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In manos tuas commendo vitam meam. (Nelle tue rimetto la mia vita)

Ultimo Aggiornamento: 17/11/2012 15:21
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30/06/2009 14:44
 
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Se vogliamo seguire veramente Benedetto XVI e dirci "papisti" nel termine più vero e più bello che la Tradizione ci insegna, facciamo nostro quanto segue....

Il viaggio di Benedetto XVI nel cuore dell'oscurità

di Mauro Bontempi - estate 2008

 L’umanità si interroga da sempre sul “senso della vita”.
 
Molti lo hanno ritenuto intrinseco nell’esistenza stessa. Non è solo il caso degli edonisti o dei materialisti di ogni epoca e credo politico. Forgiate nella fucina della memoria, le grandi gesta hanno ottenuto l’alloro dell’immortalità. La corporeità delle azioni umane non è destinata alla morte se riesce a guadagnarsi il passaporto dell’immortalità. Lo scopo del vivere umano, secondo questa nobile visione, consiste, come nei Sepolcri di Foscolo, nel rendere immortale la propria anima. Guadagnarsi l’eternità dopo la morte con gesta eccezionali durante la vita.

Ciò che si rileva è, ultimamente, la perfezione del proprio personaggio.
Se l’errore o l’insuccesso può allontanare il traguardo, una condotta di vita normale o ordinaria nega del tutto il raggiungimento dell’immortalità. Da oltre duemila anni i Cristiani obiettano a tale teoria: è questa la sola immortalità? Può essere immortale una presenza legata all’umano? Può essere immortale una memoria destinata a perire col passare del tempo e degli uomini? La risposta cristiana alla ricerca dell’origine e del significato dell’esistenza umana è semplice e “logica”. La vita non spiega se stessa, non totalmente, almeno. Perché vi sia vera immortalità e vero senso della propria esistenza, deve esserci un’origine esogena. La luce che illumina l’esistenza dell’uomo è “fuori campo”. Come a teatro, un attore che recita al buio può attirare l’attenzione per qualche istante ma alla fine sarà subissato di fischi. Simile o peggior trattamento se il grande interprete, pur sotto una luce ottimale, rimanesse fermo e immobile per due ore al centro del palcoscenico. Il gesto e la luce sono strettamente correlati, ma, indubbiamente, il primo è subordinato all’esistenza del secondo.

La fonte di illuminazione giustifica e dà significato allo svolgimento stesso del gesto, qualunque sia: ampio, rapido, eclatante o semplice. Non tutti coloro che si alternano sul palco della vita hanno questa consapevolezza. Il vero dramma dell’esistenza non è quindi il dolore ma l’incapacità di vedere una luce che illumina la vicenda umana. Tutto si consuma al buio.

L’uomo, abbandonato a se stesso, affronta la propria esistenza da solo, nel silenzio dell’oscurità.

Rispettando una tradizione ormai consolidata del Pontificato, Benedetto XVI è intervenuto lo scorso 9 giugno all’apertura del Convegno ecclesiale della diocesi di Roma. Il tema scelta quest’anno, “Gesù è risorto: educare alla speranza nella preghiera, nell’azione, nella sofferenza”, ha permesso al Papa di tornare alla sua seconda enciclica: la “speranza che trasforma e sorregge la nostra vita” (Spe Salvi, 10).

Di false certezze la società contemporanea è assai ricca, ma non certo della vera speranza. La speranza, sembra un paradosso, è più impegnativa di una certezza “contabile”. Quando questa comincia a mancare o scarseggia, “prevalgono atteggiamenti di sfiducia e rassegnazione, che contraddicono non soltanto la ‘grande speranza” della fede, ma anche quelle ‘piccole speranze che normalmente ci confortano nello sforzo di raggiungere gli obiettivi della vita quotidiana. È diffusa cioè la sensazione che, per l’Italia come per l’Europa, gli anni migliori siano ormai alle spalle e che un destino di precarietà e di incertezza attenda nel nuove generazioni”.

Non sono più i tempi del cosiddetto boom economico. Il saggio d’incremento del PIL è pari quasi allo zero. Meno agi, meno lusso, meno “tempo libero” da impiegare in divertimenti, legittimi spesso ma di sovente ingannevoli. Una vita più monotona e infelice nella quale, prima o poi, piomba la realtà della malattia, della sofferenza e della morte.

Come può l’uomo uscirne integro e vittorioso se Dio è stato messo sino a quel momento “tra parentesi”, avendo organizzato “senza di Lui la vita personale e sociale? “Quando Dio è lasciato da parte - ricorda Benedetto XVI - nessuna della cose che veramente ci premono può trovare una stabile collocazione, tutte le nostre grandi e piccole speranze poggiano sul vuoto”. Il credente deve rispondere con il triplice motto: “Fiducia, tenacia e coraggio”.   Sorriso

È questa la consegna del Papa ai cattolici, i quali, con atteggiamento di “umiltà non possono pretendere di avere sempre successo, o di essere in grado di risolvere … con le proprie forze” i problemi e i fallimenti della vita perché ogni uomo “sa che il suo operare e la sua storia nel suo insieme sono custoditi nel potere indistruttibile dell’amore di Dio”.

In manos tuas commendo vitam meam.

Un tale atto di fede, non sempre spontaneo nei momenti felici, è quasi inconcepibile di fronte alla prova. Fermo restando, ricorda il Papa citando la Spe Salvi, che è necessario “fare tutto il possibile per diminuire la sofferenza”, essa, d’altro canto, “educa e fortifica a titolo speciale la nostra speranza”. La creatura prediletta di Dio ha il diritto di ricercare e difendere la (vera) felicità ma deve sentire anche l’incapacità di potere “eliminare del tutto la sofferenza dal mondo”: l’uomo, secondo l’efficace metafora di Benedetto XVI, non ha il potere di “prosciugare le fonti” della sofferenza. “Non la fuga davanti al dolore guarisce l’uomo, ma la capacità di accettare la tribolazione e di maturare in essa, trovandovi un senso mediante l’unione a Cristo”.

Aprendo l’anno paolino, il Pontefice è tornato su questo concetto quasi a volere tenere alta l’attenzione dei fedeli su questo punto, arduo e tutt’altro che scontato. Durante l’omelia per i vespri dei Santi Pietro e Paolo, nella Basilica di San Paolo fuori le mura, il Papa ha usato parole forti: “In un mondo in cui la menzogna è potente, la verità si paga con la sofferenza. Chi vuole schivare la sofferenza, tenerla lontana da sé, tiene lontana la vita stessa e la sua grandezza; non può essere servitore della verità e così servitore della fede. Non c’è amore senza sofferenza, senza la sofferenza della rinuncia a se stessi, della trasformazione e purificazione dell’io per la vera libertà. Là dove non c’è niente che valga che per esso si soffra, anche la stessa vita perde il suo valore”.

Ecco il senso della vita. Ecco il mistero svelato della eterna felicità. Ecco il mistero di fede racchiuso nell’Eucaristia, la cui assunzione concede all’uomo “il coraggio e la forza di soffrire con Cristo e per Lui in questo mondo, sapendo che proprio così la nostra vita diventa grande e matura e vera”.


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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