivendicazione sindacale». Certo, si può vivere ed essere cristiani anche senza avere l’eucaristia; però è bello che si aspiri al massimo della comunione, no?
 
È vero che l’eucaristia è il culmine della vita cristiana. Ma, se mi sono messo consapevolmente e liberamente nelle condizioni di non arrivare su tale vetta, non posso pretendere di farlo a tutti i costi… Nessuno ha diritto a nessun sacramento, tutti sono frutto della grazia di Cristo. E la privazione della pratica sacramentale non è come ad esempio la scomunica latae sententiae per chi fa l’aborto: non esclude la possibilità di fare un’esperienza di Chiesa, pur senza giungere al vertice. D’altra parte nessuno ha costretto questi fratelli a divorziare, tanto meno la Chiesa. E arrivare al punto massimo della liturgia non è un assoluto. Bisogna saper tradurre questo desiderio in preghiera e in sacrificio: la comunione di desiderio, come si diceva una volta.
 
Dunque per i divorziati risposati non c’è, diciamo così, alcuna scorciatoia.
 
Devono rimuovere la condizione di irregolarità in cui si sono messi: la nuova situazione affettiva, la cosiddetta nuova famiglia, il matrimonio civile che rende impossibile la partecipazione piena alla vita alla Chiesa; ma non da oggi: da sempre! E dunque la verità è che, in ogni caso, si deve mettere in conto un sacrificio. Per il resto, ribadisco che nella vita della Chiesa esiste una bellissima articolazione di carismi e di possibilità: chi impedisce, per esempio, ai divorziati risposati di vivere in ogni caso un’intensa vita di carità o di preghiera?



Read more: http://sursumcorda-dominum.blogspot.com/2013/04/comunione-ai-divorziati-chiariamoci-le.html#ixzz2RgXN3w6c

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 ATTENZIONE....... [SM=g1740733] 


a riguardo delle voci della Diocesi di Friburgo di voler procedere con i matrimoni ai divorziati, la Santa Sede ha frenato gli entusiasmi laicisti e la stessa Diocesi.....

"....proporre particolari soluzioni pastorali da parte di persone o di uffici locali può rischiare di ingenerare confusione. È bene mettere in rilievo l'importanza di condurre un cammino nella piena comunione della comunità ecclesiale".

Questo Comunicato è stato collegato all'indizione del Sinodo per ottobre 2014 DEDICATO ALLA PASTORALE SULLA FAMIGLIA.... per giungere a delle decisioni prese NON arbitrariamente, ma in comunione con il Papa.....

Un Comunicato della Sala Stampa della Santa Sede rende noto che il Santo Padre Francesco ha indetto la III Assemblea Generale Straordinaria del Sinodo dei Vescovi, da tenersi in Vaticano, dal 5 al 19 ottobre 2014, sul tema: "Le sfide pastorali della famiglia nel contesto dell'evangelizzazione".

Nel capitolo del Codice di Diritto Canonico relativo alla tipologia delle assemblee sinodali si lette che: "Il Sinodo dei Vescovi si riunisce in assemblea generale straordinaria, se la materia da trattare, pur riguardando il bene della Chiesa universale, esige una rapida definizione".

"Molto importante è la indizione di un Sinodo Straordinario sul tema della pastorale della famiglia - ha detto il Direttore della Sala Stampa della Santa Sede, Padre Federico Lombardi - Questo è il modo in cui il Papa intende portare avanti la riflessione e il cammino della comunità della Chiesa, con la partecipazione responsabile dell'episcopato delle diverse parti del mondo".

"È giusto - ha aggiunto Padre Lombardi - che la Chiesa si muova comunitariamente nella riflessione e nella preghiera e prenda gli orientamenti pastorali comuni nei punti più importanti - come la pastorale della famiglia - sotto la guida del Papa e dei vescovi. L'indizione del Sinodo straordinario indica chiaramente questa via. In questo contesto proporre particolari soluzioni pastorali da parte di persone o di uffici locali può rischiare di ingenerare confusione. È bene mettere in rilievo l'importanza di condurre un cammino nella piena comunione della comunità ecclesiale".

Padre Lombardi ha ricordato che ieri e questa mattina Papa Francesco ha partecipato alla riunione della Segreteria Generale del Sinodo, in corso in questi giorni, recandosi presso la sede della Segreteria Generale in Via della Conciliazione.

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DIFFIDIAMO DEI TANTI "HO SENTITO DIRE CHE".... E SOPRATTUTTO DI COME DANNO LE NOTIZIE I MEDIA......





[SM=g1740733] E Ratzinger risponde: 5 obiezioni e 5 risposte dell'ex-Papa sulla pastorale dei divorziati risposati


 
 

Nel 2011 l'Osservatore Romano ha ripubblicato queste chiare argomentazioni pubblicate nel 1998 dall'allora Card. Ratzinger alle ricorrenti obiezioni sollevate per aggirare o denigrare la pastorale cattolica nei confronti delle persone che dopo un matrimonio valido decidono di passare a nuove nozze. Ratzinger, con ottima sintesi mostra, che le questioni non sono "soggettive" o di carattere morale e nemmeno di difformità di prassi tra Oriente e Occidente, sottolinea invece che ogni soluzione non può prescindere dalla fedeltà alla Parola di Dio, espressa con evidenza nei Vangeli e nelle lettere di san Paolo, ed attestata dal magistero dei Padri della Chiesa fino ai nostri giorni.


A proposito di alcune obiezioni contro la dottrina della Chiesa circa la recezione della Comunione eucaristica da parte di fedeli divorziati risposati
 
Nel 1998 il cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, introdusse il volume intitolato Sulla pastorale dei divorziati risposati, pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana in una collana del dicastero («Documenti e Studi», 17). Per l’attualità e l’ampiezza di prospettive di questo scritto poco conosciuto, ne riproponiamo la terza parte, con l’aggiunta di tre note. Il testo è disponibile sul sito del giornale (www.osservatoreromano.va), oltre che in italiano, anche in francese, inglese, portoghese, spagnolo e tedesco.
 
La Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede circa la recezione della Comunione eucaristica da parte di fedeli divorziati risposati del 14 settembre 1994 (vedi qui il testo) ha avuto una vivace eco in diverse parti della Chiesa. Accanto a molte reazioni positive si sono udite anche non poche voci critiche. Le obiezioni essenziali contro la dottrina e la prassi della Chiesa sono presentate qui di seguito in forma per altro semplificata.
 
Alcune obiezioni più significative — soprattutto il riferimento alla prassi ritenuta più flessibile dei Padri della Chiesa, che ispirerebbe la prassi delle Chiese orientali separate da Roma, così come il richiamo ai principi tradizionali dell’epikèia e della aequitas canonica — sono state studiate in modo approfondito dalla Congregazione per la Dottrina della Fede. Gli articoli dei professori Pelland, Marcuzzi e Rodriguez Luño (1) sono stati elaborati nel corso di questo studio. I risultati principali della ricerca, che indicano la direzione di una risposta alle obiezioni avanzate, saranno ugualmente qui brevemente riassunti.
 
1. Molti ritengono, adducendo alcuni passi del Nuovo Testamento, che la parola di Gesù sull’indissolubilità del matrimonio permetta un’applicazione flessibile e non possa essere classificata in una categoria rigidamente giuridica.
 
Alcuni esegeti rilevano criticamente che il Magistero in relazione all’indissolubilità del matrimonio citerebbe quasi esclusivamente una sola pericope — e cioè Marco, 10, 11-12 — e non considererebbe in modo sufficiente altri passi del Vangelo di Matteo e della prima Lettera ai Corinzi. Questi passi biblici menzionerebbero una qualche “eccezione” alla parola del Signore sull’indissolubilità del matrimonio, e cioè nel caso di pornèia (Matteo, 5, 32; 19, 9) e nel caso di separazione a motivo della fede (1 Corinzi, 7, 12-16). Tali testi sarebbero indicazioni che i cristiani in situazioni difficili avrebbero conosciuto già nel tempo apostolico un’applicazione flessibile della parola di Gesù.
 
A questa obiezione si deve rispondere che i documenti magisteriali non intendono presentare in modo completo ed esaustivo i fondamenti biblici della dottrina sul matrimonio. Essi lasciano questo importante compito agli esperti competenti. Il Magistero sottolinea però che la dottrina della Chiesa sull’indissolubilità del matrimonio deriva dalla fedeltà nei confronti della parola di Gesù. Gesù definisce chiaramente la prassi veterotestamentaria del divorzio come una conseguenza della durezza di cuore dell’uomo. Egli rinvia — al di là della legge — all’inizio della creazione, alla volontà del Creatore, e riassume il suo insegnamento con le parole: «L’uomo dunque non separi ciò che Dio ha congiunto» (Marco, 10, 9). Con la venuta del Redentore il matrimonio viene quindi riportato alla sua forma originaria a partire dalla creazione e sottratto all’arbitrio umano — soprattutto all’arbitrio del marito, per la moglie infatti non vi era in realtà la possibilità del divorzio. La parola di Gesù sull’indissolubilità del matrimonio è il superamento dell’antico ordine della legge nel nuovo ordine della fede e della grazia. Solo così il matrimonio può rendere pienamente giustizia alla vocazione di Dio all’amore ed alla dignità umana e divenire segno dell’alleanza di amore incondizionato di Dio, cioè «Sacramento» (cfr. Efesini, 5, 32).
 
La possibilità di separazione, che Paolo prospetta in 1 Corinzi, 7, riguarda matrimoni fra un coniuge cristiano e uno non battezzato. La riflessione teologica successiva ha chiarito che solo i matrimoni tra battezzati sono «sacramento» nel senso stretto della parola e che l’indissolubilità assoluta vale solo per questi matrimoni che si collocano nell’ambito della fede in Cristo. Il cosiddetto «matrimonio naturale» ha la sua dignità a partire dall’ordine della creazione ed è pertanto orientato all’indissolubilità, ma può essere sciolto in determinate circostanze a motivo di un bene più alto — nel caso la fede. Così la sistematizzazione teologica ha classificato giuridicamente l’indicazione di san Paolo come privilegium paulinum, cioè come possibilità di sciogliere per il bene della fede un matrimonio non sacramentale. L’indissolubilità del matrimonio veramente sacramentale rimane salvaguardata; non si tratta quindi di una eccezione alla parola del Signore. Su questo ritorneremo più avanti.
 
A riguardo della retta comprensione delle clausole sulla pornèia esiste una vasta letteratura con molte ipotesi diverse, anche contrastanti. Fra gli esegeti non vi è affatto unanimità su questa questione. Molti ritengono che si tratti qui di unioni matrimoniali invalide e non di eccezioni all’indissolubilità del matrimonio. In ogni caso la Chiesa non può edificare la sua dottrina e la sua prassi su ipotesi esegetiche incerte. Essa deve attenersi all’insegnamento chiaro di Cristo.
 
2. Altri obiettano che la tradizione patristica lascerebbe spazio per una prassi più differenziata, che renderebbe meglio giustizia alle situazioni difficili; la Chiesa cattolica in proposito potrebbe imparare dal principio di «economia» delle Chiese orientali separate da Roma.
 
Si afferma che il Magistero attuale si appoggerebbe solo su di un filone della tradizione patristica, ma non su tutta l’eredità della Chiesa antica. Sebbene i Padri si attenessero chiaramente al principio dottrinale dell’indissolubilità del matrimonio, alcuni di loro hanno tollerato sul piano pastorale una certa flessibilità in riferimento a singole situazioni difficili. Su questo fondamento le Chiese orientali separate da Roma avrebbero sviluppato più tardi accanto al principio della akribìa, della fedeltà alla verità rivelata, quello della oikonomìa, della condiscendenza benevola in singole situazioni difficili. Senza rinunciare alla dottrina dell’indissolubilità del matrimonio, essi permetterebbero in determinati casi un secondo e anche un terzo matrimonio, che d’altra parte è differente dal primo matrimonio sacramentale ed è segnato dal carattere della penitenza. Questa prassi non sarebbe mai stata condannata esplicitamente dalla Chiesa cattolica. Il Sinodo dei Vescovi del 1980 avrebbe suggerito di studiare a fondo questa tradizione, per far meglio risplendere la misericordia di Dio.
 
Lo studio di padre Pelland mostra la direzione, in cui si deve cercare la risposta a queste questioni. Per l’interpretazione dei singoli testi patristici resta naturalmente competente lo storico. A motivo della difficile situazione testuale le controversie anche in futuro non si placheranno. Dal punto di vista teologico si deve affermare:
 
a. Esiste un chiaro consenso dei Padri a riguardo dell’indissolubilità del matrimonio. Poiché questa deriva dalla volontà del Signore, la Chiesa non ha nessun potere in proposito. Proprio per questo il matrimonio cristiano fu fin dall’inizio diverso dal matrimonio della civiltà romana, anche se nei primi secoli non esisteva ancora nessun ordinamento canonico proprio. La Chiesa del tempo dei Padri esclude chiaramente divorzio e nuove nozze, e ciò per fedele obbedienza al Nuovo Testamento.
 
b. Nella Chiesa del tempo dei Padri i fedeli divorziati risposati non furono mai ammessi ufficialmente alla sacra comunione dopo un tempo di penitenza. È vero invece che la Chiesa non ha sempre rigorosamente revocato in singoli Paesi concessioni in materia, anche se esse erano qualificate come non compatibili con la dottrina e la disciplina. Sembra anche vero che singoli Padri, ad esempio Leone Magno, cercarono soluzioni “pastorali” per rari casi limite.
 
c. In seguito si giunse a due sviluppi contrapposti:
 
— Nella Chiesa imperiale dopo Costantino si cercò, a seguito dell’intreccio sempre più forte di Stato e Chiesa, una maggiore flessibilità e disponibilità al compromesso in situazioni matrimoniali difficili. Fino alla riforma gregoriana una simile tendenza si manifestò anche nell’ambito gallico e germanico. Nelle Chiese orientali separate da Roma questo sviluppo continuò ulteriormente nel secondo millennio e condusse a una prassi sempre più liberale. Oggi in molte Chiese orientali esiste una serie di motivazioni di divorzio, anzi già una «teologia del divorzio», che non è in nessun modo conciliabile con le parole di Gesù sull’indissolubilità del matrimonio. Nel dialogo ecumenico questo problema deve essere assolutamente affrontato.
 
— Nell’Occidente fu recuperata grazie alla riforma gregoriana la concezione originaria dei Padri. Questo sviluppo trovò in qualche modo una sanzione nel concilio di Trento e fu riproposto come dottrina della Chiesa nel concilio Vaticano II.
 
La prassi delle Chiese orientali separate da Roma, che è conseguenza di un processo storico complesso, di una interpretazione sempre più liberale — e che si allontanava sempre più dalla parola del Signore — di alcuni oscuri passi patristici così come di un non trascurabile influsso della legislazione civile, non può per motivi dottrinali essere assunta dalla Chiesa cattolica. Al riguardo non è esatta l’affermazione che la Chiesa cattolica avrebbe semplicemente tollerato la prassi orientale. Ettore Goffi, «Matrimonio» (1996) Certamente Trento non ha pronunciato nessuna condanna formale. I canonisti medievali nondimeno ne parlavano continuamente come di una prassi abusiva. Inoltre vi sono testimonianze secondo cui gruppi di fedeli ortodossi, che divenivano cattolici, dovevano firmare una confessione di fede con un’indicazione espressa dell’impossibilità di un secondo matrimonio.
 
3. Molti propongono di permettere eccezioni dalla norma ecclesiale, sulla base dei tradizionali principi dell’epikèia e della aequitas canonica.
 
Alcuni casi matrimoniali, così si dice, non possono venire regolati in foro esterno. La Chiesa potrebbe non solo rinviare a norme giuridiche, ma dovrebbe anche rispettare e tollerare la coscienza dei singoli. Le dottrine tradizionali dell’epikèia e della aequitas canonica potrebbero giustificare dal punto di vista della teologia morale ovvero dal punto di vista giuridico una decisione della coscienza, che si allontani dalla norma generale. Soprattutto nella questione della recezione dei sacramenti la Chiesa dovrebbe qui fare dei passi avanti e non soltanto opporre ai fedeli dei divieti.
 
I due contributi di don Marcuzzi e del professor Rodríguez Luño illustrano questa complessa problematica. In proposito si devono distinguere chiaramente tre ambiti di questioni:
 
a. Epikèia ed aequitas canonica sono di grande importanza nell’ambito delle norme umane e puramente ecclesiali, ma non possono essere applicate nell’ambito di norme, sulle quali la Chiesa non ha nessun potere discrezionale. L’indissolubilità del matrimonio è una di queste norme, che risalgono al Signore stesso e pertanto vengono designate come norme di «diritto divino». La Chiesa non può neppure approvare pratiche pastorali — ad esempio nella pastorale dei Sacramenti —, che contraddirebbero il chiaro comandamento del Signore. In altre parole: se il matrimonio precedente di fedeli divorziati risposati era valido, la loro nuova unione in nessuna circostanza può essere considerata come conforme al diritto, e pertanto per motivi intrinseci non è possibile una recezione dei sacramenti. La coscienza del singolo è vincolata senza eccezioni a questa norma. (2)
 
b. La Chiesa ha invece il potere di chiarire quali condizioni devono essere adempiute, perché un matrimonio possa essere considerato come indissolubile secondo l’insegnamento di Gesù. Nella linea delle affermazioni paoline in 1 Corinzi, 7 essa ha stabilito che solo due cristiani possano contrarre un matrimonio sacramentale. Essa ha sviluppato le figure giuridiche del privilegium paulinum e del privilegium petrinum. Con riferimento alle clausole sulla pornèia in Matteo e in Atti, 15,20 furono formulati impedimenti matrimoniali. Inoltre furono individuati sempre più chiaramente motivi di nullità matrimoniale e furono ampiamente sviluppate le procedure processuali. Tutto questo contribuì a delimitare e precisare il concetto di matrimonio indissolubile. Si potrebbe dire che in questo modo anche nella Chiesa occidentale fu dato spazio al principio della oikonomìa, senza toccare tuttavia l’indissolubilità del matrimonio come tale.
 
In questa linea si colloca anche l’ulteriore sviluppo giuridico nel Codice di Diritto Canonico del 1983, secondo il quale anche le dichiarazioni delle parti hanno forza probante. Di per sé, secondo il giudizio di persone competenti, sembrano così praticamente esclusi i casi, in cui un matrimonio invalido non sia dimostrabile come tale per via processuale. Poiché il matrimonio ha essenzialmente un carattere pubblico-ecclesiale e vale il principio fondamentale nemo iudex in propria causa («Nessuno è giudice nella propria causa»), le questioni matrimoniali devono essere risolte in foro esterno. Qualora fedeli divorziati risposati ritengano che il loro precedente matrimonio non era mai stato valido, essi sono pertanto obbligati a rivolgersi al competente tribunale ecclesiastico, che dovrà esaminare il problema obiettivamente e con l’applicazione di tutte le possibilità giuridicamente disponibili.
 
c. Certamente non è escluso che in processi matrimoniali intervengano errori. In alcune parti della Chiesa non esistono ancora tribunali ecclesiastici che funzionino bene. Talora i processi durano in modo eccessivamente lungo. In alcuni casi terminano con sentenze problematiche. Non sembra qui in linea di principio esclusa l’applicazione della epikèia in “foro interno”. Nella Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede del 1994 si fa cenno a questo, quando viene detto che con le nuove vie canoniche dovrebbe essere escluso «per quanto possibile» ogni divario tra la verità verificabile nel processo e la verità oggettiva (cfr. Lettera, 9). Molti teologi sono dell’opinione che i fedeli debbano assolutamente attenersi anche in “foro interno” ai giudizi del tribunale a loro parere falsi. Altri ritengono che qui in “foro interno” sono pensabili delle eccezioni, perché nell’ordinamento processuale non si tratta di norme di diritto divino, ma di norme di diritto ecclesiale. Questa questione esige però ulteriori studi e chiarificazioni. Dovrebbero infatti essere chiarite in modo molto preciso le condizioni per il verificarsi di una “eccezione”, allo scopo di evitare arbitri e di proteggere il carattere pubblico — sottratto al giudizio soggettivo — del matrimonio.
 
4. Molti accusano l’attuale Magistero di involuzione rispetto al Magistero del Concilio e di proporre una visione preconciliare del matrimonio.
 
Alcuni teologi affermano che alla base dei nuovi documenti magisteriali sulle questioni del matrimonio starebbe una concezione naturalistica, legalistica del matrimonio. L’accento sarebbe posto sul contratto fra gli sposi e sullo ius in corpus. Il Concilio avrebbe superato questa comprensione statica e descritto il matrimonio in un modo più personalistico come patto di amore e di vita. Così avrebbe aperto possibilità per risolvere in modo più umano situazioni difficili. Sviluppando questa linea di pensiero alcuni studiosi pongono la domanda se non si possa parlare di «morte del matrimonio», quando il legame personale dell’amore fra due sposi non esiste più. Altri sollevano l’antica questione se il Papa non abbia in tali casi la possibilità di sciogliere il matrimonio.
 
Chi però legga attentamente i recenti pronunciamenti ecclesiastici riconoscerà che essi nelle affermazioni centrali si fondano su Gaudium et spes e con tratti totalmente personalistici sviluppano ulteriormente sulla traccia indicata dal Concilio la dottrina ivi contenuta. È tuttavia inadeguato introdurre una contrapposizione fra la visione personalistica e quella giuridica del matrimonio. Il Concilio non ha rotto con la concezione tradizionale del matrimonio, ma l’ha sviluppata ulteriormente. Quando ad esempio si ripete continuamente che il Concilio ha sostituito il concetto strettamente giuridico di “contratto” con il concetto più ampio e teologicamente più profondo di “patto”, non si può dimenticare in proposito che anche nel “patto” è contenuto l’elemento del “contratto” pur essendo collocato in una prospettiva più ampia. Che il matrimonio vada molto al di là dell’aspetto puramente giuridico affondando nella profondità dell’umano e nel mistero del divino, è già in realtà sempre stato affermato con la parola “sacramento”, ma certamente spesso non è stato messo in luce con la chiarezza che il Concilio ha dato a questi aspetti. Il diritto non è tutto, ma è una parte irrinunciabile, una dimensione del tutto. Non esiste un matrimonio senza normativa giuridica, che lo inserisce in un insieme globale di società e Chiesa. Se il riordinamento del diritto dopo il Concilio tocca anche l’ambito del matrimonio, allora questo non è tradimento del Concilio, ma esecuzione del suo compito.
 
Se la Chiesa accettasse la teoria che un matrimonio è morto, quando i due coniugi non si amano più, allora approverebbe con questo il divorzio e sosterrebbe l’indissolubilità del matrimonio in modo ormai solo verbale, ma non più in modo fattuale. L’opinione, secondo cui il Papa potrebbe eventualmente sciogliere un matrimonio sacramentale consumato, irrimediabilmente fallito, deve pertanto essere qualificata come erronea. Un tale matrimonio non può essere sciolto da nessuno. Gli sposi nella celebrazione nuziale si promettono la fedeltà fino alla morte.
 
Ulteriori studi approfonditi esige invece la questione se cristiani non credenti — battezzati, che non hanno mai creduto o non credono più in Dio — veramente possano contrarre un matrimonio sacramentale. In altre parole: si dovrebbe chiarire se veramente ogni matrimonio tra due battezzati è ipso facto un matrimonio sacramentale. Di fatto anche il Codice indica che solo il contratto matrimoniale «valido» fra battezzati è allo stesso tempo sacramento (cfr. Codex iuris canonici, can. 1055, § 2). All’essenza del sacramento appartiene la fede; resta da chiarire la questione giuridica circa quale evidenza di «non fede» abbia come conseguenza che un sacramento non si realizzi. (3)
 
5. Molti affermano che l’atteggiamento della Chiesa nella questione dei fedeli divorziati risposati è unilateralmente normativo e non pastorale.
 
Una serie di obiezioni critiche contro la dottrina e la prassi della Chiesa concerne problemi di carattere pastorale. Si dice ad esempio che il linguaggio dei documenti ecclesiali sarebbe troppo legalistico, che la durezza della legge prevarrebbe sulla comprensione per situazioni umane drammatiche. L’uomo di oggi non potrebbe più comprendere tale linguaggio.Rogier Van der Weyden, «Il matrimonio» (1445) Gesù avrebbe avuto un orecchio disponibile per le necessità di tutti gli uomini, soprattutto per quelli al margine della società. La Chiesa al contrario si mostrerebbe piuttosto come un giudice, che esclude dai sacramenti e da certi incarichi pubblici persone ferite.
 
Si può senz’altro ammettere che le forme espressive del Magistero ecclesiale talvolta non appaiano proprio come facilmente comprensibili. Queste devono essere tradotte dai predicatori e dai catechisti in un linguaggio, che corrisponda alle diverse persone e al loro rispettivo ambiente culturale. Il contenuto essenziale del Magistero ecclesiale in proposito deve però essere mantenuto. Non può essere annacquato per supposti motivi pastorali, perché esso trasmette la verità rivelata. Certamente è difficile rendere comprensibili all’uomo secolarizzato le esigenze del Vangelo. Ma questa difficoltà pastorale non può condurre a compromessi con la verità. Giovanni Paolo II nella Lettera Enciclica Veritatis splendor ha chiaramente respinto le soluzioni cosiddette «pastorali», che si pongono in contrasto con le dichiarazioni del Magistero (cfr. ibidem, 56).
 
Per quanto riguarda la posizione del Magistero sul problema dei fedeli divorziati risposati, si deve inoltre sottolineare che i recenti documenti della Chiesa uniscono in modo molto equilibrato le esigenze della verità con quelle della carità. Se in passato nella presentazione della verità talvolta la carità forse non risplendeva abbastanza, oggi è invece grande il pericolo di tacere o di compromettere la verità in nome della carità. Certamente la parola della verità può far male ed essere scomoda. Ma è la via verso la guarigione, verso la pace, verso la libertà interiore. Una pastorale, che voglia veramente aiutare le persone, deve sempre fondarsi sulla verità. Solo ciò che è vero può in definitiva essere anche pastorale. «Allora conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Giovanni, 8,32).
 
Note:
 
1 Cfr. Ángel Rodríguez Luño, L’epicheia nella cura pastorale dei fedeli divorziati risposati, in Sulla pastorale dei divorziati risposati, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1998, («Documenti e Studi», 17), pp. 75-87; Piero Giorgio Marcuzzi, s.d.b., Applicazione di «aequitas et epikeia» ai contenuti della Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede del 14 settembre 1994, ibidem, pp. 88-98; Gilles Pelland, s. j., La pratica della Chiesa antica relativa ai fedeli divorziati risposati, ibidem, pp. 99-131.
 
2 A tale riguardo vale la norma ribadita da Giovanni Paolo II nella Lettera apostolica postsinodale Familiaris consortio, n. 84: «La riconciliazione nel sacramento della penitenza — che aprirebbe la strada al sacramento eucaristico — può essere accordata solo a quelli che, pentiti di aver violato il segno dell’Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l’indissolubilità del matrimonio. Ciò comporta, in concreto, che quando l’uomo e la donna, per seri motivi — quali, ad esempio, l’educazione dei figli — non possono soddisfare l’obbligo della separazione, “assumono l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi”». Cfr. anche Benedetto XVI, Lettera apostolica postsinodale Sacramentum caritatis, n. 29.
 
3 Durante un incontro con il clero della diocesi di Aosta, svoltosi il 25 luglio 2005, Papa Benedetto XVI ha affermato in merito a questa difficile questione: «Particolarmente dolorosa è la situazione di quanti erano sposati in Chiesa, ma non erano veramente credenti e lo hanno fatto per tradizione, e poi trovandosi in un nuovo matrimonio non valido si convertono, trovano la fede e si sentono esclusi dal Sacramento. Questa è realmente una sofferenza grande e quando sono stato prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede ho invitato diverse Conferenze episcopali e specialisti a studiare questo problema: un sacramento celebrato senza fede. Se realmente si possa trovare qui un momento di invalidità perché al sacramento mancava una dimensione fondamentale non oso dire. Io personalmente lo pensavo, ma dalle discussioni che abbiamo avuto ho capito che il problema è molto difficile e deve essere ancora approfondito.


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[Modificato da Caterina63 10/10/2013 12:03]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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06/03/2014 11:39
 
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COMUNIONE AI DIVORZIATI RISPOSATI? QUANDO GIOVANNI PAOLO II SPIEGÒ IL «NO» IRREMOVIBILE DELLA CHIESA




Dall'Esortazione Apostolica «Familiaris Consortio» (22 novembre 1981) 

L'esperienza quotidiana mostra, purtroppo, che chi ha fatto ricorso al divorzio ha per lo più in vista il passaggio ad una nuova unione, ovviamente non col rito religioso cattolico. Poiché si tratta di una piaga che va, al pari delle altre, intaccando sempre più largamente anche gli ambienti cattolici, il problema dev'essere affrontato con premura indilazionabile. I Padri Sinodali l'hanno espressamente studiato. La Chiesa, infatti, istituita per condurre a salvezza tutti gli uomini e soprattutto i battezzati, non può abbandonare a se stessi coloro che - già congiunti col vincolo matrimoniale sacramentale - hanno cercato di passare a nuove nozze. Perciò si sforzerà, senza stancarsi, di mettere a loro disposizione i suoi mezzi di salvezza.

Sappiano i pastori che, per amore della verità, sono obbligati a ben discernere le situazioni. C'è infatti differenza tra quanti sinceramente si sono sforzati di salvare il primo matrimonio e sono stati abbandonati del tutto ingiustamente, e quanti per loro grave colpa hanno distrutto un matrimonio canonicamente valido. Ci sono infine coloro che hanno contratto una seconda unione in vista dell'educazione dei figli, e talvolta sono soggettivamente certi in coscienza che il precedente matrimonio, irreparabilmente distrutto, non era mai stato valido.

Insieme col Sinodo, esorto caldamente i pastori e l'intera comunità dei fedeli affinché aiutino i divorziati procurando con sollecita carità che non si considerino separati dalla Chiesa, potendo e anzi dovendo, in quanto battezzati, partecipare alla sua vita. Siano esortati ad ascoltare la Parola di Dio, a frequentare il sacrificio della Messa, a perseverare nella preghiera, a dare incremento alle opere di carità e alle iniziative della comunità in favore della giustizia, a educare i figli nella fede cristiana, a coltivare lo spirito e le opere di penitenza per implorare così, di giorno in giorno, la grazia di Dio. La Chiesa preghi per loro, li incoraggi, si dimostri madre misericordiosa e così li sostenga nella fede e nella speranza.

La Chiesa, tuttavia, ribadisce la sua prassi, fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati. Sono essi a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell'unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall'Eucaristia. C'è inoltre un altro peculiare motivo pastorale: se si ammettessero queste persone all'Eucaristia, i fedeli rimarrebbero indotti in errore e confusione circa la dottrina della Chiesa sull'indissolubilità del matrimonio.

La riconciliazione nel sacramento della penitenza - che aprirebbe la strada al sacramento eucaristico - può essere accordata solo a quelli che, pentiti di aver violato il segno dell'Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l'indissolubilità del matrimonio. Ciò comporta, in concreto, che quando l'uomo e la donna, per seri motivi - quali, ad esempio, l'educazione dei figli - non possono soddisfare l'obbligo della separazione, «assumono l'impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi».

Dal discorso alla Rota Romana (28 gennaio 2002) 

Il matrimonio «è» indissolubile: questa proprietà esprime una dimensione del suo stesso essere oggettivo, non è un mero fatto soggettivo. Di conseguenza, il bene dell'indissolubilità è il bene dello stesso matrimonio; e l'incomprensione dell'indole indissolubile costituisce l'incomprensione del matrimonio nella sua essenza. Ne consegue che il «peso» dell'indissolubilità ed i limiti che essa comporta per la libertà umana non sono altro che il rovescio, per così dire, della medaglia nei confronti del bene e delle potenzialità insite nell'istituto matrimoniale come tale. In questa prospettiva, non ha senso parlare di «imposizione» da parte della legge umana, poiché questa deve riflettere e tutelare la legge naturale e divina, che è sempre verità liberatrice (cfr Gv 8, 32).

Questa verità sull'indissolubilità del matrimonio, come tutto il messaggio cristiano, è destinata agli uomini e alle donne di ogni tempo e luogo. Affinché ciò si realizzi, è necessario che tale verità sia testimoniata dalla Chiesa e, in particolare, dalle singole famiglie come "chiese domestiche", nelle quali marito e moglie si riconoscono mutuamente vincolati per sempre, con un legame che esige un amore sempre rinnovato, generoso e pronto al sacrificio.

Non ci si può arrendere alla mentalità divorzistica: lo impedisce la fiducia nei doni naturali e soprannaturali di Dio all'uomo. L'attività pastorale deve sostenere e promuovere l'indissolubilità. Gli aspetti dottrinali vanno trasmessi, chiariti e difesi, ma ancor più importanti sono le azioni coerenti.


 


A quanto pare, i nostri vescovi sono i primi a fregarsene di ciò che insegna la Chiesa. Come il blog Cantuale Antonianum fa notare, già il primo sinodo di Benedetto XVI sull'Eucarestia si espresse sulla Comunione ai divorziati-risposati: no, fu la risposta. 
D'accordo fare un altro sinodo sulla famiglia, perché oggi abbiamo le nozze e le adozioni gay, ma è assurdo discutere su una questione già risolta. 
Così si dà solo l'impressione, molto fondata, che si voglia, per prima cosa, cancellare il pontificato e il magistero benedettino, e in secondo luogo che i primi a non credere all'immutabile dottrina evangelica siano proprio i successori degli apostoli, visto che sono i primi a rimettere sempre tutto in discussione. 
Come i farisei, per mezzo delle loro tradizioni, trasgredivano ai comandamenti divini, così oggi i vescovi, per mezzo della "pastorale misericordiosa" caso per caso, eclissano il deposito della fede. Non ci fa una bella figura neppure Bergoglio... ma vabbè...


http://www.cantualeantonianum.com/2014/03/una-pratica-pastorale-fondata-su.html?spref=fb


 e a fare queste riflessioni, badiamo bene, non è un "tradizionalista" o uno contro Papa Francesco eh!... trattasi dell'ottimo frate francescale del sito Cantuale Antonianum.... una persona equilibrata e sempre molto ponderata.... ma leggiamo l'articolo integralmente:


Dopo aver letto la relazione "segreta" del Card. Kasper al recente Concistoro, preludio di future assise sinodali che molti preannunciano "infuocate", e dopo aver ascoltato le più disparate interpretazioni, vien quasi da chiedersi: "Ma il Card. Kasper dov'era quando fecero il Sinodo sull'Eucaristia del 2005? E con lui tanti vescovi, magari già all'epoca elevati alla porpora?"... Kasper al Sinodo dei Vescovi del 2005 c'era. Faceva pure parte del Consiglio post-Sinodale, quello che aiuta il Papa a preparare la successiva Esortazione apostolica, documento che raccoglie e rilancia alla Chiesa intera quando elaborato dai Padri nel Sinodo.
Possiamo supporre che il cardinale tedesco abbia già fatto presenti le stesse opinioni, espresse pochi giorni fa a Papa e cardinali, anche ai confratelli nell'episcopato riuniti nel 2005. Con tutta l'evidenza dei risultati di quel Sinodo, i vescovi non avevano né accettato né approvato le opinioni di Kasper. E lui stesso, con onestà, dice che si tratta di "novità", di "tradizioni più recenti" (cioè né bibliche, né apostoliche) che possono - a suo parere - esser messe accanto alle soluzioni tradizionali, senza scalzarle. Ma è davvero così semplice?

La trattazione del Presidente Emerito del Pontificio Consiglio per l'Unità dei Cristiani inizia e prosegue in maniera dotta e biblica per i primi 4 capitoletti. Finché si arriva al quinto punto. Qui assistiamo ad una sfilza di domande retoriche che sembrano essere messe lì al solo fine di affermare: "non sono io che dico certe cose, siete voi a dirle!".
Viene anche ricordato fugacemente il numero 29 di Sacramentum Caritatis, il documento post-sinodale del 2007, ma Kasper non si sofferma a citarlo per esteso e a trarne le conseguenze. Quel numero, tra l'altro, afferma con estrema chiarezza che il Sinodo dei Vescovi ha già dato una sua autorevole risposta al problema della comunione a chi, dopo un divorzio, passa a nuove nozze civili:
Il Sinodo dei Vescovi ha confermato la prassi della Chiesa, fondata sulla Sacra Scrittura (cfr Mc 10,2-12), di non ammettere ai Sacramenti i divorziati risposati, perché il loro stato e la loro condizione di vita oggettivamente contraddicono quell'unione di amore tra Cristo e la Chiesa che è significata ed attuata nell'Eucaristia.
Ricapitoliamo: un Sinodo dei Vescovi ha già risposto, ed evidentemente ha già discusso, su questo preciso e spinoso punto "di prassi", di pratica pastorale (per usare la terminologia di Kasper). E ha discusso non nel medioevo o nel XIX secolo, ma nemmeno 10 anni fa. Qualcuno potrebbe essere però tentato di mettere in dubbio che quanto i vescovi del Sinodo avevano deciso nel 2005 e proposto al Papa sia stato solamente ratificato da Benedetto XVI nel 2007. Papa Ratzinger, forse, ha piegato secondo le sue personali visioni teologiche le proposte dei Vescovi o li ha convinti con la sua autorità.... In realtà Ratzinger ci aveva sorpresi in precedenza, perché nel 1998 già aveva esposto i suoi personali crucci teologici sulla questione dell'ammissione alla comunione dei battezzati che dopo un divorzio si risposano. E i suoi dubbi di teologo mostravano punti di contatto con quanto continua a sostenere il cardinal Kasper (vedi qui). Inoltre, Ratzinger, da Papa, per non nascondere nulla aveva voluto pure la pubblicazione integrale delle proposte dei Padri sinodali, in tempi assolutamente non sospetti: due anni prima del suo documento! Tutto alla luce del sole, come si suol dire.
Che cosa avevano proposto, dunque, i Vescovi riuniti nel Sinodo a questo proposito? Leggiamo:
Proposizione 40 I divorziati risposati e l’Eucaristia
In continuità con i numerosi pronunciamenti del Magistero della Chiesa e condividendo la sofferta preoccupazione espressa da molti Padri, il Sinodo dei Vescovi ribadisce l’importanza di un atteggiamento e di un’azione pastorale di attenzione e di accoglienza verso i fedeli divorziati e risposati.
Secondo la Tradizione della Chiesa cattolica, essi non possono esser ammessi alla Santa Comunione, trovandosi in condizione di oggettivo contrasto con la Parola del Signore che ha riportato il matrimonio al valore originario dell’indissolubilità (cf. CCC 1640), testimoniato dal suo dono sponsale sulla croce e partecipato ai battezzati attraverso la grazia del sacramento. I divorziati risposati tuttavia appartengono alla Chiesa, che li accoglie e li segue con speciale attenzione perché coltivino uno stile cristiano di vita attraverso la partecipazione alla Santa Messa, pur senza ricevere la Santa Comunione, l’ascolto della Parola di Dio, l’Adorazione Eucaristica, la preghiera, la partecipazione alla vita comunitaria, il dialogo confidente con un sacerdote o un maestro di vita spirituale, la dedizione alla carità vissuta, le opere di penitenza, l’impegno educativo verso i figli. Se poi non viene riconosciuta la nullità del vincolo matrimoniale e si danno condizioni oggettive che di fatto rendono la convivenza irreversibile, la Chiesa li incoraggia a impegnarsi a vivere la loro relazione secondo le esigenze della legge di Dio, trasformandola in un’amicizia leale e solidale; così potranno riaccostarsi alla mensa eucaristica, con le attenzioni previste dalla provata prassi ecclesiale, ma si eviti di benedire queste relazioni perché tra i fedeli non sorgano confusioni circa il valore del matrimonio.
Nello stesso tempo il Sinodo auspica che sia fatto ogni possibile sforzo sia per assicurare il carattere pastorale, la presenza e la corretta e sollecita attività dei tribunali ecclesiastici per le cause di nullità matrimoniale (cf. Dignitas connubii), sia per approfondire ulteriormente gli elementi essenziali per la validità del matrimonio, anche tenendo conto dei problemi emergenti dal contesto di profonda trasformazione antropologica del nostro tempo, dal quale gli stessi fedeli rischiano di esser condizionati specialmente in mancanza di una solida formazione cristiana.
Il Sinodo ritiene che, in ogni caso, grande attenzione debba esse assicurata alla formazione dei nubendi e alla previa verifica della loro effettiva condivisione delle convinzioni e degli impegni irrinunciabili per la validità del sacramento del matrimonio, e chiede ai Vescovi e ai parroci il coraggio di un serio discernimento per evitare che impulsi emotivi o ragioni superficiali conducano i nubendi all’assunzione di una grande responsabilità per se stessi, per la Chiesa e per la società, che non sapranno poi onorare.
Ma allora perché non vengono più citati questi testi recenti e si insiste che solo un'ennesima riunione del Sinodo, a pochi anni dall'XI assemblea, darà "finalmente" il permesso di cambiare la "prassi" anche senza toccare la "dottrina"? Possibile che lo Spirito Santo - che tutti tirano continuamente in ballo - non abbia agito e suggerito queste cose nel 2005-2007? E il cardinal Scola, che era stato tanto preciso e chiaro a quel tempo (vedi qui), come mai oggi non fa sentire la sua voce?

Ancora: se quella attuale è una "prassi fondata sulla Scrittura e sulla Tradizione" è davvero possibile che sia "senza misericordia" o sbagliata o anche solo "fuori del tempo"? Oppure dev'essere intesa come una prassi medicinale, necessaria per chi ne ha bisogno per la guarigione e la conversione, che comprende scelte forti e coraggiose (non solo un cammino interiore) e insieme per tutelare e difendere il bene dell'indissolubilità del matrimonio, tanto bersagliato e attaccato?
Io mi chiedo e vi chiedo: se appena 7 anni dopo quanto scriveva Benedetto XVI, sulla scorta del consiglio dei vescovi della Chiesa Cattolica, non è più nemmeno ricordato, sottolineato, e tenuto in conto, come è possibile credere che ciò che un Papa oggi dice domani varrà ancora?

Leggete e giudicate voi se la prassi pastorale odierna, descritta dal documento pontificio, sia così cattiva e senza cuore o anacronistica come viene dipinta da chi rischia forte nel contrapporre (e non conciliare) la verità e la carità, oppure sia un coraggioso richiamo a chi si è "sposato nel Signore" a non calpestare il sacramento che rende il marito e la moglie "una sola carne".
Sacramentum Caritatis 29: Eucaristia e indissolubilità del matrimonio 
Se l'Eucaristia esprime l'irreversibilità dell'amore di Dio in Cristo per la sua Chiesa, si comprende perché essa implichi, in relazione al sacramento del Matrimonio, quella indissolubilità alla quale ogni vero amore non può che anelare.(91) Più che giustificata quindi l'attenzione pastorale che il Sinodo ha riservato alle situazioni dolorose in cui si trovano non pochi fedeli che, dopo aver celebrato il sacramento del Matrimonio, hanno divorziato e contratto nuove nozze. Si tratta di un problema pastorale spinoso e complesso, una vera piaga dell'odierno contesto sociale che intacca in misura crescente gli stessi ambienti cattolici. I Pastori, per amore della verità, sono obbligati a discernere bene le diverse situazioni, per aiutare spiritualmente nei modi adeguati i fedeli coinvolti.(92) Il Sinodo dei Vescovi ha confermato la prassi della Chiesa, fondata sulla Sacra Scrittura (cfr Mc 10,2-12), di non ammettere ai Sacramenti i divorziati risposati, perché il loro stato e la loro condizione di vita oggettivamente contraddicono quell'unione di amore tra Cristo e la Chiesa che è significata ed attuata nell'Eucaristia. I divorziati risposati, tuttavia, nonostante la loro situazione, continuano ad appartenere alla Chiesa, che li segue con speciale attenzione, nel desiderio che coltivino, per quanto possibile, uno stile cristiano di vita attraverso la partecipazione alla santa Messa, pur senza ricevere la Comunione, l'ascolto della Parola di Dio, l'Adorazione eucaristica, la preghiera, la partecipazione alla vita comunitaria, il dialogo confidente con un sacerdote o un maestro di vita spirituale, la dedizione alla carità vissuta, le opere di penitenza, l'impegno educativo verso i figli.
Là dove sorgono legittimamente dei dubbi sulla validità del Matrimonio sacramentale contratto, si deve intraprendere quanto è necessario per verificarne la fondatezza. Bisogna poi assicurare, nel pieno rispetto del diritto canonico,(93) la presenza sul territorio dei tribunali ecclesiastici, il loro carattere pastorale, la loro corretta e pronta attività.(94) Occorre che in ogni Diocesi ci sia un numero sufficiente di persone preparate per il sollecito funzionamento dei tribunali ecclesiastici. Ricordo che «è un obbligo grave quello di rendere l'operato istituzionale della Chiesa nei tribunali sempre più vicino ai fedeli».(95) È necessario, tuttavia, evitare di intendere la preoccupazione pastorale come se fosse in contrapposizione col diritto. Si deve piuttosto partire dal presupposto che fondamentale punto d'incontro tra diritto e pastorale è l'amore per la verità: questa infatti non è mai astratta, ma «si integra nell'itinerario umano e cristiano di ogni fedele».(96) Infine, là dove non viene riconosciuta la nullità del vincolo matrimoniale e si danno condizioni oggettive che di fatto rendono la convivenza irreversibile, la Chiesa incoraggia questi fedeli a impegnarsi a vivere la loro relazione secondo le esigenze della legge di Dio, come amici, come fratello e sorella; così potranno riaccostarsi alla mensa eucaristica, con le attenzioni previste dalla provata prassi ecclesiale. Tale cammino, perché sia possibile e porti frutti, deve essere sostenuto dall'aiuto dei pastori e da adeguate iniziative ecclesiali, evitando, in ogni caso, di benedire queste relazioni, perché tra i fedeli non sorgano confusioni circa il valore del Matrimonio.(97)
Data la complessità del contesto culturale in cui vive la Chiesa in molti Paesi, il Sinodo ha, poi, raccomandato di avere la massima cura pastorale nella formazione dei nubendi e nella previa verifica delle loro convinzioni circa gli impegni irrinunciabili per la validità del sacramento del Matrimonio. Un serio discernimento a questo riguardo potrà evitare che impulsi emotivi o ragioni superficiali inducano i due giovani ad assumere responsabilità che non sapranno poi onorare.(98) Troppo grande è il bene che la Chiesa e l'intera società s'attendono dal matrimonio e dalla famiglia su di esso fondata per non impegnarsi a fondo in questo specifico ambito pastorale. Matrimonio e famiglia sono istituzioni che devono essere promosse e difese da ogni possibile equivoco sulla loro verità, perché ogni danno arrecato ad esse è di fatto una ferita che si arreca alla convivenza umana come tale.
(91) Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 1640.
(92) Cfr Giovanni Paolo II, Esort. ap. postsinodale Familiaris consortio (22 novembre 1981), 84:AAS 74 (1982), 184-186; Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica circa la recezione della comunione eucaristica da parte di fedeli divorziati risposati Annus Internationalis Familiae (14 settembre 1994): AAS 86 (1994), 974-979.
(93) Cfr Pontificio Consiglio per i Testi legislativi, Istruzione sulle norme da osservarsi nei tribunali ecclesiastici nelle cause matrimoniali Dignitas connubii (25 gennaio 2005), Città del Vaticano, 2005.
(94) Cfr Propositio 40.
(95) Benedetto XVI, Discorso al Tribunale della Rota Romana in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario (28 gennaio 2006): AAS 98 (2006), 138.
(96) Cfr Propositio 40.
(97) Cfr ibidem.
(98) Cfr ibidem.


Testo preso da: Una pratica pastorale fondata su Scrittura e Tradizione. L'oblio di decisioni Sinodali scomode ma evangeliche http://www.cantualeantonianum.com/2014/03/una-pratica-pastorale-fondata-su.html#ixzz2vB4oFtsu 
http://www.cantualeantonianum.com 

 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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07/04/2014 17:46
 
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lunedì 7 aprile 2014

P. Cavalcoli risponde a MiL in merito a sue affermazioni rilasciate a Radio Maria sulla questione dei divorziati risposati

 
Tempo fa abbiamo ricevuto da parte dei nostri lettori molte mail  di stupore e di preccupazione per un'intervento di p. Giovanni Cavalcoli OP, circa sulla problematica della Comunione ai divorziati risposati o comunque conviventi.  Padre Cavalcoli avrebbe affermato che la questione sarebbe da trattare sotto un profilo di carattere pastorale e non dottrinale. 
L'intervento in questione si può ascoltare qui.  
Ci siamo permessi di scrivere all'interessato, e chiedere un'interpretazione autentica. 
Ringraziamo anche pubblicamente p. Cavalcoli per la cortesia e la disponibilità, e per averci permesso di pubblicare la sua risposta e la sua spiegazione. 

Roberto
 
Ecco la nostra mail.
 
 Rev.do Padre,
come sta?
Le scrivo sollecitato da molti nostri lettori che l'hanno sentita a Radio Maria. Secondo quanto da loro sentito, Lei avrebbe sostenuto che la comunione ai divorziati risposati è una questione di carattere pastorale e non dottrinale.
Orbene, noi siamo gli ultimi a poter discutere su questi argomenti dotti, ma se così davvero lei avesse detto, rimaniamo basiti.
- i divorziati risposati non possono accedere alla comunione perchè giacciono in peccato mortale con il coniuge civile concubino e non fuggono dalle tentazione di peccare (motivo per cui non possono ricevere l'assoluzione).
- inoltre i divorziati non risposati non possono accedere alla comunione perchè hanno arbitrariamente contravvenuto al divieto divino di non sciogliere ciò che fu unito da Dio. (si veda cosa successe dopo Enrico VIII).
Saremmo lieti se volesse darci una sua spiegazione sul punto: i lettori hanno capito male? Lei è stato frainteso? O davvero ha sostenuto questa teoria? In tal caso, ci permetta di esprimere tutto il nostro stupore!
Potremmo, nel caso, pubblicare la sua risposta ad utilitatem dei nostri preoccupati lettori?
Un caro saluto e a presto!
Con stima, Roberto  - Redazione MiL
 
 Ed ecco la sua risposta, che ben spiega il corretto pensiero del domenicano, teologicamente ineccepibile, e che tranquillizzerà di sicuro i nostri lettori.
 
Caro Roberto,
       i divorziati risposati si trovano nell'occasione prossima di peccare mortalmente, ma questo non vuol dire che di fatto siano in permanente stato di peccato mortale. Sarebbe, questo un giudizio temerario, che non ci è concesso, e che la Chiesa non pronuncia affatto, perchè il peccato non dipende semplicemente dall'occasione, ma dalla volontà, la quale resta libera di non peccare, anche quando si offre l'occasione di peccare. E' importante non cercare l'occasione: questo può essere già peccato. Ma se questa si presenta inaspettata o imprevista, allora è possibile resistere.
  Le attuali disposizioni della Chiesa, per le quali a loro è proibito accedere alla Confessione ed alla Comunione, sono certamente sagge, perchè esse sono motivate dal fondatotimore che i due possano trovarsi in stato di peccato, anche se non c'è la certezza per il motivo che ho detto sopra, per cui, se dovessero confessarsi e fare la Comunione in quelle condizioni, commetterebbero un sacrilegio: riguardo alla Confessione, perchè si troverebbero assai in difficoltà nel promettere di non peccare più e riguardo alla Comunione, perchè, se sono in stato di peccato mortale, "assumerebbero, come dice Paolo, la propria condanna".
   E' vero che i due si trovano in una situazione che li spinge fortemente al peccato e che crea ostacolo alla possibiltà di formare il proposito di non peccare più. Ma possono darsi situazioni, per esempio con flgli, e magari col coniuge legittimo sposato o unito con un'altra persona, per cui praticamente è impossibile sbloccare la situazione. 
  Ma se fanno il possibile per evitare l'occasione e nonostante ciò cadono, ed ogni volta che cadono, si pentono, Dio non li perdonerà?
  Inoltre ricordi che la Chiesa stessa ha emanato anni fa un documento, nel quale si dice che se i due riescono ad astenersi dal rapporto sessuale, per esempio due anziani, sono ammessi ai sacramenti.
  Il dogma non può cambiare; invece le disposizioni pastorali possono mutare. Attendiamo con fiducia ciò che su questa delicata materia sarà deciso dal Santo Padre, dopo aver ascoltato i vescovi e il popolo di Dio. 
   Secondo me, è bene che la legge attuale resti immutata, perchè, se allarghiamo la disciplina, temo che calerà ulteriormente la stima nei matrimonio e nei sacramenti, già molto compromessa presso molti cattolici Ma sta al Papa decidere. Dobbiamo fidarci di lui, anche se su questa materia, che non è dogmatica, non è infallibile.

   Vi autorizzo senz'altro a pubblicare, se credete, questa mia risposta. 
   Colgo l'occasione per complimentarmi per il vostro sito.  Vi ricordo nella preghiera e pregate per me. 

   Con viva cordlalità    

P.Giovanni Cavalcoli,OP







Fraternamente CaterinaLD

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24/04/2014 11:50
 
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   la notizia "bomba" è questa, cliccate poi sul titolo:




Il Papa al telefono mi ha detto che un divorziato può fare la comunione



ma arriva puntuale il bollettino ufficiale dall'ospedale da campo della Chiesa di Francesco:

 

Padre Lombardi: telefonate del Papa, non trarre conseguenze su insegnamento Chiesa



In questi giorni si è parlato molto di una telefonata di Papa Francesco. A questo proposito il direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi, ha rilasciato la seguente dichiarazione:

“Parecchie telefonate hanno avuto luogo, nell’ambito dei rapporti personali pastorali del Papa Francesco. Non trattandosi assolutamente di attività pubblica del Papa non sono da attendersi informazioni o commenti da parte della Sala Stampa. Ciò che è stato diffuso a questo proposito, uscendo dall’ambito proprio dei rapporti personali, e la sua amplificazione mediatica conseguente, non ha quindi conferma di attendibilità ed è fonte di fraintendimenti e confusione. E’ perciò da evitare di trarre da questa vicenda conseguenze per quanto riguarda l’insegnamento della Chiesa”.




Testo proveniente dalla pagina http://it.radiovaticana.va/news/2014/04/24/padre_lombardi:_telefonate_del_papa,_non_trarre_conseguenze_su/it1-793371 
del sito Radio Vaticana 



ATTENZIONE:
a riguardo delle parole del Papa in questa, ed altre, telefonate private, noi ci asteniamo dall'appoggiarle o sostenerle perchè, soprattutto ques'ultima, sono espressioni molto gravi e conducono i fedeli nell'errore. La dottrina della Chiesa, infatti, è al di sopra di ogni opinione soggettiva, personale o privata che si ponesse contro il Catechismo bimillenario della Chiesa, anche se tale opinione privata provenisse da un Pontefice....   
Resta palese che viviamo forti contraddizioni e fariseimo a riguardo della dottrina contro la quale una opinione privata di un Papa rischia di sovvertirla e banalizzarla.... il Papa non è "padrone" delle pecore a lui affidate, ma CUSTODE DELLA DOTTRINA..... NESSUN PAPA PUO' MODIFICARLA a proprio piacimento.... è grave pertanto che il "prete in privato" dica cose al fedele in contrasto con la dottrina....  prudenza vuole che noi facciamo un pò da POMPIERI cercando di estinguere quelle fiamme che divampano da queste telefonate private.... 

questa e' la linea della Chiesa, in verità:
"I divorziati risposati"
(Passo tratto dall'esortazione apostolica Familiaris Consortio di Sua Santità Giovanni Paolo II) 

84. L'esperienza quotidiana mostra, purtroppo, che chi ha fatto ricorso al divorzio ha per lo più in vista il passaggio ad una nuova unione, ovviamente non col rito religioso cattolico. Poiché si tratta di una piaga che va, al pari delle altre, intaccando sempre più largamente anche gli ambienti cattolici, il problema dev'essere affrontato con premura indilazionabile. I Padri Sinodali l'hanno espressamente studiato. La Chiesa, infatti, istituita per condurre a salvezza tutti gli uomini e soprattutto i battezzati, non può abbandonare a se stessi coloro che - già congiunti col vincolo matrimoniale sacramentale - hanno cercato di passare a nuove nozze. Perciò si sforzerà, senza stancarsi, di mettere a loro disposizione i suoi mezzi di salvezza.

Sappiano i pastori che, per amore della verità, sono obbligati a ben discernere le situazioni. C'è infatti differenza tra quanti sinceramente si sono sforzati di salvare il primo matrimonio e sono stati abbandonati del tutto ingiustamente, e quanti per loro grave colpa hanno distrutto un matrimonio canonicamente valido. Ci sono infine coloro che hanno contratto una seconda unione in vista dell'educazione dei figli, e talvolta sono soggettivamente certi in coscienza che il precedente matrimonio, irreparabilmente distrutto, non era mai stato valido.

Insieme col Sinodo, esorto caldamente i pastori e l'intera comunità dei fedeli affinché aiutino i divorziati procurando con sollecita carità che non si considerino separati dalla Chiesa, potendo e anzi dovendo, in quanto battezzati, partecipare alla sua vita. Siano esortati ad ascoltare la Parola di Dio, a frequentare il sacrificio della Messa, a perseverare nella preghiera, a dare incremento alle opere di carità e alle iniziative della comunità in favore della giustizia, a educare i figli nella fede cristiana, a coltivare lo spirito e le opere di penitenza per implorare così, di giorno in giorno, la grazia di Dio. La Chiesa preghi per loro, li incoraggi, si dimostri madre misericordiosa e così li sostenga nella fede e nella speranza.

La Chiesa, tuttavia, ribadisce la sua prassi, fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati. Sono essi a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell'unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall'Eucaristia. C'è inoltre un altro peculiare motivo pastorale: se si ammettessero queste persone all'Eucaristia, i fedeli rimarrebbero indotti in errore e confusione circa la dottrina della Chiesa sull'indissolubilità del matrimonio.

La riconciliazione nel sacramento della penitenza - che aprirebbe la strada al sacramento eucaristico - può essere accordata solo a quelli che, pentiti di aver violato il segno dell'Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l'indissolubilità del matrimonio. Ciò comporta, in concreto, che quando l'uomo e la donna, per seri motivi - quali, ad esempio, l'educazione dei figli - non possono soddisfare l'obbligo della separazione, «assumono l'impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi» (Giovanni Paolo PP. II, Omelia per la chiusura del VI Sinodo dei Vescovi, 7 [25 Ottobre 1980]: AAS 72 [1980] 1082).

Similmente il rispetto dovuto sia al sacramento del matrimonio sia agli stessi coniugi e ai loro familiari, sia ancora alla comunità dei fedeli proibisce ad ogni pastore, per qualsiasi motivo o pretesto anche pastorale, di porre in atto, a favore dei divorziati che si risposano, cerimonie di qualsiasi genere. Queste, infatti, darebbero l'impressione della celebrazione di nuove nozze sacramentali valide e indurrebbero conseguentemente in errore circa l'indissolubilità del matrimonio validamente contratto.

Agendo in tal modo, la Chiesa professa la propria fedeltà a Cristo e alla sua verità; nello stesso tempo si comporta con animo materno verso questi suoi figli, specialmente verso coloro che, senza loro colpa, sono stati abbandonati dal loro coniuge legittimo.

Con ferma fiducia essa crede che, anche quanti si sono allontanati dal comandamento del Signore ed in tale stato tuttora vivono, potranno ottenere da Dio la grazia della conversione e della salvezza, se avranno perseverato nella preghiera, nella penitenza e nella carità.

 




[Modificato da Caterina63 24/04/2014 11:55]
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27/05/2014 13:43
 
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  Comunione e divorziati risposati


Risponde padre Edward McNamara, L.C., professore di Teologia e direttore spirituale



Roma,  (Zenit.orgEdward McNamara, L.C. | 472 hits


 


Padre McNamara risponde oggi ad una domanda di un nostro lettore negli Stati Uniti. 


Durante una riunione decanale un sacerdote ha rivelato di recente che dà la comunione a cattolici divorziati e risposati fuori della Chiesa e senza un decreto di nullità, questo sotto l'autorità del cosiddetto "foro interno", noncurante della loro convivenza coniugale. Alla luce del Catechismo della Chiesa Cattolica n° 1650, di che cosa si tratta? Mi sfugge qualcosa? - G.S., Florida (USA)


Il n° 1650 del CCC dice:


“1650. Oggi, in molti paesi, sono numerosi i cattolici che ricorrono al divorzio secondo le leggi civili e che contraggono civilmente una nuova unione. La Chiesa sostiene, per fedeltà alla parola di Gesù Cristo (« Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un'altra, commette adulterio contro di lei; se la donna ripudia il marito e ne sposa un altro, commette adulterio »: Mc 10,11-12), che non può riconoscere come valida una nuova unione, se era valido il primo matrimonio. Se i divorziati si sono risposati civilmente, essi si trovano in una situazione che oggettivamente contrasta con la Legge di Dio. Perciò essi non possono accedere alla Comunione eucaristica, per tutto il tempo che perdura tale situazione. Per lo stesso motivo non possono esercitare certe responsabilità ecclesiali. La riconciliazione mediante il sacramento della Penitenza non può essere accordata se non a coloro che si sono pentiti di aver violato il segno dell'Alleanza e della fedeltà a Cristo, e si sono impegnati a vivere in una completa continenza”.


Il n° successivo completa il testo:


“1651. Nei confronti dei cristiani che vivono in questa situazione e che spesso conservano la fede e desiderano educare cristianamente i loro figli, i sacerdoti e tutta la comunità devono dare prova di una attenta sollecitudine affinché essi non si considerino come separati dalla Chiesa, alla vita della quale possono e devono partecipare in quanto battezzati:


«Siano esortati ad ascoltare la Parola di Dio, a frequentare il Sacrificio della Messa, a perseverare nella preghiera, a dare incremento alle opere di carità e alle iniziative della comunità in favore della giustizia, a educare i figli nella fede cristiana, a coltivare lo spirito e le opere di penitenza, per implorare così, di giorno in giorno, la grazia di Dio”.


Il Catechismo riassume la dottrina della Chiesa di lunga data, ma tiene anche conto dei vari dibattiti avviati nel corso degli ultimi decenni.


Praticamente ogni parroco ha a che fare con persone buone che vivono in una nuova relazione stabile mentre sussiste ancora un valido matrimonio ecclesiastico precedente. Accade spesso che la seconda relazione resiste più a lungo della prima ed è stata benedetta anche con una prole. Non poter ricevere la Comunione è per molti fedeli un fatto doloroso.


Queste difficili situazioni pastorali hanno portato alcuni vescovi e teologi a proporre il cosiddetto “foro interno" o "buona coscienza" come soluzione per alcuni casi specifici di coppie divorziate e risposate.


Anche se gli autori di questa teoria divergono tra di loro sia per quanto riguarda la definizione che l'applicazione di questa “soluzione”, in sintesi si può dire che si tratta di una risposta pastorale data da una persona, con l’ausilio di un sacerdote, nella quale questa persona si convince in coscienza della nullità del suo matrimonio precedente, anche se poi in foro esterno la nullità (oggettiva) del vincolo non può essere stabilita. A consentire il ritorno ai sacramenti sarebbe dunque questa convinzione (soggettiva).


Tuttavia, le opinioni divergono molto su come applicare questa soluzione. Alcuni autori sostengono che non può essere concessa da un sacerdote ma solo agendo sotto la sua guida. Altri dicono esplicitamente che si tratta di una decisione presa da un sacerdotequalificatosenza ricorrere ad un tribunale ecclesiastico.


Allo stesso modo, altri sostengono che prima di convocare il foro interno è necessario che la persona abbia almeno provato di ricorrere al foro esterno (tribunale matrimoniale), la cui causa è però bloccata per difficoltà procedurali o altro. Altri sostengono che ci possano essere anche casi in cui la persona può decidere di ricorrere al foro interno senza mai aver contattato un tribunale, essendoci buone ragioni per non farlo.


Gli autori che sostengono questa "soluzione del foro interno" riconoscono allo stesso tempo che andrebbe limitata ad una certa categoria di coppie divorziate e risposate, e che non costituisce un assegno in bianco per essere riammessi ai sacramenti.


Tra le varie condizioni menzionate da questi autori: che possano ricevere i sacramenti senza provocare scandalo nella comunità; che promettano di regolarizzare il loro secondo matrimonio al decesso del primo coniuge; che abbiano dimostrato stabilità nella seconda unione, e che comprendano che il loro essere riammessi ai sacramenti non implica alcun cambiamento nella dottrina cattolica sull'indissolubilità del matrimonio, né costituisce una decisione ufficiale in merito alla nullità del precedente matrimonio.


Abbiamo semplificato le argomentazioni di questi autori, sperando di non averle travisate.


Allo stesso tempo, dobbiamo insistere sul fatto che queste sono opinioni e non rappresentano la dottrina cattolica ufficiale rispetto al foro interno.


L’insegnamento ufficiale della Chiesa su questo argomento è contenuto in una serie di documenti. Noi tratteremo quelli più rilevanti per il nostro argomento.


L’11 aprile del 1973 l’allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede (d’ora in poi abbreviato CDF), il cardinale Franjo Seper, scrisse al presidente della Conferenza Nazionale dei Vescovi Cattolici negli Stati Uniti, parlando delle "nuove opinioni che o negano o tentano di mettere in dubbio l'insegnamento del Magistero della Chiesa sull'indissolubilità del matrimonio". Il porporato concluse il suo intervento con il seguente criterio pratico:


"Per quanto riguarda l'ammissione ai sacramenti, viene chiesto agli Ordinari da un lato di sottolineare l’osservanza della disciplina attuale e, dall'altro, di badare affinché i pastori delle anime prestino particolare attenzione alla ricerca di coloro che vivono in una unione irregolare applicando alla soluzione di questi casi, in aggiunta ad altri mezzi appropriati, la pratica approvata dalla Chiesa in foro interno (probatam Ecclesiae praxim in foro interno)."


Alla domanda di chiarimenti da parte di alcuni vescovi sul significato di questa pratica approvata in foro interno, l'arcivescovo Jean Hamer, segretario della CDF, rispose il 21 marzo del 1975:


"Vorrei affermare ora che questa frase [probata praxis Ecclesiae] dev’essere intesa nel contesto della tradizionale teologia morale. Queste coppie [cattolici che vivono in unioni coniugali irregolari] possono essere autorizzate a ricevere i sacramenti a due condizioni: che cerchino di vivere secondo le esigenze dei principi morali cristiani e che ricevano i sacramenti in chiese in cui non sono conosciute in modo da non creare alcun scandalo”.


Questi documenti, assieme all’esortazione apostolica Familiaris Consortio di Giovanni Paolo II, costituiscono la base della dottrina che troviamo nel Catechismo.


Nel 1994, due anni dopo la promulgazione del Catechismo, in risposta a diverse proposte di permettere alcune eccezioni pastorali a questa dottrina e alle norme del diritto canonico in casi particolari, la CDF ha scritto una lettera ai vescovi di tutto il mondo "circa la recezione della Comunione eucaristica da parte di fedeli divorziati risposati".


Questo documento riafferma la posizione della Familiaris Consortio e del Catechismo(compresi i due motivi sopramenzionati), aggiungendo: "La struttura dell'Esortazione e il tenore delle sue parole fanno capire chiaramente che tale prassi, presentata come vincolante, non può essere modificata in base alle differenti situazioni".


Questa dottrina basilare è stata confermata nuovamente nel 2007 nell’esortazione apostolicaSacramentum caritatis: "Il Sinodo dei Vescovi ha confermato la prassi della Chiesa, fondata sulla Sacra Scrittura (cfr Mc 10,2-12), di non ammettere ai Sacramenti i divorziati risposati, perché il loro stato e la loro condizione di vita oggettivamente contraddicono quell'unione di amore tra Cristo e la Chiesa che è significata ed attuata nell'Eucaristia".


Quindi è chiaro che la Santa Sede ha escluso la possibilità della "soluzione in foro interno" come una strada valida per risolvere questioni di validità coniugale. L'atto di contrarre matrimonio è un atto pubblico, davanti a Dio e la società, e perciò questioni riguardanti la sua validità possono essere risolte solo in foro esterno. L'ammissione ai sacramenti può avvenire soltanto nelle situazioni descritte nel Catechismo.


Tuttavia, tutti i Papi recenti hanno sentito fortemente la situazione dolorosa delle coppie che si trovano in questa situazione. Dai primi mesi del suo pontificato Benedetto XVI ha invitato a studiare ulteriormente questa difficoltà. Papa Francesco ha altresì affrontato questo tema e ha invitato i vescovi a proporre possibili iniziative che aiuteranno la Chiesa ad assistere meglio questi membri del corpo di Cristo.


Eppure, come ha osservato un cardinale eminente riguardo a questo argomento: “il nero non diventerà bianco". Cioè nessuna soluzione pastorale può cambiare il Vangelo o l'insegnamento della Chiesa sull'indissolubilità del matrimonio.


L’azione pastorale più importante che la Chiesa può e deve fare è cercare di promuovere la formazione cristiana dei giovani cattolici in modo che si avvicinino al matrimonio con l'intenzione di cooperare con la grazia di Dio, facendone un impegno per la vita. In altre parole, la migliore soluzione a lungo termine per il divorzio e le seconde nozze è di evitare il divorzio in primo luogo.


Allo stesso tempo, sarebbe ingenuo pensare che alcuni matrimoni non falliranno o che non ci saranno celebrazioni non valide. Questa è una conseguenza inevitabile della debolezza umana e della libertà umana. Allo stesso modo, oggi c’è un gran numero di cattolici che si trovano in situazioni irregolari e che hanno concrete necessità pastorali, e la Chiesa ha l’obbligo di trovare vie per aiutarli, rispettando l'insegnamento di Cristo sulla santità del matrimonio.


Questo è probabilmente lo spirito con cui Papa Francesco e i vescovi cercheranno di capire quali soluzioni e iniziative siano disponibili per portare la luce di Cristo a tutti i membri della Chiesa.


***


I lettori possono inviare domande all’indirizzo liturgia.zenit@zenit.orgSi chiede gentilmente di menzionare la parola “Liturgia” nel campo dell’oggetto. Il testo dovrebbe includere le iniziali, il nome della città e stato, provincia o nazione. Padre McNamara potrà rispondere solo ad una piccola selezione delle numerosissime domande che ci pervengono.




Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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