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LA TUNICA STRACCIATA (testi di Tito Casini)

Ultimo Aggiornamento: 30/01/2012 16:25
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22/05/2009 16:02
 
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Le termiti

Tornare a combattete comporta per me riprendere in mano quel mio non so se più famoso o famigerato libretto col quale già scesi in campo e ognun sa come accolto: quella Tunica stracciata (oggi avrei potuto scriver: «fatta a brandelli»), che ho infatti riaperto ritrovandomici... profeta.

Profeta, ahimè, di sciagure, come l'Atride apostrofava Calcante perché da lui rimproverato dell'oltraggio fatto alla Divinità nella persona del sacerdote padre della bella Criseide (e buon per essi, i greci, cui il rimprovero di Ulisse e il tradimento di Sinone fu salutare permettendo loro di sopravvivere e, presa la spianata, entrate nella rocca troiana, mentre a me non si è riconosciuto, per ciò che in quelle mie pagine volli difendere, altro che la libertà di piangere, come il figlio di Anchise: «O patria, o Divûm domus Ilium...» o come gli ebrei super flumina BabyIonis al ricordo di Sion).

Profeta di sciagure, alle quali non è un conforto l'averle presentite e predette, ma che può esser utile ricordare quando ciò giovi ad ammaestramento e ravvedimento.

Si era nel 1966, a pochi mesi da quel 7 di marzo, e la Riforma era ai suoi primi passi (il padre Balducci diceva ancora, almeno fino al prefazio, la sua messa in latino e portava ancora la tonaca!) quando io scrivevo: «Non da oggi, ma oggi più chiaramente, le nostre orecchie avvertono la presenza di termiti nelle travature della Chiesa: termiti laicistiche, modernistiche, marxistiche, protestantiche, che allegramente rosicchiarlo, disintegrano, distruggono, al coperto di una dichiarata intenzione, da parte dei custodi, di non condannare nessuno, o almeno di farlo a bassa voce, riservando le condanne e la voce forte e il disprezzo a chi come noi depreca l'andazzo e lancia, appunto, l'allarme...»

L'allarme fu dato e ridato invano (da me e da altri con voce più autorevole della mia, senza contare la più autorevole: quella, già riferita, del Papa) e le termiti continuarono a rodere, con crescente voracità, sempre favorite dai custodi, i vescovi, la gerarchia, che rimangiandosi per conto loro ciò che in materia di lex orandi avevano solennemente legiferato in Concilio («Linguae latinae usus in ritibus latinis servetur»), parevano aver solo orecchi a percepire e voce a richiamare se a qualche prete scappasse ancora di bocca, nei riti latini, un Dominus vobiscum, tanto peggio se in gregoriano, paghi e beati come dovevan essere dei loro sostitutivi, quei nuovi testi «in vernacolo» che con tutto il rispetto per i loro autori mi rammentano i plebei sanniti delle Forche Caudine che per beffeggiare, mentre passavan sotto il giogo, i vinti romani, «vernacula faciebant», dice lo storico, con la bocca e le mani.

Continuarono, le termiti riformiste, a distruggere, a polverizzare, avanzando e producendo, nelle armature della Fede, schianti e sconvolgimenti siffatti da dar lo spettacolo - come pur detto da Paolo VI - di una Chiesa «in autodemolizione»: demolizione, cioè, ab intus, dall'interno della Chiesa stessa, a opera di ecclesiastici gareggianti nel prendersi e nel concedere libertà tali che l'anarchia è, in paragone, un modello di ordine e di disciplina, e i protestanti, eruditi e scottati dalla loro storia, ci guardano con occhi sgranati chiedendoci e chiedendosi se Lutero si sarebbe sognato si potesse arrivare a tanto dietro il suo «libero esame».

I protestanti, ho detto (dimenticando che dovevo dire i «fratelli separati», e di quale fraternità si tratti è palese presentemente in Irlanda), per dire appunto i padri e maestri di questi nostri riformatori da cui essi, come il paggio Fernando della famosa partita, si riconoscono di gran lunga superati, e ricordare ciò che il santo pontefice (san Pio X) pur ora citato diceva e prediceva, in quella sua prima enciclica alle soglie del secolo:
«L'errore dei protestanti diè il primo passo su questo sentiero; il secondo è del modernismo; a breve distanza dovrà seguire l'ateismo».

Siamo prossimi a questo, all'ultimo stadio, la «morte di Dio», e la Riforma, la «nostra», n'è la propellente: il principio protestante, cuius regio illius et religio, ogni regione la sua religione, ha nel «pluralismo liturgico» - nella legge del culto autonoma, regionale, lingua e riti, rispetto a quella del Credo - il suo equivalente, con la conseguenza che la religione, la vera, la buona, langue in ogni regione, che il pluralismo si risolve in nullismo, avverandosi in tutte, anche in quelle dove il volgare è meno volgare, meno barbaro, ciò che il Marshall scriveva, per i cattolici riformisti, dell'Inghilterra riformata: «Non c'illudiamo: non sarà la liturgia in volgare a far venire gl'invitati al festino di nozze. La Chiesa anglicana canta il più bell'inglese davanti ai banchi più vuoti, mentre il (cattolico) più ignorante in latino intende benissimo ciò che fanno i monaci di Solesmes».

Nemo Papirium impune lacessit: nessuno oltraggia impunemente, senza conseguenze, la tradizione, e ricordo l'invasione di Roma da cui l'origine del detto, per ricordare in mia difesa non il Marco Manlio salvatore del Campidoglio ma le oche: le oche che coi loro schiamazzi lanciarono ai dormienti l'allarme. Che i capitolini, nel caso nostro, della Roma nostra, cattolica, non si scuotano - quando non colludano con gl'invasori - è ragione per me non di desistere ma d'insistere, di gridare, di vociar più forte, come faccio con queste mie nuove pagine, con nuova o maggior molestia di chi deve sentire.

Praedica, insta, argue, obsecra, increpa, come l'Apostolo raccomandò a Timoteo e ripetè al mio omonimo suo più caro discepolo: loquere, exortare et argue, con una aggiunta, nemo te contemnat, che nessuno ti disprezzi, che se avvenisse, nei miei riguardi, ancora il contrario (magari per questo prender come dette a me cose dette al mio Santo) non dovrei troppo addarmene, vuoi perché non mi riconosco io stesso, nell'esortare e nell'arguire, un campione di cortesia, vuoi per ciò che un nostro Cardinale, a cui la porpora simboleggia ancora il dovere di servir Dio usque ad effusionem sanguinis, diceva a un laico, Eric de Saventhem, il fondatore dell'Una voce: che per ostare alla disgregazione (l'«autodemolizione») in atto e in potenza nella Chiesa al sèguito delle «direttive riformatrici in funzione», il cristiano deve battersi fino alla morte.
«Le chrétien doit se battre jusqu'à la mort» - pago, aggiungo per me, se nella sua pochezza non gli sarà dato di effondere che un po' d'inchiostro.

[SM=g1740720]

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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