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Amantissimi Redemptoris di Pio IX sulla Messa, stupenda introduzione del sito maranatha.it

Ultimo Aggiornamento: 14/06/2009 09:36
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26/05/2009 00:22
 
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Dice il concilio di Firenze: “La Chiesa crede fermamente, professa e insegna che le prescrizioni legali dell'Antico Testamento, cioè della legge mosaica, che si dividono in cerimonie, sacrifici sacri e sacramenti, proprio perchè istituite per significare qualche cosa di futuro, benché adeguate al culto divino di quell'epoca, dal momento che è venuto il nostro signore Gesù Cristo, da esse prefigurato, sono cessate e sono cominciati i sacramenti della nuova alleanza. Essa insegna che pecca mortalmente chiunque ripone, anche dopo la passione, la propria speranza in quelle prescrizioni legali e le osserva quasi fossero necessarie alla salvezza, e la fede del Cristo non potesse salvare senza di esse [...] dopo l'annuncio del vangelo non possono più essere osservate, pena la perdita della salvezza eterna” Cfr. Conc. di Firenze, Bolla “Cantate Domino”, 4-2-1442.

Confermato da Benedetto XVI che dice: “In questo modo Gesù inserisce il suo novum radicale all'interno dell'antica cena sacrificale ebraica. Quella cena per noi cristiani non è più necessario ripeterla. Come giustamente dicono i Padri, figura transit in veritatem: ciò che annunciava le realtà future ha ora lasciato il posto alla verità stessa. L'antico rito si è compiuto ed è stato superato definitivamente attraverso il dono d'amore del Figlio di Dio incarnato. Il cibo della verità, Cristo immolato per noi, dat ... figuris terminum” Cfr. Sacramentum Caritatis n°11).

Fa tremare i polsi leggere simili righe, riflettendo sul fatto che oggi nei seminari, nelle parrocchie e in certi movimenti si copiano e si praticano i rituali ebraici, credendo di “riscoprire” le radici della fede Cristiana!


Gli antichi riti prefigurano l'unico Sacrificio di Cristo. Dio li consente affinché l'umanità possa adeguatamente prepararsi, in modo via via più perfetto, a ricevere il Sacrificio totale, accostandosi ad esso tramite le pratiche antiche e secolari. Ogni religione che si definisca tale, ha un impianto rituale sacrificale, in cui sono riconoscibili alcuni elementi.

La purezza della vittima, la necessità della violenza, molto spesso il pasto rituale dell'animale “reso sacro” tramite l'immolazione, il Sacerdote come tramite tra la divinità e l'uomo, il potere del sangue di placare l'ira degli dei, il senso di espiazione delle colpe.

Le culture tradizionali sono arrivate alla formulazione di questa forma di religione naturale, tramite la riflessione e l'uso della ragione. Hanno conosciuto Dio, che si è rivelato loro nelle opere che ha compiuto, ed essi hanno tentato di rendergli culto, come meglio potevano esprimerlo. Era tuttavia un tentativo positivo di affermare l'esistenza di Dio e le principali verità religiose, conoscibili tramite la tradizione primordiale e la ragione.

Meraviglia che Dante, e il mondo medioevale avessero una vera devozione nei confronti di Virgilio, che in più di una occasione, nelle sue opere aveva scritto con toni ed immagini simboliche quasi cristiane.

In realtà gli antichi erano certi del fatto che anche i pagani annunciavano, attendevano e traducevano nei loro miti, l'attesa di una redenzione e la venuta del Messia. Agli ebrei Dio stesso chiese di praticare in modo cruento (e sanguinario) i sacrifici, con l'intento di preparare simbolicamente il Sacrificio di Gesù, attraverso la fede nella salvezza venuta dal sangue versato.

Ciò che i pagani riuscirono a fare con le sole loro forze naturali, agli ebrei fu anche chiesto direttamente dalla Legge. Ciò che conta è la giusta chiave di lettura di tutto ciò: non è la Messa a “copiare” i sacrifici e la mentalità pagana, ma al contrario, i pagani e gli antichi ebrei, avevano figuratamente anticipato con i loro riti - solo simbolici - quello che si sarebbe realizzato con il Calvario e la santa Messa.


“Con la Messa, il Redentore ha voluto che quel Sacrificio, dato una volta per tutte, perfetto, sul calvario, accompagnasse la religione in ogni tempo, in modo perpetuo e perenne” Cfr. Leone XIII, Enc. “Caritatis Studium”, 25-7-1898.

In particolare, attraverso la Divina Liturgia la Chiesa ha fatto in modo di introdurre i fedeli al mistero di Cristo, arricchendo la primitiva celebrazione che avvenne durante l'ultima cena pasquale della antica alleanza, con quegli elementi simbolici e quei segni, in grado di dare visivamente l'idea del trionfo della gloria di Dio sulla morte e sul peccato, e che non erano presenti nella mestizia ancora in fieri del cenacolo.

Di questo si parlerà meglio affrontando l'analisi dell'Enc. Mediator Dei, di Pio XII. Qui basterà notare come il beato Pio IX sottolinei come il fasto e la magnificenza degli apparati e la complessità delle cerimonie di cui si è arricchita nel corso dei secoli la liturgia, sono voluti da Cristo stesso, al fine di rappresentare lo splendore del mistero celeste.

Questo, contrariamente a quel culto insano della “nobile semplicità”, che vorrebbe che i riti ritornassero a riflettere la loro forma “apostolica”, puramente agapica o addirittura, ebraica (ignorando tra l’altro totalmente gli splendori delle liturgie ebraiche unicamente sacrificali del Tempio di Gerusalemme, oramai per sempre distrutto), contro ogni pronunciamento della Chiesa in merito.


Tramite la messa, nella Chiesa ad opera dei sacerdoti viene reso sempre attuale, l'unico Sacrificio perfetto e gradito a Dio. La grandezza di questo sacramento è tale da renderlo di gran lunga il più importante e venerabile, mediante il quale è realizzata pienamente l'opera di presenza continua di Cristo nel mondo. Tramite questo sacramento, vengono sparse sulla Chiesa e sul mondo, le grazie che Cristo ha meritato una volta per tutte sul calvario.

La partecipazione è quindi massimamente utile alla salvezza delle anime, e per questo la Chiesa ha sempre invitato i fedeli, con l'istituzione del precetto festivo, a recarsi alla celebrazione liturgica, per poter usufruire di quel tesoro di grazie che continuamente viene offerto da Cristo tramite i sacerdoti, che agiscono in persona Christi, in ogni parte del mondo.


In particolare, il Beato Pio IX pone l’accento, per aumentarne la consapevolezza, sul significato particolare che nel Sacerdozio, riveste l'ufficio della cura d'anime, indispensabile per la salvezza del popolo di Dio. Infatti, in particolar modo riguardo alla messa, i sacerdoti in cura d'anime, come ad esempio i parroci nelle loro parrocchie, sono tenuti a celebrare il Sacrificio, applicandolo per il popolo a loro affidato (cfr. Can 534§1).

Pio IX espone un caso di specie, evidentemente frequente alla sua epoca, per stimolare i sacerdoti e i vescovi a riflettere sul grande valore dei doveri annessi alla cura delle anime.

Applicare una messa, significa chiedere a Dio, nell'intenzione del celebrante, che le grazie legate alla celebrazione del Sacrificio e scaturenti da esso, si riversino in modo particolare sul soggetto indicato dal celebrante stesso. Vi possono essere allora diverse specie di intenzione, a seconda che il celebrante applichi la messa “pro populo”, ossia per le anime che ha in cura, secondo le intenzioni del Papa o del vescovo, in casi particolari o particolari festività, e nelle messe private, in cui il celebrante stesso liberamente chiede a Cristo di destinare le grazie ad un soggetto particolare, secondo la sua o altrui privata intenzione.


In genere è consuetudine che il prete percepisca una offerta, in cambio della celebrazione di una messa “privata”, in uno dei giorni in cui non è tenuto ad intenzioni diverse e stabilite dal diritto, con l'applicazione della intenzione particolare indicata da colui che fa l'offerta.  Mentre il Sacerdote che celebra una messa pro populo, per diritto non può e non deve applicare a questa messa altre intenzioni (per cui è prevista offerta economica).

La messa pro populo quindi è una Messa che viene celebrata senza che il Sacerdote percepisca alcun compenso.


Pio IX ricorda come Papa Urbano VIII avesse provveduto a eliminare il precetto da alcune solennità, che a causa del mutare delle abitudini del popolo di Dio, rischiavano di cadere in desuetudine. Si pensa infatti, che tra il 1500 e il 1600, il precetto festivo fosse così accentuato, che all'incirca un terzo dell'intero anno solare fosse dedicato alla santificazione di feste, relative ottave, vigilie ecc.


Se si aggiunge poi in ogni Chiesa locale, l'enorme numero di solennità proprie, di santi la cui festa era celebrata localmente (magari con traslazione della festa della Chiesa universale, che veniva a cadere subito dopo), ci si rende conto di come una riforma delle feste era necessaria, per rendere possibile l'attività lavorativa.

Ciò, detto senza malizia, in concomitanza con l'affermarsi nell'Europa del nord del protestantesimo, specialmente del calvinismo, che conoscendo un solo riposo settimanale, e null'altro, risultava molto più favorevole alla formazione di una economia moderna e capitalista.


Urbano VIII decise di eliminare l'obbligo per il popolo di astenersi dal lavoro e di andare alla messa, in un discreto novero di festività. Ma non eliminò, consapevole del beneficio che ne sarebbe derivato alle anime, l'obbligo per i curati di applicare anche in quei giorni di precetto soppresso, la messa pro populo.

Pio IX interviene lamentando come in parecchi casi, i parroci, al fine di percepire un maggior numero di offerte, sostituissero la celebrazione delle feste soppresse con altrettante messe private (all'epoca, in luogo della messa feriale, era consuetudine celebrare la messa “quotidiana” dei defunti, con i paramenti liturgici in nero). Così facendo, indebitamente percepivano le offerte, e nello stesso tempo disgraziatamente privavano le anime dei fedeli dei benefici spirituali connessi alla applicazione della messa pro populo.


Pio IX è categorico: l'ufficio di curato è caratterizzato in modo particolare dall'obbligo di applicare la messa per le anime in cura. Tale onere è veramente rappresentativo di come il Sacerdote sia costituito veramente pastore del popolo che gli è affidato. Il suo ministero particolare implica un dovere reale nei confronti del suo popolo.

Egli è chiamato a sacrificare e a sacrificarsi (per esempio senza percepire in quel giorno alcun compenso in un tempo storico dove i sacerdoti non percependo alcun rimborso mensile come il moderno otto per mille, potevano vivere e sostenersi solo con questo tipo di offerte)  per il bene delle anime che ha in cura.

Sacrificando e sacrificandosi, il curato sparge copiosamente il sangue di Cristo sul suo popolo, lavandolo e purificandolo con l'effusione del sangue.

Ogni goccia che il Sacerdote risparmia al suo popolo, si va concretizzando in anime che non si salvano, in grazie che non vengono elargite, in peccati che trionfano.

Eppure, quanto è attuale il monito di Pio IX oggi? Se dovessimo oggi chiedere ai sacerdoti di una grande città, ai parroci, quanti conservano ancora l'uso di applicare la messa per il proprio popolo? Spesso questo non avviene, spesso anche nella messa domenicale e festiva si accumulano intenzioni private, spesso i preti giovani entrano nel mondo ecclesiale in parrocchie in cui non si celebra la messa pro populo, imparano così e da parroci smettono di celebrarla anche loro. Chi ritenendolo un retaggio del passato, chi direttamente preferendo prendere più offerte.

Tale malcostume, indica come l'enciclica di Pio IX, nonostante i suoi 150 anni, sia ancora attualissima e importante.


Oggi viene chiesto al Sacerdote di essere al “passo con i tempi” come se in passato non lo fosse stato. I preti in questi ultimi 40 anni hanno cercato in tutti i modi, di stare con e per il mondo. Il mondo ha chiesto ai preti di uscire dalla Sacrestia per andare incontro alla gente. Sono sorti negli anni della grande industrializzazione i preti operai, così durante la rivoluzione marxista i preti di lotta e di liberazione, così oggi dove imperversa l’apparire sono sorti preti televisivi, opinionisti, da poster, preti di teatro, da musical, tutti sorridenti abbronzati e assolutamente irriconoscibili perché l’abito “sa di chiuso e retrogrado allontana dalla gente”.

Con questo andazzo purtroppo immancabilmente arriva all’attenzione pubblica l’inevitabile e odioso scandalo pretesco.  Si aprono processi pubblici verso quegli stessi preti che fino a qualche istante prima erano considerati i nuovi paladini della cristianità. Arrivano gli implacabili opinionisti che cercano di analizzare la società e la Chiesa d’oggi scaricando tutte le responsabilità sulla condizione infelice dei preti. Arriva poi il solito Cardinale: l’emerito-ventriloquo con un piede nella fossa, che anziché apparecchiarsi per la morte, tira fuori la solita perla: “il prete pecca, perché è solo: e bene che si sposi!”. Come se il matrimonio sia la panacea di tutti i mali. Svilendo sia il sacramento dell’Ordine come quello del Matrimonio.

È incredibile come oggi si cercano di risolvere quei problemi che come al solito, non sono proprio problemi ma sintomi del problema.

Ma la crisi che investe il sacerdozio non è esterna al sacerdote, ma interna al sacerdote e all’idea di sacerdozio stesso, riformato dopo gli anni 70.

La modernità ha tolto la chiave di volta che regge tutti i Sacramenti costituiti dal Sangue, usciti dal costato di Cristo. Togliendo la CHIAVE DI VOLTA crollano tutti su loro stessi. La chiave di volta è il SACRIFICIO e la MORTE, attraverso la quale occorre “passare” per essere introdotti nel mondo della Resurrezione.

Il Matrimonio è un atto grave, come il Sacerdozio. E' un atto grave perchè implica una responsabilità peculiare: una morte.

Il sacerdote muore al mondo e vive solo in Cristo e come rappresentazione di Cristo (la talare nera è simbolo della tomba, della coltre funebre che avvolge la persona interamente e lascia vedere solo il volto, semplice ricordo di quello che fu la persona prima di decidere di morire alla vita passata e di vivere come strumento di Cristo).

Parimenti lo sposo con quel cerchietto d’oro al dito, muore a se stesso vivendo poi solo in funzione del coniuge, come Cristo è morto per la Chiesa. Morire a se stessi è un trauma, non è una bella cosa, esattamente come tutto ciò che riguarda la vita.

L'acqua è simbolo del dolore e della morte (diluvio, mar rosso sopra agli egizi, ecc.) e il bambino viene introdotto nell'acqua per diventare Cristiano. Appena nato è subito messo di fronte alla morte: deve morire rispetto alla sua vita materiale, immanente, di peccato, per poter vivere nello spirito.

Significa anche che il primo approccio alla vita è con una immagine della morte: la morte è la costante di tutta la vita. Il bambino nasce piangendo, nel dolore, nel dolore vive e nel dolore muore. L'eucaristia è un sacramento in cui Cristo muore per noi. Senso del cristianesimo è la morte. Non si può vivere se non si muore, non si può avere la vita eterna se non si decide di sacrificare questa terrena.

Il matrimonio porta a termine una crescita di questi segni continui che la nostra religione ci propone sulla morte, la morte come passaggio obbligato per poter santificarsi e vivere. Morte al peccato con il battesimo, morte a se stessi con il matrimonio.

La morte è comunque un fatto traumatico, che viene reso accettabile da Cristo, che l’ha trasformata in DONO di Sé. Ed è la reciprocità del dono, che comporta la crescita di un NOI, al posto di io-tu iniziali [che, naturalmente, implica anche la crescita personale e crea un clima vitale e accogliente per i figli, accolti nell’abbraccio di una relazione resa viva e vitalizzante dal rapporto personale e sacramentale con Dio nella Chiesa].

Un cristianesimo senza il peso cupo della morte, passaggio obbligato per la Risurrezione, è un cristianesimo senza senso, senza sacrificio quindi monco.

Il sacrificio significa diventare sacri, per rendere sacro tutto quel che ci circonda; ma non possiamo farlo da soli: è in Cristo e per effetto della Sua Grazia Santificante che veniamo resi capaci di uscire da noi stessi per guarire dai nostri egoismi, dalle nostre voglie.

In realtà, uscendo da noi stessi, troviamo il nostro vero io, quello che il Padre genera in Cristo ogni giorno attraverso il nostro essere dono per gli altri: Eucaristia vivente.

E’ questo che intende Paolo con “offrite i vostri corpi come sacrificio santo, vivente, gradito a Dio”  (uccidendo, morendo, per diventare sacri noi stessi, dobbiamo uccidere noi stessi con le nostre voglie, le nostri capricci i nostri egoismi, ecc..) Il matrimonio è uno strumento con cui noi riusciamo in questo intento (anche la consacrazione religiosa arriva allo stesso fine) e tramite esso riusciamo a elevarci soprannaturalmente, una volta sacri-ficati.


Un matrimonio così come un sacerdozio che non sia sacrificale, in cui non ci sia il simbolo della morte, non è un matrimonio, non è un sacerdozio, non è cristiano. Associare il cristianesimo solo alla gioia, il matrimonio solo alla festa, il sacerdote come un grandioso operatore sociale è assolutamente sbagliato.

La gioia c'è anche, se è la gioia susseguente al sacrificio, una gioia pura immensa l’unica che riesce a dare vero senso all’esistenza, è la gioia della Croce, che solo chi l’ha realmente sperimentata può capirla. Le altre “gioie” mondane portano alla disperazione e alla dannazione.

La resurrezione necessita della croce per poter esistere. Diversamente concepire l'esistenza, il sacerdozio e dunque anche il matrimonio, solo come aspetto gioioso, senza l'aspetto grave del sacrificio, significa immanentizzarlo.

La porta che permette il salto dalla immanenza alla trascendenza è appunto la morte, il Sacrificio. Come con la morte siamo trasportati al cospetto di Dio, così con le varie morti simboliche che noi compiamo nella nostra ascesa spirituale, noi saliamo dalla immanenza alla trascendenza.

Morire significa abbandonare il piano terreno per quello divino. Diversamente, se non si muore, se il seme non muore, non da frutto. E così anche i sacramenti, se non hanno in sé la morte, non producono frutto.

continua.............


[SM=g1740717] [SM=g1740720] [SM=g1740717]

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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