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LA FORMAZIONE DEI PRETI

Ultimo Aggiornamento: 23/04/2012 21:40
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21/09/2010 18:44
 
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Cultura e religione nella Napoli settecentesca in un volume di monsignor Dovere

Il buon governo
del clero



di Michele Giordano
Cardinale arcivescovo emerito di Napoli

Un buon affresco sul clero cattolico d'età moderna, a partire dalla storia religiosa e culturale di Napoli, una delle più grandi e, complesse capitali dell'Europa di antico regime. Questo è in sintesi l'ultimo volume di Ugo Dovere, storico della Chiesa, che insegna alla Facoltà teologica dell'Italia meridionale (Il buon governo del clero. Cultura e religione nella Napoli di antico regime. Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2010, pagine XVI + 318 con 16 tavole fuori testo, euro 46, "Biblioteca di storia sociale", 36).

Il saggio si basa su un dossier del 1804, ritrovato dall'autore nell'archivio storico diocesano di Napoli. Si tratta di una corposa relazione, che l'appena nominato arcivescovo di Napoli, il cardinale Luigi Ruffo Scilla (1750-1832), aveva commissionato a un anziano sacerdote napoletano per farsi raccontare i costumi del clero della Chiesa che andava a reggere. E poiché il fidato collaboratore non si risparmiò, grazie alla freschezza del linguaggio e alla franchezza del dire di questo purtroppo anonimo prete napoletano del Settecento, si può comprendere qualcosa in più sulla storia della Chiesa nella cruciale stagione di passaggio dall'età moderna a quella contemporanea.

Il clero del Settecento, almeno quello in cura d'anime, attesta un elevato livello culturale, documentando il distacco dalle prime generazioni post-tridentine, che avevano faticato a raggiungere standard adeguati. Gli strumenti di selezione messi in moto nella seconda metà del XVIi secolo avevano portato i chierici fuori dalle secche del semi-analfabetismo derivante dal pasticciato ed effimero apprendistato, che compivano presso le loro parrocchie o presso qualche prete più distinto, in vista del conseguimento di uno striminzito beneficio. Il fenomeno non fu ovviamente lineare, tuttavia è certo. Come del resto è assodata la persistenza di difetti antichi, difficili da disciplinare:  la fuga dalla formazione seminariale attraverso il chiericato esterno, la ricerca dell'ufficio ben retribuito, il vizio della "raccomandazione", la sciatteria e l'imperizia nella predicazione, la fatica d'accettare la residenza canonica, l'inadeguatezza o la malafede nel servizio al confessionale.

La ricerca di Dovere, dedicando ampio spazio agli elementi della formazione sacerdotale e della cura animarum, consente di scandire le tappe di questo processo. È più difficile invece, perché quasi del tutto lasciato sotto silenzio, tracciare un quadro dei comportamenti morali del clero del periodo. Riferimenti indiretti ad armi, frequentazioni, abbigliamento, vita in famiglia e carrierismo clientelare lasciano intuire un panorama piuttosto frastagliato. Scarse sono pure le informazioni che si riferiscono ai risvolti sociali della condizione sacerdotale nel mezzogiorno d'Italia. Il gran numero di ecclesiastici infatti costituì un bruciante problema politico nell'età del riformismo borbonico, ricadendo negli interessi sia della politica economica del regno sia dell'ordine pubblico, spesso messo in crisi dallo stile di vita marginale di quegli "abati di mezza sottana" di cui erano piene le gazzette del tempo.

L'immagine di prete che emerge corrisponde ancora sostanzialmente a quella delineata a Trento, che non era completa, ma comunque conteneva in nuce tutti gli elementi di carattere dottrinale e pastorale, che negli anni successivi si sarebbero sempre più evidenziati, specie attraverso le proposte di spiritualità sacerdotale. Come il Concilio individuava alcuni decisivi elementi negativi degni di censura e ne proponeva altri positivi da introdurre e incentivare, allo stesso modo oltre due secoli e mezzo dopo si operava a Napoli e altrove, delegando all'arcivescovo la responsabilità della repressione degli abusi e della promozione degli strumenti di miglioramento dello stato ecclesiastico.

Il dossier napoletano menziona appena gli aspetti più specificamente spirituali della vita del clero, mentre molto spazio dedica alla cura animarum, che della spiritualità sacerdotale è indispensabile controparte. Essa infatti richiede importanti qualità, come obbedienza senza ipocrisia per la formazione, vasta dottrina e prudenza per la confessione e la predicazione, zelo per l'amministrazione della parrocchia, compassione e disponibilità per l'assistenza ai moribondi. Da qui il ricorso - allora come oggi - alla formazione profonda e non superficiale in fatto di Bibbia e liturgia, sulla dignità sacramentale dello status, sui doveri ministeriali, sulla testimonianza personale di pietà e moralità. Tuttavia, la preferenza data agli studi compiuti, come elemento di premialità, a prima vista sembra mostrare la volontà di una qualificazione culturale del clero, ma in realtà svela la difficoltà di trovare elementi oggettivi nell'ambito valutativo della crescita spirituale e morale dei candidati.

Dal documento emerge un'idea di fondo molto antica e diffusa, a Napoli incarnata nella figura e nella dottrina di sant'Alfonso Maria de' Liguori, e cioè che il buon prete è il santo prete. Quello cioè che, conservandosi fedele alle tradizioni, non fa scolorire - per usare la metafora del testo - "la bellezza del suo ottimo oro di santità", alimentato dalla cultura e dalla generosa fatica pastorale, e assolve con coscienza al "tremendissimo ministero".

È interessante notare che, ben diversamente da quanto avveniva altrove in Italia, l'autorità civile a Napoli non intervenne sull'insegnamento impartito nei seminario. Al nord, nei territori imperiali, il Governo asburgico agiva direttamente in questo settore con un generale programma di centralizzazione, tale da condizionare i modelli disciplinari e i curricula di studio per fare del "buon prete" un bravo "funzionario statale" attivo sul territorio. In maniera non dissimile, un modello unico sembrava imposto anche in area sabauda attraverso l'accademia di Superga, dove si formavano i candidati alla dirigenza ecclesiastica secondo un modello francese e filo-giansenista. Nel Mezzogiorno invece un simile orientamento era impensabile, sia per la sostanziale assenza di un unitario programma di studi offerto dallo Stato, sia per il prevalente stile delle Chiese locali, legate alla struttura familiare e paesana, di cui erano significativa rappresentanza le "chiese ricettizie" e il numeroso chiericato esterno, sopravvissuto anche all'unità d'Italia.

Il colto prete napoletano doveva esercitare il suo ministero principalmente attraverso la confessione e la predicazione. La confessione era praticata in maniera diffusa fra il popolo, anche se i suoi contenuti sfuggono inesorabilmente allo storico, per emergere riflessi nei più diffusi comportamenti morali di massa. La buona, indispensabile preparazione richiesta al confessore mirava a favorire nei penitenti l'interiorizzazione dei temi morali e sociali, ossia la ricerca della santità, nonché di nuovi modelli di comportamento, che peraltro trovavano sponda in molti provvedimenti della legislazione civile. La predicazione invece non era per tutti, ma solo dei "pagellati", ossia di quei preti che avevano conseguito una specifica abilitazione.

I predicatori andavano incontro alle attese di un pubblico vasto, anche se non per forza motivato religiosamente, che ai piedi del pulpito ricercava spesso il "diletto" più che la Parola di Dio, condizionando pesantemente i predicatori in voga, quelli cioè che richiamavano le folle e riempivano le chiese. Per la verità a Napoli si predicava con sufficiente zelo e qualità. Né poteva essere diversamente, se si considera che i migliori predicatori provenivano dall'eccezionale palestra delle missioni popolari, che li educavano all'esercizio del ministero senza attesa di lucro e con stile semplice e comunicativo.

Nel documento sul buon governo del clero studiato da Dovere, alcuni fondamentali elementi della vita sacerdotale sono ben illustrati, per taluni settori persino nei dettagli più minuti. Risultano perciò ancor più incomprensibili certi silenzi dell'anonimo redattore, che sembra ignorare questioni delicate e non marginali della vita civile ed ecclesiale del periodo. Ma probabilmente non si va lontano dal vero, se si fanno dipendere i suoi silenzi dalla sottovalutazione dell'incidenza che sulla vita del prete esercitavano gli elementi storico-ambientali, e dalla sostanziale  indifferenza al contestuale dibattito culturale, che pure, con lo spirito illuministico, stava introducendo nel mezzogiorno d'Italia i presupposti d'una secolarizzazione, solo ritardata rispetto ad altre parti d'Europa, dalle radicali chiusure del Governo borbonico.

La lettura dell'antico documento napoletano fa emergere rimpianti nostalgici del redattore e qualche suo personale risentimento, che peraltro impreziosiscono di credibilità il dossier. Ma per l'ampiezza del quadro e per la vivacità del dettato, i suggerimenti per il buon governo del clero si fanno indicativi di un'epoca e di un'immagine di prete, che l'arcidiocesi di Napoli condivideva con la Chiesa di antico regime in area mediterranea.

All'alba del xix secolo, a un cardinale che prendeva possesso della più importante arcidiocesi del mezzogiorno d'Italia si suggeriva d'applicare in maniera integrale e rigorosa quanto disposto dal concilio di Trento due secoli e mezzo prima, sia pure interpretato e affiancato dalla scarsamente creativa legislazione sinodale successiva. Opportunamente Dovere si interroga. Era il segno dell'attualità delle disposizioni tridentine? Oppure era la prova di un sostanziale fallimento delle norme conciliari, circoscritte dal versante dottrinale e poco o male applicate fino ad allora? E opta per una posizione intermedia, che tiene conto sia dei radicati convincimenti dottrinali, sia delle vistose resistenze sul piano delle realizzazioni pastorali.

Nel corso dell'età moderna è stato dato per acquisito il carattere sacramentale dell'ordinazione sacerdotale e quello sacrificale della celebrazione eucaristica. E sul piano pratico s'è operato per eliminare gli abusi derivanti da indirizzi di vita diversi, manifestati nell'esercizio della cura animarum. Erano gli stessi preti nella pratica ministeriale e i seminari con i loro programmi formativi a dare consistenza a un modello sacerdotale poi passato come tridentino, che risentiva piuttosto dello stile dei chierici regolari, da cui ci si cominciò a liberare solo nel XVIii secolo, sulla scorta d'una nuova spiritualità proveniente dalla Francia, proposta come specifica del clero diocesano. I fenomeni che coinvolsero il clero - dalla riflessione teologica di natura sacramentale alla condanna e repressione degli abusi in campo pastorale - sono stati fatti rientrare in quel vasto processo di disciplinamento. Sta di fatto che la varietà dei comportamenti sociali mostra una Chiesa compatta nella riconferma dottrinale e giuridica dei principi, ma anche duttile e attenta al caso per caso sul piano della prassi pastorale.

La resistenza di chierici e preti all'uso dell'abito, come ripetutamente richiesto dalla legislazione canonica, era indizio d'una irriflessa resistenza ai processi di disciplinamento. E lo stesso valeva per il vezzo di barbe e parrucche, a cui non sfuggivano neppure i vertici delle gerarchie ecclesiastiche. Il processo di qualificazione culturale del clero, pur avendo trovato sostanziale applicazione in una grande capitale come la Napoli settecentesca, non riusciva a impedire che, con mezzi miserevoli, ecclesiastici di basso profilo raggiungessero alte responsabilità gerarchiche o calcassero ingloriosamente i pulpiti più prestigiosi. Lo stesso popolo delle parrocchie, ritenuto di solito disciplinato nei comportamenti devoti di massa per la forte guida dei parroci confessori, mostrava di fatto un volto antico di fragilità nella fede e di disordine nel vissuto, tanto che la pratica liturgica o il culto eucaristico extra Missam diventavano occasione di preoccupazione pastorale e di disordine sociale.

Si deve allora concludere che il pieno controllo del clero e la sua perfetta e uniforme organizzazione sono fondamentalmente un auspicio, difficilmente un'esperienza compiuta. Malgrado ciò, come ricordava Benedetto XVI nell'omelia della messa per la conclusione dell'Anno sacerdotale, l'"audacia" porta Dio ad affidare se stesso a esseri umani, pur conoscendo le debolezze di cui sono capaci i suoi ministri. Solo la vicinanza a Lui e l'imitazione del modello sacerdotale offerto da Gesù Cristo possono insegnare a governare i cuori e quindi a superare le personali fragilità che il popolo di Dio talvolta coglie.



(©L'Osservatore Romano - 22 settembre 2010)
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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