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Se avete desiderio di capire che cosa insegna la Bibbia che il Magistero della Santa Chiesa, con il Sommo Pontefice ci insegna, questo Gruppo fa per voi. Non siamo "esperti" del settore, ma siamo Laici impegnati nella Chiesa che qui si sono incontrati da diverse parti d'Italia per essere testimoni anche nella rete della Verità che tentiamo di vivere nel quotidiano, come lo stesso amato Giovanni Paolo II suggeriva.
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LE SACRE SCRITTURE SONO ISPIRATE

Ultimo Aggiornamento: 25/08/2012 18:23
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ISPIRAZIONE della Bibbia

ISPIRAZIONE.II termine esprime la qualità unica dei libri elencati nel canone (v.) del Vecchio e del Nuovo Testamento: cioè la loro origine divina; l'astratto deriva dall'aggettivo verbale qeopneustoV "ispirato da Dio" adoperato da s. Paolo (II Tim. 3, 16) appunto per i libri del Vecchio Testamento. Non c'è verità dommatica più di questa universalmente e concordemente attestata dalle fonti bibliche, dalla tradizione giudaica (per il V. T.) e cristiana.


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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 27/07/2003 17.01

In I Mach. 12, 9, in Flavio Giuseppe, Ant., inizio, nel Talmud (Sabbath, 16, 1) si parla esplicitamente di "libri santi", "sacri", di "scrittura divina". Nostro Signore e gli Apostoli parlano di "parola di Dio" (= le prescrizioni della Legge: ton logon tou qeou Mc. 7, 13), "i detti di Dio" (s. Paolo chiama così tutto il Vecchio Testamento: Rom. 3, 2: ta logia tou qeou); "le sacre scritture" (Rom. 1, 2), "le lettere sacre" (II Tim. 3, 15). Esplicitamente se ne dichiara autore Dio: Mt. 22, 43 per il Ps. 110 (109); Act. 4, 25: «O Signore, tu sei colui che ha fatto il Cielo... e che mediante lo Spirito Santo, per bocca del padre nostro e tuo servo David, hai detto: A che pro cospirano le genti... ecc.» Ps. 2; Hebr. 3, 7 «Perciò dice lo Spirito Santo...» = Ps. 95 (94), 18 ss. ecc.<o:p></o:p>

E se ne afferma ripetutamente l'autorità indiscussa e divina, sia direttamente (Lc. 18, 31; 24, 44-47: «bisogna si adempia quanto di me sta scritto — dice Gesù Risorto — nella Legge, nei Profeti, nei Salmi»), sia nelle argomentazioni (Io. 10, 34 dal Ps. 82 [81], 6: «la Scrittura non può essere smentita); Rom. 1, 16 da Hab. 2, 4; ecc.).<o:p></o:p>

Formalmente, l'i. divina è affermata in II Tim. 3, 15 s. e in II Pt. 1, 20 s. S. Paolo così scrive: «Quanto a te, rimani fedele (contro le pericolose novità nell'insegnamento della dottrina) alle cose che hai appreso e di cui hai riconosciuto la certezza. Tu sai da chi le hai imparate, e fin da fanciullo tu conosci le Sacre Scritture; esse possono darti la saggezza che mediante la fede nel Cristo Gesù conduce alla salvezza. Ogni Scrittura (nell'insieme e in ogni parte = le Sacre Scritture del v. precedente) è qeupneustoV ispirata da Dio e (pertanto) utile per insegnare, ammonire, correggere, educare alla giustizia, perché l'uomo di Dio sia perfettamente armato per ogni opera buona».

S. Pietro ammonisce i fedeli che la sua predicazione si fonda su basi solidissime, indiscusse: la sua stessa autorità di teste oculare della divina maestà del Cristo, nella Trasfigurazione (1, 12-18) e l'autorità ancora maggiore (di quella soggettiva), delle profezie messianiche, alle quali si deve aderire come a luce che risplende tra il ternebrore di questa terra fino a che non risplenda per ciascuno il giorno del suo incontro con Gesù. Prima di tutto, tengano però presente che «nessuna profezia della scrittura va lasciata all'interpretazione di ciascuno ("è cosa d'interpretazione privata" - G. Luzzi; o "è frutto d'interpretazione privata" - De Ambroggi); perché nessuna profezia fu mai proferita per volontà d'uomo, ma gli uomini, portati (mossi, completamente in balia, sotto l'influsso, jeromenoi; lo stesso verbo è usato in Act., 27, 15 per la nave che non potendo resistere al vento lascia che esso la spinga come e dove vuole) dallo Spirito Santo, han parlato da parte di Dio».

Questi due testi si completano a vicenda; il 1° afferma formalmente l'i. per tutti i libri del V.T., il 2°, meno  esplicito per l'estensione a tutti i libri, ha un chiaro riferimento alla natura stessa dell'i. Essi, con gli altri, sono un argomento storico del pensiero degli Apostoli e di Gesù N. S. sull'i. Per i libri del Nuovo Testamento non abbiamo argomento biblico di eguale portata. In I Tim. 5, 18 s. Paolo cita come S. Scrittura Deut. 25, 4 insieme a una frase che riscontriamo in Lc. 10, 7; ma non si può asserire con certezza tale riferimento al Vangelo scritto. Chiaramente invece II Pt. 3, 16 pone le lettere di s. Paolo sul piano delle "altre Scritture".<o:p></o:p>

È inutile trascrivere testimonianze dai Padri; fin dagli scritti della stessa epoca apostolica, essi unanimemente affermano l'i. di tutta la S. Scrittura; non solo, ma dicono trattarsi di verità di fede, predicata in modo chiarissimo nella Chiesa (cf. Origene, De Principiis I, 4, 8).

In ordine alla natura dell'i., possiamo così classificare il loro insegnamento.
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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 27/07/2003 17.02

1°) I primi apologeti in particolare, per descrivere l'azione di Dio su l'agiografo, riprendono le espressioni ed immagini bibliche (II Tim.; II Pt.; Am. 3, 8; Ier. 20, 9: v. Profetismo), con la terminologia che Platone (Tim. 71 E - 72 B; Menon 99 CD; Ion. 533 Dss.), Virgilio (En. VI, 45-51.77-80), Lucano (Farsalia V, 161 ss.) ecc., adoperano per il fenomeno estatico: il profeta è strumento, organo di Dio (Atenagora, Leg. 7, 9, s. Teofilo, Ad Autol. 1, 14; 3, 23; Cohort. 8; PG 6, 904 ss.; 1045.1156; 256).<

Precisando però energicamente, contro i Montanisti, i quali con i citati autori pagani ammettevano l'incoscienza dell'ispirato, che l'autore umano rimane assolutamente conscio e libero sotto l'azione di Dio (cf. Miltiades in Eusebio, Hist. Eccl. V. 17).<


2°) Dio "detta", "dice" i libri sacri; s. Ireneo: «le Sacre Scritture sono perfette perché dettate dal Verbo di Dio e dallo Spirito Santo» (Adv. haer. II, 28.2; cf. IV, 10.1; s. Girolamo, Ep. 120, 10; s. Agostino, in Ps. 62, 1, ecc. PL 22, 997; 36, 748).<

 <

3°) Dio è "autore" (auctor nel latino = scriptor) o scrittore della S. Scrittura (Clemente Alessandrino, Strom. 1, 5: PG 8, 717; s. Ambrogio, s. Agostino, s. Gregorio M.: PL. 16, 1210; 42, 157; 75, 517), che viene detta «lettera mandataci da Dio dalla patria lontana» (s. Crisostomo, PG 53, 28; s. Agostino, PL 37, 1159. 1952; s. Gregorio M., PL 77, 706).<

Cosi s. Gregorio : «Ma è del tutto inutile domandar chi le abbia scritte (queste lettere di Dio all'umanità, che sono le sacre Scritture; chi, cioè di quale strumento Dio si sia servito) quando tuttavia fedelmente si crede che l'autore del libro è lo Spirito Santo. Quegli dunque scrisse che dettò quanto era da scrivere. Quegli scrisse che in quel lavoro fu l'ispiratore e mediante la voce (l'espressione) di colui che scriveva trasmise a noi le di lui vicende perché le imitassimo» (In Iob, praef.).<

I documenti della Chiesa si susseguono dal sec. V in poi (EB, n. 28. 30 ecc.).<

Contro i Manichei che attribuivano, rigettandolo, il Vecchio Testamento al Principio del male, essi professano e sanciscono l'unità dei due Testamenti e l'identità del loro autore divino. Così ancora il Concilio Fiorentino (EB, n. 48).<

II Concilio di Trento (EB, n. 59-60), contro i Protestanti che all'inizio ritenevano l'i. biblica, estendendola anzi indebitamente financo agli apici e agli accenti che sono posteriori agli originali, ma rigettavano come non sacri alcuni libri, definì il Canone (v.), e confermò l'i. divina di tutti i libri che lo compongono.<o:p></o:p>

La definizione dommatica di questa verità fu data in modo solenne dal concilio Vaticano (24 apr. 1870; EB, n. 79), contro i razionalisti (da Ioh. Sal. Semler, 1725-91, G. Paulus, D. Strauss in poi) e i semirazionalisti (Schleiermacher, Rothe ecc.), che consideravano e trattavano ormai i libri sacri alla stregua di ogni altro libro. Definizione ripetuta da Leone XIII nella Providentissimus; da Pio X (decr. Lamentabili, in EB, n. 200 s.) nella condanna dei modernisti che dell'i. ritenevano soltanto il nome (Loisy: «Dio è autore della S. Scrittura, come è architetto della basilica di s. Pietro»); da Pio XII nella Divino afflante Spiritu in AAS, [1943] 297-326).<o:p></o:p>

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Consiglia  Messaggio 4 di 6 nella discussione 
Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 27/07/2003 17.03

Natura della ispirazione

S. Tommaso, specialmente nella IIa-IIae, qq. 171-174, ha ordinato sistematicamente gli elementi biblici e patristici, illustrando luminosamente l'azione di Dio su l'uomo, suo strumento, e l'effetto che ne risulta. Egli tratta direttamente dell'i. profetica, o influsso divino sul profeta perché parli in suo nome (v. Profetismo), e non dell'ispirazione in ordine alla composizione dei libri sacri. Ma l'identità tra le due i. è sostanziale; sicché la trattazione di s. Tommaso viene ripresa integralmenle per l'i. biblica.<o:p></o:p>

L'Aquinate enunziò principi fondamentali così sodi, sicuri e decisivi che, per lunghi secoli, quasi più nulla fu aggiunto d'importante alla sua esposizione.<o:p></o:p>

Leone XIII nell'Encicl. Providentissimus (EB, nn. 81-134), basilare e determinante specialmente al riguardo, riprende integra la dottrina di s. Tommaso, applicandola dettagliatamente alla i. biblica in ordine alla composizione dei libri sacri; ricondusse così all'unità e alla chiarezza tomistica, quanti, tra i cattolici, se n'erano allontanati per seguire nuove vie. Tale dottrina è ripresa, confermata e su qualche punto chiarita dall'enc. Spiritus Paraclitus di Benedetto XV (EB, nn. 44-495), dalla Divino Afflante Spiritu, e dalla Humani Generis (AAS, [1950] 563.568 ss. 575 ss.).<o:p></o:p>

L'i., come azione divina in se stessa considerata, è un dono, un "carisma" elargito da Dio non per la santificazione personale dell'ispirato (grazia santificante), ma per il bene della Chiesa. È un carisma dell'ordine intellettuale: essenzialmente è un lume soprannaturale, infuso da Dio, sotto il quale l'uomo emette i suoi giudizi. Non è pertanto stabile nell'uomo, ma solo è infuso in ordine al libro da scrivere, e in periodi a ciò destinati. Non è necessariamente connesso con la santità dell'individuo; Dio sceglie chi vuole. Né l'ispirato è cosciente di tal dono.<o:p></o:p>

A quest'azione divina, l'uomo reagisce vitalmente. Se Am. 3, 8 («il leone ruggisce, chi non trema; Dio parla, chi non profetizza?») e II Pt. 1, 21 potrebbero far pensare ad una mancanza di libertà, Is. 6, 5-8. 11; Ier. 20, 9 con 1, 6; Ez. 1, 3; 3, 22 con 3, 17-21; specialmente Lc. 1, 1-5; II Mach. 2, 24-33, attestano chiaramente la piena coscienza, la vitale corrispondenza e pieno funzionamento della mente e della volontà dell'ispirato (A. Bea, in Studia Anselmiana, 27-28 Roma 1951, pp. 47-65). Si pensi alla diversità di stile, alle manchevolezze di forma ecc.<o:p></o:p>

Il grande merito di s. Tommaso è, principalmente, nel metodo. Non procede astrattamente, costruendo sui termini intesi genericamente. Ma poggia solidamente sui dati biblici e patristici. Dio è autore (scrittore), l'uomo è autore; Dio ha adoperato dell'uomo come strumento; gli ha dettato (dictare = ispirare), ispirato tutto il libro. Tutto il libro è di Dio, tutto il libro è dell'uomo; principalmente di Dio, come ogni effetto che procede insieme dalla causa prima e da una causa seconda strumentale.

Non possiamo scostarci da questi dati; non possiamo creare un sistema che, per quanto razionale, neghi o sminuisca la parte di Dio o quella dell'agiografo, così come è affermata in modo indiscusso dalla tradizione ed è definita dalla Chiesa.<o:p></o:p>

Basti considerare l'energia con cui i Padri rigettarono i Montanisti che esageravano la parte di Dio, riducendo l'ispirato ad un incosciente; eguale errore commisero i primi Protestanti, parlando di dettatura nel senso più rigoroso e riducendo l'ispirato ad una macchina.

Autori cattolici, invece, per difendere la libertà e la vitalità dell'uomo sotto l'i., e, più recentemente, per spiegare eventuali imprecisioni o errori fisico-storici, cercarono di restringere quanto più possibile la parte di Dio. Si disse che alcuni libri storici potevano dirsi ispirati (Lessio e Bonfrère) o realmente lo erano (D. Haneberg) solo perché dichiarati immuni da errore, e approvati dalla Chiesa (la cosiddetta i. susseguente). Ma non si badava che in tal modo il libro, scritto dal solo uomo, per quanto approvato rimaneva libro umano e nient'affatto divino; Dio non ne era l'autore.<

G. Iahn ritenne che bastasse per l'i. la semplice assistenza dello Spirito Santo, concessa ad es. al Sommo Pontefice quando definisce solennemente una verità di fede, per preservarlo da ogni errore. Ma è chiaro che tale assistenza negativa rende il libro infallibile, ma nient'affatto divino, come esigono i dati biblici e tradizionali. Nessuno ha mai chiamato divine le definizioni solenni e infallibili del Sommo Pontefice; nessuno può mai avvicinarle alla parola di Dio, alla S. Scrittura.

Il Franzelin, seguito da molti, fino all'Encicl. Providentissimus, per assicurare la libertà dell'agiografo, credette di dividere i compiti assegnando le idee a Dio, e il loro rivestimento con le parole, con la forma letteraria, all'agiografo. Era una vivisezione illogica, contraria alla psicologia: in noi non esistono idee pure, in tutto separate dalle parole. Ma principalmente era una incomprensione della Tradizione: autore = scrittore.<

Si ricordi quanto ho trascritto da s. Gregorio: Quegli scrisse che dettò (ispirò). Il Franzelin volle procedere in una maniera astratta: Dio è autore. Vediamo un po' se può dirsi tale, anche se ha soltanto dato le idee, immettendole nella mente dell'uomo, come dei quadri incompleti si immettono in una pinacoteca, perché vi siano rifiniti e conservati. I Padri invece insistono (sulla scia degli Apostoli) a considerare anche le parole, come divine o comunque connesse con Dio; ad argomentare pertanto da esse (Hebr. 8, 13; 12, 26 ecc.). E quanto alle stesse idee, esse sono di Dio e dell'uomo insieme. Praticamente non c'è un solo istante in cui l'uomo agisce da solo, come nulla è realizzato da parte di Dio se non per mezzo dell'uomo.

Quanti poi tra i recenti vollero restringere l'i. alle sole verità dogmatiche (F. Lenormant, S. Di Bartolo) per ammettere nelle altre parti l'errore, oltre a quanto ora osservato andavano direttamente contro il principio universalmente attestato dai Padri e dal Magistero infallibile che tutta la S. Scrittura è ispirata e nessun errore può in essa trovarsi.

Per questi ultimi autori specialmente, ma anche per molti dei precedenti, causa di errore fu la mancata distinzione tra i. e rivelazione. Tutto nella Bibbia è ispirato, ma non tutto è rivelato (Synave-Benoit, pp. 277-82.300-309.335-38). La rivelazione importa la comunicazione da parte di Dio dell'oggetto, della materia stessa da esporre. Invece, ordinariamente l'agiografo scrive quanto conosce con le sue forze, ha appreso con diligenza (Lc. 1, 1-5; II Mach. 2, 24-30). L'essenziale, come diceva s. Tommaso, è il lume divino per giudicare la materia comunque percepita, sia per rivelazione, sia per via naturale, con lo studio e la ricerca. Così gli evangelisti ci narrano quanto essi stessi (Mt., Io.) hanno visto e sentito o quanto hanno appreso (Mc., Lc.) a viva voce dagli Apostoli.

Già s. Tommaso poneva una netta distinzione tra la raccolta, la preparazione del materiale, e la redazione scritta. L'azione di Dio incomincia con l'inizio della composizione; la preparazione previa non appartiene all'i. In altri termini, la S. Scrittura non va considerata come un libro creato e dato all'uomo, quasi comunicazione, sia pure parziale, della divina onniscienza; Dio invece ha voluto parlare agli uomini, comunicare con loro per iscritto, per mezzo di un loro simile, adattandosi alla di lui, alla nostra mentalità.

S. Tommaso ha ben sintetizzato tutta la dottrina cattolica nel principio: Dio autore principale, l'agiografo autore strumentale (Quodl. 7, a. 14, ad 5). Per spiegare il processo dell'azione di Dio sulle facoltà dell'agiografo basta  svolgere  il principio ontologico di causa strumentale.

La causa agente può essere duplice: principale e strumentale. La prima opera per sola virtù propria; la seconda solo in forza di una mozione previa che riceve dalla precedente. Per tale mozione, lo strumento viene elevato ad una capacità superiore alla sua natura e adeguata alla virtù dell'agente principale, ed applicato all'azione. Il pennello ha una sua virtù propria, quella di stendere i colori; per dipingere un quadro è necessario che l'artista lo applichi e gli comunichi la sua capacità (stendere i colori secondo determinati disegni e regole). In tal modo lo strumento oltre alla propria capacità ne viene ad acquisire, quando è in mano dell'artista, una più alta, superiore alla sua natura. Non c'è attimo in cui il pittore da solo e, ancor di più, il pennello da solo, operino per l'effetto; il quale pertanto è tutto dell'uno e dell'altro, sebbene in modo diverso, che allo strumento appartiene solo per virtù comunicatagli dall'agente principale.<o:p></o:p>

Si badi ancora: lo strumento in mano all'artista, non muta natura: se è difettoso rimane tale; e attua la virtù ricevuta dall'agente principale, esplicando intera la propria capacità. Nessuna meraviglia quindi se nell'effetto si riscontrano le tracce dei due che hanno insieme concorso a produrlo; e quindi gli eventuali difetti dello strumento.

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A) L'intelletto:

1°) deve concepire le idee, connetterle esprimendo i vari giudizi, e infine pronunziarsi sulla loro verità e certezza;
2°) questo lavorio intellettuale potrebbe rimanere allo stadio di semplice "concezione"; è necessario che l'intelletto formuli la decisione di metterli per iscritto per comunicarli agli altri;<o:p></o:p>

3°) scegliere e curare la forma esterna (o veste letteraria) più adatta: genere letterario, stile, scelta dei vocaboli ecc.

B) II giudizio

(2°: detto pratico) dell'intelletto, muove la volontà, che interviene e inizia l'attuazione.

Per la concezione delle idee, Dio interviene irrobustendo, aumentando la luce del nostro intelletto. Gli scolastici chiamano intelletto agente la nostra facoltà nel suo primo atto, in ordine alla concezione dell'idea. Gli oggetti esterni, penetrano in noi attraverso i sensi, che trasmettono così alla fantasia l'immagine sensibile di quelli (= specie sensibile espressa). Tale specie viene investita dalla luce dell'intelletto, che può quindi esprimere l'idea immateriale. Questa seconda operazione (dell'intelletto possibile, secondo la terminologia scolastica) è in stretta connessione con la prima, anche in ordine alla qualità dell'idea: se la luce è potente, l'idea è chiara, distinta. Noi si parla di intuito, di genio: è la potenza del nostro intelletto che in dati uomini è straordinaria.

L'azione di Dio sull'intelletto è dunque duplice: potenzia ed eleva il lume naturale, quindi applica ed eleva l'intelletto in modo che esprima l'idea, formuli giudizi ecc. L'idea e i giudizi sono pertanto divini e umani. Ecco perché non possono contenere errori, sono infallibili. L'effetto ha questa caratteristica, unicamente per la virtù divina comunicata all'uomo.<

Allo stesso modo Dio agisce per il giudizio cosiddetto "pratico". Alcuni cattolici avevano pensato di fare incominciare qui l'azione divina. In realtà, l'intelletto emettendo tale giudizio ritorna sulle idee già formulate, le approva; basterebbe l'influsso di Dio su tale revisione per essere sicuri della loro verità e certezza. Ma in tal caso, le idee rimarrebbero quanto alla loro concezione, umane e soltanto umane. Invece si tratta di idee divine. Leone XIII dice nettamente che l'azione di Dio si esercita su l'agiografo «perché concepisca perfettamente», quanto Dio vuole.<

La scelta dei vocaboli e della forma esterna è psicologicamente inseparabile dalla concezione delle idee e dalla formulazione dei giudizi; ad essa si estende egualmente l'influsso divino in modo che le verità intese da Dio, siano espresse «in modo adatto». È la cosiddetta «i. verbale». Il Franzelin e molti altri, vollero negarla, partendo da un concetto astratto di "autore", quasi non si trattasse di "scrittore". In realtà, non si può sottrarre all'influsso divino questa parte così importante e, di fatto, inscindibile dalla precedente; anzi sarebbe una violenza contro il principio ontologico di causa strumentale. D'altronde tutti gli autori, dopo l'Encicl. Providentissimus, sono ritornati alla dottrina tomista.


È necessario, inoltre, perché Dio sia vero autore del libro, che egli intervenga egualmente sulla volontà dell'agiografo, in modo che questi ponga tutti gli atti necessari per l'esteriorizzazione del lavoro dell'intelletto. E Dio muove (applica) ed eleva la volontà, sì che l'effetto si produca infallibilmente. Si tratta di mozione previa (come abbiam detto circa i rapporti tra agente principale e strumento), fisica (non soltanto morale, ad es. le circostanze esterne che possono indurre uno a scrivere: le preghiere dei Romani a s. Marco perché scrivesse l'evangelo), interna, immediata; altrimenti l'uomo non sarebbe causa strumentale. Questo influsso lascia integra la libertà; come avviene per la grazia divina; si tratta dell'azione sublime della Causa prima. Gli stessi autori sacri sentono di decidersi e di scrivere liberamente (Lc. 1, 1; cf. Rom. 15, 15 ss.
II Cor. 7, 8 s. ecc.).<o:p></o:p>

Iddio che ha dato l'essere alle creature e le conserva, muove anche ciascuna di esse secondo la condizione della propria natura, le libere pertanto conservando e rispettando la loro libertà (s. Tommaso, I, q. 83, a. 1, e ad 3; De Malo, q. 3, a. 2).<o:p></o:p>

Iddio «assiste gli scrittori sacri in modo tale che possano debitamente esprimere, con infallibile verità, tutto ciò e soltanto ciò che Egli volle». Con tale frase, Leone XII parla dell'influsso positivo di Dio anche sulle facoltà esecutive. Influsso che non è necessario sia immediato, cioè che si porti su ciascuna di esse direttamente; basta infatti che esso si eserciti tramite la volontà, dalla quale tutte quelle dipendono e sono mosse.<o:p></o:p>

«Iddio presta allo scrittore una particolare e continua assistenza, finché egli non abbia terminato il libro» (Benedetto XV, Encicl. Spiritus Paraclitus, in EB, n. 448). Nulla pertanto dell'agiografo è sottratto a quest'azione divina; non c'è momento in cui egli lavori da solo. Tutto il libro pertanto è egualmente ed integralmente ispirato, cioè divino e umano. L'uomo non ha coscienza dell'azione di Dio; ha faticato per raccogliere il materiale e fatica per comporre il libro.<o:p></o:p>

Egli, sotto l'i., oltre ad essere libero, esplica intera la sua attività, applica e manifesta le sue doti, la sua cultura, la sua indole, la sua mentalità. Ecco perché già i Padri facevano rilevare le differenze di concezione, di stile; la sublime poesia del colto Isaia, la rudezza di Amos; i concetti propri a s. Giovanni nel IV Vangelo, e a s. Paolo (Rom. ecc.) a proposito della Redenzione; le differenze degli stessi Sinottici.<

Tutto il libro è di Dio e dell'agiografo. Solo esplicando la propria virtù, l'uomo ha attuato quella contemporaneamente comunicategli da Dio; e così noi sapremo cosa Iddio ha voluto dirci, stabilendo cosa l'agiografo ha inteso esprimere (v. Ermeneutica).

Tutta la Bibbia è ispirata, ha autore Dio, ed è pertanto "parola di Dio".<

Ma non allo stesso modo; che l'i. non fa di ciascun elemento del libro la rivelazione di un pensiero divino.<o:p></o:p>

Quando si dice che l'accessorio è ispirato come l'essenziale, non si afferma che lo sia allo stesso grado e per se stesso. L'accessorio è ispirato in funzione dell'essenziale e nella misura in cui lo serve.

Lo scrittore intende soltanto scrivere la "storia della salvezza" o "dei nostri rapporti con Dio", illuminare i lettori al riguardo e offrire loro quanto è necessario per salvarsi e glorificare Dio. Ma non da un arido elenco di formule dogmatiche e di precetti; non offre un seguito di "giudizi formali", ma scrivendo da uomo per nomini egli adopera mille mezzi per presentare, illustrare e fare accettare il suo messaggio.<o:p></o:p>

Così nessun dettaglio è superfluo, quando contribuisce a rendere il suo libro più bello, più piacevole e pertanto più utile.<o:p></o:p>

Il primo verso della Bibbia è un giudizio formale, una verità dommatica fondamentale : «All'inizio Dio creò l'universo». Questo è essenziale; nei vv. seguenti è descritto in maniera popolare e artistica il modo di questa creazione; modo rispondente alle imperfette conoscenze del tempo. È l'accessorio. È ispirato, senz'altro. Ma non per sé; ché la Bibbia non vuol essere, non è un trattato scientifico di geologia, astronomia, ecc. È anch'esso "parola di Dio", in quanto si trova nella S. Scrittura, e veramente Mosè così pensava e così scrisse; ma non è "formale asserzione di Dio", rivelata da Dio.<o:p></o:p>

Quando l'autore sacro scrive che il cane di Tobia moveva la coda, lo fa col conscio talento di un narratore che vuole interessare col pittoresco. Ma (è chiaro) non afferma questo dettaglio, in se stesso; l'utilizza soltanto in funzione di tutto il libro, e secondo il ruolo, abbastanza modesto, di semplice ornamento. Allo stesso modo, dunque, ciascun elemento del libro sacro dev'essere giudicato secondo la sua effettiva contribuzione allo scopo e all'insieme del libro; ma non lo si può staccare dal contesto e dargli un valore assoluto, tradendo le intenzioni dell'autore.<o:p></o:p>

Facendo lavorare lo spirito umano senza violare il suo modo proprio di agire, l'influsso ispiratore penetra tutto ciò che è frutto di questo lavoro, ma ne garantisce ciascun elemento nella misura intesa, voluta dall'autore. Quando questi vuole insegnare come assolutamente vera una proposizione (Gen. 1, 1), questa è assolutamente e infallibilmente vera; quando invece egli presenta, adoperando le conoscenze, il linguaggio del tempo, una descrizione artistica sul modo della creazione, con lo scopo di raccomandare l'osservanza del sabato, senza entrare in merito (che non era sua intenzione) al valore assoluto, Dio ha voluto sì parlarci in tal modo (i vv. sono egualmente ispirati) e pertanto siamo soltanto sicuri che l'autore così pensò e scrisse. Un elemento che vi sta soltanto come ornamento letterario, è ispirato ma semplicemente come tale. Così quando l'agiografo esprime dubbi, timori, sentimenti talora imperfetti (Ier. 15, 10; Gal. 3, 1): Dio vuole siffatte espressioni, e l'i. ci assicura che effettivamente l'agiografo dubitò ecc.; i sentimenti espressi rimangono esclusivamente umani. Infatti non si tratta qui direttamente e immediatamente di "giudizi", cioè di atti dell'intelletto, ma di atti della volontà. In quanto vengono espressi nel libro ispirato (solo in questo punto ha inizio l'i.), implicitamente viene asserito che l'agiografo ebbe questi atti. E pertanto questo giudizio deve essere infallibilmente vero. Gli stessi atti, in se stessi, però, siccome non appartengono all'intelletto, rimangono quali erano, semplici atti dell'agiografo.


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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 27/07/2003 17.05

Inerranza. Questione biblica.

L'aver confuso i. e rivelazione, e l'aver preteso quindi che ogni elemento della Bibbia purché ispirato fosse "parola di Dio" in senso univoco, cioè "rivelazione di Dio", fu l'unica causa dello sbandamento di alcuni cattolici dinanzi alle difficoltà formulate contro l'i. della Bibbia, dalle scienze fisiche e dai dati archeologici.<o:p></o:p>

Ora, che l'errore sia incompatibile con l'i. è una semplice deduzione dai principi esposti: incompatibilità insegnata senza attenuazioni o dubbi da tutte le fonti e dal Magistero ecclesiastico. Non c'è al riguardo una definizione formale, ma si tratta egualmente di verità di fede: la Scrittura ispirata non può contenere errore.<o:p></o:p>

Naturalmente si tratta dei testi, termini diretti dell'azione di Dio e del lavoro dell'agiografo ; le versioni partecipano dell'i, e dell'inerranza solo e in quanto rendono fedelmente il senso e la forma di quelli.

Si tratta di quanto l'agiografo ha voluto esprimere e nel modo con cui lo ha formulato. Tale senso letterale va dedotto secondo i principi dell'Ermeneutica (v.) e tenendo conto del genere (v.) letterario prescelto dall'agiografo. La verità è la rispondenza adeguata della nostra mente con l'oggetto. Questa rispondenza si ha nel giudizio; cioè nell'atto formale con cui l'intelletto afferma la sua proporzione con l'oggetto della conoscenza. Ora, tale giudizio formale e la verità che esso esprime, può esser limitato da tre moventi principali: da parte dell'oggetto, quando l'intelletto non lo conosce in se stesso, ma sotto uno solo dei suoi molteplici aspetti (oggetto formale della conoscenza); da parte dello stesso soggetto, quando questi non s'impegna, e il suo giudizio è riservato e dalle sfumature varie: come probabile, come possibile, come congettura ecc.; da parte della stessa enunciazione, quando non vuole l'assenso del lettore, esponendo ad es. un'opinione personale, o adottando un genere letterario fìttizio, nel quale i particolari stan lì non come storici, ma come espressioni letterarie della verità insegnata.<o:p></o:p>

Con la prima limitazione (stabilire l'oggetto formale) si risolvono facilmente le difficoltà desunte dalle scienze fisiche: geologia, astronomia, zoologia.<o:p></o:p>

La S. Scrittura non è un trattato scientifico: «lo Spirito Santo — il quale parlava per mezzo degli agiografi — non volle insegnare agli uomini cose che non hanno alcuna utilità per la salute eterna» (s. Agostino, Gen. ad litt. 2, 9.20; PL 34, 270; cf. 42, 525). L'agiografo descrive «ciò che appare ai sensi» (s. Tommaso, I, q. 68, a. 3); segue le concezioni del tempo, il linguaggio comune. Non è suo compito dare un giudizio al riguardo; né lo avrebbe potuto fare (ad es. affermare che è la terra a girare intorno al sole, ecc.) senza una rivelazione, che non solo era inutile alla storia della salvezza, ma addirittura dannosa, che nessuno l'avrebbe creduto, dato che i sensi vedevano il sole, la luna ecc. muoversi e girare intorno alla terra.<o:p></o:p>

Così nessuno taccia di errore chi parla del tramonto e del sorger del sole, quando ciò non avvenga in un manuale di astronomia, ma in un romanzo dove è adoperato il linguaggio comune, e dove sarebbe invece erroneo andare a cercare un giudizio formale sulla natura intima dei suddetti fenomeni. «Lo Spirito Santo non volle insegnare agli uomini l'intima costituzione della natura visibile..., e perciò nel descrivere i fenomeni della natura o usa un linguaggio figurato oppure ricorre al linguaggio corrente il quale si conformava alle apparenze sensibili» (Providentissimus, in EB, n. 121).<o:p></o:p>

Questa stessa limitazione (oggetto formale) va tenuta presente quando si tratta della storia. Altro infatti è il punto di vista della storia scientifica, che ricerca per se stessa l'acribia nel dettaglio dei minimi fatti; altro quello della storia religiosa o apologetica che intende trarre le grandi lezioni dalla polvere degli avvenimenti e svolge questi, soltanto a tale scopo.<o:p></o:p>

«Di qui però non segue che l'agiografo sacrifichi i fatti alla sua tesi; anzi egli sa bene che "fanno orrore a Dio le labbra bugiarde" (Prov. 12, 22), e perciò non ricorre a "pie" frodi. Ne segue solo che la sua narrazione non sarà completa, nel senso che di tutto il materiale che ha davanti sceglie solo quello che ritiene adatto al suo scopo, omettendo il resto.<o:p></o:p>

«Sarebbe certo un anacronismo pretendere che la storia biblica rivesta i caratteri scientifici della storiografia come la concepiamo oggi, però lo storico israelita non mancava del senso critico naturale sufficiente per distinguere il vero dal falso nell'uso delle fonti. Queste poi, come tutti ammettono, erano tramandate con grande fedeltà da una straordinaria tenacia di memoria» (Perrella, v. bibl., p. 62).<o:p></o:p>

Certo non si può affermare per la storia quanto si è detto per le scienze fisiche. La storia esige che il fatto narrato sia effettivamente avvenuto. Ma bisogna tener presente le altre due limitazioni su accennate. L'autore sacro non sempre afferma in maniera categorica; ora Dio fa sua e approva l'affermazione dell'agiografo, così com'è, nelle varie sfumature. Non può certo permettere che presenti come certo ciò che è dubbio o viceversa; allora avremmo l'errore. Ma l'autorizza o piuttosto lo spinge a limitare la sua inchiesta personale, al grado di certezza richiesto dall'importanza del soggetto nell'economia o nel quadro generale del libro. L'autore sacro pertanto può citare, prendere una narrazione, lasciandone interamente alla fonte la responsabilità; senza approvare o disapprovare e senza espressamente annotare che si tratta di una citazione (v. Citazioni implicite). Non è tuttavia esatta la generalizzazione, fatta da alcuni, dei pochi esempi e tardivi addotti da I. Guidi, L'historiographie chez les Sémites, in RB, N. S. 3 (1906) 509-19.<o:p></o:p>

E infine, l'autore può ricorrere a una finzione per proporre un evento storico pregno di ammaestramento religioso o morale (v. Giuditta), o una verità religiosa (v. Giona; la Cantica), e morale (v. Giobbe, Parabola). In tal caso, la difficoltà storica sorge soltanto dal misconoscimento dell'intenzione dell'agiografo; si vogliono considerare come storici, particolari scelti e proposti non come tali, ma come semplici figure letterarie.<o:p></o:p>

Ecco la necessità di fissare il genere letterario, per ciascun libro; e quindi stabilire il senso letterale secondo le regole proprie a ciascuno di essi (v. Generi letterari; Divino Afflante Spiritu, in EB, nn. 558-560).<o:p></o:p>

Ben può dirsi ormai che la soluzione di questi punti, oggetto della tanto celebre Questione biblica, dibattuta agli inizi di questo secolo, tra i cosiddetti fautori della "scuola larga" (v. Hummelauer, specialmente M.-J. Lagrange, Prat ecc.) e i timidi conservatori, in linea teorica è ormai risolta.L'Encicl. Divino Afflante Spiritu, con l'ammissione e la spinta allo studio dei generi letterari, ha risolto la disputa in favore della prima, almeno in parte e con le opportune rettifiche, particolarmente del suo grande pioniere M.-J. Lagrange; con le preziose e autorevoli precisazioni che ca. 50 anni di studio e di ricerche permettevano di fare. Giustamente Pio XII constatando i grandiosi progressi compiuti in questi ultimi 50 anni (Divino Afflante Spiritu, 1943) dall'esegesi cattolica, ne attribuiva il merito precipuo alla Providentissimus di Leone XIII; si deve infatti a questa enciclica d'aver fissato con chiarezza la dottrina esatta sull'i.; concezione teologica precisa che permette all'esegeta di procedere svelto e sicuro nel suo compito paziente e grandioso. Cf. G. Castellino, L'inerranza della S. Scrittura, Torino 1949.<o:p></o:p>

Concludendo, ecco la definizione che concordemente danno ormai tutti i cattolici: L'i. è un influsso soprannaturale carismatico, per cui Dio, autore principale della S. Scrittura, subordina a sé, eleva ed applica tutte le facoltà dell'agiografo, suo strumento, in modo che l'agiografo concepisca con l'intelletto, voglia scrivere e fedelmente consegni per iscritto tutte le cose e le cose soltanto che Dio vuole siano scritte e consegnate alla Chiesa

Trattandosi di fenomeno soprannaturale, noi non possiamo conoscere quando un libro sia ispirato se Dio non ce lo riveli, mediante il Magistero della Chiesa, cui Egli ha affidato tale compito, dotandola di infallibilità. Cf. Romeo (v. bibl.), Criterio dell'i. biblica, pp. 175-189.<La rivelazione di Dio è il criterio remoto; il Magistero della Chiesa comunicanteci la tradizione, è il criterio prossimo. Esso è infallibile e pertanto non può indurci in errore, universale, cioè vale per tutti e singoli i libri del Vecchio e del Nuovo Testamento, e soltanto per essi; è chiaro cioè accessibile a tutti, che non richiede studi storici, indagini personali, ma solamente umile e devoto assenso all'autorità infallibile della Chiesa. BIBLIOGRAFIA

C. Pesch, De inspiratione S. Scripturae, Freiburg I. B. 1906 (ristampa 1925); trattato fondamentale ;

id., Supplementum, ivi 1926 ; A. Bea, De inspiratione Scripturae Sacrae, Roma 1930 ;

P. Synave - P. Benoit, La Prophétie (S. Thomas, Somme Théologique). Parigi 1947, pp. 269-378; ma cf. critica di P. M. Labourdette, in Revue Thomiste 50 (1950) 415-419;

P. Benoit, Inspiration, in Initiation Biblique di Robert-Tricot, 3° ed., Parigi 1954, pp. 6-45 ; cf. la critica di J. Coppens, in EThL 31 (1955) 671 ss;

A. Romeo, L'ispirazione biblica, in II Libro Sacro, I, Introduzione generale (Spadafora-Romeo-Frangipane), Padova 1958, pp. 55-189: trattazione accuratissima dalla informazione ricca e minuziosa, con la discussione dei problemi più recenti;

H. Hopfl, Introductio Generalis in S. Scripturam, 6° ed., a cura di L. Leloir, Napoli-Roma 1958: de inspiratione: pp. 19-118;

G. Perrella - L. Vagaggini, Introduzione alla Bibbia, I, Torino 1960, pp. 10-72: praticamente è la 3° ed., riveduta e aggiornata della Intr. gen. che faceva parte dei volumi sussidiari della collezione La S. Bibbia dello stesso editore Marietti.

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03/08/2009 19:51
 
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LA QUESTIONE DEGLI APOCRIFI, SCRITTURE NON ISPIRATE


Gli Apocrifi del Nuovo Testamento sono scritti dei primi secoli da cristiani in buona fede o anche contrari alla fede apostolica, contenenti fatti relativi alla vita di Gesù, di Maria, di Giuseppe, degli stessi Apostoli. Naturalmente, nell’ambito della Chiesa, tali scritti non venivano riconosciuti come ISPIRATI, e pertanto non venivano letti e conservati come tali.

Alcuni di tali scritti, come il Pastore di Erma, la Didachè, la lettera di Clemente Romano, la lettera di Barnaba, l’Apocalisse di Pietro, il cosiddetto Protovangelo di Giacomo e alcuni altri, godettero presso alcune chiese di un certo credito ma successivamente, nel momento in cui la Chiesa dovette fare un doveroso discernimento per la sicurezza dei fedeli, furono esclusi dal canone in quanto la maggior parte delle maggiori Chiese apostoliche non li riconosceva come ispirati. Continuarono tuttavia ad avere la loro importanza e ad essere tenuti in considerazione.

Molti altri scritti invece erano considerati del tutto estranei alla Chiesa in quanto redatti al di fuori di essa e con insegnamenti non conformi o addirittura contrari alle verità trasmesse e professate come sicure.



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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 04/07/2003 16.53

In molti degli apocrifi vi si riconoscono facilmente le contraddizioni negli insegnamenti in esso contenuti, rispetto ai testi sicuri, trasmessi per via di successione e custoditi nell’ambito della famiglia ecclesiale.

Si noti per esempio l’espressione messa in bocca a Gesù nel testo apocrifo del vangelo cosiddetto "di Tommaso" (chissà quale Tommaso):

"Non perdete tempo a pregare perché, così facendo, vi costruite un inferno. Trattenetevi dal fare l'elemosina perché fareste torto al vostro Spirito".
Gesù invece ha dichiarato l’esatto contrario nei Vangeli riconosciuti di sicura provenienza apostolica.

Non solo nei vangeli vi è la raccomandazione ripetuta più volte da Gesù di pregare, ma la stessa cosa dichiarano nelle loro lettere, Paolo, Pietro, Giacomo e Giovanni.

Già questo particolare dovrebbe essere più che sufficiente ad invalidare l’attendibilità di questo "Vangelo" che va sotto il nome di Tommaso, ma che non si sa a che Tommaso si riferisca. Tutti gli apocrifi d’altra parte si sono fregiati di nomi di apostoli per avvalorare le loro espressioni messe in bocca a Gesù ma che cozzano in modo evidente contro gli insegnamenti trasmessi nei vangeli riconosciuti.

Non bisogna poi dimenticare l’attestazione fatta da Origene nel commento al Vangelo di Luca in cui afferma senza possibilità di malintesi: "La Chiesa ha quattro Vangeli, gli eretici ne hanno molti."


Cosa si intende per " Apocrifi "?

Col nome di " Apocrifi " (dal greco apokryptem [nascondere] = nascosto, segreto, escluso dall'uso liturgico) si designano quegli scritti cristiani antichi che non erano usati nella liturgia della Chiesa, ma solo " m segreto ", cioè m gruppi privati, in cerchie religiose più ristrette Come forma esterna essi imitano fin nei particolari quella degli scritti del Nuovo Testamento esistono Vangeli apocrifi, Atti degli Apostoli apocrifi, Lettere ed Apocalissi apocrife.

Per dare maggior prestigio a queste opere, composte a partire dal II secolo, le si spacciava come opere di personaggi del Nuovo Testamento, soprattutto di qualche apostolo.

Tradizioni extrabibllche

Ancor prima della composizione scritta dei quattro Vangeli secondo Matteo, Marco, Luca e Giovanni, esistevano tradizioni orali sulla vita di Gesù e sul suo insegnamento.

Ce lo attesta anche Luca nel prologo del suo Vangelo allorché ricorda espressamente che
" molti si sono accinti a comporre una narrazione degli avvenimenti compiutisi in mezzo a noi " (Luca 1,1) Dove sono queste narrazioni di molti ^ Dalle parole dell'evangelista si può desumere che esse, nonostante le buone intenzioni, non fossero sicure in tutti i loro particolari In opposizione a queste narrazioni esagerate e spesso anche arricchite di abbellimenti leggendari, Luca sottolinea che egli non ha voluto raccogliere delle leggende, ma " compiere diligenti ricerche " (Lue 1,3) e che la veridicità del suo racconto sulla vita di Gesù gli sta a cuore in modo tutto particolare.

Vediamo dunque che già Luca, all’interno della Chiesa, opera un primo discernimento su quanto poteva essere considerato attendibile e degno di fede. Tuttavia non scrive pretendendo che il suo lavoro sia ispirato da Dio. Questo riconoscimento verrà successivamente nell’ambito della Chiesa stessa, che rimane l’unica garanzia per distinguere i testi veramente ispirati da quelli che ne hanno solo le pretese pur fregiandosi del nome altisonante degli apostoli

Come Luca, anche Giovanni a conclusione del suo Vangelo osserva " Ci sono molte altre cose che ha fatto Gesù " (Giov 21,25) Si deve dunque concludere che alla fine del I secolo d C , allorché Giovanni ad Efeso metteva in iscritto il suo Vangelo, " molte altre cose " della vita di Gesù erano vive nella tradizione orale e nella coscienza dei credenti della Chiesa nascente. Ci si deve chiedere questa tradizione orale è andata completamente perduta, oppure ha lasciato qualche traccia nell'antica letteratura cristiana extrabiblica. Negli scritti di Ireneo, uno dei Padri della Chiesa, che fu vescovo di Lione dal 178 al 202 d C , si attesta che alla sua epoca esisteva tutta una letteratura popolare cristiana e tutta una serie in numero difficilmente calcolabile di " Vite di Gesù " >

Esistono cosi il Vangelo apocrifo di Pietro, di Giacomo, di Bartolomeo, di Nicodemo, di Filippo, ed ancora, per nominare solo i più notevoli, un Vangelo degli Ebrei, un Vangelo degli Egiziani, un " Vangelo della verità " essi sono andati per la maggior parte perduti, salvo qualche frammento citato dai Padri della Chiesa.

Ha destato sensazione un ritrovamento effettuato nel 1945 durante lavori m corso in un cimitero nei pressi di Nag Hammadi (circa 100 km a Nord della città di Luxor nel medio Egitto). Ma i manoscritti scoperti non hanno portato alla luce come hanno scritto i giornali nei loro titoli ad effetto " un nuovo Vangelo dalle sabbie del Nilo ", si trattava semplicemente di un Vangelo di Tommaso, apocrifo, la cui esistenza era già nota nei primi secoli cristiani (Cf al riguardo le opere di MICHAELIS Dos Thomas Evangeltum, Stoccarda 1960 e W C VANUNNIK Evangelien aus dem Nilsand, Francoforte sul Meno, 1960)

Particolarmente numerosi sono gli Atti degli Apostoli apocrifi, che raccontano con ampiezza di particolari la vita e le opere di un apostolo e dei suoi seguaci. Per lo più essi sono meno antichi dei Vangeli apocrifi, come questi, sono conservati solo frammentariamente. Venivano attribuiti a Pietro, Paolo, Andrea, Giovanni, Tommaso, Taddeo Quanto alle Lettere apocrife a noi pervenute, tre sono attribuite all'apostolo Paolo, una a Barnaba, una addirittura a Gesù stesso. Apocalissi apocrife circolavano sotto i nomi di Pietro, Paolo, Tommaso, Stefano, Zaccaria: un'opera di questo tipo venne attribuita persino alla Madonna.

Data l'abbondanza della letteratura apocrifa, su cui ci informano gli scritti degli antichi autori ecclesiastici, è ben possibile che nel corso del tempo altri scritti apocrifi oggi ignoti possano ancora venire ritrovati.


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Consiglia  Messaggio 3 di 4 nella discussione 
Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 04/07/2003 16.54

Quale importanza riveste la letteratura apocrifa?

Al pari degli scritti neotestamentari, gli apocrifi suppongono la predicazione apostolica, la mentalità credente e la tradizione orale del primo secolo cristiano: ma a differenza dai primi, sorti al massimo intorno alla fine del secolo i, gli apocrifi sono più tardivi: essi presuppongono anche il Nuovo Testamento scritto.

Poiché non si può escludere che qualche tradizione orale autentica della Chiesa primitiva sia contenuta in qualche apocrifo, non si può a priori, giudicare falso tutto ciò che essi raccontano. Si deve ammettere che a partire dal II secolo, quindi in epoca postapostolica, una parte della tradizione orale è venuta ancora a depositarsi in iscritto. Gli apocrifi potrebbero pertanto incorporare qualche filone aureo di verità, persino qualche parola di Gesù non riferita dai Vangeli (i cosiddetti "Agrapha "). Paolo stesso una volta cita una sentenza di Gesù che non è riprodotta nei quattro Vangeli: " È cosa più beata dare che ricevere " (At 20,35).

Tuttavia un confronto fra gli apocrifi e gli scritti canonici del Nuovo Testamento fa vedere quanto sia necessaria un'estrema prudenza, perché alla sobrietà ed ai silenzi delle narrazioni neotestamentarie, fa riscontro negli apocrifi un devozionalismo amante del favoloso e della curiosità, che porta sistematicamente ad ingigantire e ad abbellire. Di fronte alla disinvoltura spregiudicata con cui venivano " fabbricati " — è il termine esatto — gli scritti apocrifi, di fronte alla mancanza di equilibrio religioso e agli elementi palesemente leggendari che in essi si ravvisano, non si deve dimenticare che l'eventuale granello di verità è sopraffatto dall'esuberante proliferazione del favoloso.

Non di rado inoltre essi sono stati composti nelle cucine segrete delle sette religiose; non pochi di essi mostrano chiaramente una forte impronta di gnosticismo, il movimento religioso risultante dalla fusione di idee cristiane, orientali ed ellenistiche, che rivaleggiò con la Chiesa nascente.

Il carattere fantastico di questo tipo di letteratura può essere messo in luce da un esempio, che traiamo da un vangelo apocrifo dell'infanzia di Gesù pervenutoci in arabo:

" Giuseppe a volte prendeva Gesù con sé e andava insieme a lui di qua e di là per la città: avveniva allora che qualcuno, conoscendo il suo mestiere, lo chiamava per commissionargli delle porte, delle secchie da latte, delle sedie o delle cassapanche. Il Signore Gesù lo accompagnava lungo tutto il suo itinerario, ed ogni volta che nel corso del suo lavoro Giuseppe doveva allungare o accorciare un pezzo di legno, farlo più grosso o più sottile, di un braccio o di una spanna, Gesù faceva un cenno all'oggetto, ed il desiderio di Giuseppe era esaudito in un baleno, senza che egli dovesse applicarci la mano; tutto questo, perché Giuseppe non era molto abile nel suo mestiere di falegname... ".

Un ottimo sguardo d'insieme agli scritti apocrifi è offerto dall'opera di J. Hervieux, Ciò che il Vangelo non dice, Edizioni Paoline, Catania, 1968.

Valga per tutto il Nuovo Testamento ufficialmente riconosciuto dalla Chiesa, la parola che Luca ha posto all'inizio del suo Vangelo: " Tu potrai riconoscere la solidità degli insegnamenti che hai ricevuto " (Luca 1,4).


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Consiglia  Messaggio 4 di 4 nella discussione 
Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 04/07/2003 16.56

Vediamo ora quali sono i criteri per il riconoscimento dei testi sicuri.


Occorre sapere come, quando e chi soprattutto ha provveduto a riconoscere, riunire insieme, conservare e difendere la Bibbia quale essa è e come noi oggi la possediamo, cioè come sacra e ispirata Parola di Dio.


A tal fine è necessario fare alcune precisazioni:


- In nessun libro della Bibbia vi è un elenco dei libri che sarebbero stati ispirati.


- Gli autori dei vari libri biblici non hanno detto di ritenere sacri e ispirati i loro scritti.


- Ammesso che gli autori degli scritti sacri avessero anche scritto di essere ispirati da Dio a scrivere (AP: 1.3), se ne sarebbe potuto avere il dubbio, considerato quanti si sono fregiati dei nomi autorevoli degli Apostoli scrivendo libri ritenuti invece apocrifi e perciò non ispirati. (vedi 2 Tess. 2,2)


- Non tutti gli scritti del N.T. sono stati composti proprio dagli Apostoli o sono stati da essi dettati.


- Non tutte le primitive chiese cristiane ritenevano sacri tutti gli attuali libri che compongono il N.T.


- In particolare erano ritenuti dubbi nel 3° e 4° sec. in diverse chiese alcune lettere apostoliche come quella di Giuda, di Giacomo, la 2^ e la 3^ di Giovanni, agli Ebrei e l'Apocalisse (che sono denominati ancora oggi "deuterocanonici" del N.T.).


- Alcune Chiese ritenevano ispirate, la Didachè, oppure la Lettera di Clemente Romano ai Corinti; altre Chiese ammettevano il Pastore di Erma, o qualche testo apocrifo. Anche nella lettera di Giuda vi è contenuta una citazione tratta dal libro apocrifo di Enoch.


Vi era quindi una certa diversità nelle varie chiese nel considerare come testi sacri, normativi della fede, parte del N.T., almeno fino al termine del IV° sec. riguardanti soprattutto appunto i libri sopra citati. Occorre comunque notare che la trasmissione, la conservazione e la difesa dei Vangeli, degli Atti degli Apostoli e delle lettere di S. Paolo, era attentamente curata da tutte le chiese sin dal sorgere del cristianesimo. Diventarono punto di riferimento e strumento per combattere le prime eresie come il docetismo e lo gnosticismo. Questa setta riconosceva solo parte del Vangelo di Luca e parte delle lettere paoline mentre propagandava una serie di vangeli apocrifi spacciati col nome di Tommaso, Pietro, Ebrei, Verità ecc. e che la Chiesa delle origini dovette combattere strenuamente dimostrandone la non autenticità e la discordanza rispetto ai testi di origine apostolica che essa possedeva.

Di questi fatti troviamo una documentazione soprattutto negli scritti di Ireneo, di Tertulliano, di Origene e di Clemente Alessandrino ed altri Padri della Chiesa che hanno contribuito a farci conoscere appunto quali erano gli scritti che erano ritenuti sacri ed ispirati nel loro tempo e nelle loro chiese ed in tal modo hanno quindi contribuito notevolmente alla fissazione definitiva del canone: questo è solo uno dei motivi della importanza dei Padri della Chiesa e quindi della tradizione.


Un elenco completo dei libri che compongono il N.T. così come lo abbiamo oggi, lo troviamo in S. Girolamo e in una lettera di papa Innocenzo I scritto nel 405 D.C. E’ possibile tuttavia ricostruire anche attraverso le citazioni sparse degli scrittori cristiani dei primi due secoli che tutti quei libri erano citati come sacri. Dall’inizio del V° sec. quasi nessuno ha più messo in discussione i libri sacri così elencati, fino a quando i riformatori del XVI sec. rimisero in discussione il carattere ispirato dei deuterocanonici del Nuovo Testamento, oltre che del Vecchio T.

Lutero, ad esempio chiamava lettera "di paglia" la lettera di S.Giacomo e nella sua traduzione della Bibbia in tedesco, metteva in appendice agli altri libri sacri, i cosiddetti deuterocanonici, sia del Vecchio che del Nuovo Testamento, affermando che questi "erano più sicuri". In tal modo poneva al lettore un atroce dubbio circa l’autenticità degli altri libri posti in appendice.


A quel punto vi è stato un intervento unificatore ed autorevole del concilio di Trento nel 1546 che ha definito in modo esplicito e chiaro, una volta per sempre l’elenco dei libri da ritenere sacri ed ispirati, ed oggi quasi più nessuna confessione cristiana mette in dubbio alcun libro del N.T. compreso i luterani.


Coloro dunque che rivendicano il monopolio sulla Bibbia dovrebbero chiedersi prima di tutto come fanno ad averla, come fanno ad avere proprio quegli scritti sacri e non altri, e poi conseguentemente come la osservano, come la interpretano e infine come la traducono, ricordando che 2PT.3.16 dice esplicitamente che nelle Sacre Scritture ci sono cose difficili da comprendere e gli uomini ignoranti ed instabili le travisano a loro perdizione.





E’ dunque necessario che ci si interroghi e si risponda in coscienza a queste precise domande al fine di chiarire meglio la propria posizione di fronte alla Scrittura, tenuto conto di quanto è stato detto sopra:


1) Chi ha avuto l'autorevolezza per considerare ispirati determinati libri?

2) In base a quale criterio sono stati ritenuti sacri quei libri e non altri?

3) Se si afferma che "solo la Scrittura" racchiude "tutto il consiglio di Dio", allora prima che fossero scritti tutti i libri del N.T. e anche dopo, quando ancora non veniva riconosciuto il carattere sacro di tutti i libri del N.T., chi garantiva ai cristiani di poter disporre di tutta la verità rivelata?

4) Se si è avuta la prerogativa così determinante da poter indicare con assoluta certezza i libri sacri del N.T., di difenderli da tutte le decurtazioni, manipolazioni e aggiunte e di conservarli intatti nel tempo, non si dovrebbe avere anche la prerogativa di dichiarare sacri i libri del V.T. detti anch’essi "deuterocanonici" , inclusi nella traduzione greca detta "dei Settanta" usata dagli stessi scrittori del N.T.?

5) Se Dio stesso ha ispirato gli scritti sacri, non avrebbe dovuto necessariamente vegliare che essi venissero conservati fedelmente, fedelmente tradotti e fedelmente interpretati per la salvezza di tutti i credenti, di tutte le generazioni, completando così la sua opera che altrimenti sarebbe risultata vana?


Le risposte sono evidenti, tuttavia per maggiore chiarezza, si precisa che:


1) La consapevolezza del carattere sacro ed ispirato degli scritti contenuti nel N.T. è stato trasmesso nell’ambito della Chiesa cattolica sin dagli inizi. La Chiesa è stata formata dagli scritti sacri e gli scritti sacri sono stati riconosciuti nel seno della Chiesa.

  1. La Chiesa ha riconosciuto carattere sacro solo agli scritti che sono stati trasmessi come tali per via di successione. Dalle citazioni scritturali fatte dai primi padri della Chiesa e lungo tutti i secoli successivi è possibile documentare con certezza quali scritti essi ritenevano sacri. Dunque senza la tradizione non potremmo conoscere a quali libri attribuire il carattere sacro e la Scrittura non sarebbe rimasta integra.

  2. L’insegnamento orale degli apostoli suppliva alla Scrittura quando ancora non era iniziata la sua redazione (nei primi trent’anni del cristianesimo) o anche quando non era completata (fino all’anno 100 circa); ma anche e soprattutto finché non fossero definiti i libri da ritenere sacri (fino al 400 circa). Era la perciò la predicazione orale che completava la rivelazione scritta secondo quando afferma anche Paolo in 2TES.2.15 dicendo: STATE SALDI E MANTENETE LE TRADIZIONI CHE AVETE APPRESO SIA DALLA NOSTRA PAROLA CHE DALLA NOSTRA LETTERA

  3. Se si accetta dalla Chiesa la definizione dei libri del N.T. che è fatta unicamente sulla base della sua tradizione, è un controsenso che non si accetti anche la definizione dei libri del V.T. sulla base della stessa tradizione.

  4. L’interpretazione della Scrittura non può dipendere dal capriccio umano. Dio stesso che ha guidato gli uomini del suo Popolo nella ispirazione ha anche guidato costantemente la retta interpretazione secondo la promessa di Cristo: "Lo Spirito Santo vi guiderà in ogni verità" (GV.16.12). Anche la retta interpretazione della Bibbia deve sempre tenere conto di quanto è stato trasmesso dalla tradizione apostolica (2TES.2.15), in modo da fare luce sui passi più oscuri della Scrittura e che talora sembrano essere in contraddizione con altri passi della stessa Scrittura. Quando qualcuno ha voluto assolutizzare talune espressioni bibliche senza tenere conto di altre espressioni bibliche, e soprattutto senza tenere conto di quanto la Chiesa ha ricevuto come deposito di fede, si è avuta la scissione e la ferita nel Corpo di Cristo.

Coloro che negano che il buon deposito della fede sia stato fedelmente conservato dalla Chiesa, dimenticano quanto afferma S. Paolo in 2 TIM.1.12 : "Sono convinto che egli (il Signore) ha il potere di custodire il mio deposito fino a quel giorno."

Il rispetto della Parola di Dio comporta oltre quanto detto sopra anche un altro aspetto importante:

cioè che la TRADUZIONE della Scrittura venga fatta con la massima fedeltà ed accuratezza, senza tradire la sostanza degli scritti sacri più antichi pervenuti fino a noi.

Oggi è possibile trovare con una certa facilità i testi originali scritti in greco ed è anche facile controllare o farsi controllare la rispondenza della relativa traduzione; una vera fedeltà alla Parola divina dovrebbe spingere il credente sincero a fare questo controllo, almeno per tutti i versetti la cui traduzione può determinare conclusioni e dottrine ben diverse da quelle trasmesse e conservate nei più antichi manoscritti.

La Scrittura è un dono di Dio alla Chiesa, per costruire la Chiesa, strumento di unità per tutti i cristiani di tutti i secoli; non uno strumento di divisione in migliaia di sette come è avvenuto tutte le volte che è prevalsa la presunzione di volerla interpretare e/o tradurre col proprio metro di misura.

Chi dice di voler conseguire la Verità e la Carità si interroghi prima di tutto se agisce a favore o contro l’unità del Corpo di Cristo che è la sua stessa PAROLA e la sua unica CHIESA.

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25/08/2012 18:23
 
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Amati, odiati comunque noti


Il Vangelo di Marco era così conosciuto nella Roma imperiale del primo secolo che alcuni autori dell’epoca vi fanno riferimento nelle loro opere, chi parodiandolo, chi parlandone con ammirazione e simpatia. Come spiega Marta Sordi, una delle maggiori esperte del cristianesimo antico. Intervista


Intervista con Marta Sordi di Stefano Maria Paci da 30giorni 1999


Il Vangelo di Marco? Sarebbe stato scritto a Roma appena pochi anni dopo la morte di Gesù Cristo, attorno all’anno 50, ed è frutto diretto della predicazione di san Pietro. Ci sono nuovi, autorevoli studi che sostengono questa tesi. Una tesi che contraddice l’esegesi tuttora imperante anche nei seminari e nelle facoltà teologiche secondo la quale i Vangeli non conterrebbero il racconto dei testimoni oculari degli eventi che vi sono descritti, ma sarebbero stati composti dalle comunità cristiane dei secoli successivi.
Corteo imperiale, particolare del bassorilievo dell’Ara Pacis Augustae, a Roma

Corteo imperiale, particolare del bassorilievo dell’Ara Pacis Augustae, a Roma


Invece il Vangelo di Marco, contrariamente a quanto si dice abitualmente, era così conosciuto nella Roma imperiale del I secolo che alcuni autori dell’epoca vi fanno continuo riferimento nelle loro opere, chi parodiandolo, chi parlandone con ammirazione e simpatia. Esaminando gli scritti degli autori pagani si scopre così che la crocifissione, da supplizio vergognoso, viene improvvisamente trasformata in esaltazione vittoriosa, che Seneca potrebbe avere avuto rapporti con san Paolo, che gli autori stoici rimodellano i miti pagani, come quello di Ercole, sulla figura di Cristo Salvatore.

E il singolare Editto di Nazareth, scritto da un imperatore romano e scoperto attorno al 1800, che colpiva retroattivamente con pena di morte chiunque avesse spostato cippi sepocrali, sarebbe di Nerone, e segnerebbe l’inizio della persecuzione dei cristiani in Giudea. Proprio alla voce secondo la quale i cristiani avrebbero trafugato il corpo di Cristo per fingere la resurrezione, e a questo Editto, farebbe riferimento Matteo alla fine del suo Vangelo («Così questa diceria si è divulgata tra i Giudei fino ad oggi»,
Mt 28, 15); non ne parla però Marco. Un ulteriore indizio del fatto che il discepolo di Pietro abbia scritto il Vangelo prima dell’Editto di Nerone.

Per saperne di più su queste nuove ipotesi siamo andati ad incontrare la professoressa Marta Sordi, direttore dell’Istituto di storia antica dell’Università Cattolica di Milano, una delle massime esperte del cristianesimo dei primi secoli.

Professoressa, cosa emerge da questi nuovi studi?
MARTA SORDI: Si è spesso sostenuto che il cristianesimo a Roma è stato conosciuto tardi. Secondo l’interpretazione più diffusa di un passo di Svetonio lo stesso imperatore Claudio non aveva nemmeno capito che Gesù era morto in Palestina, ma credeva che fosse presente a Roma. Nel I secolo, insomma, secondo le interpretazioni correnti, nel cuore dell’Impero romano si aveva una concezione vaga, confusa di cosa fosse il cristianesimo. Quello che invece sta emergendo, e che rompe gli schemi prestabiliti, è che non solo già nel I secolo il cristianesimo era conosciuto a Roma da molti, anche intellettuali e appartenenti ai circoli imperiali, ma era visto, almeno in certi ambienti, con simpatia e ammirazione.

Da cosa nasce questo proliferare di scoperte sulla presenza dei cristiani a Roma nel I secolo?

SORDI: A metterle in moto è stata l’identificazione, accettata da alcuni e respinta da altri, di un frammento, il 7Q5, scoperto nelle Grotte di Qumrân in Palestina, con un passo del Vangelo di Marco. Il frammento è databile a prima del 50 d.C. e proviene probabilmente da Roma. Questa identificazione è servita, sia pure soltanto come ipotesi di lavoro, a stimolare la ricerca storiografica. Ha permesso cioè di riesaminare la validità di testimonianze che l’ipercritica nata nell’Ottocento, putroppo ancora attiva oggi quando si tratta di notizie riguardanti il cristianesimo delle origini, aveva accantonato.
Essa conferma, innanzitutto, la notizia che Pietro era venuto a Roma nel 42 d.C., all’inizio del regno di Claudio, e che il Vangelo di Marco era la stesura della sua predicazione fatta dallo stesso Marco su richiesta dei Romani, soprattutto cavalieri e cesariani (i liberti imperiali), che lo avevano ascoltato.

Che testimonianze storiche ci sono della presenza di Pietro a Roma e dell’esistenza di una comunità cristiana nel cuore dell’Impero già negli anni 40 del I secolo?

SORDI: Il fatto che Pietro fosse a Roma in quegli anni è attestato da Clemente di Alessandria e da Papia di Gerapoli, ambedue del II secolo dopo Cristo, e si accorda perfettamente con la conversione, avvenuta nell’anno 42/43 d.C. e raccontata da Tacito nei suoi Annales, a una «superstitio externa» (che è certamente il cristianesimo) della matrona romana Pomponia Grecina, moglie di un generale di Claudio e appartenente a una famiglia vicinissima alla corte imperiale. Paolo nel capitolo 16 della Lettera ai Romani parla poi della presenza di cristiani nella casa di Narcisso, liberto e ministro di Claudio, che era appunto un cesariano. Luca dedica a un cavaliere romano il Vangelo e gli Atti degli Apostoli. Tertulliano parla di un tentativo di Tiberio di riconoscere il cristianesimo già nel 35 d.C. e Giuseppe Flavio ci rivela che subito dopo, nel 36/37 d.C., il legato di Tiberio, Vitellio, a Gerusalemme depose Caifa dal sommo sacerdozio. Lo stesso Vitellio, nel 43 d.C., venne lasciato a Roma da Claudio con pieni poteri durante la spedizione dell’imperatore in Britannia ed era il responsabile del governo al tempo della venuta di Pietro.
Predica di san Pietro alla presenza di san Marco, Tabernacolo dei linaioli, 
Beato Angelico, Museo di San Marco, Firenze

Predica di san Pietro alla presenza di san Marco, Tabernacolo dei linaioli, Beato Angelico, Museo di San Marco, Firenze

L’identificazione del 7Q5 con un passo del Vangelo di Marco, insomma, si accorda pienamente con tutti questi dati, provenienti da fonti diverse (non solo cristiane ma anche pagane e giudaiche) e, rivelando la conoscenza che la Roma dei Giulio Claudi ebbe molto presto del cristianesimo, ha permesso a me e ai miei allievi di rileggere con nuova attenzione fonti prima trascurate.

E cosa avete scoperto?

SORDI: La dottoressa Ilaria Ramelli, in un articolo pubblicato su Aevum 1996, ha dimostrato – e io credo con buoni argomenti – che Petronio, nel suo famoso Satyricon scritto nel 64/65 d.C., conosceva e parodiava il racconto di Marco sull’unzione di Betania. Io stessa e il collega Erhard Grzybek, dell’Università di Ginevra, abbiamo sostenuto alcuni mesi fa su una rivista tedesca (Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik, 1998) che il cosiddetto Editto di Nazareth è di Nerone e cerca di colpire i discepoli di Cristo ancora viventi in Giudea, accettando la versione giudaica sul sepolcro vuoto riferita da Matteo alla fine del suo Vangelo. Petronio stesso, nella sua novella sulla matrona di Efeso, mostra di conoscere il racconto evangelico e di volerne fare, come nel caso precedente, la parodia.

Da questi vostri studi emerge che il cristianesimo, per quanto ben conosciuto, provocò negli ambienti della cultura e del potere romani solo irrisioni e persecuzioni.

SORDI: Non unicamente. Se la conoscenza che del cristianesimo hanno Nerone e Petronio denota ostilità e irrisione, ci sono altre testimonianze, provenienti soprattutto dall’ambiente dell’opposizione stoica a Nerone e Domiziano, che rivelano invece ammirazione e simpatia. Un’iscrizione di Ostia del I secolo, pubblicata in CIL XIV, 566, prova che esistevano effettivamente cristiani, devoti a Pietro e a Paolo, nella casa di Seneca, e la stessa Ramelli, in un articolo comparso su Vetera Christianorum 1997, avanza l’ipotesi che l’epistolario fra Seneca e Paolo, tolta la lettera dell’incendio del 64 d.C. che Girolamo non conosceva e che si rivela un’aggiunta più tarda, potrebbe essere autentico. Laura Cotta Ramosino poi, in un articolo che sta per essere pubblicato su Aevum 1999, mette in evidenza come il poeta Silio Italico – che scriveva sotto i Flavi ma che aveva rivestito il consolato sotto Nerone nel 68 d.C. – nel suo poema epico, Punica, rinnova la tradizione letteraria introducendo in due casi il supplizio della croce con un significato del tutto diverso da quello tradizionale.

La morte in croce era considerata dai Romani un supplizio infamante, di cui vergognarsi. Non è così?

SORDI: Sì, proprio così. Ma Silio Italico fa addirittura morire sulla croce, diversamente da tutti gli scrittori precedenti, Attilio Regolo, l’eroe della fides romana (Pun. II, 343 e 435/C). In questo modo la croce stessa da supplizio ignominioso finisce per essere considerata un segno di vittoria sugli aguzzini e sulla Fortuna, e perde il suo carattere infamante a causa della nobiltà di colui che la subisce. L’altro episodio riguarda un servo del re iberico Tago, crocifisso da Asdrubale (Pun. I, 151): il servo vendica il suo padrone e dopo aver sopportato con fortezza la tortura, chiede la pena stessa del suo signore: «Dominique crucem clamore reposcit» (Pun. II, 181), «richiede ad alta voce la croce del suo signore». Sono quasi le identiche parole che nei racconti apocrifi della passione di san Pietro vengono attribuite all’apostolo.
Ancora Ilaria Ramelli, in un articolo pubblicato alcuni mesi fa sulla Rivista di storia della Chiesa in Italia 1998, analizza la tragedia Hercules Oetaeus attribuita a Seneca ma risalente probabilmente ad uno stoico (certamente pagano) dell’età Flavia e mostra come il mito di Ercole sia stato rimodellato dall’autore con chiari riferimenti alla passione e alla resurrezione di Cristo. La madre è presente sul luogo della passione, il protagonista morente esclama «peractum est», «tutto è compiuto», Ercole prima di spirare invoca il padre, e la madre afferma la sua fede nel risorto.

Gli stoici romani del I secolo dopo Cristo, che subirono negli stessi anni dei cristiani le persecuzioni di Nerone e Domiziano, conobbero dunque e guardarono con simpatia i seguaci di Cristo. Questo spiega sia la simpatia che, a loro volta, scrittori cristiani del II secolo, come Giustino martire e Clemente di Alessandria, ebbero per questi stoici (penso soprattutto a Musonio Rufo, che Giustino chiama «martire inconsapevole di Cristo»), sia gli echi di cristianesimo che si ritrovano nelle loro opere. E spiega anche il concetto paolino di carne presente in Persio e certe espressioni rivelatrici usate da Seneca.

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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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