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LE SACRE SCRITTURE SONO ISPIRATE

Ultimo Aggiornamento: 25/08/2012 18:23
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A) L'intelletto:

1°) deve concepire le idee, connetterle esprimendo i vari giudizi, e infine pronunziarsi sulla loro verità e certezza;
2°) questo lavorio intellettuale potrebbe rimanere allo stadio di semplice "concezione"; è necessario che l'intelletto formuli la decisione di metterli per iscritto per comunicarli agli altri;<o:p></o:p>

3°) scegliere e curare la forma esterna (o veste letteraria) più adatta: genere letterario, stile, scelta dei vocaboli ecc.

B) II giudizio

(2°: detto pratico) dell'intelletto, muove la volontà, che interviene e inizia l'attuazione.

Per la concezione delle idee, Dio interviene irrobustendo, aumentando la luce del nostro intelletto. Gli scolastici chiamano intelletto agente la nostra facoltà nel suo primo atto, in ordine alla concezione dell'idea. Gli oggetti esterni, penetrano in noi attraverso i sensi, che trasmettono così alla fantasia l'immagine sensibile di quelli (= specie sensibile espressa). Tale specie viene investita dalla luce dell'intelletto, che può quindi esprimere l'idea immateriale. Questa seconda operazione (dell'intelletto possibile, secondo la terminologia scolastica) è in stretta connessione con la prima, anche in ordine alla qualità dell'idea: se la luce è potente, l'idea è chiara, distinta. Noi si parla di intuito, di genio: è la potenza del nostro intelletto che in dati uomini è straordinaria.

L'azione di Dio sull'intelletto è dunque duplice: potenzia ed eleva il lume naturale, quindi applica ed eleva l'intelletto in modo che esprima l'idea, formuli giudizi ecc. L'idea e i giudizi sono pertanto divini e umani. Ecco perché non possono contenere errori, sono infallibili. L'effetto ha questa caratteristica, unicamente per la virtù divina comunicata all'uomo.<

Allo stesso modo Dio agisce per il giudizio cosiddetto "pratico". Alcuni cattolici avevano pensato di fare incominciare qui l'azione divina. In realtà, l'intelletto emettendo tale giudizio ritorna sulle idee già formulate, le approva; basterebbe l'influsso di Dio su tale revisione per essere sicuri della loro verità e certezza. Ma in tal caso, le idee rimarrebbero quanto alla loro concezione, umane e soltanto umane. Invece si tratta di idee divine. Leone XIII dice nettamente che l'azione di Dio si esercita su l'agiografo «perché concepisca perfettamente», quanto Dio vuole.<

La scelta dei vocaboli e della forma esterna è psicologicamente inseparabile dalla concezione delle idee e dalla formulazione dei giudizi; ad essa si estende egualmente l'influsso divino in modo che le verità intese da Dio, siano espresse «in modo adatto». È la cosiddetta «i. verbale». Il Franzelin e molti altri, vollero negarla, partendo da un concetto astratto di "autore", quasi non si trattasse di "scrittore". In realtà, non si può sottrarre all'influsso divino questa parte così importante e, di fatto, inscindibile dalla precedente; anzi sarebbe una violenza contro il principio ontologico di causa strumentale. D'altronde tutti gli autori, dopo l'Encicl. Providentissimus, sono ritornati alla dottrina tomista.


È necessario, inoltre, perché Dio sia vero autore del libro, che egli intervenga egualmente sulla volontà dell'agiografo, in modo che questi ponga tutti gli atti necessari per l'esteriorizzazione del lavoro dell'intelletto. E Dio muove (applica) ed eleva la volontà, sì che l'effetto si produca infallibilmente. Si tratta di mozione previa (come abbiam detto circa i rapporti tra agente principale e strumento), fisica (non soltanto morale, ad es. le circostanze esterne che possono indurre uno a scrivere: le preghiere dei Romani a s. Marco perché scrivesse l'evangelo), interna, immediata; altrimenti l'uomo non sarebbe causa strumentale. Questo influsso lascia integra la libertà; come avviene per la grazia divina; si tratta dell'azione sublime della Causa prima. Gli stessi autori sacri sentono di decidersi e di scrivere liberamente (Lc. 1, 1; cf. Rom. 15, 15 ss.
II Cor. 7, 8 s. ecc.).<o:p></o:p>

Iddio che ha dato l'essere alle creature e le conserva, muove anche ciascuna di esse secondo la condizione della propria natura, le libere pertanto conservando e rispettando la loro libertà (s. Tommaso, I, q. 83, a. 1, e ad 3; De Malo, q. 3, a. 2).<o:p></o:p>

Iddio «assiste gli scrittori sacri in modo tale che possano debitamente esprimere, con infallibile verità, tutto ciò e soltanto ciò che Egli volle». Con tale frase, Leone XII parla dell'influsso positivo di Dio anche sulle facoltà esecutive. Influsso che non è necessario sia immediato, cioè che si porti su ciascuna di esse direttamente; basta infatti che esso si eserciti tramite la volontà, dalla quale tutte quelle dipendono e sono mosse.<o:p></o:p>

«Iddio presta allo scrittore una particolare e continua assistenza, finché egli non abbia terminato il libro» (Benedetto XV, Encicl. Spiritus Paraclitus, in EB, n. 448). Nulla pertanto dell'agiografo è sottratto a quest'azione divina; non c'è momento in cui egli lavori da solo. Tutto il libro pertanto è egualmente ed integralmente ispirato, cioè divino e umano. L'uomo non ha coscienza dell'azione di Dio; ha faticato per raccogliere il materiale e fatica per comporre il libro.<o:p></o:p>

Egli, sotto l'i., oltre ad essere libero, esplica intera la sua attività, applica e manifesta le sue doti, la sua cultura, la sua indole, la sua mentalità. Ecco perché già i Padri facevano rilevare le differenze di concezione, di stile; la sublime poesia del colto Isaia, la rudezza di Amos; i concetti propri a s. Giovanni nel IV Vangelo, e a s. Paolo (Rom. ecc.) a proposito della Redenzione; le differenze degli stessi Sinottici.<

Tutto il libro è di Dio e dell'agiografo. Solo esplicando la propria virtù, l'uomo ha attuato quella contemporaneamente comunicategli da Dio; e così noi sapremo cosa Iddio ha voluto dirci, stabilendo cosa l'agiografo ha inteso esprimere (v. Ermeneutica).

Tutta la Bibbia è ispirata, ha autore Dio, ed è pertanto "parola di Dio".<

Ma non allo stesso modo; che l'i. non fa di ciascun elemento del libro la rivelazione di un pensiero divino.<o:p></o:p>

Quando si dice che l'accessorio è ispirato come l'essenziale, non si afferma che lo sia allo stesso grado e per se stesso. L'accessorio è ispirato in funzione dell'essenziale e nella misura in cui lo serve.

Lo scrittore intende soltanto scrivere la "storia della salvezza" o "dei nostri rapporti con Dio", illuminare i lettori al riguardo e offrire loro quanto è necessario per salvarsi e glorificare Dio. Ma non da un arido elenco di formule dogmatiche e di precetti; non offre un seguito di "giudizi formali", ma scrivendo da uomo per nomini egli adopera mille mezzi per presentare, illustrare e fare accettare il suo messaggio.<o:p></o:p>

Così nessun dettaglio è superfluo, quando contribuisce a rendere il suo libro più bello, più piacevole e pertanto più utile.<o:p></o:p>

Il primo verso della Bibbia è un giudizio formale, una verità dommatica fondamentale : «All'inizio Dio creò l'universo». Questo è essenziale; nei vv. seguenti è descritto in maniera popolare e artistica il modo di questa creazione; modo rispondente alle imperfette conoscenze del tempo. È l'accessorio. È ispirato, senz'altro. Ma non per sé; ché la Bibbia non vuol essere, non è un trattato scientifico di geologia, astronomia, ecc. È anch'esso "parola di Dio", in quanto si trova nella S. Scrittura, e veramente Mosè così pensava e così scrisse; ma non è "formale asserzione di Dio", rivelata da Dio.<o:p></o:p>

Quando l'autore sacro scrive che il cane di Tobia moveva la coda, lo fa col conscio talento di un narratore che vuole interessare col pittoresco. Ma (è chiaro) non afferma questo dettaglio, in se stesso; l'utilizza soltanto in funzione di tutto il libro, e secondo il ruolo, abbastanza modesto, di semplice ornamento. Allo stesso modo, dunque, ciascun elemento del libro sacro dev'essere giudicato secondo la sua effettiva contribuzione allo scopo e all'insieme del libro; ma non lo si può staccare dal contesto e dargli un valore assoluto, tradendo le intenzioni dell'autore.<o:p></o:p>

Facendo lavorare lo spirito umano senza violare il suo modo proprio di agire, l'influsso ispiratore penetra tutto ciò che è frutto di questo lavoro, ma ne garantisce ciascun elemento nella misura intesa, voluta dall'autore. Quando questi vuole insegnare come assolutamente vera una proposizione (Gen. 1, 1), questa è assolutamente e infallibilmente vera; quando invece egli presenta, adoperando le conoscenze, il linguaggio del tempo, una descrizione artistica sul modo della creazione, con lo scopo di raccomandare l'osservanza del sabato, senza entrare in merito (che non era sua intenzione) al valore assoluto, Dio ha voluto sì parlarci in tal modo (i vv. sono egualmente ispirati) e pertanto siamo soltanto sicuri che l'autore così pensò e scrisse. Un elemento che vi sta soltanto come ornamento letterario, è ispirato ma semplicemente come tale. Così quando l'agiografo esprime dubbi, timori, sentimenti talora imperfetti (Ier. 15, 10; Gal. 3, 1): Dio vuole siffatte espressioni, e l'i. ci assicura che effettivamente l'agiografo dubitò ecc.; i sentimenti espressi rimangono esclusivamente umani. Infatti non si tratta qui direttamente e immediatamente di "giudizi", cioè di atti dell'intelletto, ma di atti della volontà. In quanto vengono espressi nel libro ispirato (solo in questo punto ha inizio l'i.), implicitamente viene asserito che l'agiografo ebbe questi atti. E pertanto questo giudizio deve essere infallibilmente vero. Gli stessi atti, in se stessi, però, siccome non appartengono all'intelletto, rimangono quali erano, semplici atti dell'agiografo.


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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 27/07/2003 17.05

Inerranza. Questione biblica.

L'aver confuso i. e rivelazione, e l'aver preteso quindi che ogni elemento della Bibbia purché ispirato fosse "parola di Dio" in senso univoco, cioè "rivelazione di Dio", fu l'unica causa dello sbandamento di alcuni cattolici dinanzi alle difficoltà formulate contro l'i. della Bibbia, dalle scienze fisiche e dai dati archeologici.<o:p></o:p>

Ora, che l'errore sia incompatibile con l'i. è una semplice deduzione dai principi esposti: incompatibilità insegnata senza attenuazioni o dubbi da tutte le fonti e dal Magistero ecclesiastico. Non c'è al riguardo una definizione formale, ma si tratta egualmente di verità di fede: la Scrittura ispirata non può contenere errore.<o:p></o:p>

Naturalmente si tratta dei testi, termini diretti dell'azione di Dio e del lavoro dell'agiografo ; le versioni partecipano dell'i, e dell'inerranza solo e in quanto rendono fedelmente il senso e la forma di quelli.

Si tratta di quanto l'agiografo ha voluto esprimere e nel modo con cui lo ha formulato. Tale senso letterale va dedotto secondo i principi dell'Ermeneutica (v.) e tenendo conto del genere (v.) letterario prescelto dall'agiografo. La verità è la rispondenza adeguata della nostra mente con l'oggetto. Questa rispondenza si ha nel giudizio; cioè nell'atto formale con cui l'intelletto afferma la sua proporzione con l'oggetto della conoscenza. Ora, tale giudizio formale e la verità che esso esprime, può esser limitato da tre moventi principali: da parte dell'oggetto, quando l'intelletto non lo conosce in se stesso, ma sotto uno solo dei suoi molteplici aspetti (oggetto formale della conoscenza); da parte dello stesso soggetto, quando questi non s'impegna, e il suo giudizio è riservato e dalle sfumature varie: come probabile, come possibile, come congettura ecc.; da parte della stessa enunciazione, quando non vuole l'assenso del lettore, esponendo ad es. un'opinione personale, o adottando un genere letterario fìttizio, nel quale i particolari stan lì non come storici, ma come espressioni letterarie della verità insegnata.<o:p></o:p>

Con la prima limitazione (stabilire l'oggetto formale) si risolvono facilmente le difficoltà desunte dalle scienze fisiche: geologia, astronomia, zoologia.<o:p></o:p>

La S. Scrittura non è un trattato scientifico: «lo Spirito Santo — il quale parlava per mezzo degli agiografi — non volle insegnare agli uomini cose che non hanno alcuna utilità per la salute eterna» (s. Agostino, Gen. ad litt. 2, 9.20; PL 34, 270; cf. 42, 525). L'agiografo descrive «ciò che appare ai sensi» (s. Tommaso, I, q. 68, a. 3); segue le concezioni del tempo, il linguaggio comune. Non è suo compito dare un giudizio al riguardo; né lo avrebbe potuto fare (ad es. affermare che è la terra a girare intorno al sole, ecc.) senza una rivelazione, che non solo era inutile alla storia della salvezza, ma addirittura dannosa, che nessuno l'avrebbe creduto, dato che i sensi vedevano il sole, la luna ecc. muoversi e girare intorno alla terra.<o:p></o:p>

Così nessuno taccia di errore chi parla del tramonto e del sorger del sole, quando ciò non avvenga in un manuale di astronomia, ma in un romanzo dove è adoperato il linguaggio comune, e dove sarebbe invece erroneo andare a cercare un giudizio formale sulla natura intima dei suddetti fenomeni. «Lo Spirito Santo non volle insegnare agli uomini l'intima costituzione della natura visibile..., e perciò nel descrivere i fenomeni della natura o usa un linguaggio figurato oppure ricorre al linguaggio corrente il quale si conformava alle apparenze sensibili» (Providentissimus, in EB, n. 121).<o:p></o:p>

Questa stessa limitazione (oggetto formale) va tenuta presente quando si tratta della storia. Altro infatti è il punto di vista della storia scientifica, che ricerca per se stessa l'acribia nel dettaglio dei minimi fatti; altro quello della storia religiosa o apologetica che intende trarre le grandi lezioni dalla polvere degli avvenimenti e svolge questi, soltanto a tale scopo.<o:p></o:p>

«Di qui però non segue che l'agiografo sacrifichi i fatti alla sua tesi; anzi egli sa bene che "fanno orrore a Dio le labbra bugiarde" (Prov. 12, 22), e perciò non ricorre a "pie" frodi. Ne segue solo che la sua narrazione non sarà completa, nel senso che di tutto il materiale che ha davanti sceglie solo quello che ritiene adatto al suo scopo, omettendo il resto.<o:p></o:p>

«Sarebbe certo un anacronismo pretendere che la storia biblica rivesta i caratteri scientifici della storiografia come la concepiamo oggi, però lo storico israelita non mancava del senso critico naturale sufficiente per distinguere il vero dal falso nell'uso delle fonti. Queste poi, come tutti ammettono, erano tramandate con grande fedeltà da una straordinaria tenacia di memoria» (Perrella, v. bibl., p. 62).<o:p></o:p>

Certo non si può affermare per la storia quanto si è detto per le scienze fisiche. La storia esige che il fatto narrato sia effettivamente avvenuto. Ma bisogna tener presente le altre due limitazioni su accennate. L'autore sacro non sempre afferma in maniera categorica; ora Dio fa sua e approva l'affermazione dell'agiografo, così com'è, nelle varie sfumature. Non può certo permettere che presenti come certo ciò che è dubbio o viceversa; allora avremmo l'errore. Ma l'autorizza o piuttosto lo spinge a limitare la sua inchiesta personale, al grado di certezza richiesto dall'importanza del soggetto nell'economia o nel quadro generale del libro. L'autore sacro pertanto può citare, prendere una narrazione, lasciandone interamente alla fonte la responsabilità; senza approvare o disapprovare e senza espressamente annotare che si tratta di una citazione (v. Citazioni implicite). Non è tuttavia esatta la generalizzazione, fatta da alcuni, dei pochi esempi e tardivi addotti da I. Guidi, L'historiographie chez les Sémites, in RB, N. S. 3 (1906) 509-19.<o:p></o:p>

E infine, l'autore può ricorrere a una finzione per proporre un evento storico pregno di ammaestramento religioso o morale (v. Giuditta), o una verità religiosa (v. Giona; la Cantica), e morale (v. Giobbe, Parabola). In tal caso, la difficoltà storica sorge soltanto dal misconoscimento dell'intenzione dell'agiografo; si vogliono considerare come storici, particolari scelti e proposti non come tali, ma come semplici figure letterarie.<o:p></o:p>

Ecco la necessità di fissare il genere letterario, per ciascun libro; e quindi stabilire il senso letterale secondo le regole proprie a ciascuno di essi (v. Generi letterari; Divino Afflante Spiritu, in EB, nn. 558-560).<o:p></o:p>

Ben può dirsi ormai che la soluzione di questi punti, oggetto della tanto celebre Questione biblica, dibattuta agli inizi di questo secolo, tra i cosiddetti fautori della "scuola larga" (v. Hummelauer, specialmente M.-J. Lagrange, Prat ecc.) e i timidi conservatori, in linea teorica è ormai risolta.L'Encicl. Divino Afflante Spiritu, con l'ammissione e la spinta allo studio dei generi letterari, ha risolto la disputa in favore della prima, almeno in parte e con le opportune rettifiche, particolarmente del suo grande pioniere M.-J. Lagrange; con le preziose e autorevoli precisazioni che ca. 50 anni di studio e di ricerche permettevano di fare. Giustamente Pio XII constatando i grandiosi progressi compiuti in questi ultimi 50 anni (Divino Afflante Spiritu, 1943) dall'esegesi cattolica, ne attribuiva il merito precipuo alla Providentissimus di Leone XIII; si deve infatti a questa enciclica d'aver fissato con chiarezza la dottrina esatta sull'i.; concezione teologica precisa che permette all'esegeta di procedere svelto e sicuro nel suo compito paziente e grandioso. Cf. G. Castellino, L'inerranza della S. Scrittura, Torino 1949.<o:p></o:p>

Concludendo, ecco la definizione che concordemente danno ormai tutti i cattolici: L'i. è un influsso soprannaturale carismatico, per cui Dio, autore principale della S. Scrittura, subordina a sé, eleva ed applica tutte le facoltà dell'agiografo, suo strumento, in modo che l'agiografo concepisca con l'intelletto, voglia scrivere e fedelmente consegni per iscritto tutte le cose e le cose soltanto che Dio vuole siano scritte e consegnate alla Chiesa

Trattandosi di fenomeno soprannaturale, noi non possiamo conoscere quando un libro sia ispirato se Dio non ce lo riveli, mediante il Magistero della Chiesa, cui Egli ha affidato tale compito, dotandola di infallibilità. Cf. Romeo (v. bibl.), Criterio dell'i. biblica, pp. 175-189.<La rivelazione di Dio è il criterio remoto; il Magistero della Chiesa comunicanteci la tradizione, è il criterio prossimo. Esso è infallibile e pertanto non può indurci in errore, universale, cioè vale per tutti e singoli i libri del Vecchio e del Nuovo Testamento, e soltanto per essi; è chiaro cioè accessibile a tutti, che non richiede studi storici, indagini personali, ma solamente umile e devoto assenso all'autorità infallibile della Chiesa. BIBLIOGRAFIA

C. Pesch, De inspiratione S. Scripturae, Freiburg I. B. 1906 (ristampa 1925); trattato fondamentale ;

id., Supplementum, ivi 1926 ; A. Bea, De inspiratione Scripturae Sacrae, Roma 1930 ;

P. Synave - P. Benoit, La Prophétie (S. Thomas, Somme Théologique). Parigi 1947, pp. 269-378; ma cf. critica di P. M. Labourdette, in Revue Thomiste 50 (1950) 415-419;

P. Benoit, Inspiration, in Initiation Biblique di Robert-Tricot, 3° ed., Parigi 1954, pp. 6-45 ; cf. la critica di J. Coppens, in EThL 31 (1955) 671 ss;

A. Romeo, L'ispirazione biblica, in II Libro Sacro, I, Introduzione generale (Spadafora-Romeo-Frangipane), Padova 1958, pp. 55-189: trattazione accuratissima dalla informazione ricca e minuziosa, con la discussione dei problemi più recenti;

H. Hopfl, Introductio Generalis in S. Scripturam, 6° ed., a cura di L. Leloir, Napoli-Roma 1958: de inspiratione: pp. 19-118;

G. Perrella - L. Vagaggini, Introduzione alla Bibbia, I, Torino 1960, pp. 10-72: praticamente è la 3° ed., riveduta e aggiornata della Intr. gen. che faceva parte dei volumi sussidiari della collezione La S. Bibbia dello stesso editore Marietti.

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