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Le due stelle di Papa Damaso: S. Pietro e S. Paolo e il martirio di Giovanni e Paolo

Ultimo Aggiornamento: 02/08/2012 13:33
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27/06/2009 08:32
 
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Le più antiche testimonianze archeologiche del culto comune dei santi Pietro e Paolo

Le due stelle di Papa Damaso


di Carlo Carletti


A Roma la più antica testimonianza archeologica di una pratica devozionale congiuntamente rivolta a Pietro e Paolo è documentata in un luogo diverso e lontano da quello delle tombe originarie al Vaticano e sull'Ostiense. Le due realtà memoriali, fino all'età teodosiana, rimangono tra loro lontane:  i due apostoli in altri termini non trovano un punto di incontro nei rispettivi e diversi luoghi della loro originaria memoria sepolcrale.

Ma nella storia della devozione apostolica, anzitempo e quasi all'improvviso, emerge una sorprendente e illuminante evidenza. Al terzo miglio della via Appia, nella località detta in catacumbas, già dalla metà del III secolo - la tradizione indica l'anno 258:  Tusco et Basso consulibus - si avvia una pratica cultuale, certamente non promossa e incentivata "dall'alto", ma - in controtendenza rispetto alla teoria della genesi "elitaria" (cioè episcopale) propugnata da Peter Brown - nata e fruita in un ambito popolare.
 
Lo indica, senza ombra di dubbio, un caratteristico insediamento "di campagna", semplice e quasi dimesso nelle sue strutture e senza pretesa alcuna di monumentalità:  un cortile porticato su tre lati (triclia) attrezzato per lo svolgimento del refrigerium, il banchetto di antichissima tradizione consumato in onore dei defunti che, qui, sulla via Appia, si proponeva come sacrale atto commemorativo di una memoria funeraria relativa ai due apostoli.

La tangibile testimonianza di questo culto è nelle oltre seicento iscrizioni, greche e latine, tracciate a sgraffio sull'intonaco delle pareti e non sembra casuale che in queste testimonianze siano del tutto assenti appartenenti alle élites della società, laici o ecclesiastici che essi fossero. I visitatori si rivolgono a Pietro e Paolo, con l'immediatezza e la spontanea semplicità tipica delle manifestazioni devozionali di estrazione popolare:  "In onore di Pietro e di Paolo io, Tomio Celio, ho offerto un refrigerium" (Inscriptiones Christianae Urbis Romae, V, 12981), "Pietro e Paolo ricordatevi di Antonio" (12931), "Pietro e Paolo proteggete Leonzio" (12914), "Pietro e Paolo venite in soccorso di Primo peccatore" (12967), "Il 19 marzo Partenio ha compiuto il refrigerio e tutti noi in Dio" (12961), "Paolo e Pietro proteggete i servi di Dio, anime sante, e proteggete noi" (13071), "Dalmazio promise loro il refrigerio" (12932), "Il 22 giugno.

Pietro e Paolo ricordatevi di Sozomeno e di chi legge" (12980), "Santi Pietro e Paolo, beati martiri, conservate nel Signore"(12996).

Questo insediamento cultuale, intorno al primo trentennio-quarantennio del IV secolo, per iniziativa della dinastia costantiniana, viene inglobato in un'imponente basilica funeraria di tipo circiforme, perché esemplata sulla morfologia dei circhi romani.
È all'interno di questo edificio che si colloca l'unico intervento damasiano in onore della coppia apostolica. Alle originarie sepolture, in Vaticano e sull'Ostiense, Damaso non aveva riservato attenzione alcuna:  si volse invece con il suo elogium Apostolorum al luogo e ai monumenti, nei quali da oltre un secolo si era radicata in profondità una devozione alla "coppia" apostolica:  le ragioni di questa voluta e consapevole opzione - come si vedrà - sono tutte nelle vicende che caratterizzano la storia della Chiesa di Roma nella seconda metà del IV secolo e che contrassegnano indelebilmente il pontificato damasiano.

Perduto l'originale marmoreo, dell'elogium damasiano rimane il testo, tramandato integralmente attraverso il codice Vaticano Palatino 833 (secoli IX-X), che riporta copia di una raccolta epigrafica (Sylloge) redatta nel VII secolo, nel tempo cioè e nell'atmosfera del grande pellegrinaggio altomedievale presso i santuari dei martiri romani. È una storia tutta "romana" - nella intenctio, nella forma, nei contenuti - quella che Damaso consegna al medium epigrafico:  "Tu che vai alla ricerca dei nomi di Pietro e insieme di Paolo, / devi sapere che i santi in passato qui dimorarono. / Questi apostoli ce li inviò l'Oriente - volentieri lo riconosciamo - / ma in virtù del sangue (versato) - seguendo infatti Cristo attraverso le stelle / sono giunti nelle regioni celesti e nel regno dei giusti - / Roma meritò di rivendicarli suoi cittadini. / O nuove stelle, a vostra lode questo Damaso voleva annunciare".

L'esordio, con la ripresa del tradizionale appello al passante, è colloquiale:  hic habitasse prius sanctos conoscere debes / nomina quisq(ue) Petri pariter Pauliq(ue) requiris. Il lettore viene personalmente interpellato (cognoscere debes) e informato che in quel luogo, per un certo tempo, erano state custodite insieme (pariter) reliquie dei due apostoli (hic habitasse prius) che, giunti dall'Oriente (discipulos Oriens misit) a Roma offrirono la testimonianza estrema. In virtù del sangue versato (sanguinis ob meritum) la città può legittimamente rivendicarli suoi cittadini:  Roma suos potius meruit defendere cives.

Con lo stesso procedimento concettuale Damaso aveva proclamato cives romani il greco Ermete (Iam dudum, quod fama refert, te Graecia misit:  sanguine mutasti patriam [Inscriptiones Christianae Urbis Romae, x, 26669]) e il cartaginese Saturnino (Incola nunc Christi fuerat Carthaginis ante [...] sanguine mutavit patriam nomenq[ue] genusq[ue] romanum civem sanctorum fecit origo [ivi, ix, 23755]), ambedue martiri a Roma sotto Diocleziano.

Nel verso conclusivo, abbandonata l'apparente soggettività del racconto, Damaso si rende palesemente visibile:  si propone come fonte diretta - haec Damasus vestras referat (...) laudes - indirizza ai due apostoli una solenne lode e, quindi, proietta Pietro e Paolo nel cielo come nova sidera ("nuove stelle"). È la "rilettura", in chiave damasiana, dell'atavico catasterismo, la trasformazione in astri destinata agli eroi; è il sigillo della autorità episcopale, che con la ripresa e il potenziamento ideologico di un'antica devozione popolare, elegge ufficialmente Pietro e Paolo nuovi patroni della città di Roma e cofondatori della sua Chiesa.

E in questa operazione, proprio perché attuata a Roma e per Roma, non è difficile cogliere una sorta di "esaugurazione":  i due apostoli vengono infatti a sovrapporsi - sostituendoli - ai Dioscuri - figli di Giove - che dall'alto della scalinata che conduceva al Campidoglio, avevano assicurato alla città la loro protezione.

La concezione damasiana implicita nell'epiteto nova sidera ritorna in una iscrizione - ingiustamente trascurata dalla critica - probabilmente ubicata nella stessa basilica apostolorum in funzione didascalico-celebrativa:  hic Petrus et Paulus mundi nova lumina praesunt ("Qui presiedono Pietro e Paolo nuove luci del mondo", Inscriptiones Christianae Urbis Romae, i, 3900).

A questo testimone epigrafico quasi di necessità va collegata la straordinaria pittura ad affresco venuta alla luce nel 1983, non lontano dalla basilica costantiniana, nella regione di Sant'Eutichio, della catacomba di San Sebastiano:  vi è rappresentato - per la prima volta nell'ambito della pittura cimiteriale romana - il tema della concordia apostolorum nella forma dell'abbraccio tra Pietro e Paolo e, in questo stesso contesto monumentale - non è fortuita casualità - furono tracciati, tra la metà del IV e l'inizio del V secolo, una serie di graffiti che ripropongono le invocazioni ai due apostoli con gli stessi moduli espressivi già presenti nell'antica memoria apostolica del III secolo:  Paule Petre subvenite; Paule Petre rogate.

Nella Roma della seconda metà del IV secolo, il tema della concordia, nelle sue diverse manifestazioni, letterarie, documentarie, epigrafiche e figurative, si propone con ogni evidenza come diretto indotto della forte reazione alle accuse lanciate dai raffinati e colti circoli di tradizione pagana che, tra le altre contraddizioni (diaphonìai), rimproveravano ai cristiani anche quella della aperta "discordia" tra Pietro e Paolo.
Una polemica corrosiva condotta a tutto campo, di cui abbiamo ampia e dettagliata documentazione, sul versante pagano, dal contra Galileos di Giuliano l'Apostata - cui rispose dopo circa 70 anni Cirillo di Gerusalemme - e su quello cristiano dall'importante coeva testimonianza di un autore per noi ancora anonimo (il cosiddetto Ambrosiaster) che proprio durante il pontificato di Damaso si fa eco delle calumniae che in ambito pagano - in particolare Porfirio e Giuliano imperatore - circolavano contro i due apostoli.

Giuliano in particolare si accaniva soprattutto contro Paolo, il responsabile della conversione degli "elleni", ma non risparmiava Pietro di cui derideva la condotta esitante tra Giudei e Gentili; ambedue comunque, erano definiti "ignoranti degenerati" e "pescatori teologi", ed erano presentati come immagine di discordia:  "(Giuliano) deride Pietro, l'esimio tra i santi apostoli, e dice che era un ipocrita e che era stato rimproverato da Paolo perché ora si preoccupava di vivere secondo il costume dei Greci ora secondo quello dei Giudei" (Contra Galileos, frammento 78, Roma, 1990, edizione e traduzione di Emanuela Masaracchia, pp. 171, 278).

La polemica toccava inoltre un altro aspetto nevralgico dell'azione della sede romana quale si era andato manifestando nella seconda metà del IV secolo e che aveva trovato proprio in Damaso il massimo promotore:  il culto dei martiri giudicato come pratica empia. Diceva Giuliano:  "Se la religione è in verità il sommo bene, per contro l'empietà è il sommo male. Accade addirittura che alcuni si allontanano dagli dei per avvicinarsi ai morti e alle loro reliquie" (Epistulae, 118, 18-23, Paris, 1972, p. 195); e ancora (Contra Galileos, frammento 81, pp. 175, 279) con severo disprezzo stigmatizzava un'altra delle "contraddizioni" che ai suoi occhi emergeva nei comportamenti dei cristiani:  "Avete riempito il mondo di tombe e di sepolcri! Eppure non vi è mai stato detto di frequentare le tombe e di onorarle. Siete giunti a tal punto di depravazione da non credere necessaria a questo proposito neppure l'obbedienza alle parole di Gesù Nazareno. State dunque a sentire che cosa egli dice dei sepolcri:  guai a voi, scribi e farisei ipocriti, simili a sepolcri imbiancati. All'esterno il sepolcro sembra splendido, ma all'interno è pieno di ossa di morti e di ogni impurità". In questa direzione Giuliano dalle parole passò a fatti concreti allorché ordinò di disseppellire nel cimitero di Antiochia le reliquie di san Babila che offuscavano il tempio di Apollo e di esumare a Delfi i cadaveri deposti intorno alla Catalia, la fonte profetica.

C'erano dunque argomenti più che sufficienti perché Damaso apprestasse le sue difese e più specificamente rinvigorisse l'immagine dei due fondatori della sede romana anche perché con il pontificato di Papa Giulio (337-352) l'immagine di Paolo aveva subito una temporanea eclisse per evitare che venisse sminuito il primato gerarchico di Pietro, di cui Giulio si considerava legittimo successore, come testualmente ribadito nella lettera inviata a nome dei partecipanti al concilio di Roma del 341 (presso Atanasio, Contra arianos, 21-35).

Ma ancora altri due eventi dovettero sollecitare Damaso a ribadire l'autorità della sedes apostolica e, per darle ulteriore forza, a riproporre in tutta la sua inscindibile "unità" la coppia apostolica. In questa circostanza le contestazioni provenivano dall'interno:  in primo luogo la violenta accusa dell'ariano Palladio vescovo di Ratiara (Dacia) che metteva in discussione la pretesa di Roma di considerarsi sedes Petri e chiamava direttamente in causa Damaso rimproverandogli la non partecipazione al concilio di Aquileia (381) nella veste e nelle funzioni di unus ex multis (Scholies ariennes sur le Concile d'Aquileieé. Fragments de Palladius, Paris, 1980, frammento 123, p. 306); in secondo luogo - ma non meno importante e potenzialmente gravido di conseguenze - il canone terzo del concilio di Costantinopoli (381) che, in palese funzione antiromana, pur riconoscendo a Roma il primato di onore e dignità - per la sua antichità e perché capitale dell'Impero - ne metteva di fatto in discussione quello giurisdizionale:  Verumtamen Constantinopolitanus episcopus habeat honoris primatum praeter Romanum episcopum, propterea quod urbs ipsa sit iunior Roma.

Ostacoli - forse non inattesi - nel progetto perseguito da Damaso, che immediatamente provvide alla convocazione di un concilio a Roma (382) nel quale il primato romano fu ribadito con forza e giustificato "teologicamente" con il richiamo alla vox Domini cioè al Vangelo di Matteo (16, 17) - Tu es Petrus - e ulteriormente potenziato con un forte richiamo alla societas beatissimi Pauli (...) addita est societas beatissimi Pauli, vas electionis, qui non diverso - sicut haeretici garriunt - sed uno tempore, uno eodemque die gloriosa morte cum Petro in urbe Roma sub Caesare Nerone agonizans coronatus est (PL, 19, coll. 793-794).

In definitiva il luogo della via Appia che dalla metà del III secolo aveva visto nascere il culto "unificato" dei due apostoli e di seguito gli insediamenti funerari e monumentali della basilica Apostolorum e della regione di Sant'Eutichio nel cimitero di San Sebastiano, può a buon diritto assumersi a esemplare catalizzatore dell'intenso e conflittuale dibattito politico-ideologico e dottrinale che vide nella figura di Damaso il protagonista assoluto.

Qui Damaso - evidentemente tra il 382 e il 384 - mette in opera l'elogium Apostolorum, un vero e proprio manifesto ideologico che veicola l'immagine dell'indissolubile unità della coppia apostolica e - argomento nuovo - della sua romanità in virtù appunto del martirio subito a Roma. Qui, conseguentemente, una ripresa del culto pubblico in onore degli apostoli nella forma di iscrizioni devozionali a sgraffio che, dopo quasi un secolo da quelle della memoria apostolorum, testimoniano della presenza di visitatori in una regione della catacomba di San Sebastiano dove Damaso, con l'inventio s. Eutychii e realizzazione di un elogium a lui dedicato, portava, come ulteriore valore aggiunto, una nuova visibile e fruibile testimonianza dell'incontestabile primato di Roma come "città santuario" per eccellenza in quanto depositaria di una sterminata turba piorum.

Qui ancora si osserva uno straordinario affollamento di tombe (devozionali) all'interno e all'esterno della basilica degli Apostoli e, non senza significato, si registra tra i deposti una cospicua presenza delle gerarchie, laiche ed ecclesiastiche, della società. Qui infine il concetto dell'origine apostolica della sede romana trova una nuova e originale traduzione figurativa nell'iconografia della concordia apostolorum, la cui successiva fortuna oltrepassò l'ambito figurativo per estendersi al leggendario apocrifo come indicano gli Atti di Pietro e Paolo dello Pseudo Marcello, risalenti al 450-550 nella redazione greca al IX secolo in quella latina, nei quali si racconta che gli Apostoli lungo la via Appia in prossimità della città "vedendosi, piansero dalla gioia e, abbracciatisi a lungo, si inumidirono l'un l'altro di lacrime".
 
Questa narratio, che ebbe enorme diffusione sia in Oriente sia in Occidente come indica il numero dei manoscritti pervenuti, sembra aver trovato una sintesi nel ricordo dell'abbraccio apostolico, perpetuando la tradizione di un tema figurativo e, per il suo tramite, della posizione enunciata nel concilio romano del 382 che in difesa dell'unità  apostolica  sottolineava  con forza - anche per smentire quanto "gli eretici andavano gracchiando" - che i due apostoli insieme erano morti a Roma non diverso sed uno tempore, uno eodemque die (Patrologia Latina, 19, coll. 793-794).

A livello poi di più estesa e capillare fruizione, questa tema strategicamente "nevralgico" trovò un ulteriore vettore in oggetti mobili di larga diffusione, quali i fondi vitrei dorati che rappresentavano la "concordia" nello schema delle due teste apostoliche affrontate a una colonna (la Chiesa), ovvero sormontate da una corona unificante. Anche nell'uso di questi vettori minimali non è difficile cogliere una risposta polemica alla circolazione di altri oggetti propagandistici come i contorniati (medaglioni), prodotti a Roma ininterrottamente tra il 356 e il 472, che riproducevano immagini di imperatori - e tra queste anche quelle di Giuliano - temi della mitologia e dei culti della Magna Mater e di Attis, scene relative all'ambito circense.

In diretta continuità con l'azione di Damaso, ancora nel secondo trentennio del V secolo, la Chiesa di Roma continua a veicolare il tema, e i sottesi significati, della concordia apostolorum e ancora con strumenti di diffusione pubblica, vale a dire attraverso iscrizioni e programmi decorativi. Sisto III (432-440) per la chiesa devozionale dedicata ai due apostoli sull'Esquilino (poi San Pietro in Vincoli) commissiona una solenne iscrizione dedicatoria - non più esistente ma nota per tradizione indiretta (Inscriptiones Latinae Christianae Veteres, 974), che doveva occupare l'intero spazio della controfacciata.

Al nome dell'antico dedicatario, il solo Pietro, ora si aggiunge anche Paolo e questa è la novità enunciata nel primo emblematico verso - cede prius nomen, novitati cede vetustas - "Nome di un tempo cedi, all'antico succede il nuovo. È gradito che nella reggia lietamente si dedichino questi voti, nel nome e nel segno ora insieme (simul nunc) di Pietro e Paolo. Io, Sisto, gratificato per l'onore della sede apostolica, prego ambedue. Voi due accettate un dono comune (unum donum):  un solo onore celebra quelli che una sola fede possiede".

Nella basilica di San Paolo sull'Ostiense, all'eponimo del luogo, Leone Magno associa Pietro:  i due apostoli sono rappresentati accompagnati ciascuno da una iscrizione didascalica, che ne esalta distintamente, ma in un medesimo contesto figurativo e concettuale, il ruolo e le funzioni. Pietro è celebrato come "custode del cielo, pietra della fede, culmine dell'onore, guida e splendore della sede apostolica"; Paolo a sua volta è ricordato riproponendo l'itinerario che lo condusse alla fede:  "Mentre perseguita quelli che hanno accolto Dio (vasa Dei) diventa Paolo [da Saulo] e lui stesso (diventa) ricettacolo di fede (vas fidei) come prescelto per le genti e tutti i popoli" (Inscriptiones Latinae Christianae Veteres, 1761 c, d).

La basilica paolina, per il congiunto intervento di Galla Placidia e Papa Leone - Placidiae pia mens operibus decus omne paterni(s) / gaudet pontificis studio plendere Leonis (Inscriptiones Latinae Christianae Veteres, 1761 b), poteva dunque esibire nella sua superficie di maggiore visibilità - l'arco trionfale - la coppia apostolica unita, ma distinta nei ruoli e nei carismi, come sintetizzati, in termini scritturistici, nelle due iscrizioni illustrative delle immagini di Pietro e Paolo.


(©L'Osservatore Romano - 27 giugno 2009)
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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Il martirio dei santi Giovanni e Paolo
26 giugno


Erano due dignitari di corte. L’imperatore Giuliano l’Apostata tenta di convincerli ad abiurare. Ma, visto il loro rifiuto, li fa uccidere in segreto. Anche i loro amici subiscono il martirio.
Un senatore cristiano è il primo a onorare quei martiri


di Lorenzo Cappelletti da 30giorni 2011


Tutto quel che sappiamo di loro proviene da documenti liturgici, alcuni dei quali a loro contemporanei, e dalla Passio di cui abbiamo la trascrizione del VI secolo. Cosa che ha fatto storcere il naso a molti. Come se la liturgia cristiana si potesse permettere le favole e non fosse memoria di fatti. E senza tener presente poi che è stato proprio con la guida della Passio che nel secolo scorso fu rintracciata la casa dove Giovanni e Paolo furono uccisi, le loro fosse scavate nel tufo vergine e la confessio edificata qualche anno più tardi sul posto da Bizante e Pammachio.

I due fratelli ci vengono presentati come dignitari della corte imperiale, eredi di Costantina, la figlia di Costantino morta nel 354. In rotta col nuovo imperatore Giuliano, proprio a causa dei beni ricevuti, che è probabile siano stati contestati loro e che essi, a causa della loro fede cristiana, non avranno permesso fossero confiscati a beneficio degli dei falsi e bugiardi. Magari si trattò di quella stessa casa che è stata ritrovata sotto la Basilica a loro intitolata sul Celio, a Roma, e che documenta evidentemente la presenza di cristiani.

La Passio si apre con le parole di Giuliano (non presentato peraltro come intervenuto di persona, in rispetto del dato storico che vuole che Giuliano mai sia venuto a Roma): «Il vostro Cristo dice nel Vangelo che chi non rinuncia a tutto ciò che possiede non può essere suo discepolo». Giuliano pretende giustificare la confisca dei beni che i due fratelli avevano ricevuto in forza di quel ricatto etico che sarebbe inconcepibile fuori dell’apostasia cristiana. Tant’è vero che in epoca moderna è diventato norma.

Di fronte all’invito dell’imperatore a essergli fedeli, i due cristiani rifiutano: «Tu hai abbandonato la fede per seguire cose che sai benissimo non avere nulla a che fare con Dio. Per questa apostasia abbiamo smesso di rivolgerti il nostro saluto». Per questo, aggiungono, ci siamo sottratti «a societate imperii vestri».
Giuliano manda allora ai due fratelli un messaggio pieno di lusinghe e minacce: «Anche voi siete stati educati a corte, perciò non potete esimervi dallo stare al mio fianco, anzi io vi voglio fra i primi della mia corte. Ma attenzione: se riceverò una risposta sprezzante da voi, non potrò consentire che restiate impuniti». (In effetti, scrive lo storico Socrate che «Giuliano indusse a sacrificare molti cristiani, parte con lusinghe, parte con donativi». Ci furono defezioni specie fra i militari, ma non ne mancarono addirittura fra i chierici).

I due fratelli mandano a riferire questa loro risposta: «Noi non ti facciamo il torto di anteporre a te un’altra persona qualunque. Ma solo Dio, che ha fatto il cielo, la terra, il mare e tutte le cose che vi sono contenute. Temano perciò la tua ira gli uomini attaccati al mondo. Noi temiamo solo d’incorrere nell’inimicizia dell’eterno Dio. Perciò vogliamo farti sapere che non aderiremo mai al tuo culto (numquam ad culturam tuam), né verremo nel tuo palazzo».
L’imperatore concede loro ancora dieci giorni «per riflettere», perché «vi risolviate a venire da me, non per forza ma spontaneamente».
I due fratelli ribattono: «Fa’ conto che siano già passati i dieci giorni». E Giuliano: «Pensate che i cristiani faranno di voi dei martiri?... ».

Paolo e Giovanni allora chiamano i loro amici, Crispo, prete della comunità di Roma, Crispiniano e Benedetta. A loro raccontano tutto. Celebrano insieme l’Eucaristia e poi invitano i cristiani, dando disposizioni relative a tutti i loro beni.
Trascorsi dieci giorni, l’undicesimo scattano gli arresti domiciliari.

Saputa la notizia, Crispo e gli altri amici accorrono, ma non è permesso loro di entrare. Entrano invece l’istruttore di campo Terenziano (quello che la Passio dice essere stato l’estensore del racconto, una volta convertito) e i suoi poliziotti. Ai due fratelli, che stavano pregando, intima di adorare un idolo, altrimenti saranno trafitti dalla spada «non essendo conveniente uccidere pubblicamente uomini cresciuti a corte». Giuliano voleva evitare in ogni modo che ci fossero martiri fra i cristiani. E se ci fossero stati, che fossero dissimulati.

«Per noi», rispondono i due, «non c’è altro signore che l’unico Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, che Giuliano non ha temuto di rinnegare; e siccome è stato respinto da Dio, vuole trascinare anche altri nella rovina sua».
Dopo un paio d’ore i due cristiani vengono giustiziati. È il 26 giugno del 362. Sono segretamente sepolti nel criptoportico della loro stessa casa. E viene messa poi in giro la voce che i due erano stati mandati in esilio.

Crispo, Crispiniano e Benedetta immaginano la loro sorte, ma non possono far altro che piangerli e pregare per conoscere il luogo della loro sepoltura. Vengono esauditi. Ma anche loro subiscono la decapitazione per mano del figlio di Terenziano. Pimenio e Giovanni (preti) e Flaviano, illustre ex prefetto di Roma, trafugati i corpi dei nuovi martiri, seppelliscono anch’essi accanto a Giovanni e Paolo. Tutte queste inumazioni in una casa hanno suscitato l’incredulità e finanche l’ilarità di molti critici. Ma oggi che sono state scoperte le fosse...

La Passio racconta a questo punto che il figlio di Terenziano, venuto nella casa dei martiri, si mette a gridare che Giovanni e Paolo lo tormentano. Terenziano ne resta atterrito, si getta con la faccia a terra e cerca di giustificarsi: sono un pagano, ho solo obbedito agli ordini di Cesare, senza rendermi conto. Si converte e nella Pasqua seguente riceve il battesimo. Ma anche lui e suo figlio verranno poi trucidati e anche loro seppelliti, da Pimenio e Giovanni, nella casa di Giovanni e Paolo.

Una catena di delitti che a una critica prevenuta potrebbe sembrare un espediente per legare vicende svoltesi in luoghi e tempi diversi, o per giustificare l’accorpamento di semplici reliquie, se non addirittura un incremento fantasioso di nomi e fatti perché il racconto risulti più avvincente. In realtà si deve tener conto che se c’è un dato certo rispetto all’attitudine religiosa di Giuliano l’Apostata è la sua avversione per il culto dei martiri.
Anche perché ritiene che esso impedisca i responsi oracolari degli dei. Superstizione cieca e timorosa di fronte alla semplice concretezza di una memoria. Con disprezzo scrive: «Le chiese cristiane costruite di solito su tombe di martiri non sono che sozzi obitori e ossari». E ancora: «I Galilei non hanno fatto che riempire il mondo di tombe e sepolture». Preziosa testimonianza per noi della corporeità e della storicità inestirpabili dall’avvenimento cristiano.

Nella guerra intrapresa fin dal marzo 363 contro i Persiani, gli dei del paganesimo, cui Giuliano aveva nuovamente affidato le fortune dell’Impero, sembrano ancora assisterlo. Egli passa di vittoria in vittoria, sempre in prima fila a rincuorare i suoi soldati. Ma il 26 giugno del 363, a un anno esatto di distanza dal martirio dei due fratelli, un colpo di lancia pone fine alla sua tragica utopia.
Il successore, Gioviano, è cristiano ortodosso cioè autentico e la Chiesa torna libera (perché, come insegna sant’Agostino al formale definirsi cristiano dell’imperatore non sempre consegue più libertà). Il nuovo imperatore, conosciuta la tragedia che si era consumata nella villa del Celio, convoca il senatore Bizante, anche lui cristiano, affidandogli la ricerca dei resti dei martiri. Costui, insieme al figlio Pammachio, sulle reliquie di quei martiri costruisce un oratorio e poi una basilica, che insieme al nome di Giovanni e Paolo conserverà nei secoli anche i loro nomi: Titolo di Giovanni e Paolo o di Bizante e/o di Pammachio. Così la storia di questi santi, di casa anch’essi nel Palazzo, risulta intrecciata a quella dei due fratelli martiri.
Senatore come il padre, Pammachio è un patrizio della gens Furia. Le grandi famiglie romane sono ancora in maggioranza pagane negli anni tra il IV e il V secolo. Pammachio è un’eccezione. E il più in vista fra i cristiani a Roma e nel Senato. Tre amici ci parlano di lui, in alcune lettere commoventi. E che amici! San Gerolamo, sant’Agostino e san Paolino di Nola.

Gerolamo, che da giovane era stato studente insieme a lui – lo dice suo «compagno e amico di un tempo» –, in una di quelle lettere gioca con il greco del suo nome che «si rivela profetico e tu ti riveli un lottatore in tutte le maniere contro il diavolo e le forze avverse» (nella lotta gli atleti pammacharii, pur di riuscire a vincere gli avversari, erano autorizzati a ricorrere a ogni astuzia). Quel senatore romano affrontava con ironia (un’ironia che Giuliano l’Apostata, in hilaritate tristis, mai aveva conosciuto) l’irrisione dei colleghi ornati di porpora, quando si presentava nella Curia senatus. «È lui stesso che se ne ride», scrive Gerolamo, «di chi lo prende in giro!». Doti che riuscivano molto utili ai cristiani e che gli guadagnavano l’ammirazione dei suoi amici santi. I quali ne richiedono e ne lodano il consiglio anche in materia di fede. È proprio Pammachio che richiama l’attenzione del vescovo di Roma Siricio sulle eresie che cominciano a serpeggiare nella Chiesa (per esempio quella di Gioviniano). Ed è proprio Pammachio e «tutta la fraternità di Roma pressoché al completo» che richiamerà l’attenzione di Gerolamo sul Peri Archon di Origene, di cui Pammachio aveva appena avuto fra le mani la traduzione latina di Rufino. «Vi abbiamo trovato molti passi che hanno messo in subbuglio il nostro piccolo cervello», scrive il senatore, «e ci pare che abbiano un sapore poco ortodosso».

Nella lettera, che gli invia compiangendo la morte di Paolina, giovane moglie di Pammachio, san Gerolamo scrive di lui nel 397: «Una perla brilla anche nella sozzura, e una gemma splendente e tersissima manda riflessi anche nel fango. È appunto la promessa che ha fatto il Signore: “Glorificherò quelli che mi danno gloria”. Chi vuole può benissimo intendere queste parole come riguardanti il futuro... Io, per conto mio, sto vedendo che quella promessa in lui si compie anche per questa vita... Noi abbiamo ricevuto più di quanto abbiamo dato. Abbiamo lasciato bazzecole e ci troviamo in possesso di cose grandi; le sue promesse Cristo le ha mantenute centuplicando gli interessi».
Pammachio fu travolto nella rovina di Roma, sconvolta dalle orde di Alarico, il 24 agosto del 410. Ma che importa quando si è registrati all’anagrafe della Città di Dio!

 

SI FA PRESTO A DIRE TRADITORE

Ritratto dell’imperatore apostata che lasciò la fede cristiana per ritornare agli dei

 

L’imperatore Giuliano l’Apostata (Flavio Claudio Giuliano), il traditore per antonomasia, nasce sul finire del 331 a Costantinopoli. Ma la madre non la conoscerà neppure: muore pochi mesi dopo la sua nascita. Pochi anni dopo perderà il padre, che verrà ucciso nella sistematica eliminazione di tutti i collaterali maschi della famiglia di Costantino, quando, nel 337, muore l’imperatore che aveva spalancato le porte dell’Impero romano alla Chiesa. La ragion di Stato, si sa, non ammette ragioni. Nessuno viene risparmiato. Tranne appunto Giuliano, di appena sei anni, e il suo fratellastro Gallo, di poco più grande ma di salute talmente malconcia da far ipotizzare una sua naturale e rapida scomparsa. I tre figli maschi di Costantino (Costante, Costantino II e Costanzo II) avrebbero potuto così regnare indisturbati.

Giuliano si trova ad avere come tutori, per conto del cugino Costanzo II, Eusebio di Nicomedia, il vero capo del partito ariano, e poi, alla morte di costui, nel 342, un altro ariano, Giorgio di Cappadocia. Non sono solo eretici formali. C’è in loro una disonestà di fondo. Gli ariani non sono che una fazione politica che si serve della fede cristiana. Fin dai tempi di Costantino hanno un solo obiettivo: l’egemonia religiosa nella corte imperiale. A questo in realtà si dedicano i due tutori, disinteressandosi di Giuliano. Se un’influenza esercitano è quella di impedire qualunque possibile attrattiva dell’avvenimento cristiano su di lui. Questa è la terribile tabe dell’eresia, da cui Giuliano è contagiato.

A contatto quotidiano con Giuliano fanciullo, ci sarà piuttosto l’eunuco Mardonio, un precettore capace di suscitare in lui l’amore per la filosofia e la cultura ellenistica. Sostituito più tardi da Massimo di Efeso, un filosofo neoplatonico (il vero suo maestro e autore, per dirla con Dante) che inizierà Giuliano a ogni genere di pratiche magico-religiose. A questo era ridotto l’alto idealismo neoplatonico: teurgia a buon mercato.
Attorno ai vent’anni, Giuliano abbandona la fede cristiana. Apostasia dissimulata per un decennio e oltre. Nel bel mezzo si colloca il matrimonio con Elena. Per capire la riuscita del quale, basta dire che la moglie era sorella dell’odiato Costanzo II. Il quale intanto, nel 354, gli aveva fatto ammazzare il fratellastro Gallo, tanto per ricordargli quale sorte incombesse anche su di lui. Mandandolo come Cesare in Gallia nel 355, in effetti, Costanzo intendeva sbarazzarsi anche di Giuliano. Infatti la Gallia del tempo, che costituiva la frontiera chiave sulla quale si giocavano i destini dell’Impero, era una bolgia amministrativa e militare. Ma proprio là Giuliano darà grande prova di sé. Diventerà l’idolo delle truppe, che già dal 359 lo proclamano augusto. La sorte sembra mutare e volgersi finalmente in favore suo e dei suoi dei.

Nel 361, morto Costanzo II, Giuliano è acclamato imperatore. È allora che renderà pubblica la sua apostasia dal cristianesimo e attiva l’opera di restaurazione del paganesimo: che si riaprissero i templi al culto, nell’esercito si ripristinasse il culto agli dei, via i cristiani dall’insegnamento della grammatica e della retorica!

Eppure il suo non vorrebbe essere tanto un ritorno quanto una riforma del paganesimo, che però finisce per risultare il surrogato scadente della fede cristiana. Vuole una gerarchia sacerdotale pagana esemplare, detta fin nei minimi particolari l’organizzazione del culto, esige dai sacerdoti pagani la predicazione dei dogmata hellenica (il paganesimo dogmatico in realtà è un monstrum), invita alla carità: «È una vergogna», scrive Giuliano a Teodoro, pontifex pagano della Galazia, «che mentre tra i Giudei nessuno chiede l’elemosina e gli empi Galilei [cristiani] sostentano anche i nostri mendicanti oltre ai loro, i nostri bisognosi siano palesemente sprovvisti di ogni aiuto da parte nostra».

C’è in questa apostasia di Giuliano qualcosa di fatale. Egli persegue utopisticamente l’intento di rivitalizzare il paganesimo, pretende la coerenza da sé e dagli altri, si abbandona a vagheggiamenti mistici. Tutto ciò in contrapposizione a quel cristianesimo ariano razionalistico, intrigante e senza attrattiva che gli era stato imposto. Senza accorgersi che è il modo per perpetuarne la maledizione. Non solo gli dei del paganesimo non ritornano, ma la grazia di Gesù Cristo risulta sempre più lontana. E così anche l’ostentata tolleranza di Giuliano, che si atteggia a filosofo (il suo modello è Marco Aurelio) e non vorrebbe realizzare cruente persecuzioni, finisce per risultare a tratti più violenta di un’aperta persecuzione. Soprattutto in Oriente e in Africa, dove più acuti erano i dissensi, numerosi sono i martiri. Ma anche a Roma, il 26 giugno del 362, due fratelli, Giovanni e Paolo, subiscono il martirio.

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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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