A tutti voi che passate da qui: BENVENUTI
Se avete desiderio di capire che cosa insegna la Bibbia che il Magistero della Santa Chiesa, con il Sommo Pontefice ci insegna, questo Gruppo fa per voi. Non siamo "esperti" del settore, ma siamo Laici impegnati nella Chiesa che qui si sono incontrati da diverse parti d'Italia per essere testimoni anche nella rete della Verità che tentiamo di vivere nel quotidiano, come lo stesso amato Giovanni Paolo II suggeriva.
Nuova Discussione
Rispondi
 
Pagina precedente | 1 | Pagina successiva

Cerchiamo di comprendere la sacralità della Messa (e del Rito) nella Tradizione Cattolica

Ultimo Aggiornamento: 13/11/2016 13:35
Autore
Stampa | Notifica email    
OFFLINE
Post: 39.987
Sesso: Femminile
02/09/2009 10:24
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

Amici....... abituati alle immagini della Messa di Pontificato di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI....semplice nel suo essere anche se Pontificale nella sostanza......vi riporto dall'amico Alessandro la sintesi di come era la Messa una volta con qualche relativa immagine..........così tanto da conoscere il nostro glorioso passato e riviverlo con una nostaligia non tanto di un ritorno a quei fasti esteriori, quanto AL RITORNO DI UNA DEVOZIONE SACRALE CHE COMPONEVA QUESTE CERIMONIE....e che lo stesso Benedetto XVI sta cercando di riportare....

******************

Prima della riforma liturgica degli anni '70, il Papa celebrava pontificalmente la S. Messa solo tre volte l'anno, a Natale, a Pasqua e nella festa dei Ss. Pietro e Paolo Apostoli (29 giugno), mentre nelle altre festività si limitava ad assistere al Sacrificio Eucaristico celebrato da qualche cardinale o prelato.

E' particolarmente difficile, oggi, reperire informazioni precise e dettagliate sul cerimoniale di questa suggestiva liturgia, che presenta differenze anche notevoli rispetto al pontificale "ordinario" celebrato da un vescovo.

Infatti, mentre le cerimonie della Messa sacerdotale (letta, cantata o solenne) sono contenute nel Messale e quelle della Messa pontificale "ordinaria" nel Caeremoniale episcoporum, per quanto riguarda la Messa papale si dovrebbe ricorrere al "Caeremoniale Romanum", nel quale, oltre al rito della Messa, si trovano anche le cerimonie di altre celebrazioni pontificie (l'incoronazione, la presa di possesso della Basilica Lateranense, ecc.) o che si svolgono sede vacante (esequie del Papa, novendialia, conclave, ecc.).

Per l'incoronazione  del Pontefice, abbiamo qui una bellissima descrizione-cronaca dell'evento:

9 agosto 1903: l'Incoronazione di Pio X al Soglio Petrino (testo da GUSTARE)

Tuttavia il Caeremoniale Romanum è estremamente difficile da reperire, anche nelle biblioteche; inoltre, non è chiaro se di questo libro siano state approntate diverse edizioni e, nel caso, quale di esse si debba consultare. Questo libro liturgico è rimasto in vigore fino al pontificato del beato Giovanni XXIII (che lo cita nel suo Motu proprio sulla elezione del Romano Pontefice); la riforma liturgica ha fatto piazza pulita di tutte le antiche cerimonie pontificali, che apparivano troppo sfarzose, e già dai tempi di Paolo VI la Messa papale non differisce troppo da quella celebrata da un comune sacerdote.

La messa pontificale del Papa, quella che Patrizi descrive per il giorno di Natale nel dodicesimo libro del suo cerimoniale, è, per quel che concerne le regole della celebrazione, in alcuni particolari vicina, a quella dei cerimoniali medioevali che la precedettero. Solo le regole d’etichetta relative ai principi e ai signori che assistono e prendono parte alla celebrazione del romano pontefice, le diverse prove e pregustazioni che costituiscono innovazioni e testimoniano l’impronta del Rinascimento. I preliminari della celebrazione eucaristica non faranno che aumentare durante l’epoca barocca.



Riti d’introduzione


Il testo distingue due sedi per il pontefice. La prima è posizionata dietro al grande altare, nell’abside, ma su un lato, una specie di piccolo trono dove il Papa, venuto dal palazzo apostolico in gestatoria, rivestito del piviale e della mitria, intonerà Terza e assumerà i paramenti per la Messa. Da lì, dopo aver imposto l’incenso, si porterà ai piedi dell’altare per il rito della confessione, avendo durante il cammino ricevuto l’omaggio degli ultimi tre cardinali preti. Dopo che avrà incensato l’altare e sarà stato incensato dal cardinale diacono del vangelo (o dal cardinale ministrante), conferirà anche a quest’ultimo e agli altri due cardinali diaconi assistenti, l’omaggio del bacio di pace (della guancia e del petto), il papa si porterà al grande trono, ad sedem suam eminentem.

Si osservi che non ha preso possesso di questa sede elevata in fondo all’abside, da cui predomina tutta l’assemblea, se non dopo aver terminato i riti preparatori al tronetto (di Terza), quelli penitenziali e quelli di venerazione dell’altare. Da questo punto, fino al momento dell’azione eucaristica vera e propria, cioè fino all’inizio dell’offertorio, è verso il trono del pontefice che convergeranno tutte le cerimonie, che sarà indirizzata tutta l’attenzione; è dalla sede che il supremo pastore presiederà tutta la celebrazione liturgica.

  Natale
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.987
Sesso: Femminile
02/09/2009 10:33
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

Offertorio


Il canto del credo permetterà le prime preparazioni dell’altare, la cui mensa è rimasta spoglia, ad eccezione, sul fondo, del corredo della Croce e dei sette candelieri, precedentemente portati in processione. Il Patrizi testimonia che l’altare è il luogo in cui viene deposta la tiara (regnum); la presenza delle statue dei santi Pietro e Paolo è menzionata da Clemente V; si è in seguito ammessa la presenza di due reliquiari, ma mai sullo stesso altare fu tollerata qualsiasi forma di decorazione floreale.

Il cardinale diacono ministrante ed il suddiacono latino (o suddiacono ministrante) stendono sull' altare una tovaglia di tessuto damascato. Il diacono dispone il corporale, la pisside ed i purificatoi portati dal suddiacono. Il calice con il suo cucchiaino e la patena, sono portati al diacono dal sacrista, dopo averli lavati alla credenza papale; un accolito lo segue con le ampolline e una coppa d’argento per la pregustazione, anch’essa lavata dal sacrista.

Questi ultimi riti sono delle novità. Le cerimonie precedenti non menzionano nulla che possa evocare alla memoria simili abluzioni; quanto invece alla pregustazione della materia del sacrificio, il cerimoniale avignonese, la cui redazione fu compiuta tra il 1340 e il 1362, la indica come un uso possibile. Due vescovi assistenti posano sull’altare il messale con il suo cuscino e la bugia (o palmatoria). Il Papa, deposti i guanti e lavatosi le mani, lascia il trono e avanza verso l’altare, dove procederà ai riti d’offertorio.

Della presentazione solenne delle oblate al pontefice da parte dell'alta nobiltà, dei funzionari della corte, dei suoi assistenti, della sua stessa offerta portata dal subdiaconus oblationarius, tutti riti descritti con precisione dall' Ordo romanus, non restano nel cerimoniale apostolico del XV secolo che alcune pallide vestigia . Da quando il pane azimo s’impose a poco a poco in occidente, e ciò dal IX secolo fino ad essere universalmente accolto durante la metà del XI secolo, l’offerta dei fedeli, molto apprezzata in territorio francese, andò consistendo in offerte di altri oggetti, tra i quali, in particolare, si distinguevano l’olio, la cera, le candele, l’oro e il denaro. Nel XIII secolo, il cerimoniale o Ordo di Gregorio X, non presupponevano più riti di offerta alla messa papale.

Le offerte non si praticavano più, che in occasioni straordinarie. Così il Patrizi descrive un rito d’offerta durante una messa di canonizzazione: un cardinale vescovo offrirà al Papa due pesanti candele di cera, un cardinale prete due grandi pani, un cardinale diacono due botti di vino. Sono accompagnati da gentiluomini: un oratore accompagna ognuno dei cardinali, ed offre al papa una candela ed una gabbia con dentro degli uccelli. Occorre osservare che si tratta di una offerta personale e simbolica, fatta al pontefice al fine di ringraziarlo della grazia spirituale ricevuta. E’ bene specificare, per non confondersi: quando all’uso dell’offerta da parte dei fedeli delle oblate eucaristiche si andò aggiungendo l’offerta di altri elementi, si stabilì una rigorosa separazione tra le offerte.

Questa distinzione, che appare chiaramente nello studio dei riti d’offerta, è stata esattamente formulata da san Tommaso d’Aquino, quando, nel trattato della religione, distingue con precisione la semplice offerta che è la presentazione, di carattere libero e indeterminato, fatta a Dio, con l’offerta ad uso del culto o dei suoi ministri, dall’offerta di una materia, in questo caso il pane e il vino, sulla quale sarà compiuto, con l’atto dell’offerta, un rito sacro determinato, un sacrum facere, un sacrificio.

Conviene dunque notare la differenza tra la semplice presentazione delle offerte, non finalizzata al sacrificio, e l’offerta finalizzata al sacrificio. Soltanto dunque il pane e il vino, che a questo punto i ministri sacri portano dalla credenza, dove sono stati preparati, all’altare, sul quale la materia del sacrificio sarà presentata al pontefice perché le offra in un rito di presentazione di prospettiva sacrificale, possono essere oggetto del rito d’offertorio.

L’esposizione di questa distinzione fondamentale è dunque necessaria per una comprensione corretta della natura dell’offertorio. Ciò che Jungmann chiama “l’atteggiamento ostile della liturgia romana recente in relazione alla processione di offertorio”, sembra spiegarsi con la preoccupazione di evitare ogni ambiguità sul significato del gesto e della materia dell’offerta. Il cerimoniale apostolico del Patrizi, abbiamo visto, ha conservato l’offerta nella Messa di canonizzazione, e l’offerta dell’oro dell’imperatore, il giorno della sua incoronazione.

Il pontificale romano del 1595 prevede, appena prima dei riti d’offertorio, l’offerta di un cero al pontefice da parte di colui che viene promosso alla prima tonsura clericale, agli ordini maggiori e minori, e anche da parte delle vergini consacrate. Il vescovo consacrando e l’abate che deve essere benedetto gli offrono due ceri pesanti (intortitia), due pani e due barilotti. Dalla neo abbadessa, riceverà solo le intortitia, mentre i re e le regine offriranno all’arcivescovo metropolitano che li avrà incoronati, dell’oro quantum sibi placet: tanto quanto vorrà riceverne. Non più che nell’Ordo della messa papale del Patrizi che in quello della messa pontificale del Cerimoniale dei Vescovi di Clemente VIII, v’è traccia di offerte nel ritus servandus del messale romano di san Pio V.

Nel 1502, l’ordo missae di Burckard lo prevedeva ancora: al protestantesimo fu riservato il compito di dargli il colpo di grazia. Si potrebbe tuttavia citare una moltitudine di esempi di riti che vi si rifanno, praticati ai sensi di abitudini immemorabili. Sono noti i recenti sforzi nel tentativo di restaurare i riti d’offerta; nessuno tuttavia ignora quanto essi contribuiscano, a ridurre la prospettiva sacrificale dell’offertorio.

(Messa Pontificale di Pio XII per la canonizzazione di Madre Cabrini)
 madre Cabrini

 
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.987
Sesso: Femminile
02/09/2009 10:43
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

 
Continuiamo la lettura dell’Ordo del vescovo di Pienza.


Il Papa arrivato all’altare riceve la patena con l’ostia, poi il calice dove il diacono avrà versato del vino a sufficienza per tre persone, per il pontefice stesso, per il diacono ed il suddiacono. Quest’ultimo vi ha mescolato un po’ d’acqua per mezzo del cucchiaino. Il Papa compie l’oblazione del pane, poi il diacono, ministro ordinario del preziosissimo sangue, recita col papa la formula d’oblazione del calice. Il cerimoniere impone al collo del suddiacono il velo omerale, affinché conservi la patena, coperta da questo velo, fino alla preparazione dei riti di comunione, alla fine del Pater noster.

Troviamo questa forma di rispetto della patena fin dall’ordo romanus. Tuttavia alla fine del VII secolo, era inizialmente un accolito che, coperto da un velo di lino, teneva fino al canone la patena di grande dimensione; in seguito un suddiacono sequens la riceveva super planetam, veniva dinanzi all’altare e vi attendeva che il suddiacono regionarius gliela prendesse, terminato il canone.

Si procede all’incensazione delle oblate, dell’altare, del Papa, dei cardinali, del clero in ordine di dignità, ecc. Il papa continua la Messa. Per l’elevazione, e fino dopo la comunione del pontefice, otto accoliti apostolici tengono delle torce di cera; un ulteriore accolito, incensa il santissimo sacramento.



Riti di Comunione


Dopo l’elevazione, il sacrista, con le spalle coperte da un velo, prende con la mano destra, la cannuccia d’oro che servirà al Papa per la comunione al calice (fistula); nella mano sinistra tiene un calice. Preceduto da un accolito che porta le ampolline e una coppa d’oro, scortato dalla guardia d’onore in armi, si reca alla credenza papale; ivi lava con acqua e vino la fistula, il calice e la coppa d’oro, li asciuga e li depone sull’altare.

Se è apparso molto chiaramente fino ad oggi che la messa pontificale descritta dal cerimoniale dei vescovi post-tridentino è in un certo qual modo, eccetto alcune particolarità ed alcune norme d’etichetta di tenore regale, soltanto un adattamento della messa papale alle proporzioni di una cattedrale, a questo punto si verifica un rito unico e che sempre i papi conservarono come un privilegio personale, e che non accordarono nemmeno al patriarca di Lisbona: la comunione ad sedem exaltatam, al trono, già citata nell’ordo Romanus.


L’ordo romanus, la prima descrizione rituale del culto eucaristico a Roma che possediamo, presenta, al momento della comunione, una grande complessità di riti, fra cui una molteplicità di riti d’immistione. Non ricorderemo qui l’ordo se non in quanto ci permetterà di comprendere alcuni riti antichi che ci tramandano il cerimoniale del vescovo di Pienza e i libri tridentini. Dopo l’embolismo del Pater, che accompagna la consegna della patena, avviene la prima immistione nel calice del fermentum, una porzione di particola consacrata durante una messa precedente. Si procede allora al bacio della pace.

Dopo aver deposto sulla grande patena tenuta dal diacono i due grandi pani consacrati, che furono offerti, e da cui ha staccato un frammento che lascia sull’altare (prima frazione), il papa si avvia verso il trono. Mentre gli accoliti ricevono dall’arcidiacono, assistito dai suddiaconi, i pani consacrati, dentro dei sacchetti di lino e si portano verso i vescovi e i preti, due suddiaconi portano la patena del papa fino al trono dove egli si trova. La, su questa patena, i diaconi compiono la frazione. I vescovi e i preti compiono la medesima frazione dei pani consacrati. Durante tutta questa solenne funzione, si canta l’Agnus Dei. In seguito, il diaconus minor presenta la patena al pontefice.

Egli si comunica, avendo cura di staccare una parte del pane consacrato, che mette nel calice pronunciando la formula “haec commixtio et consecratio”, in occasione di questa seconda commistione. Poi prende il preziosissimo sangue nel calice che gli viene presentato dall’arcidiacono. Il clero comunica sotto la specie del pane dalle mani del pontefice, al trono, e sotto la specie del vino dalle mani dell’arcidiacono, all’altare. Tutti si comunicano col corpo e ad un calice (scyphus) di vino, in cui si è mescolato del preziosissimo sangue.

(Pio XII S.Messa canonizzazione di Santa Maria Goretti)


  santa Maria Goretti

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.987
Sesso: Femminile
02/09/2009 10:44
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

Riti preparatori e immistione


Ritorniamo al cerimoniale apostolico del Patrizi. La norma dei riti preparatori alla comunione che descrive, è quella desunta dall’ordo lateranensis del 1145, il cerimoniale episcopale del priore Bernard. I riti eucaristici descritti dal Bernard non erano altro che quelli dell’ Hadrianum, arricchiti da Alcuino nei primi anni del IX secolo; per i riti non eucaristici, dipende interamente dal pontificale romano-germanico del X sec. Non vi è ormai che una sola immistione; la norma dei riti è quella che conosciamo, quella dei messali della curia romana del XIII secolo, e del messale di San Pio V, cioè: consegna della patena, preghiera Libera nos, frazione dell’ostia, Pax Domini, prima ed unica immistione, canto dell’Agnus Dei, preghiera Domine Jesu Coriste, bacio della pace.

Occorre tuttavia qui osservare che il luogo dell’immistione dell’ordo lateranensis, quella presa in considerazione dal vescovo di Pienza e prima di lui dal cerimoniale avignonese per la messa papale, non corrisponde più a quella descritta da Innocenzo III nel De Missarum mysteriis e da tutti i cerimoniali della cappella papale fino a quello di Stefaneschi incluso, quella che Guglielmo Durand commentò. Così la messa episcopale dell’ordo lateranansis ha contaminato la liturgia papale, e si assiste qui a una di quelle interazioni liturgiche, cioè tra la basilica lateranense e la cappella papale, segnalate dal padre Gy.

Infatti fino all’epoca del cerimoniale avignonese, secondo le parole di Innocenzo III “Romanus pontifex alium in communicando morem observat » : dopo il triplice segno di croce fatto con la particola sul calice dicendo il Pax Domini, riposiziona la particola sulla patena, una volta donato il bacio di pace, ritorna al trono e, alla vista di tutti, prendendo sulla patena tenuta dal suddiacono la più grande delle tre particole che gli erano state presentate, la suddivide, ne prende una parte e mette l’altra nel calice. Se non è presente che una sola immistione, questa così descritta ricorda l’ordo romanus : essa ricorda il rito solenne della frazione al trono, mantenendo la seconda immistione de ipsa sancta quam mormorderat. Le altre due particole serviranno alla comunione dei diaconi e dei suddiaconi che ricevono la pace al momento stesso di comunicarsi.

Nel cerimoniale del Patrizi il papa ha lasciato cadere la particola con la quale aveva tracciato al pax Domini il triplo segno di croce, ha dato la pace al cardinale vescovo assistente, poi ai due cardinali diaconi assistenti, ha lasciato l’altare per il trono in fondo all’abside. Ormai all’altare, il diacono ministrante eleva fino all’altezza degli occhi la patena con l’ostia, descrive dei movimenti circolari e la consegna al suddiacono che la porta alla sinistra del papa. Ripetuti gli stessi movimenti col calice, il diacono lo porta alla destra del papa. Il papa, nel libro che tiene di fronte a lui un vescovo assistente, legge le preghiere prescritte, prende e consuma una delle due particole, poi suddivide la particola rimanante, con la cannuccia d’oro che gli porge il cardinale vescovo assistente, assume una parte del preziosissimo sangue. Ritroviamo dunque qui una frazione al trono, e la comunione con una sola particola delle specie sante, il resto delle quali è riservato ai ministri sacri.

Ritroviamo così il legame stretto che collega il bacio della pace, all’atto stesso della comunione. In effetti, il cardinale diacono ministrante, che con il suddiacono non aveva ricevuto il bacio della pace all’altare con i cardinali assistenti, stando in piedi, tenendo ancora il calice e la cannuccia, s’inclina, bacia la mano del papa, riceve la sua particola, bacia il papa al viso (si tratta di fatto di un mero cenno) poi ritorna all’altare dove, dal lato dell’epistola, prende un po’ di preziosissimo sangue con l’aiuto della cannuccia. Il suddiacono, inginocchiato con la patena, riceve la comunione del corpo dalle mani del Papa, coi medesimi baci della mano e del viso, e si reca all’altare a comunicarsi col sangue, dopo aver purificato la patena.

Catalani riferisce nel suo commentario l’uso antico di donare una particola dell’ostia magna a qualche uomo illustre, ad esempio l’imperatore, citando l’esempio di Pasquale II con Enrico V. Il cerimoniale lateranense, di tipo episcopale, che quindi non prevedela comunione del papa ad sedem eminentem, prevede a questo punto che il diacono ed il suddiacono si comunichino all’ostia del vescovo celebrante. Nell’epoca tridentina, quest’uso non sarà conservato che per la messa papale, alla quale diacono e suddiacono devono assolutamente comunicarsi.


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.987
Sesso: Femminile
02/09/2009 10:45
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

Bacio di Pace e comunione


S’è visto che ricevere la pace da parte dei ministri è legato all’atto della comunione. Il bacio di pace, distintivo delle liturgie di Roma e dell’Africa dopo l’epoca di sant’Agostino, e dopo San Gregorio Magno interpretato come un richiamo al sicut et nos dimittimus, del pater, fu ritenuto come una indispensabile preparazione al ricevimento del sacramento, che è segno di unità tra i membri del Corpo Mistico di Cristo, e fu per molto tempo praticato. Tuttavia,in seguito al fatto che la comunione divenne un uso meno generale e si fece più rara, il bacio di pace, dato dal celebrante che ha baciato l’altare, trasmesso dai ministri, diventa una sorta di supplenza alla ricezione del sacramento.


Per attenuare ciò che era ormai considerat un segno di intima familiarità, il Medioevo stilizza il bacio, per non scambiarlo presto più che tra il clero nella messa solenne.

I riti descritti dal Patrizi descrivono l’uso del bacio di pace con l’atto stesso della comunione.
I ministri sacri baciano la mano del papa, ricevono la comunione, baciano il viso. Questo rito, tuttavia all’altare, esiste anche nei libri tridentini. Il cerimoniale dei vescovi lo rammenta. Esso immagina evidentemente una messa del vescovo residenziale al trono. Nella cattedrale, il giorno di Pasqua, descrive la comunione generale dei ministri sacri, del clero e del popolo. Dopo aver comunicato, il vescovo da la comunione al diacono ed al suddiacono, con due ostie prese dal ciborio e messe sulla patena. Ognuno di loro bacia prima la mano del vescovo, riceve l’ostia, si alza e bacia la guancia sinistra del vescovo (accenna un bacio), il quale gli dice Pax Tecum,e al quale si risponde Et cum Spiritu tuo. Il diacono canta allora il confiteor, il vescovo recita il misereatur e l’indulgentiam. Durante la distribuzione della comunione, il diacono tiene il ciborio alla sua destra e il suddiacono la patena alla sua sinistra. L’influenza della messa papale è qui evidente.
 
Tutti i canonici si comunicano, precisa il cerimoniale, baciando la mano prima ed il viso dopo (ricordiamo che i canonici sono sono parati con i paramenti sacri). Tutti gli altri, baciano solo la mano, sia il clero, che i laici. Il pontificale romano del 1595, descrive questo bacio della mano del vescovo, per i neo ordinati. Il bacio della mano o dell’anello del vescovo durante la comunione, soprattutto se si ricollega alla comunione dei ministri sacri del cerimoniale papale e del cerimoniale dei vescovi tridentino, appare dunque come una vestigia del bacio di pace, ed esprime la comunione col vescovo, e per mezzo di lui, con tutta la Chiesa. Segnaliamo un’altra forma di bacio di pace, che è quella data tramite l’osculatorium, o strumento di pace.

E’ questo bacio che il messale Romano di san Pio V e il Cerimoniale dei Vescovi, prevedono come trasmissibile ai laici ed al clero nelle messe non solenni. E’ lo stesso gesto che Carlo V, desideroso di rimediare alle mormorazioni dei riformatori, raccomanda nella formula reformationis del 1548. Sono noti altresì i tentativi recenti, di sapore allo stesso tempo archeologico e pastorale, di restaurare il bacio di pace, tramite il semplice scambio d un gesto di pace, che non proviene più dall’altare, ma che viene scambiato tra vicini. Cosa che convince poco.


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.987
Sesso: Femminile
02/09/2009 10:46
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

Comunione al calice e abluzione


Si sarà notata la comunione sotto le due specie del diacono e del suddiacono alla messa papale. Costoro, seguendo l’antica disciplina, sono tenuti a partecipare alla consumazione del sacrificio, di cui sono stati ministri all’altare. Si comunicano col sangue attraverso la cannuccia. Il cerimoniale del Patrizi non prevede affatto che si possa dare il preziosissimo sangue ad altri, oltre che ai ministri sacri, neppure all’imperatore.
Si racconta dell’episodio di Federico III, giunto a Roma in pellegrinaggio nel 1468. L’imperatore canta le lezioni del matutino di Natale, e procede alla sinistra del Papa, Paolo II, ciononostante, durante la messa solenne del giorno, non viene ammesso alla comunione col calice, a maggior ragione perché
Dom Martene ha distinto tre differenti modi d’amministrare la comunione al sangue. Il più antico consiste nel bere direttamente dal calice. Tuttavia l’Ordo Romanus menziona già un pugillaris, primo nome del calamus, con l’aiuto del quale il popolo prenderà la comunione. Si conosce infine il rito dell’intinzione, ancora praticato dalla maggior parte dei riti orientali, tornato in auge dopo alterne vicende in occidente, dove fortemente praticato al Nord, sarà invece condannato dai concili di Braga (675) e di Clermont (1096).

Si deve tuttavia ricordare che il calice o la coppa (schyphus), dalla quale, attraverso il pugillaris i fedeli dell’Ordo romanus si sono comunicati, contiene del vino, al quale l’arcidiacono aveva mischiato un po’ di preziosissimo sangue. Si praticava infatti na certa santificazione o benedizione di vino non consacrato per l’immistione di una particola di pane consacrato (rito che si ritrova il venerdì santo nella messa tridentina dei presantificati, purtroppo sacrificato nel 1955); si praticava infatti fino al VII secolo e fino al XII secolo, un rito di santificazione del vino, questa volta mescolando del Preziosissimo sangue, ad confirmandum populum.

All’epoca delle prime grandi sintesi dogmatiche, l’abbandono della comunione al calice che, sul modello della comunione sulla mano scomparsa precedentemente, non era avvenuto senza generare incidenti, pose fine al rito di santificazione del vino tramite l’aggiunta di preziosissimo sangue. Ma questo stesso rito, non costituiva già una restrizione? Come perlatro era percepito:comunione eucaristica o rito di purificazione? Qualsiasi cosa fosse, nel XIII secolo si va generalizzando l’uso dell’ablutio oris, ossia la purificazione della bocca col vino. Il principio di prendere un po’ d’acqua, di vino o di altri alimenti dopo la comunione eucaristica, costituisce una tradizione molto antica, segnalata tra gli altri, in occidente da san Benedetto, e da san Giovanni crisostomo in oriente. Si credeva infatti che una particella di pane consacrato (che non era ancora azzimo) o qualche goccia di preziosissimo sangue, sfuggissero dalla bocca tramite la saliva.
 
L’uso scemerà dopo l’adozione del pane azimo e l’abolizione della comunione al calice. Un decreto di Innocenzo III, obbligherà i preti all’abluzione della bocca con il vino. Questa abluzione fu compiuta generalmente da tutti i comunicandi, ai quali si presentava una coppa di vino. Certamente questa pratica si confuse col modo di comunione al calice col vino mescolato al sangue, poiché tale nuova forma gli succedè praticamente. Quando si smise di distribuire la comunione al calice, scrive il padre Lebrun, si credette di dover offrire del vino ai fedeli, poiché potevano aver bisogno di qualcosa di liquido per assumere completamente la santa ostia, che poteva attaccarsi ai denti e al palato.

Si vede ancora alla messa papale il diacono e il suddiacono prendere l’abluzione nel calice da cui si sono comunicati, mentre il papa si purifica la bocca col vino versato nel secondo calice. Questa abluzione o purificazione della bocca dei comunicanti non è affatto una particolarità della messa papale.

Essa è genericamente citata al capitolo degli usi rari del Ritus servandus del messale di san Pio V, caduta in desuetudine. Tuttavia Jungmann cita diversi esempi recenti di tale pratica. Poiché il messale la descrive: fuori dall’altare, il ministro tiene nella mano destra un calice di vino con l’acqua, ed un panno bianco nella mano sinistra; presenta la purificazione alle labbra di colui che si è comunicato, e il panno per asciugare. Il pontificale romano del 1595 la menziona espressamente per le sacre ordinazioni, non solo per i neosacerdoti, ma per tutti gli ordinati. Il cerimoniale dei vescovi la descrive per la comunione del clero e del popolo.


Non si purificherà solo la bocca, ma tutto ciò che è entrato in contatto con le sacre specie: dita e calice. il papa si purificherà le dita con del vino ad una coppa d’oro. Non berrà questa abluzione. si siederà, riceverà la mitria, si laverà le mani secondo il cerimoniale minuziosamente descritto, e tornerà all’altare per il postcommunio e la benedizione. Il cardinale vescovo assistente pubblica subito la formula d’indulgenza, poi, il cardinale diacono ministrante ritira il pallio al pontefice. Così parato dei sacri paramenti, il papa fa il suo ritorno al suo palazzo.



Oltre alcuni simboli d’onore ed altri usi arcaici seconari è la comunione ad sedem eminentem che costituisce una notevole differenza con la messa pontificale. Non sono mancate le spiegazioni. Già l’ordo Romanus sottolineava di come il papa compiva la frazione al trono. Innocenzo III spiegò dicendo “Christus in Emmaus coram duobus fregit, et in jerusalem coram decem apostolis manducavit”.


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.987
Sesso: Femminile
02/09/2009 10:58
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

Il cardinale Castrillón ha celebrato una Messa tridentina a Roma in Santa Maria Maggiore e ha detto: “Il rito di San Pio V non si può considerare estinto”. Le parole che hanno commosso di più "i tradizionalisti"?

Quelle che il Papa ha inviato loro
Attraverso il cardinale Segretario di Stato (nel 2003), Angelo Sodano il Papa gli ha detto: “Sua Santità, riconoscente per il filiale gesto, si unisce spiritualmente al devoto omaggio a Maria Santissima.”. E sono parole destinate a pesare, perché rivolte ai cosiddetti “tradizionalisti”, quei cattolici rimasti affezionati all'antica Messa tridentina in vigore fino al Concilio. Papa Wojtyla ha dunque manifestato loro “riconoscenza” e vicinanza.

Giovanni Paolo II, per venire incontro alla loro sensibilità ed evitare fughe verso i gruppi dei seguaci di Lefebvre (il prelato ribelle che non volle accettare le riforme del Vaticano II e nel 1988 consacrando quattro nuovi vescovi senza il consenso della Santa Sede creò, di fatto, un piccolo scisma), già da molti anni ha concesso ai tradizionalisti di poter avere - previo consenso del vescovo diocesano - la Messa old style. Accade molto spesso, però, che i vescovi, sia in Italia che all'estero, dicano di no. Ecco perché il cardinale Darío Castrillón Hoyos, Prefetto della Congregazione del clero e Presidente della Pontificia commissione “Ecclesia Dei”, il pomeriggio di sabato 24 maggio ha presieduto la preghiera del Rosario e quindi celebrato una Messa solenne secondo il rito preconciliare nella Basilica romana di Santa Maria Maggiore. Alla presenza di una folta assemblea di fedeli tradizionalisti, circa un migliaio di persone provenienti da tutta Italia e anche da altri Paesi.

All'origine del gesto c'era la volontà di questi gruppi di manifestare il loro attaccamento e la loro fedeltà al Papa. Ma è indubitabile che l'evento rappresenta un segnale preciso. La volontà del Papa e della Santa Sede di accogliere questo popolo variegato di fedeli. La volontà di spiegare che il rito di San Pio V - l'unico Papa proclamato santo nell'epoca moderna insieme a Pio X e il cui corpo riposa proprio nella Basilica - non è mai stato formalmente abolito.

La riforma liturgica lo ha sensibilmente cambiato e adattato. Ha abolito il latino dalla celebrazione quotidiana, ha rivolto l'altare verso il popolo. Ma la sua antica versione, rimasta in vigore dalla Controriforma fino a trentaquattro anni fa, accompagnata dagli stupendi canti gregoriani o polifonici, ha ancora piena cittadinanza nella Chiesa cattolica, così come ce l'hanno i tanti riti particolari, come il siro-malabarese, il mozarabico, il greco-cattolico, etc.
Proprio su questo tasto ha insistito nell'omelia il cardinale Castrillón Hoyos:
“Il rito cosiddetto di San Pio V non si può considerare come estinto ...
L'antico rito romano conserva nella Chiesa il suo diritto di cittadinanza, nella multiformità dei riti cattolici, sia latini che orientali”. E le sue parole, seppure rivolte a quei tradizionalisti rimasti nella comunione con il Papa, sono destinate ad avere una eco ancora più lontana: sono infatti indirizzate anche ai “lefebvriani”, a quanti sono di fatto usciti dalla disciplina della Chiesa e hanno disobbedito al Papa. Giovanni Paolo II vuole sanare questa ferita, l'unico scisma del suo pontificato, ed è pronto a riaccogliere i transfughi. Concedendo loro l'uso perpetuo dell'antico messale: la pluralità di voci, di riti, di tradizioni e di sensibilità è infatti sempre stata una ricchezza nella Chiesa cattolica.......

Per dimostrare che al di là della Riforma spesse volte ABUSATA, una restaurazione è possibile, ed è già stata tentata  è sufficiente mostrare la foto di Giovanni Paolo II, in abiti pontificali TRADIZIONALI. Questa foto permette anche di capire come si veste propriamente un papa, nel celebrare la Messa.

Giovanni Paolo II


E qui  vediamo Joseph Ratzinger in veste di vescovo con abiti tradizionali:

Ratzinger



e qui....Sua Eccellenza Monsignor Stanislao Dziwisz, Arcivescovo di Cracovia (segretario di Giovanni paolo II), celebra una Messa da requiem (in Rito Tridentino adattato alla Riforma Liturgica del 1970).

Messa

Per ulteriori approfondimenti cliccare qui:
Cosa veste il Papa per la Liturgia?



[Modificato da Caterina63 02/09/2009 10:59]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.987
Sesso: Femminile
08/09/2009 09:44
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

ARTE E LITURGIA
Oggetti eucaristici non più in uso

di MICAELA SORANZO  Agosto 2005 da Vita Pastorale
   
 
    Forse saranno curiosità del passato, ma gli oggetti liturgici fuori serie segnano anche il divenire storico della liturgia.
   
«La Chiesa, maestra di vita, non può non assumersi anche il ministero di aiutare l’uomo contemporaneo a ritrovare lo stupore religioso dal fascino della bellezza e della sapienza che si sprigiona da quanto ci ha consegnato la storia» (Giovanni Paolo II, 1997).
È questo forse il motivo per cui, dopo aver esaminato e riflettuto sull’evoluzione storica e il significato simbolico degli oggetti liturgici attualmente in uso nelle nostre celebrazioni, si vuole proporre una lettura di alcune suppellettili sacre, che nel corso dei secoli sono diventate obsolete e che arricchiscono il patrimonio di molti musei ecclesiastici. Proprio perché questi musei, continua Giovanni Paolo II, «non sono depositi di reperti inanimati, ma perenni vivai, nei quali si tramandano nel tempo il genio e la spiritualità della comunità dei credenti», è necessario scoprire e rivivere la testimonianza della fede delle passate generazioni.

Fra gli oggetti liturgici più importanti, e sicuramente più interessanti, vi è la colomba eucaristica, recipiente ornitomorfo di moderate dimensioni, usato per conservare le ostie consacrate e generalmente collocato sopra l’altare, pendente dalla volta del ciborio. In alcuni casi era posta anche dentro una specie di tabernacolo detto "colombario" ed era coperta da un velo. Sul dorso presenta una cavità, chiusa da un coperchietto, in cui era inserita la teca con le ostie; se invece si trovava nel battistero racchiudeva il sacro crisma. Le prime notizie risalgono al IV secolo; infatti la colomba eucaristica è citata nel Liber Pontificalis di papa Silvestro come arredo dell’altare, ma è probabile che avesse solo funzione decorativa. Solo a partire dal IX secolo si ha testimonianza esplicita dell’uso eucaristico prima in Francia e poi, dal secolo XII, anche in Italia e in Inghilterra. Cadde in disuso in seguito alle prescrizioni che imponevano di conservare le ostie consacrate in luoghi chiusi, ma in Francia questi vasi vennero ancora prodotti, anche se raramente, fino al ‘700.




Colomba eucaristica, XII-XIII secolo
 (MUSEO DEL DUOMO DI FIDENZA).


Vi sono due oggetti strettamente legati all’eucaristia che, pur essendo oggi sconosciuti alla maggior parte dei fedeli, erano ampiamente citati fra le diverse possibilità di comunione sotto le due specie e ora, anche se marginalmente, sono comunque menzionati dai Praenotanda al Messale romano del 2004 (PNMR 245): si tratta del cucchiaio eucaristico e della cannuccia o fistola. Da principio il cucchiaio era un utensile complementare al calice per versare alcune gocce d’acqua nel vino da consacrare, ma in Italia ebbe scarsa diffusione, preferendosi le ampolline. Il rito latino praticò raramente la distribuzione eucaristica con il cucchiaio, anche se sono stati rinvenuti alcuni esemplari anteriori al Mille sia in argento che in osso, con incisioni e ornamenti. La forma è analoga a quella dei cucchiai profani, con l’aggiunta di qualche elemento decorativo simbolico, come il monogramma cristologico, il pesce o la croce. Con la cannuccia d’argento o d’oro anticamente ci si comunicava con il sangue di Gesù. Infatti, quando l’eucaristia veniva distribuita sotto le due specie, il sacerdote, dopo aver preso il pane consacrato, sorbiva il vino mediante una cannuccia metallica, tenuta con due dita; poi la passava al diacono e al suddiacono, che facevano comunicare i fedeli. Il suo uso risale almeno a Gregorio Magno (VI secolo) e la diffusione fu molto ampia, ma sparì dopo il concilio di Costanza del 1415 col decadere della comunione sotto le due specie. Oggi gli esemplari sono molto rari.

Dai nuovi Praenotanda è scomparso anche il piattino da tenere sotto il mento mentre si riceve l’eucaristia. Anticamente era nato per impedire che qualche frammento consacrato cadesse a terra e anzi nell’XI secolo a Liegi, ma anche in altre zone, alcuni chierici tendevano una tovaglia inter sacerdotem et communicantem extensam. Legato sempre al sacramento eucaristico vi era l’uso del forcipes o pinze per prendere la particola dalla patena. Si tratta di uno strumento di eccezionale rarità, certamente utilizzato nella liturgia papale, data la quantità di citazioni riscontrabili negli inventari del periodo avignonese, ma comunque riservato alle solennità o agli alti prelati. A Roma le pinze liturgiche sono ricordate nell’Ordo del vescovo Pietro Amelio, nella seconda metà del XIV secolo, che conferma l’uso papale di trasferire le ostie consacrate dal calice alla pisside mediante le pinze d’oro e precisa che è stato introdotto per rispetto verso le sacre specie e per non toccarle direttamente. Probabilmente era anche strumento per dare la comunione ai lebbrosi.

Vi è poi il coltello eucaristico per tagliare il pane e separare i frammenti da consacrare: questa cerimonia era accompagnata da preghiere alludenti al sacrificio di Cristo, con riferimento ad alcuni testi patristici; era a forma di piccola lancia con manico cruciforme, ma venne abbandonato quasi subito. Allo stesso modo è scomparso ben presto dalla liturgia il colatorium o colum vinarium, cioè il passino che serviva alla purificazione del vino prima dell’eucaristia. Era un cucchiaio forato attraverso il quale si versava nel calice il vino da consacrare offerto dai fedeli, in modo che non vi si depositassero delle impurità. Questo utensile, documentato già nel V secolo (tesoro di Canoscio), col cessare dell’offerta del vino perse anche la sua utilità, ma rimase in uso, seppure sporadicamente, fino al XVIII secolo.

Sempre legata all’eucaristia è la pace, detta anche osculum pacis o tabella pacis, una tavoletta eucaristica che veniva baciata dal sacerdote celebrante e dai fedeli prima della comunione. Entrò in uso in Inghilterra nel XIII secolo in sostituzione del bacio o abbraccio di pace al momento dell’Agnus Dei, ma poi si diffuse in tutto il mondo cristiano tra il XIV e il XVI secolo. Solitamente era di forma rettangolare, con una piccola base e un manico sul lato posteriore e dentro la cornice c’era un’immagine sacra a rilievo o dipinta. Le paci potevano essere in oro, argento, bronzo, avorio o vetro e quelle tardogotiche erano spesso ornate con pietre dure, cammei e smalti. L’iconografia si orientava sul tema della passione, ma anche sulle feste liturgiche o sui santi patroni e nel Rinascimento grandi artisti si dedicarono alla loro realizzazione; vi fu una ripresa artistica anche nel Neoclassicismo e nel XIX secolo, ma già a partire dalla metà del ‘700 il suo uso cominciava gradualmente a decadere.




Mentre per alcune suppellettili il simbolismo investe la configurazione stessa dell’oggetto come, ad esempio, la colomba, in altri casi si tratta di oggetti che entrano solo marginalmente nella liturgia e non hanno relazione iconografica o evocativa rispetto alla loro funzione.

Un oggetto, nato in un particolare contesto storico, ma che è stato usato fino a pochi anni fa (PNMR 150 ne fa solo un accenno), è il campanello. Alla fine del XIII secolo il momento della consacrazione e dell’elevazione era diventato il punto culminante di tutte le devozioni durante la celebrazione. Il desiderio di vedere l’ostia, infatti, portava i fedeli ad attendere con ansia il momento dell’elevazione per contemplare il corpo del Signore. Al suono della "campana dell’elevazione", chi era lontano piegava le ginocchia in adorazione, chi era vicino interrompeva le sue occupazioni per correre in chiesa a fissare l’ostia santa. La prima prescrizione di suonare una campana della torre quando Corpus Christi elevatur risale al 1203, ma nel 1240 già si parla di una campanella ut per hoc devotio excitetur. Per analogia più tardi ci fu anche l’elevazione del calice e divenne di uso comune suonare il campanello durante la messa al Sanctus e all’elevazione, in segno di onore, ma, dal XVII secolo in poi, soprattutto per attirare l’attenzione dei fedeli, che immersi nelle loro devozioni, potevano così capire "a che punto si era".

Come materia e forma non differisce da analoghi strumenti profani, se non per eventuali motivi decorativi sacri o simbolici. In sostituzione del campanello, durante la Settimana santa, si usavano dei sonagli in legno che, secondo le prescrizioni di san Carlo Borromeo, dovevano essere delle tavolette di noce o quercia con un’impugnatura munita di lamina di ferro e dalle parti quattro o cinque lamine di bronzo o ferro o altrettante sfere di legno appese a una funicella, per risuonare alla percussione.




Campanello, Bartolomeo da Imola,1549.

Per leggere il messale o impartire la benedizione nei riti solenni, il vescovo o il celebrante avevano diritto alla palmatoria o bugia, basso candeliere sopra un piattello con piccolo manico ad anello per infilare il pollice, che veniva tenuto sul palmo della mano. Oltre che per facilitare la lettura, era anche un segno onorifico per cardinali, vescovi e alti prelati. Se non poggiava sull’altare veniva sostenuto da un chierico alla sinistra del celebrante, detto minister bugiarius o de candela e assistito dall’"accolito del libro". Generalmente realizzato con metalli nobili, l’oggetto non è ricordato da nessun liturgista prima del XIV secolo ed entra in uso durante il periodo avignonese, come testimonia il termine "bugia", derivato dall’omonima città algerina, che era il più importante centro di cererie del Medioevo.

Sempre legato alla mensa eucaristica, anche se con una funzione piuttosto "pratica", è il flabello o muscarium, strumento per allontanare gli insetti dalle sacre specie o per rinfrescare il celebrante durante il rito eucaristico. Risalente al periodo apostolico, fu usato soprattutto nel rito orientale e poi introdotto nella liturgia latina. Il flabello presenta due diverse tipologie a seconda delle funzioni pratiche o decorative attribuitegli. Il primo tipo, documentato fin dal VI secolo, e usato in alcuni luoghi fino al XVI secolo, era formato da un manico che sorreggeva un disco circolare o semicircolare in stoffa, carta pieghettata o pergamena, piume. La sua funzione è facilmente deducibile dalla scritta che appare su un flabello del IX secolo, proveniente dall’abbazia di Tournus: Sunt duo quae modicum confert aestate flabellum: infestas abigit muscas et mitigat aestum. Flabelli tondi, con fregi dorati, anche a rilievo, o con armatura in avorio si trovano, invece, ad Aquileia, ma, decaduta la comunione sotto le due specie, il flabello perse la sua utilità pratica e mantenne solo quella decorativa. Il secondo tipo aveva una forma simile, ma era in argento, ornato da smalti, perle o gemme e accompagnava l’entrata del celebrante. Da quest’ultimo sono derivati poi gli imponenti ventagli in piume di struzzo usati nel corteo papale.




Dal parasole, un tempo impiegato per gli spostamenti papali o di alti prelati, ha tratto origine, invece, l’ombrello liturgico, in seta o in panno intessuto d’argento, per coprire il sacerdote che teneva l’eucaristia nelle processioni più solenni in segno di riverenza. Dalla processione l’uso si estese anche al trasporto dell’eucarestia all’interno della chiesa, mentre un terzo ombrello, rotondo e di piccole dimensioni, serviva a portare il Santissimo Sacramento attraverso sentieri e stretti passaggi. Non differiva dagli ombrelli comuni se non per i colori: bianco o rosso (nel rito ambrosiano) nelle processioni eucaristiche e per il Papa, rosso o viola per i cardinali, viola e verde per i vescovi e celeste per alcuni dignitari della corte pontificia.

Fra gli oggetti liturgici più curiosi vi è indubbiamente il pomo scaldamani, dove solo la decorazione distingue gli esemplari profani dagli scaldini usati dai sacerdoti per stiepidirsi le mani durante le funzioni religiose. Era una sfera di metallo traforata contenente la brace o un ferro rovente. Molto comune nel Medioevo, è spesso citata fino al XVII secolo, quando cadde in disuso dopo la consuetudine di scaldare le chiese. Molto rari in Italia sono gli esemplari di sicura destinazione liturgica (tesoro di San Pietro).



Flabello, 1170-80, Stift Kremsmünster, Austria.


Durante il Medioevo, inoltre, il vescovo o il sacerdote, prima di avviarsi all’altare diceva una particolare orazione e si ravviava i capelli con un apposito pettine liturgico, mentre il diacono copriva loro le spalle con una mantelletta, detta pectinarium, perché non se le sporcassero. Il pettine poteva essere di legno, d’avorio o di osso, e si distingueva da quello profano per la decorazione della costola centrale, raffigurante scene bibliche o simboli cristiani. L’uso del pettine liturgico risale al V secolo (tesoro della cattedrale di Sens) ed è spesso ricordato negli inventari delle chiese, tanto che se ne conservano numerosi esemplari nei musei.

Ed è proprio sui musei che questo breve excursus su alcuni fra i molti oggetti legati alla celebrazione eucaristica nel corso dei secoli vuol ritornare a riflettere, poiché questi oggetti sono «segno del divenire storico, dei cambiamenti culturali [...]. In coerenza con la logica dell’incarnazione, rappresentano una "reliquia" del precedente vissuto ecclesiale, ordinata all’odierno sviluppo dell’opera di inculturazione della fede. Narrano la storia della comunità cristiana attraverso ciò che testimoniano le diverse ritualizzazioni, le molteplici forme di pietà, le specifiche situazioni ambientali» (Lettera circolare La funzione pastorale dei musei ecclesiastici della Pontificia commissione per i beni culturali della Chiesa, 2001).

Micaela Soranzo



Ulteriori approfondimenti di oggetti per uso liturgico li trovate qui:

Cosa veste il Papa per la Liturgia?

La riforma liturgica, "benvenuta e necessaria", ha però un "lato oscuro"

Il Triregno (la Tiara) in uso ai Pontefici: non si usa più ma non è abolito il simbolo

Le Pale d'Altare cosa sono? Cornici Sacre per parlare di Dio...riscopriamole

Benedetto XVI spiega le parole e il senso profondo del Canone Romano

La centralità del Crocifisso nella celebrazione liturgica

Benedetto XVI e la Liturgia: monumentale relazione del prof. Davide Ventura (Zenit)

Joseph Ratzinger: La Teologia della Liturgia

Luoghi di culto: basta con le devastazioni e i personalismi

Che cosa è il PALLIO ?

Che cosa è il FALDISTORIO? A che cosa serve?




Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.987
Sesso: Femminile
16/09/2009 14:00
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

Dall'amico Daniele di Rinascimento Sacro ed Oriensforum:


Interessantissimo filmato di una rete televisiva francese che, ammessa par privilège exceptionnel nella Cappella Sistina, mostra la suggestiva cerimonia della consegna dei rami svoltasi la domenica delle Palme (23 marzo) del 1967.

Privilegio che a posteriori appare non eccezionale, ma eccezionalissimo, poiché documenta una "ultima volta". Nel 1967, infatti, il rito della consegna dei rami si svolse, salvo qualche piccola variazione (i cerimonieri usano un rocchetto senza pizzo e senza pieghettatura e non vi sovrappongono la cotta; il Papa porta la ferula; manca il baldacchino sull'altare e sul trono), secondo il secolare cerimoniale della corte papale. L'anno dopo, con la riforma delle vesti prelatizie e della famiglia pontificia, tutto sarebbe radicalmente cambiato.

http://www.ina.fr/economie-et-societe/vie-sociale/video/I04154742/ceremonie-des-rameaux-a-rome.fr.html

Ecco la descrizione della cerimonia fatta dal Caeremoniale Apostolicum di Agostino Patrizi (ed. Catalani, tom. II, Romae, 1751).

Sexta dominica Quadragesimae, quae Palmarum appellatur, ordinentur palmae in capella benedicendae et distribuendae, videlicet duo magnae variis floribus et perpulchre elaboratae, tertia parva simili modo ornata et laborata pro Pontifice; aliae palmae primis duabus minores etiam pulchrae elaboratae, sine floribus tamen, pro Cardinalibus; minores pro Praelatis et pro oratoribus et magnis nobilibus, pro officialibus ac aliis omnibus ad capellam venientibus. Deficientibus palmis, parantur rami olivarum in numero copioso, crucibus ex foliis palmarum confectis singulis alligatis. Item credentiarii Papae ordinent super angulo altaris capellae, ubi benedictio palmarum fieri debet, duo vasa convenientia pro lavandis manibus Papae cum mantili et gremiali ac medulla panis. Clerici Capellae praeparent thuribulum cum navicella, cocleari, incenso, vas aquae benedictae cum aspersorio et duo candelabra cum luminaribus. Paretur etiam per forerios ad ostium capellae baldachinum.

Hora deinde convenienti Pontifex, paratus amictu, alba, cingulo, stola violacea, pluviali rubro et mitra simplici, praecedentibus cruce ac Cardinalibus et aliis more solito, venit ad capellam, ubi palmae sunt benedicendae. Facta oratione ante altare, ascendit ad solium sedetque. Tunc Cardinales veniunt ad reverentiam cum cappis; deinde capiunt paramenta sua violacea, ut supra in candelis et cineribus diximus, et similiter omnes Praelati et officiales.

Omnibus paratis, Papa, deposita mitra, surgit et, ministrantibus duobus Episcopis assistentibus librum et candelam more solito, Papa stans benedicit palmas, incipiens versum Dominus vobiscum. Oremus. Auge fidem in te sperantium, Deus, etc., cum praefatione et quinque orationibus sequentibus. Interim nihil cantatur. Cum quinta oratio dicitur, prior Presbyterorum Cardinalium venit ad dexteram Papae, et duo acolythi, unus cum thuribulo et navicella, et alius cum aspersorio et vase aquae benedictae. Finitis orationibus, ministrante priore praedicto, Papa adhuc stans sine mitria, imponit incensum, deinde aspergit versus palmas tertio, postea incensat, ter ducens thuribulum; tum dicit Dominus vobiscum et aliam orationem, quae incipit Deus, qui Filium tuum, etc. Tum sedens accipit mitram, et Presbyter Cardinalis ac acolythi ad sua loca revertuntur.

Accedit deinde  prior Episcoporum Cardinalium; stans detecto capite ante Pontificem, illi dat duas magnas palmas, quas Pontifex dat duobus nobilioribus Curiae tenendas et deferendas, qui iuxta Pontificem hinc et inde collocantur. Deinde dat eidem tertiam minorem, qua Pontifex in officio utitur; et hanc unus ex Cubiculariis secretis servat; et ad unumquamque palmam ipse prius osculatur palmam et manum Pontificis. Incoepta distributione palmarum, cantores dicunt antiphona Pueri Hebraeorum, prout in Ordinario. Palmas ministrant Clerici Camerae Camerario, vel eius Vicecamerario, qui eas det Diacono Cardinali ad illam Papae manum assistenti, ad quam positae sunt palmae; et duo Auditores accedunt, quorum dignior mappulam pro gremio Pontificis, quam a credentiariis Papae accipit, Cardinalibus assistentibus porrigit, qui eam gremio Pontificis superponant. Auditores vero illam hinc et inde genuflexi tenent usque ad finem distributionis.

Tunc Pontifex priori Episcoporum Cardinalium dat palmam, qui, eam devote suscipiens, eius manum, deinde genu dextrum, osculatur. Idem faciunt successive omnes Cardinales. Postmodum Praelati omnes parati et omnes alii pro palmis veniunt; Praelati parati genuflexi, postquam palmas receperint, dextrum genu tantum, alii vero omnes pedem Papae osculantur. Vicecancellario, maiori Paenitentiario et Camerario Sanctae Romanae Ecclesiae Cardinalibus dantur duae palmae pro quolibet.

Celebrans [della Messa che segue la processione delle palme e che ordinariamente non viene celebrata dal Papa], recepta palma sua, vadit ad faldistorium prope altare, ubi, deposito paramento, accipit cappam, sedensque dicit psalmum Quam dilecta etc., capit sandalia et paratur more consueto. Si Missa in illa capella dicenda erit, in qua palmae sunt benedictae, poterit etiam prius accipere sandalia et alia paramenta, et cum habitu ordini suo congruo ire pro palma, et deinde redire ad faldisorium. Si vero in alio loco benedicuntur palmae, celebraturus, accepta palma, redit ad locum suum, ubi, deponens paramenta, accipit cappam, et vadit ad capellam vel ecclesiam, ubi rem divinam est peracturus, ibidem paramenta recipit. Ministri utuntur planetis ante pectus plicatis.

Finita distributione, Pontifex lavat manus ordine consueto, deferente aquam nobiliore laico et ministrante Episcopo Cardinali primo. Tum, deposita mitra, surgit; accedunt ad Pontificem assistentes cum libro et candela ac duo acolythi cum candelabris, et Papa stans dicit: Dominus vobiscum. Oremus. Omnipotens sempiterne Deus, prout in Ordinario. Interim ordinatur processio, et octo nobiles qui baldachinum super Pontificem portent.




Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.987
Sesso: Femminile
16/09/2009 22:33
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

Come si vede, il rito papale della benedizione delle palme non comprende le prolisse cerimonie che invece caratterizzavano il rito previsto dal Messale romano fino alla riforma della Settimana Santa del 1955. In entrambi la cerimonia di benedizione vera e propria è costituita da un'orazione introduttiva, da un prefazio e da cinque orazioni di benedizione. L'utilizzo del prefazio in un contesto del genere non deve stupire. Lo si ritrova in quasi tutti i formulari di benedizione solenne o di consacrazione riportati dal Pontificale Romanum. Soltanto nel rito di benedizione delle palme, tuttavia, esso è seguito, come alla Messa, dal Sanctus.

La spiegazione di questo fenomeno va cercata nel fatto che le cerimonie che nel Messale romano precedono la benedizione delle palme corrispondono quasi esattamente alla parte didattica della Messa. Esse infatti comprendono un'antifona, assimilabile all'Introito (anche se manca del versetto salmodico e non viene ripetuta), un'orazione, un'Epistola (Es. 15, 27; 16, 1-7), due graduali a scelta (la rubrica specifica: "deinde canitur pro graduali") e un Vangelo (Mt. 21, 1-9) con le cerimonie che lo precedono. Poiché l'orazione introduttiva della benedizione delle palme tiene, come posizione, il posto dell'Offertorio, dovette apparire naturale far seguire il prefazio dal Sanctus, il cui testo peraltro offre un esplicito richiamo (Mt. 21, 9) all'entrata trionfale di Gesù in Gerusalemme commemorata dalla liturgia del giorno. Si trattava, in poche parole, di una Missa sicca, ossia di una funzione che prevedeva la recita di certe preghiere della Messa senza però offertorio, né consacrazione, né comunione. Nel Medioevo la Missa sicca era molto usata come forma di devozione e lo era ancora, prima della riforma liturgica, presso i Certosini. Pare che l'inquadramento della benedizione delle palme in una funzione di questo genere sia di origine gallicana.

È probabile dunque che il cerimoniale della cappella papale rifletta un uso romano più antico, anteriore alle influenze d'oltralpe, o che, nel mutuare il rito della benedizione delle palme dalla liturgia gallicana, ne abbia eliminato gli elementi più ridondanti. All'essenzialità del rito descritto nel Caeremoniale Apostolicum deve essersi ispirata la riforma della funzione delle palme promulgata nel 1955, che però ha soppresso l'orazione introduttiva, il prefazio col Sanctus e quattro delle cinque orazioni di benedizione, mentre della Missa sicca ha conservato l'antifona di apertura e il canto del Vangelo.

È da notare che il rito papale non fa menzione del canto del Sanctus prescritto dal Messale romano dopo il prefazio. Il commentario del Catalani al Caeremoniale Apostolicum non ci fornisce ulteriori informazioni su questo punto, ma poiché dà per scontato che nel rito del Messale romano il prefazio fosse seguito dal Sanctus ("Porro iuxta ordinem Missalis romani, finita praefatione quae incipit Qui gloriaris in consilio Sanctorum tuorum, etc., et dictis aliis quinque orationibus..." p. 144), e poiché le parole finali di tale prefazio ("hymnum gloriae tuae concinunt, sine fine dicentes") richiedono di essere seguite dal Sanctus, è certo che questo doveva aver luogo anche nel rito papale, nonostante il Caeremoniale Apostolicum non ne faccia esplicita menzione.

Se confrontiamo il filmato del 1967 col rito descritto nel Caeremoniale Apostolicum, notiamo alcune importanti divergenze che vanno oltre le piccole variazioni rilevate all'inizio di questo contributo.

La più vistosa consiste nel fatto che il Papa non benedice la palme all'inizio della funzione, ma, dopo il suo ingresso nella cappella, si limita a distribuirle. Tale prassi corrisponde ad un uso della curia romana più antico di quello riportato dal Caeremoniale Apostolicum. Catalani, infatti, nel suo commentario, cita diversi Ordines romani, i quali riferiscono che la benedizione delle palme veniva ordinariamente compiuta da un Cardinale Prete, mentre il Papa provvedeva successivamente a distribuirle. In particolare l'Ordo Romanus XV, risalente al XIV secolo e quindi non molto anteriore alla redazione del Caeremoniale Apostolicum, così descrive la funzione delle palme nella curia pontificia: "Illa die non fit sermo, quia die illa, secundum dominum Iacobum Gaietani [autore dell'Ordo Romanus XIV], iunior Presbyter Cardinalis debet benedicere palmas olivarum et aliarum arborum ramos, indutus prout in die Cinerum, cum aqua benedicta et incenso; quibus benedictis, deponit paramenta, si celebrare non debet. Et Dominus Papa bono mane celebrat Missam suam in capella sua secreta, qua dicta, indutus pluviali rubeo sine perlis et mitra simplici alba de garnello sine aurifrisiis et perlis, intrat capellam vel locum in quo debent distribuit palmae, ubi debet esse cathedra cum scaello parata, et ibi sedet". A questa forma più antica del rito papale, che affida a un Cardinale la benedizione e al Papa la distribuzione delle palme, si è attenuto Paolo VI nella funzione del 23 marzo 1967.

Altra variazione di non poco conto è che i Cardinali non sono parati, non indossano cioè i paramenti distintivi di ciascun ordine cardinalizio (piviale per i Cardinali Vescovi, pianeta per i Cardinali Preti, dalmatica per i Cardinali Diaconi), ma portano la cappa magna. Tale modifica è analoga a quella introdotta nel rito pontificale in seguito alla riforma della Settimana Santa del 1955. Fino ad allora, infatti, ai canonici che assistevano alla benedizione e alla distribuzione delle Palme da parte del proprio Vescovo era prescritto di indossare i paramenti ("Episcopus... capiet paramenta, et pariter Canonici". Caeremoniale Episcoporum, II, XXI, 4). Dopo la riforma, invece, i paramenti furono rimpiazzati dall'abito corale ("Unusquisque suis choralibus vestimentis induitur". Ritus pontificalis Ordinis Hebdomadae sanctae instaurati, Dom. II Passionis seu in Palmis, cap. I, n. 5). Questo spiega perché nel filmato i Cardinali, contrariamente alla prescrizione del Caeremoniale Apostolicum, assistano alla funzione non coi paramenti, ma con l'abito corale, che nelle cappelle papali comprende sempre la cappa magna.

Sempre alla riforma della Settimana santa della seconda metà degli anni Cinquanta si devono altre due modifiche: al termine della distribuzione delle palme il Papa indossa, al posto della mitra semplice, la mitra preziosa, prescritta dal nuovo rito pontificale per la processione ("Episcopus, ad processionem, utitur mitra pretiosa". Ritus pontificalis, Dom. II Passionis seu in Palmis, cap. I, n. 2); inoltre, se il filmato fosse a colori, si noterebbe che la stola violacea è stata rimpiazzata dalla stola rossa, poiché, in seguito alla riforma, la funzione delle palme doveva essere celebrata in paramenti rossi ("Color paramentorum est rubeus". Ibid.)

« Ultima modifica: Oggi alle 07:56:17 pm da Daniele »


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.987
Sesso: Femminile
02/04/2010 12:20
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

La riforma della Settimana Santa negli anni Cinquanta

Sepolcro a Taggia

Disputationes Theologicae ha pubblicato un magnifico e documentato saggio di don Stefano Carusi sulla riforma della Settimana Santa ai tempi del pontificato di Pio XII. E' uno studio da leggere, assaporare e studiare, per apprendere, nella comparazione tra l'antico e il nuovo (divenuto presto anch'esso obsoleto: le riforme postconciliari erano alle porte), il senso di moltissimi gesti della liturgia di questa settimana. L'esteso articolo si apre con una sinistra citazione dalla costituzione apostolica Missale romanum del 1969 di Paolo VI:
“Si è sentita l'esigenza che le formule del Messale Romano fossero rivedute e arricchite. Primo passo di tale riforma è stata l'opera del Nostro Predecessore Pio XII con la riforma della Veglia Pasquale e del Rito della Settimana Santa, che costituì il primo passο dell'adattamento del Messale Romano alla mentalità contemporanea”
Queste parole gettano retrospettivamente una luce sfavorevole sulla riforma degli anni Cinquanta e le stesse conclusioni del breve saggio non sono encomiastiche per quell'intervento liturgico, che non si limitò ad un 'riaggiustamento' (forse opportuno) degli orari delle cerimonie (la veglia pasquale, come noto, era celebrata fino al 1951 la mattina del Sabato Santo). Il giudizio complessivamente negativo per quella riforma non tange peraltro la venerata figura di Pio XII, cui non si può certo imputare che il suo intervento sia stato un primo passo verso la devastazione liturgica che seguì, dato che solo noi posteri possiamo ricostruire, col senno di poi, quel tragico itinerario discendente. Ecco dunque le conclusioni dell'articolo:


In conclusione, come già affermato, i cambiamenti non si limitarono a questioni di orario, che legittimamente e sensatamente potevano essere modificati per il bene dei fedeli, ma stravolsero i riti secolari della Settimana Santa. Fin dalla Domenica delle Palme si inventa una ritualità verso il popolo e con le spalle alla croce e al Cristo dell’altare, il Giovedì Santo si fanno accedere i laici nel coro, nel rito del Venerdì Santo si riducono gli onori da rendere al Santissimo e si altera la venerazione della croce, nel Sabato Santo non solo si lascia libero sfogo alla fantasia riformatrice degli esperti, ma si demolisce la simbologia relativa al peccato originale e al Battesimo come porta d’accesso alla Chiesa.

In un’epoca che dice di voler riscoprire la Scrittura si riducono i passaggi letti in questi importantissimi giorni, e si tagliano proprio i passaggi evangelici relativi all’istituzione dell’eucaristia nei Vangeli di Matteo, Luca e Marco. Nella tradizione ogni volta che si leggeva in questi giorni l’istituzione dell’eucaristia essa era messa in rapporto con il racconto della Passione, ad indicare quanto l’Ultima cena fosse anticipazione della morte sulla croce dell’indomani, ad indicare quanto l’ultima cena avesse una natura sacrificale. Tre giorni erano consacrati alla lettura di questi passi, la Domenica delle Palme, martedì e mercoledì santo, grazie alla riforma l’istituzione dell’eucaristia scompare dall’intero ciclo liturgico!

Tutta la ratio di questa riforma appare permeata da un misto di razionalismo e archeologismo dai contorni a volte fantasiosi. Non si vuole affatto affermare che questo rito manchi della necessaria ortodossia, sia perché l’affermazione non consta, sia perché l’assistenza divina promessa da Cristo alla Chiesa anche in quelli che la teologia chiama “fatti dogmatici” (e fra essi riteniamo debba annoverarsi la promulgazione di una legge liturgica universale) impedisce l’espressione chiaramente eterodossa all’interno dei riti. A fronte di questa precisazione, non ci si può esimere tuttavia dal notare l’incongruenza e la stravaganza di alcuni riti della Settimana Santa riformata, nel contempo si reclama la possibilità e la liceità di una discussione teologica sull’argomento, nella ricerca della vera continuità dell’espressione liturgica della Tradizione.

Negare che l’ “Ordo Hebdomadae Sanctae Instauratus” sia il prodotto di un gruppo di sapienti accademici, cui purtroppo si accompagnarono avventati sperimentatori liturgici, è negare la realtà dei fatti; con il rispetto che dobbiamo all’autorità papale che promulgò questa riforma ci siamo permessi di avanzare le suddette critiche, poiché la natura sperimentale di queste innovazioni richiede che di esse si faccia un bilancio.

Secondo Padre Carlo Braga: questa riforma fu la “testa d’ariete” che scardinò la liturgia romana dei giorni più santi dell’anno, tanto stravolgimento ebbe notevoli ripercussioni su tutto lo spirito liturgico susseguente. In effetti segnò l’inizio di una deprecabile attitudine per cui in materia liturgica si poteva fare e disfare a piacimento degli esperti, si poteva sopprimere o reintrodurre sulla base di un’opinione storico-archeologica, salvo poi rendersi conto che gli storici si erano sbagliati (il caso più eclatante si rivelerà, mutatis mutandis, il tanto decantato “canone di Ippolito”).

La liturgia non è il giocattolo nelle mani del teologo o del simbolista più in voga, la liturgia trae la sua forza dalla Tradizione, dall’uso che la Chiesa infallibilmente ne ha fatto, da quei gesti che si sono ripetuti nei secoli, da una simbologia che non può esistere solo nelle menti di accademici originali, ma che risponda al senso comune del clero e del popolo, che per secoli ha pregato in quel modo. La nostra analisi è confermata dalla sintesi di Padre Braga, protagonista d’eccezione di quegli eventi: “ciò che non era possibile, psicologicamente e spiritualmente, al tempo di Pio V e Urbano VIII a causa della tradizione (e vorremmo sottolineare questo “a causa della tradizione” nda) della insufficiente formazione spirituale e teologica, della mancanza di conoscenza delle fonti liturgiche, era possibile al tempo di PIO XII”.

Pur condividendo l’analisi dei fatti, sia permesso obiettare che la Tradizione, lungi dal costituire un ostacolo alle opere di riforma liturgica, ne è il fondamento. Trattare con sufficienza l’epoca successiva al Concilio di Trento e definire San Pio V e i Papi che gli succedettero, uomini “dalla insufficiente formazione spirituale e teologica” è pretestuoso e pressoché eterodosso nel suo rifiuto dell’opera plurisecolare della Chiesa. Non è un mistero che questo fu il clima negli anni ’50 e ’60 durante le riforme. Sotto pretesto d’archeologismo si finisce per sostituire alla saggezza millenaria della Chiesa, il capriccio dell’arbitrio personale. Così facendo non si “riforma” la liturgia, ma la si “deforma”.

Sotto il pretesto di restaurare aspetti antichi, sui quali esistono studi scientifici di valore dubbio e altalenante, ci si sbarazza della tradizione e, dopo aver squarciato il tessuto liturgico, si fa un vistoso rammendo ricucendovi un reperto archeologico di improbabile autenticità. L’impossibilità di resuscitare nella loro integralità riti che, se esistiti, sono morti da secoli, fa sì che il resto dell’opera di “restauro” sia lasciato allo sfogo della libera fantasia degli “esperti”.

Il giudizio globale sulla riforma della Settimane Santa, ma non solo, in ragione del carattere di assemblaggio artefatto e di attuazione di intuizioni personali, mal raccordate con la tradizione, è complessivamente alquanto negativo, essa non costituisce certo un modello di riforma liturgica. Si è analizzato il caso della riforma del 1955-56, perché fu, secondo Annibale Bugnini, la prima occasione d’inaugurare un nuovo modo di concepire la liturgia.

I riti nati da questa riforma furono universalmente praticati nella Chiesa per pochissimi anni, in un susseguirsi continuo di riforme. Oggi quel modo artefatto di concepire la liturgia sta tramontando. Una vasta opera di riappropriazione delle ricchezze liturgiche del rito romano si fa strada. Lo sguardo deve andare immancabilmente a ciò che la Chiesa ha fatto per secoli, nella certezza che quei riti secolari beneficiano dell’ “unzione” dello Spirito Santo e in quanto tali costituiscono il modello insostituibile di ogni opera di riforma.

L’allora Cardinal Ratzinger ebbe a dire: “nel corso della sua storia la Chiesa non ha mai abolito o proibito forme ortodosse di liturgia, perché ciò sarebbe estraneo allo spirito stesso della Chiesa”, esse, specie se millenarie restano il faro per ogni opera di riforma.



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.987
Sesso: Femminile
08/04/2010 17:38
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

Continuità nella Chiesa  di padre Giovanni Scalese

Ho letto con grande interesse l’articolo di Stefano Carusi “La riforma della Settimana Santa negli anni 1951-1956”, pubblicato sul blog Disputationes theologicae. (riportato nel post precedente qui)

Si tratta di uno studio documentatissimo che illustra gli interventi operati sui riti della Settimana Santa negli anni Cinquanta, durante il pontificato di Pio XII. Dalla lettura dell’articolo ho imparato molte cose che non sapevo; ma non è questo il motivo per cui ne parlo. Ci sono altre due ragioni che mi spingono a trattarne.

La prima è che questo studio dimostra che avevo torto quando, nel mio articolo Concilio e “spirito del Concilio” (pubblicato nel primo post di questo blog), affermavo che tali “primizie” preconciliari della riforma liturgica erano sostanzialmente condivise da tutti. Don Carusi dimostra che non è affatto vero: già allora apparve evidente agli osservatori piú attenti che si trattava di interventi alquanto discutibili.

Il secondo motivo è che questo articolo conferma quanto ho sempre sostenuto: che cioè il Concilio in generale e la riforma liturgica in particolare non spuntano come un fungo: essi sono preceduti da un lungo lavoro di preparazione e sono il risultato di tutta una serie di “movimenti”, che affondano le loro radici nell’Ottocento e vedono la loro piena fioritura nel corso del Novecento. Perché ritengo questa una osservazione importante? Perché essa dimostra che esiste continuità nella Chiesa.

Purtroppo, come ho già avuto modo di rilevare, l’“ermeneutica della discontinuità” non è diffusa solo fra i progressisti, che considerano il Vaticano II come un “nuovo inizio” nella storia della Chiesa, ma tocca anche quei gruppi tradizionalisti, che lo considerano come l’origine di tutti i mali della Chiesa e pensano che prima del Concilio tutto andasse bene. Di errori ne sono stati fatti prima del Concilio, durante il Concilio e dopo il Concilio (come pure sia prima sia durante sia dopo il Vaticano II sono state fatte molte cose buone).

Che già prima del Concilio fosse assai diffusa nella Chiesa una mentalità, diciamo cosí, razionalistica, è un dato di fatto; e il post di Disputationes theologicae lo dimostra. Che lo stesso Pio XII si sia lasciato prendere un po’ la mano da questa corrente, non è una novità. Non so se ricordate, ma un anno fa avevo messo in luce un altro aspetto piuttosto discutibile del pontificato di Papa Pacelli: la nuova traduzione del Salterio del 1945, respinta poi dal Concilio in favore di un ritorno alla Volgata, seppure emendata (vedi qui). Nel caso dei riti della Settimana Santa non saprei dire se la successiva riforma liturgica abbia posto rimedio ai difetti dell’Ordo del 1955-56 o non li abbia piuttosto aggravati (sarebbe necessario uno studio approfondito, che non possiamo fare qui); sta di fatto che già prima del Concilio si presero delle cantonate.

C’è però un aspetto positivo in tutta questa storia, che va opportunamente evidenziato. Pio XII non era quel reazionario che tanto i progressisti quanto i tradizionalisti solitamente ci dipingono; era estremamente aperto alle novità: tanto aperto che in qualche caso corse il rischio di approvare scelte che successivamente avrebbero mostrato tutti i loro limiti.
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.987
Sesso: Femminile
09/07/2010 00:20
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

In seguito ad una discussione su Oriensforum, riporto da Daniele :

 per chiarire meglio anche a noi certi argomenti, intendo aggiungere qualche specificazione.

1. Un rito più antico non è necessariamente migliore di un rito più recente. Errata, dunque, è la posizione di chi sostiene che il ripristino di forme liturgiche primitive e desuete da secoli comporti un progresso per il rito e un vantaggio per la pastorale. Nella Chiesa, infatti, la liturgia, al pari del dogma, è sottoposta ad uno sviluppo organico che non si pone in discontinuità col passato ma lo integra con i legittimi risultati della scienza teologica. La prima attestazione di una riforma liturgica derivante da un'evoluzione nella conoscenza del dogma l'abbiamo in S. Paolo, il quale riprova l'uso, fino ad allora vigente, di celebrare il sacrificio eucaristico nel contesto di un banchetto, poiché in questo modo i fedeli non percepivano o percepivano male il mistero della presenza reale. L'atteggiamento archeologista, che vede nel recupero di forme rituali antiche la chiave per la riforma della liturgia, fu condannato da Pio XII nell'enciclica Mediator Dei:

"Quando si tratta della sacra Liturgia, non sarebbe animato da zelo retto e intelligente colui il quale volesse tornare agli antichi riti ed usi ripudiando le nuove norme introdotte per disposizione della Divina Provvidenza e per le mutate circostanze. Questo modo di pensare e di agire, difatti, fa rivivere l'eccessivo ed insano archeologismo suscitato dall'illegittimo concilio di Pistoia, e si sforza di ripristinare i molteplici errori che furono le premesse di quel conciliabolo e ne seguirono con grande danno delle anime, e che la Chiesa, vigilante custode del «deposito della fede» affidatole dal suo Divino Fondatore, a buon diritto condannò. Siffatti deplorevoli propositi ed iniziative tendono a paralizzare l'azione santificatrice con la quale la sacra Liturgia indirizza salutarmente al Padre celeste i figli di adozione".

Di conseguenza, insistere sul fatto che il rito di Paolo VI sia più simile alla Messa gregoriana del rito precedentemente in uso non è affatto una dimostrazione del suo valore liturgico. Esistono studiosi assai più radicali secondo i quali bisognerebbe tornare ai riti dell'epoca delle persecuzioni, nei quali essi vedono soltanto spontaneità e improvvisazione. Del resto, una volta adottato l'archeologismo come forma mentale, non v'è più alcun limite. Qualcuno ha proposto di tornare a celebrare il sacrificio eucaristico all'interno di una riproposizione dell'ultima cena, evidentemente considerando troppo moderna perfino la riforma di S. Paolo.


2. L'espressione "Messa gregoriana" applicata alla Messa romana in uso fino al 1969 è effettivamente impropria e per quanto mi riguarda mi sono sempre guardato dall'usarla. È innegabile, infatti, che ai tempi di S. Gregorio la Messa seguisse un rito diverso rispetto a quello che, codificato in epoca bassomedievale, divenne poi il rito universale della Chiesa romana. Impropria, tuttavia, non equivale a scorretta. La Messa cosiddetta di S. Pio V, infatti, conserva la struttura fondamentale della Messa gregoriana, con la sola aggiunta di preghiere private del sacerdote. Questo concetto risulta chiarissimo se si pongono a confronto le parti della Messa gregoriana e le parti pubbliche (cioè cantate o recitate ad alta voce) della Messa "tridentina" cantata (la forma cantata, infatti, è la forma primitiva e originaria della Messa).

Messa gregoriana: antifona all'Introito - Kyrie - Gloria - orazione - epistola - canti interlezionari - vangelo - Credo - preghiera dei fedeli - antifona all'Offertorio - orazione sopra le offerte - prefazio - Canone - Pater noster - Agnus Dei e pace - antifona alla Comunione - orazione dopo la Comunione - Ite, missa est.

Nella Messa "tridentina" le parti pubbliche sono esattamente le stesse. Ad esse sono state aggiunte, per ragioni devozionali e teologiche, diverse parti private (le preghiere ai piedi dell'altare, le apologie all'offertorio, le orazioni che precedono la Comunione, ecc.) che però, essendo recitate sottovoce dal celebrante e dai ministri, non alterano la struttura fondamentale della Messa. Se ci limitiamo alla parte pubblica, la Messa cantata del 1962 è identica alla Messa gregoriana. L'unica differenza è la preghiera dei fedeli, la quale, ai tempi di S. Gregorio, utilizzava un formulario fisso e di grande bellezza spirituale. Tale formulario fu reintrodotto nella riforma del 1965, ma oggi nessuno lo utilizza più, preferendogli la più bizzarra creatività.

Non così si può dire della Messa cantata di Paolo VI, che nella sua struttura pubblica si caratterizza per molte aggiunte e modifiche rispetto alla Messa gregoriana. In neretto sono evidenziate le differenze.

Messa di Paolo VI: antifona all'Introito - preghiere di introduzione - Kyrie - Gloria - prima lettura - salmo responsoriale o graduale - seconda lettura - Alleluia - vangelo - Credo - preghiera dei fedeli - canto all'Offertorio (ad libitum, poiché l'antifona nel messale non c'è) - orazione sopra le offerte - prefazio - preghiera eucaristica a scelta, con acclamazione dopo la consacrazione - Pater noster con dossologia dopo l'embolismo - pace - Agnus Dei (posizioni invertite) - antifona alla Comunione - orazione dopo la Comunione - Ite, missa est.

Questo solo per ciò che riguarda la struttura. Non mi addentro nella sostanza delle singole cerimonie.

Le informazioni relative alla Messa gregoriana e "tridentina", perché risulti chiaro che non le maneggio ad usum delphini, sono tratte da un testo scientifico di liturgia: J. Schmidt, Introductio in liturgiam occidentalem, Herder 1961, p. 361 (tabella di confronto tra i due riti), il quale, per inciso, è tutt'altro che conservatore.

Riassumendo: sebbene sia improprio definire "gregoriana" la Messa romana antica, questo termine si addice molto più a lei che alla Messa di Paolo VI, la quale, come abbiamo visto, presenta numerose differenze strutturali.


3. L'espressione "Messa di sempre", se correttamente intesa, non ha nulla di errato. Come ho detto nel mio precedente intervento, la Messa imposta da S. Pio V a tutto l'orbe cattolico non è altro che la Messa romana nel suo ultimo stadio di evoluzione. Rispetto all'epoca delle catacompe o all'evo di S. Gregorio, il rito era variato nella forma, ma non nell'essenza, e la prova sta nel fatto che tutte le riforme avvennero per piccoli passi, in modo organico e senza creare attriti. Per tale ragione si giustifica pure l'espressione "Messa tradizionale". La Messa che oggi conosciamo come "forma straordinaria" è la Messa della tradizione rituale romana, proprio come la Messa bizantina, pur non essendo identica alla Messa greca dei primi secoli, è la Messa della tradizione rituale bizantina. La tradizione, come dice la parola stessa, implica sviluppo organico, mai rottura. L'espressione scientificamente più corretta sarebbe "Messa romana". Poiché tuttavia essa è usata anche per designare la Messa scaturita dal lavoro della commissione liturgica postconciliare (che può chiamarsi romana solo lato sensu, non corrispondendo alla tradizione liturgica romana ed essendo stata composta a partire da elementi sia romani sia non romani), è giocoforza aggiungervi l'aggettivo "antica" o "tradizionale". Tecnicamente, però, ciò non sarebbe necessario.


4. La multiformità del rito nuovo, derivante dall'enorme congerie di scelte alternative, e la sua conseguente predisposizione agli abusi sono state più volte rilevate dal Sommo Pontefice, sia prima (cfr. Rapporto sulla fede, 1985) che dopo (cfr. Lettera ai Vescovi che accompagna il motu proprio Summorum Pontificum) la Sua elevazione al soglio.

L'istruzione Redemptionis Sacramentum (2004) rileva la situazione senza mezzi termini: Non si possono, pertanto, passare sotto silenzio gli abusi, anche della massima gravità, contro la natura della Liturgia e dei sacramenti, nonché contro la tradizione e l’autorità della Chiesa, che non di rado ai nostri giorni in diversi ambiti ecclesiali compromettono le celebrazioni liturgiche. In alcuni luoghi gli abusi commessi in materia liturgica sono all’ordine del giorno, il che ovviamente non può essere ammesso e deve cessare" (4).

Che in passato il fenomeno avesse molto meno rilievo è dimostrato, da un lato, dal contenuto degli opuscoli che ne parlano, i quali si concentrano su problemi che oggi farebbero quasi sorridere, e dall'altro dai provvedimenti della Congregazione dei Riti, che fino agli anni Sessanta non si è mai trovata a dover denunciare o reprimere abusi molto gravi. Ne fanno fede gli atti della stessa Congregazione. Non si può dire che essi non diano un quadro globale della realtà. Se in un paese, in cento anni, nessuno è stato condannato per omicidio, significa che in quel paese l'omicidio non costituisce un problema. È possibile, ovviamente, che alla magistratura siano sfuggiti uno o due casi isolati, ma sarebbero l'eccezione che conferma la regola. Del resto, un problema imponente viene sempre affrontato, in un modo o nell'altro.

5. La liberalizzazione del rito tradizionale non ha fatto altro che portare allo scoperto un problema che evidentemente esisteva già da tempo. Non è pensabile, infatti, che un numero notevole e scelto di persone abbiano cominciato a interessarsi di liturgia e di riforme liturgiche dall'oggi al domani e senza una valida ragione. Il problema è costituito dal piattume della liturgia attuale e dalla sua propensione agli abusi. Naturalmente si poteva continuare a far finta di nulla, lasciare che le funzioni fossero trasformate in para-discoteche (come ho visto coi miei occhi ai Salesiani di Livorno) e aspettare che le chiese finissero di svuotarsi. Qualcuno invece ha pensato che era meglio lasciare da parte il proprio quieto vivere e darsi da fare perché la situazione cambiasse. Ricordo che il Salvatore, quando vide il tempio profanato dai mercanti, non cercò un compromesso, una pacificazione, un accordo, ma distrusse i banchi dei venditori. Gli sporchi tradizionalisti alla distruzione dei tavolini usati come altari, degli stracci di plastica adoperati come paramenti, degli impianti di amplificazione sostituiti all'organo, a tutto questo, dico, non sono ancora arrivati. Ci si vorrà consentire, almeno, di difendere la nostra causa con lo scritto e con la parola?


Questo intervento l'ho scritto per mostrare la fondatezza e la solidità razionale delle opinioni di alcuni in merito ai "tradizionalisti". Si esprima con onestà il proprio dissenso, ma non si accusino gli altri dei propri difetti intellettuali.

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.987
Sesso: Femminile
09/07/2010 09:03
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

[SM=g1740722] riporto da Messainlatino quanto segue....
ascoltate attentamente, ne vale la pena....


La Messa antica è moderna?

Da ascoltare, gustare, diffondere. Ottima apologetica 'tridentina'. Che, provenendo da un sacerdote diocesano, tra l'altro molto impegnato nell'apostolato giovanile, ha ancora più mordente.

blog.messainlatino.it/2010/07/la-messa-antica-e-moderna.html




[SM=g1740738]

12. La messa antica è moderna? from sentinelledelmattino on Vimeo.



[SM=g1740757]

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.987
Sesso: Femminile
10/07/2010 22:56
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

là c'è la Provvidenza..

Anche se difficilmente si sarebbe scesi fino ai livelli attuali, il post-concilio, senza riforma liturgica, poteva davvero riservarci amarissime sorprese: dunque ammiriamo la

Ammirabile provvidenza di Dio nel salvare la Messa
tridentina dalla profanazione


Cari lettori, vorrei che leggeste questo post con attenzione per poter ammirare il meraviglioso ricamo che ha realizzato la Divina Provvidenza per salvare la Messa tradizionale che noi tanto amiamo e con la quale si sono santificate innumerevoli generazioni di cristiani.

Nel corso dei secoli, Nostro Signore Dio, Re di infinita maestà, ha mostrato una particolare predilezione per la Messa tradizionale, consentendo che si sviluppasse in tutto il mondo. E fu per provvidenziale intervento dello Spirito Santo che il Concilio di Trento prima, e San Pio V dopo, salvarono la Messa di sempre dai micidiali assalti degli eretici. Durante la prima parte del XX secolo, alcuni personaggi col prurito delle novità, reclamarono delle insane riforme che rischiavano di danneggiare la Sacra liturgia.

L'indomito Pontefice Pio XII, insorse con la magistrale enciclica “Mediator Dei” e condannò una serie di errori che il modernismo liturgico voleva introdurre nella celebrazione dei Riti Sacri. Ciononostante si diffusero degli abusi liturgici che procurarono gravi danni spirituali alla Chiesa. Era ancora in vigore la Messa tridentina, quando in Belgio e in altri Paesi si diffuse la pratica illecita di distribuire il Corpo di Cristo sulle mani dei comunicandi. Dio conosceva il futuro, e sapeva bene che stava arrivando una “rivoluzione culturale” che avrebbe straziato la liturgia con danze, balli, bonghi, chitarre elettriche, canti desacralizzanti, Messe con clown, casule orribili, omelie socialisteggianti, e tanti altri abusi liturgici che abbiamo visto in questi decenni.

Tutto quel che accade nel mondo è voluto da Dio per nostro bene, mentre se si tratta di qualcosa di male, è permesso dalla sua sapienza infinita per trarne un bene maggiore. Nulla capita per caso. Se nel 1970 fosse rimasta in vigore solo la Messa tridentina, sarebbe stata straziata dalla marea di abusi liturgici che tutti noi conosciamo bene. Ma la Santissima Trinità non ha permesso che la Messa di San Pio V fosse profanata. Vedendo quel prete celebrare la Messa Novus Ordo dipinto da pagliaccio, abbiamo provato un sentimento di amarezza. Ma se quel prete, conciato in quel modo avesse celebrato la Messa tridentina, il nostro dolore sarebbe stato troppo grande. Noi oggi vediamo invece con quanto amore, devozione e serietà i sacerdoti celebrino il Santo Sacrificio secondo l'antica e venerabile forma liturgica. Nessuno di noi l'ha mai vista celebrare da un sacerdote truccato da clown, o vestito indecorosamente solo con jeans, t-shirt e stola.

Quante lacrime scaturirono dai cuori sacerdotali di numerosi e zelanti “alter Christus”, allorquando nel 1970 venne loro proibito de facto di celebrare “more antiquo” quel Rito che fin da bambini li aveva nutriti spiritualmente, e che aveva fortificato in loro la vocazione del Signore. Quelle lacrime non furono vane, il loro olocausto interiore non fu inutile. Dio non impedì che la Messa tridentina cadesse momentaneamente in oblio, per restituircela intatta pochi anni dopo, con un immenso beneficio per le nostre anime, delle quali Egli è infinitamente innamorato, e per le quali non esitò ad immolarsi sulla Croce del Golgota, nel Santo Sacrificio con cui ci redense.

Non domandiamoci più perché e percome la liturgia antica cadde in disuso, ammiriamo invece il mirabile ricamo della provvidenza di Dio.

Pubblicato da cordialiter

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.987
Sesso: Femminile
27/03/2011 20:14
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

Liturgie Papali: la Consacrazione Episcopale del 28 giugno 1964

 

Rare immagini dell'ultima Consacrazione Episcopale "vecchio stile", prima della riforma  del Cerimoniale Papale. E' la vigilia della Festa dei Santi Pietro e Paolo, domenica 28 giungo 1964. Il Papa Paolo VI, guidato dall'instancabile Mons. Enrico Dante, Prefetto delle Cerimonie, (sarà elevato alla porpora nell'anno successivo) si appresta a Consacrare l'arcivescovo Giovanni Fallani, l'Arcivescovo Angelo Palmas, l'Abate Pierre François Jean-Baptiste Salmon, il Vescovo Johannes Gerardus Maria Willebrands (che riceverà il galero rosso nel 1969) e il Vescovo Ernesto Camagni, Cancelliere ai Brevi Apostolici. Sul Sito della Santa Sede è presente l'omelia pronunziata dal Pontefice durante il Rito.




 


 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.987
Sesso: Femminile
19/06/2011 22:33
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota


Liturgie Papali: i Vespri e la Cappella di Pentecoste

La Sistina preparata per il Conclave: sull'altare l'arazzo che rappresenta la venuta dello Spirito Santo sopra i discepoli, copiato dall' originale di Giuseppe Chiari romano.




Roma, Papi e riti: l'antica Liturgia Papale nella Solennità di Pentecoste descritta ed illustrata da Gaetano Moroni negli anni '40 dell'Ottocento.

23. Vespero Papale della Pentecoste.


Questo ha luogo nella Cappella palatina dove il Papa risiede, recandovisi con piviale rosso, e mitra di lama d'oro; e i Cardinali con vesti, cappe, e tutt' altro rosso, co'domestici colle livree di gala. L'arazzo dell'altare rappresenta la venuta dello Spirito Santo sopra i discepoli, copiato dall' originale di Giuseppe Chiari romano. Il baldacchino dell' altare, e quello del trono sono di velluto rosso, del qual colore sono il paliotto, e la coltre del trono, e la coltrina della sedia Pontificia, cioè di lama d'oro rossa. Anche questo vespero si regola a norma di quello dell'Epifania , meno però, che mentre i cappellani cantori cantano adagio il Deo gratias del capitolo, il Papa discende dal soglio, e deposta la mitra, s' inginocchia al genuflessorio ( i cui cuscini sono pure rossi ) per l'inno: Veni creator Spiritus, che intuonano due soprani anziani.

24. Cappella Papale per la festa di Pentecoste.

Questa solennità fu detta Pasqua rosata, perchè in molte chiese d'Italia si spargevano dall'alto delle rose, ed anche in S. Giovanni in Laterano, mentre in altre chiese al canto dell' inno Veni creator Spiritus, si suonavano le trombe per denotare il repentino fuoco, il quale precedette la venuta dello Spirito Santo, che in questo giorno celebra la Chiesa. Anticamente nella chiesa di santa Maria ad Martyres si recavano i Pontefici col clero, nella domenica precedente alla Pentecoste, a celebrarvi la stazione, e la messa dello Spirito Santo; nel qual tempo dalla sommità del tempio si gettavano delle rose, per cui rimase il rito di dispensarle in coro in questa festività; e sulla stessa venuta si recitava un analogo sermone.

In progresso di tempo questa Cappella celebravasi a tenore della disposizione di Sisto V, nella basilica di S. Pietro, ove in questo giorno è la stazione; ed il Sestini, fino al 1634, ci assicura, che in S. Pietro tenevasi questa Cappella, avvertendo che se il Papa volesse cantare la messa, allora i Cardinali assumeranno i paramenti rossi, adunandosi nella camera de' paramenti, e partendo da questa la processione; il che si fece tutte le volte che in tal giorno voleva il Papa fare Pontificale, ed altrettanto si dovrebbe praticare pure oggidì nelle circostanze straordinarie, come si fa per le consuete. Benedetto XIII, nel 1725, tenne Cappella, tanto nel vespero, che in questa mattina, nella basilica lateranense; e nel 1727, essendo tornato da Benevento, cantò messa in S. Pietro, e poi diede la solenne benedizione, che non avea dato per l'Ascensione: benedizione, che pure in questo giorno, nel 1765, diede Clemente XIII dalla loggia del Quirinale, giacchè per la dirotta pioggia non l'avea potuta compartire per l' Ascensione.

Attualmente questa festività celebrasi nella Cappella del palazzo apostolico abitato dal Sommo Pontefice, essendo l'altare, e il trono come nel vespero precedente. I Cardinali v' intervengono con due carrozze, co' domestici in livree di gala , ed in vesti, cappe e tutt'altro rosso. Il Papa vi si conduce come il giorno antecedente, ma col triregno, ed anticamente usava i flabelli, recandovisi in sedia gestatoria. Canta messa un Cardinal vescovo suburbicario, co' paramenti rossi, e terminata l'epistola, si canta l'alleluja da due soprani, mentre il Pontefice scende dal trono, e va ad inginocchiarsi al genuflessorio, deponendo la mitra. Indi i medesimi due soprani intuonano il verso: Veni creator Spiritus, che colla sequenza, e l'alleluja, dura finchè il Papa, tornato al soglio, ha letto l'epistola, e il vangelo, e posto l'incenso nel turibolo, e sinchè il diacono abbia preso la Pontificia benedizione.

Il discorso si recita in cappa paonazza, e berretta nera, da un alunno del collegio urbano di Propaganda Fide, e si distribuisce stampato dopo la Cappella, avendo l'alunno pubblicato a suo tempo l'indulgenza di trent'anni. Fu a detto collegio accordato questo privilegio da Clemente XIV, in virtù d'un breve de' 16 luglio 1773, giorno in cui soppresse la ripristinata Compagnia di Gesù, dalla quale era diretto il seminario romano, poco prima dal detto Papa eziandio soppresso, del quale privilegio appunto i convittori nobili erano in possesso. Il Cancellieri nelle sue Cappelle Pontificie (Roma 1790, a p. 340, e 34 r), tesse l'elenco di alcune "orazioni, sermoni, e discorsi sulla venuta dello Spirito Santo, recitati in questo giorno avanti il Papa, i Cardinali, e quelli che hanno luogo in cappella, cioè quelli pubblicati colle stampe incominciando nel 1593" ; rilevandosi, che sino dal 1617 nel Pontificato di Paolo V un alunno o convittore del seminario romano lo recitava, che fino al 1627 la cappella quasi sempre si tenne nella basilica vaticana, e che dopo tal anno ebbe per lo più luogo nella Paolina del palazzo Quirinale. Leggiamo però nella vita d'Innocenzo XII, Novaes tom. XI, p. 115 , che nel 1692 sermoneggiò in questo giorno nella Cappella Pontificia, il p. Francesco Tuzzi celebre gesuita, adattando giustamente a quel caritatevole Pontefice il versetto dell'inno della festività: Veni Pater pauperum, come quello, che dèi poverelli fu denominato: il padre de' poveri. Finalmente il mottetto dopo l' offertorio, Cum complerentur, è del Palestrina, colla seconda parte, la quale si suol dire, e si termina al solito degli altri mottetti. Se il Papa non assiste alla messa, il coro regola tutta la funzione col celebrante, il quale al verso Veni sancte Spiritus, s'inginocchia davanti il faldistorio, e la funzione è tutta andante, siccome avverte Andrea Adami.

da LE CAPPELLE PONTIFICIE cardinalizie e prelatizie di Gaetano Moroni

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.987
Sesso: Femminile
27/12/2011 13:18
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

Liturgie papali: la benedizione dello stocco e del berrettone


Il principe con la cotta, la spada e il piviale storto. Strani riti (decaduti) alla corte del papa, nella Vigilia di Natale.

46. Vespero Pontificale della Vigilia di Natale a' 24 dicembre. Notizie della cantata e cena che prima si faceva. Benedizione dello stocco, e berrettone, mattutino della notte, e messa.

Benedizione dello stocco, e berrettone
Questa benedizione si deve fare prima del mattutino [della Vigilia], sebbene da alcuni Pontefici sia stata fatta particolarmente nella mattina di Natale, perchè non intervennero alla funzione della notte precedente, nè celebrarono il pontificale della solennità. Clemente XI, nel 1719, l'eseguì dopo la prima messa della notte. Tuttavolta si deve fare la benedizione dello stocco a berrettone prima del mattutino, e se oggidì alcuni Papi eseguirono tal benedizione piuttosto dopo il mattutino, cioè avanti la detta prima messa, ciò fecero perchè assistendo al mattutino, vollero intervenire alla sola messa, che suol cantare il Cardinal camerlengo. Prima di cominciare il mattutino della notte di Natale, il Sommo Pontefice ogni anno ha il costume di benedire uno stocco, o una spada, ed un cappello o berrettone ducale di velluto cremisi, che poi suol donare a qualche sovrano, principe, o capitano benemerito della religione, donativo che trae la sua origine dall'anno 1385, e dal Pontefice Urbano VI; non rinvendosi anteriori notizie su questo argomomento.

Ecco il rito della benedizione:

V. Adjutorium nostum in nomine Domini.
R. Qui fecit coelum et terram.
V. Dominus vobiscum.
R. Et cum spiritu tuo

Oremus.

Benedicere digneris, quaesumus Domine Jesu Christe, hunc ensem in defensionem S. Romanae Ecclesiae, et christianae reipublicae, ordinatum nostrae bene + dictionis officio ad vindicta malefactorum, laudem vero bonorum: ut per eum, qui te inspirante illo accingitur, vim aequitatis exerceas, molemaque iniquitatis potenter evertas, et sanctam Ecclesiam tuam, ejusque fideles, quos, ut pretioso sanguine tuo redimeres hodie in terris descendere et carnem nostram sumere dignatus es, ab omni periculo protegas atque defendas, et famulum tutm, qui hoc gladio in tuo nomine armatus erit, pietatis tuae firma custodia munias, illaesumque custodias. 
Qui vivis et regnas cum Deo Patre in unitate Spiritus Sancti Deus.
Per omnia saecula saeculorum.

R Amen

Deinde Pontifex aspergit glaudium aqua benedicta, incenso adolet.

"mentre un chierico di camera in cotta e rocchetto, avendo preso dalla mensa, e fra due candelieri con candele accese, lo stocco, e il cappello o berrettone, li sostiene in tempo della benedizione"


Questa benedizione si fa dal Papa nella camera de' paramenti, vestito di camice, cingolo, e stola bianca, assistito dai Cardinali diaconi assistenti, e dal Cardinal primo prete per porre l'incenso nel turibolo, mentre un chierico di camera in cotta e rocchetto, avendo preso dalla mensa, e fra due candelieri con candele accese, lo stocco, e il cappello o berrettone, li sostiene in tempo della benedizione; facendo altrettanto il chierico di camera coll'assistenza d'un mazziere, a cornu epistolae dell'altare, tanto nella messa della notte, che in quella del Pontificale, che poi si dirà.
Merita però che qui si osservi che se lo stocco si diede dal Papa a qualche principe, il quale trovavasi presente alla funzione, il medesimo principe si vestiva in cotta, e sovr'essa si cingeva dello stocco benedetto. Si cuopriva di poi col piviale bianco, coll'apertura nel lato corrispondente al braccio destro, e non come l'imperatore, che si eravi presente assumeva il piviale coll'apertura nel davanti, ante pectus, ut episcopi. Tanto il principe quanto l'imperatore si ponevano pure il cappello o il berrettone in capo. Quindi si toglieva il cappello, e lo consegnava ad un familiare, per cantare la quinta lezione del mattutino, che comincia: In quo conflictu. Prima di chiedere la solita benedizione, collo stocco sfoderato, toccava tre volte la terra, e altrettante lo vibrava in aria, e poscia rimessolo nel fodero, diceva cantando: Jube Domine benedicere, e cantava la lezione, terminata la quale si spogliava di de' paramenti descritti [...], partiva dalla Cappella, ed era accompagnato alla sua casa dai famigliari del Papa, e da suoi prelati domestici, dagli oratori o ministri delle corte estere, e da altri nobili, mentre alcuni uffiziali portavano lo stocco col cappello innanzi al principe. Se poi donavasi lo stocco, e berrettone all'imperatore, che si trovasse egualmente presente a questa funzione, in vece della quinta, cantava la settima lezione.

Gli Avvocati Concistoriali, membri laici della Corte Pontificia, in abito da cerimonia. Indossano il piviale con l'apertura rivolta al braccio destro.


da LE CAPPELLE PONTIFICIE cardinalizie e prelatizie di Gaetano Moroni



[SM=g1740771]


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.987
Sesso: Femminile
07/12/2012 23:56
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

Il Tempo parla della S. Messa antica dell'Opera Familia Christi a Roma.



 
 
Per leggere il bel articolo da Il Tempo (del 03.12.2012) a firma L Lombardi, si veda qui
 
 
Gentile Redazione di Messainlatino.it,
 
 
è mio grande piacere segnalarvi la recente iniziativa che l'Associazione Musicale Festina Lente, nel contesto del Roma Festival Barocco, avvalendosi della collaborazione della nostra Opera Familia Christi, ha promosso presso la chiesa della Madonna della Clemenza e di Sant'Aniceto in Palazzo Altemps - Roma, con il patrocinio del Ministero per i Beni e le Attività Beni Culturali - Sovrintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma.

Come leggerete nell'articolo segnalato di sopra, uscito sul quotidiano "il Tempo" di lunedì 3 dicembre, la prima Domenica d'Avvento è stata celebrata la Santa Messa Solenne secondo la Forma Straordinaria del Rito Romano dal Rev.do don Riccardo Petroni - Assistente Ecclesiastico della Familia Christi- , con le musiche Inedita concerto barocco a Palazzo Altemps il 2 dicembre 2012 Opera Familia Christi della Missa Laetentur Caeli in doppio coro di Girolamo Bartei (1560-1618) ed alcuni mottetti polifonici rinascimentali inediti, di cui uno del Duca Giovanni Angelo Altemps. Questi inaugurò nel '600 una straordinaria stagione musicale barocca di primissimo piano, avvalendosi dei più grandi compositori dell'epoca - tra questi Felice Anerio e Pierluigi da Palestrina- che scrivevano appositamente per la chiesa del suo meraviglioso Palazzo rinascimentale romano.

Mentre nell'articolo qui di seguito potrà riscontrare l'esito di questa iniziativa, mi preme già annunciare che anche sabato 8 dicembre, festa dell'Immacolata Concezione di Maria, alle ore 11.00 presso la chiesa di Sant'Aniceto in Palazzo Altemps sarà celebrata la Santa Messa Solenne in Rito Antico, ancora nel contesto del Roma Festival Barocco con le musiche di Felice Anerio.
Penso che la conoscenza degli ottimi ed incoraggianti risultati raggiunti in questa circostanza ed il proprorsi di nuovi, sia di grande auspicio per tutti, tanto più ponendosi nel cuore della cristianità, in quella Roma sede del Vicario di Cristo che per la Sacra Liturgia nutre specialissimo amore e particolare cura ed attenzione.


Ing. Matteo Riboli


Presidente Opera Familia Christi
Associazione Vittorio e Tommasina Alfieri


[SM=g1740722]


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.987
Sesso: Femminile
14/01/2014 17:59
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota


<header class="postHeader">

  Sull’Altare all’ora nona. Silenzio e solitudine del Golgota: assistere alla messa antica

</header>

1526810_185402875001355_328559982_n

Ci sono due aspetti in particolare che ci rendono il senso profondo della messa, specialmente secondo il rito extraordinario, che personalmente prediligo: il silenzio e la solitudine. L’altare, prima e durante e dopo il Sacrificio, è avvolto dal silenzio. E dalla solitudine: del celebrante, “Alter Christus”.

Ma come, si dirà, la Pasqua e dunque la celebrazione sono “anche un trionfo!”. Certo, sì. Ma è anche il perpetuarsi della passione e morte di Cristo. Che si svolgono nel silenzio, nella solitudine, nel tradimento, nel rinnegamento, nella fuga dei discepoli. Nell’ultima cena Cristo è tradito e venduto da Giuda; nell’Orto degli Ulivi, nella notte che precede il supplizio Cristo è lasciato solo a sudare sangue mentre i discepoli s’addormentano invece di pregare con lui, la sola cosa che aveva domandato loro; Pietro nella stessa notte lo rinnega tre volte; nessuno cerca di salvarlo, nessuno gli si offre a sorreggere per un po’ la croce (il Cireneo ne è costretto). Nessuno sembra più conoscerlo o riconoscerlo.

Cristo in un attimo di dolore veramente umano, grida a squarciagola al suo Dio, all’Abbà, il baratro di sventura e solitudine in cui sprofonda inerte.

La “solitudine”. La stessa solitudine che in quel momento sull’altare del Sacrificio Supremo, nuovo Golgota, dove davvero e di nuovo irrompe la Passione di Cristo, sperimenta il sacerdote, “Alter Christus”.

Il sacerdote è solo davanti all’altare. E a questa solitudine si aggiunge l’ombra propria della solitudine: il silenzio. Sulla collina desolata del Golgota, e prima, nell’Orto, e dopo ancora, nel sepolcro, Cristo è solo e nel silenzio. Il silenzio della sua obbedienza, del calice dell’amarezza, del sudore sanguinolento. È il silenzio dell’impotenza, che per un attimo sembra persino di Dio. “Padre mio, Abbà, perché mi hai abbandonato?!”. Il “silenzio” di Dio, in quel frangente, sembra quasi l’inabissarsi della Divinità.

Ma è anche l’impotenza e la desolazione che deriva dal primo ed eterno “sì” in obbedienza di Maria, accettando questo Figlio che non era per lei: “Stabat Mater Dolorosa…”, sotto la croce. È quel silenzio tremendo che avverte sul letto di morte anche la piccola enorme Teresina di Lisieux, quando si lamenta, in quel momento estremo d’agonia e incertezza, della “non presenza di Dio”.

Silenzio. Come stettero zitti i discepoli, Maria, chi volle bene al Cristo uomo e già Messia, tutti quanti: tacquero sotto la croce, o si nascosero, impotenti per obbedienza e per viltà, tacquero persino impietriti dal dolore e dalla confusione, o perché in definitiva così “dovevano” andare le cose… tutti stettero in silenzio. Assistettero soltanto: alla passione e morte del figlio di Dio.

La stessa ragione per cui alla messa del Sacrificio, i fedeli non devono “partecipare”, ma assistere. In silenzio. Il silenzio che ammanta il sacerdote mentre compie il Sacrificio di Cristo. E di se stesso. Oppure devono solo “accettare”, assecondare l’ineluttabile, il miracolo che non ci ha lasciati “orfani” sulla terra, come aveva promesso il Messia.

Ma allora, la Resurrezione? E’ un trionfo. Ma è un trionfo vissuto nel nascondimento, da un Dio senza arroganza. Avviene ancora una volta nel silenzio e nella solitudine. Dentro un sepolcro di pietre, di notte, assenti tutti, tranne i soldati chiamati a vegliare l’esterno dell’avello. Alla stessa maniera, nel silenzioso, quasi segreto e oscuro, formulare del sacerdote “Alter Christus” sull’altare del Sacrificio, avverrà la Resurrezione. Nel silenzio e nella solitudine.

Ecco spiegato il perché e il come si sta, si assiste al Santo Sacrificio della Messa. La Messa di antica. Lontana dal clamore e dal chiasso, dalla frenesia e dalle sindromi di protagonismo, dai microfoni gracchianti e stordenti, dal profluvio di fraseologia frigida e dai battimano della messa riformata in stile anni ’70, gli anni più stancamente declamatori, populistici, inutili mai vissuti sulla faccia della terra.







Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.987
Sesso: Femminile
10/06/2014 19:52
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota


<header class="entry-header clearfix">

E il mercato ortofrutticolo diventò cattedrale dell’anima: la messa di padre Smith

</header>
1001885_10201634215159977_1714883842_n

Padre Smith ha un sogno: costruire una chiesa come Dio comanda. Una chiesa vera, con l’organo, gli altari laterali, una sagrestia dove raccogliere degnamente i paramenti da usare per il Santo Sacrificio. Lo desidera, ma sa che questo non è l’essenziale. Sa che Cristo è presente anche lì, al mercato ortofrutticolo. Anche tra i muri coperti di scritte oscene. Dove celebrava ogni mattina la sua messa sgangherata

.

.

.10288766_10203138251273407_1694868534961615658_ndi Matteo Carnieletto

Alcuni lettori di Papalepale hanno così commentato l’articolo su Huysmans: che fare ora che la Chiesa schifa il bello?Sinceramente, non lo so. O meglio: non ho soluzioni pronte.

La messa al mercato ortofrutticolo di Padre Smith

Quel che posso fare, però, è proporre un modello per i sacerdoti: padre Smith, il protagonista di un romanzo di Bruce Marshall. Marshall è uno di quegli scrittori cattolici del Novecento che, molto spesso, hanno messo al centro della loro opera narrativa un sacerdote. Un po’ come padre Brown per Chesterton o don Camillo per Guareschi. Non ho mai compreso davvero il perché di questa scelta, ma è un fatto che gli scrittori contemporanei abbiano riflettuto sulla figura sacerdotale, mettendo in luce non solo la bellezza di questo ministero, ma anche l’umanità dei preti. Un’umanità sovrannaturale.

Bruce Marshall

Bruce Marshall

Padre Smith, dicevamo, è un sacerdote cattolico che si trova, nell’anno del Signore 1908, a dirigere una delle più sgangherate comunità della Scozia. Dice Messa al mercato della frutta, affittato dai cattolici la domenica «perché si potesse offrire il santo sacrificio della messa e Cristo potesse venire ancora, traversando il mattino, nel sacramento bianco e rapido del suo amore». Pensateci bene: un mercato comunale, i cui muri erano «spesso coperti di scritte oscene», non è forse peggio di tante chiese contemporanee? Forse è perfino peggio della chiesa di Foligno progettata da Fuksas. E il canto? Spesso rimaniamo inorriditi dai cori delle parrocchie e abbiamo ragione. Ma anche il coro di padre Smith, proprio come spesso accadeva nelle parrocchie preconciliari, non era un granché: «al solito, fra il canto e la pronunzia non si sapeva quale fosse peggio, ma il padre Smith era sicuro che Dio le avrebbe accolte con orecchio benevolo, perché ciascuna di quelle note stonate voleva essere una lode, cosa che non sempre si poteva dire dei trilli delle soprano stipendiate di Milano, di Siviglia e di Vienna».

tutta-la-gloria-profondo-Marshall_1Padre Smith ha un sogno: costruire una chiesa come Dio comanda. Una chiesa vera, con l’organo, gli altari laterali, una sagrestia dove raccogliere degnamente i paramenti da usare per il Santo Sacrificio. Lo desidera, ma sa che questo non è l’essenziale. Sa che Cristo è presente anche lì, al mercato ortofrutticolo. Anche tra i muri coperti di scritte oscene: «è difficile, forse, per noi, qui in questo mercato scalcinato e rugginoso, in questa povera Scozia separata, renderci conto che, nella fede e nella dottrina, siamo uniti con le grandi accolte di fedeli di tutte le cattedrali d’Europa. Né il vescovo di Chartres, né il cardinale di Burgos o quello di Varsavia e neanche, mie cari fratelli, il Sommo Pontefice in persona, consacrano il pane e il vino, trasformandoli nel Corpo e nel Sangue di Cristo, più sicuramente di me, vostro indegno parroco».

Ma la fede non muore sotto le bombe

11590_3g010_11590_1Come molto spesso accade nei romanzi di Marshall, la guerra entra violenta nella narrazione e, così, padre Smith è costretto a partire per il fronte. Anche in questa occasione, il sacerdote scozzese confessa e dice messa come può, usando una cassa da imballaggio sulla quale posa una pietra consacrata portatile, due candele e un crocifisso. Nulla di più. Ciò che conta è l’essenziale: il Protagonista inchiodato alla Croce. Dice messa e spera che da quella inutile strage possa un giorno germogliare il bene. Alza a Dio una delle più belle preghiere che abbia mai letto: «O mio Dio, fa’ che da questa guerra esca qualcosa di buono; rendi gli uomini coraggiosi nel tuo servizio come lo sono nel servizio della patria; rendi le donne più modeste ma non meno belle; modella la loro verginità su quella della tua Santa Madre e poni i loro piedi nelle orme di lei; calma i giovani onde possano contemplarti; benedici e moltiplica i sacerdoti e i poeti; sradica dai nostri cuori la vanagloria e l’amore del proprio comodo e del piacere; confondi la ricchezza e distruggi la politica; e manda giù la tua grazia a fiumi».

Terminata la prima guerra mondiale, le cose procedono esattamente come prima. La fede però non era aumentata in Scozia. Anzi: gli uomini sembravano allontanarsi sempre di più dal buon Dio. Nel frattempo, in Italia era andato al potere Mussolini, in Russia l’ideologia comunista cominciava a produrre effetti nefasti e, in Germania, Hitler si stava preparando alla guerra.

1943. Divina liturgia nella cattedrale bombardata di Colonia

1943. Divina liturgia nella cattedrale bombardata di Colonia

Scoppia così il secondo conflitto mondiale e, proprio «due giorni prima della data fissata per la consacrazione della chiesa del SS. Nome», quella chiesa tanto desiderata da padre Smith, si sentono fischiare le sirene nel cuore della notte. Padre Smith entra in chiesa, prega e accende le due candele per la messa piana. Durante la celebrazione della messa, una bomba incendiaria sfonda il tetto della chiesa e padre Smith si precipita ad indossare una stola per portar via il Santissimo dall’altar maggiore. Non teme di esser bruciato vivo, padre Smith. Si carica del dolce peso del Santissimo e si dirige verso la cappella delle suore. Qui, il sacerdote sviene. La purificazione era passata attraverso le fiamme vive delle bombe e padre Smith si avvia verso il Calvario, dove, però, nulla è un peso. Anche l’estrema unzione gli pare bella, «poiché in fondo era questo, la morte: un render chiare le cose, un folgorare di luce di dietro gli apparecchi da bombardamento e le reclames di sciroppo di fichi».

La chiesa desiderata era stata rasa al suolo. Le ultime parole di padre Smith sono rivolte al cappellano polacco: «si ricordi d’avvertire che domenica la messa sarà nel mercato della frutta». Si sarebbe ricominciato da lì: dai muri imbrattati di scritte oscene e dal coro sgangherato. Niente era cambiato: la Fede avrebbe continuato a vivere. Non sotto preziose navate, ma nei cuori dei credenti. In fondo, padre Smith non aveva fatto altro che fissare gli occhi sull’Essenziale. Ed è fissando l’Essenziale che dobbiamo ricominciare anche noi.






Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.987
Sesso: Femminile
08/10/2014 21:18
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota


Don Roberto Spataro. La Messa Tridentina difende il senso del sacro

 
 
Don Roberto Spataro S.D.B., segretario dellaPontificia Academia Latinitatis [qui], e docente all’Università Pontificia Salesiana, ha celebrato il 27 luglio scorso a Bacoli (Napoli), nella Parrocchia di S. Anna Gesù e Maria, una Messa in rito romano antico su invito della sezione di Napoli di Una Voce, alla presenza di oltre 100 fedeli. Latinista, docente di letteratura cristiana, Don Spataro è un difensore della liturgia tradizionale ed ha tenuto conferenze sul rito tridentino. [vedi precedente qui].
LETTERA NAPOLETANA gli ha rivolto alcune domande.
D. Ritiene che la Messa in rito romano antico sia una risposta, per i fedeli che vi partecipano, alla perdita del senso del sacro nella nostra società?

R. Sono d’accordo. Nel mondo occidentale, com’è sotto gli occhi di tutti, il processo di secolarizzazione è drammaticamente sempre più aggressivo ed invadente. Pertanto, è necessario offrire spazi ove il “sacro”, cioè la presenza oggettiva di Dio, sia comunicato e appreso, accolto e assimilato. La Messa “tridentina” privilegia un linguaggio, fatto di parole in una lingua riservata a Dio, e di eloquenti simboli, che coinvolgono tutti i sensi esterni ed interni dell’uomo, capace di trasmettere immediatamente ed efficacemente la bellezza e la potenza del “sacro”.

D. Come spiega il fatto che soprattutto nei Paesi anglosassoni, ma anche in Brasile, siano soprattutto i giovani ad essere attirati dal rito tradizionale?

R. Nei paesi anglosassoni c’è un fenomeno significativo: non sono pochi i giovani che da varie denominazioni protestanti aderiscono al Cattolicesimo e che amano la Messa “tridentina” in quanto in essa trovano ciò che, mossi dalla Grazia di Dio, cercavano: la natura sacrificale della Messa, il ruolo insostituibile del sacerdozio ordinato, la fede nella presenza reale e nella transustanziazione. Inoltre, percepiscono nella Messa tridentina una vera e propria summa della fede cattolica cui hanno dato la loro adesione con entusiasmo e, a volte, subendo ostacoli ed incomprensioni.
 
D. Per quanto riguarda il clero, si trovano molto più facilmente sacerdoti di 30-40 anni disposti a celebrare il rito tridentino che sacerdoti di 50-60. Come mai?

R. I sacerdoti che oggi hanno tra i 50 e i 70 anni sono stati formati negli anni del postconcilio quando vigeva un certo sospetto, se non una vera e propria ostilità, verso la Tradizione, e si ricercava, nella teologia e nella pastorale, un “novum” concepito ingenuamente come “bonum”. Sono pertanto psicologicamente bloccati verso ciò che ritengono un “ritorno al passato”. Nelle generazioni più giovani, soprattutto in quei seminaristi e giovani che hanno seguito con gioia l’insegnamento del Papa Benedetto XVI, questa precomprensione non c’è, poiché non hanno vissuto né gli anni del Concilio né i primi decenni ad esso successivi. Per alcuni di essi, la Tradizione è una risorsa, un “ritorno al futuro”, se mi è lecito l’ossimoro.
 
D. In una sua recente conferenza lei ha parlato di “minoranze creative” in riferimento ai gruppi di fedeli che si organizzano per chiedere ai parroci di celebrare con il Vetus Ordo ed ha ricordato che le riforme, anche liturgiche, sono partite a volte da piccole comunità monastiche.

R. Il concetto di “minoranza creativa” è stato valorizzato dall’allora cardinale Ratzinger per descrivere gruppi di persone che, con le loro motivazioni robuste, la loro testimonianza di vita, a volte con la loro organizzazione, e soprattutto con la loro adesione ad un pensiero “forte”, ispirato ai valori dell’umanesimo cristiano, i “principi non negoziabili”, possono rigenerare dall’interno la società corrosa dalla “dittatura del relativismo”, un po’come le antiche comunità monastiche hanno salvato e rinnovato creativamente la civiltà romana al suo tramonto. In fondo, quello di “minoranza creativa” è un concetto vicino alla categoria biblica del “piccolo resto”, quei pochi che, per la loro fedeltà a Dio, diventano strumento della sua azione redentrice. Anche nelle epoche più oscure della storia, Dio, nella sua Provvidenza, suscita sempre la presenza di persone pie e buone, umili e coraggiose.
 
D. Dopo il Motu Proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI pensa che il clima sia cambiato e che, almeno in Italia, la diffusione del rito romano antico avvenga con maggiore difficoltà?

R. Non sono in grado di stabilire una “classifica” nazionale delle resistenze al Motu Proprio. Certamente, membri del clero ed anche noti prelati in Italia non hanno nascosto la loro opposizione al Summorum Pontificum. Mi sia consentito affermare che, non poche volte, coloro che esprimono il loro dissenso riguardo alla Messa tridentina ne hanno una conoscenza approssimativa e contestano un documento pontificio senza averlo mai letto interamente!
 
D. Per i tanti cattolici disorientati dall’aggressione della cultura laicista e dalla desacralizzazione pensa che il ritorno della Messa Tridentina sia una speranza?

R. Sicuramente! Attorno a questa nobile forma liturgica, realmente culmen et fons, fedeli laici e sacerdoti organizzano la propria vita spirituale. Vi attingono i tesori della Grazia divina e vi trovano, come posso constatare soprattutto tra i fedeli laici, un alimento robusto per corroborare la propria fede e dare una coraggiosa testimonianza, in un contesto che tende a marginalizzare il Cristianesimo e la sua incidenza sociale, con i risultati che hanno reso il mondo, proprio perché indifferente o ostile a Dio, meno umano e misericordioso, come ci ricorda il Papa Francesco.
________________________
Fonte: Lettera Napoletana by Sito del Coordinamento Summorum Pontificum [qui]






 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.987
Sesso: Femminile
31/10/2016 20:07
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota


  

POSSA LA MESSA ANTICA FIORIRE NELLA CHIESA!

Omelia di S.E.R. Mons. Alexander K. Sample, Arcivescovo di Portland, per la Festa di Cristo Re

V Pellegrinaggio Populus Summorum Pontificum, Chiesa della Santissima Trinità dei Pellegrini, Roma, 30 ottobre 2016

"Moralmente e spiritualmente, siamo tutti della diocesi di Portland" (don Claude Barthe nel messaggio di conclusione di #sumpont2016)

***

Sia lodato Gesù Cristo!

Mentre giungiamo al termine di questo splendido pellegrinaggio, durante il quale abbiamo celebrato il motu proprio di Benedetto XVI che ha condotto ad una maggiore disponibilità della celebrazione della Santa Messa nell’usus antiquior, lo facciamo anche oggi nella grande Festa di Cristo Re. Siamo tutti molto grati a Papa Benedetto per la sua amorevole cura nei confronti di chi ama questa antica forma del Rito Romano e preghiamo affinché la sua diffusione abbia un effetto profondo e duraturo sul culto divino celebrato in entrambe le forme.

Celebrando la Festa di Cristo Re, la Santa Madre Chiesa ci ricorda la centralità del mistero di Cristo nelle nostre vite quanto nel nostro culto. Esaltiamo il Nostro Divino Salvatore come il centro di tutta la storia umana e come Colui che ci rivela il vero significato e lo scopo delle nostre vite. È proprio questo il mistero che celebriamo nel Santo Sacrificio della Messa. Rileggiamo ciò che San Paolo ci insegna sulla pienezza di tutto quello che Dio vuole rivelarci nel Suo Figlio Gesù Cristo Nostro Signore e Re.

Gesù Cristo è l’immagine di Dio invisibile. Nel mistero dell’Incarnazione, Iddio Si è pienamente rivelato a noi nel Verbo Incarnato, Suo Figlio Unigenito. Cristo è la manifestazione visibile della misericordia divina nei confronti di noi poveri peccatori. È appropriato ricordarlo in occasione di quest’Anno Giubilare della Misericordia. In Cristo vediamo la misericordia incarnata. Egli è presente in ogni Messa, specialmente nell’offerta del Santo Sacrificio e nella Sua presenza Eucaristica in Corpo, Sangue, Anima e Divinità.

Gesù è il primogenito di ogni creatura, presente alla creazione dell’intero universo. Con una splendida trilogia di espressioni San Paolo ci ricorda che tutte le cose sono state create nel Verbo Incarnato, che Egli è precedente a tutte le creature nella Sua eternità e che tutte le cose sono tenute insieme in Lui. Cristo è al centro della volontà creativa di Dio Padre.

Cristo è il Capo del Corpo, che è la Chiesa. La Chiesa è il Corpo mistico di Cristo, la Sua duratura presenza nel mondo creato. Attraverso la Chiesa Cristo continua la Sua presenza redentiva nel mondo. Siamo tutti membri individuali di quel Corpo, come ancora ci ricorda San Paolo; e Cristo Re è il Capo del Suo Corpo mistico, sempre presente tra noi nella Sua Parola, nei sacramenti e nell’assemblea dei fedeli. Cristo non potrà mai essere separato dalla Sua Chiesa anche se alcuni ci proveranno. Noi non possiamo avere Cristo senza la Chiesa, poiché Egli è eternamente ed intimamente unito ad Essa. Noi, come Corpo mistico di Cristo, siamo inseparabilmente uniti al nostro Capo, Cristo Signore. Come tale la Chiesa è il Sacramento universale della salvezza del mondo.

Cristo è il primo anche tra i morti. Ci ha preceduti e tramite la Sua Morte e Resurrezione ha reso possibile la nostra stessa resurrezione dai morti. Dov’è andato Lui noi speriamo un giorno di seguirLo. La Sua Morte è il nostro riscatto dalla morte, la Sua Resurrezione la nostra ascesa a vita nuova.

È il primo e tutta la pienezza abita in lui. Nella Sua Divinità unita per sempre all’umana natura formata nel grembo della Sua Vergine Madre nulla manca. Gesù è la pienezza di ciò che ogni cuore umano desidera. Quello che di buono cerchiamo in questa vita è solo un pallido e sbiadito riflesso della pienezza di bellezza, bontà, gioia e perfezione che risiede in Cristo. Ogni ricerca virtuosa dell’uomo è in fine ricerca di Cristo.

Questo è il Cristo che onoriamo come Re Universale. Ma Nostro Signore ci ricorda che il Suo Regno non è di questo mondo. I discepoli non lo compresero pienamente se non dopo la Resurrezione e la discesa dello Spirito Santo nel giorno di Pentecoste. Noi non dobbiamo mai scordarlo. Non viviamo per la completezza e la realizzazione in questo mondo, ma ci sforziamo di renderlo sempre migliore e simile al Regno di Dio. Siamo solo pellegrini di passaggio in questa vita terrena sulla strada verso il Regno di Dio, il Regno dei Cieli. Tutta la nostra vita è preparazione alla pienezza del Regno di Dio.

Questo Regno, ora imperfettamente presente nella Sua Chiesa, è anche Regno di Verità. È Nostro Signore a dirci che il motivo per il quale Egli è nato ed è entrato in questo mondo è la testimonianza della Verità. Tutti coloro che vi appartengono ascoltano e rispondo a questa voce. Questa Verità rivelata da Cristo è la Verità su Dio, su noi stessi creati a Sua immagine e somiglianza e sulla salvezza eterna vinta per noi con la Passione, Morte e Resurrezione di Cristo. Questa è la vita eterna che riconosciamo e viviamo nella Verità.

Il mondo in cui viviamo sembra divenire ogni giorno più secolarizzato e materialista. Non riconosce più una verità che sia eterna e che coinvolga tutti. Papa Benedetto ha coniato la celebre espressione “dittatura del relativismo”: vivere senza l’eterna Verità di Dio è vivere senza Cristo, nell’oscurità, nell’ignoranza, nel dubbio e nella paura. Cristo è venuto a rendere testimonianza alla Verità e a liberarci dalle tenebre del peccato e della morte e illuminarci con la Buona Novella della Sua misericordia e del Suo amore. Le prima parole del Suo ministero pubblico sono “Il Regno di Dio è vicino. Convertitevi e credete al Vangelo!”

Siamo trasferiti in questo Regno del Diletto Figlio di Dio partecipando alla redenzione che Egli ha vinto per noi attraverso il Suo Sangue, facendoci ricevere la remissione dei peccati. Come San Paolo ci dice, Cristo ha riconciliato tutte le cose in Sé attraverso il Sangue della Sua Croce. Noi per primi riceviamo la grazia di questa redenzione nel giorno del nostro battesimo, lavati dal peccato originale e santificati dalla grazia di Dio.

Questo mistero della nostra redenzione è anche rinnovato ogni volta che partecipiamo all’offerta del Santo Sacrificio della Messa. Cristo, che ha offerto Sé stesso come Sacerdote e Vittima sull’altare della Croce, si offre ora in modo sacramentale e incruento attraverso il ministero del sacerdote sugli altari delle nostre chiese tutte le volte che viene celebrata la Santa Messa.

Cristo Re governa trionfante sulla morte anche quando pende sulla Croce per la nostra salvezza. Il Suo mistero pasquale, resoci presente nel Sacrificio Eucaristico del Suo Corpo e Sangue, è la fonte della nostra continua santificazione mentre rendiamo Gloria a Dio nel nostro culto.

Questa realtà è poderosamente resa presente in ogni Messa, sia nella forma Ordinaria che in quella Straordinaria del Rito Romano. Ma la Messa tradizionale palesa in modo particolarmente chiaro ed eloquente questa realtà con segni, simboli e parole.

Le preghiere della Forma Straordinaria, i gesti rituali e in modo particolare l’orientamento liturgico del sacerdote all’altare fanno risaltare la natura sacrificale della Messa. Questo è senza dubbio il culto che sacerdote e fedeli offrono a Dio Onnipotente per la Sua Gloria e per la santificazione delle loro anime.

Papa Benedetto ha riconosciuto che la Forma Ordinaria del Rito Romano, almeno come viene celebrata in molti luoghi, ha perso parte della chiarezza e dello splendore. Ha insegnato che non potrà mai esserci una rottura con la Tradizione, ma che l’autentica riforma liturgica deve essere realizzata in chiara continuità con le precedenti tradizioni e forme della Sacra Liturgia. Questo è il motivo per cui ha emanato il motu proprio Summorum Pontificum, precisamente per riconciliare la Chiesa col suo passato.

La speranza di Papa Benedetto era che le due forme del Rito Romano possano e debbano arricchirsi mutualmente così che sia nuovamente possibile un rinnovamento autentico della celebrazione della Santa Messa, denominato riforma della riforma della Sacra Liturgia.

Lo scopo di tale riforma non può essere che di rendere maggiormente visibile la sovranità di Cristo Re mentre Egli Si offre per la nostra salvezza in un mistero che si perpetua in ogni Messa. Possa la Messa Antica fiorire nella Chiesa così che molti possano beneficiare di questa forma del Rito Romano per la maggior Gloria di Cristo Re Nostro Signore. A Lui ogni gloria, lode e onore nei secoli dei secoli! Amen!

 

Perché tanti riti diversi in una sola Chiesa?

 
pentecost-liturgy-hierarchs 2 
 Un'nteressante approfondimento storico-liturgico dei diversi riti della Chiesa.
L
 
Zenit 2-11-16
Nella sua rubrica settimanale di liturgia, padre Edward McNamara LC, professore di Liturgia e Decano di Teologia presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma, risponde alla domanda di un lettore dall’India.
Perché ci sono così tanti riti eucaristici nella Chiesa? Potrebbe spiegare l’origine dei diversi riti, e come mai la Chiesa accetta tutte queste divisioni della celebrazione eucaristica? — N.A., Bangaluru, Karnataka state, India
Per molti, Chiesa Cattolica e Rito Romano o Latino sono la stessa cosa. Questo è errato. Il Rito Romano è senz’altro il più largamente diffuso nel mondo ma la Chiesa Cattolica conta ben 23 riti o Chiese diversi. Stando all’Annuario Pontificio, i cattolici orientali sono circa 16,3 milioni.
Il Codice dei Canoni delle Chiese Orientali (abbreviato CCEO, dal nome latino Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium) offre la seguente definizione di “rito”:

“Si definisce rito il patrimonio liturgico, teologico, disciplinare e spirituale, distinto per cultura e circostanze storiche di popoli, che si esprime in un modo di vivere la fede che è proprio di ciascuna Chiesa sui iuris”.

Di conseguenza, “rito” non designa solamente la liturgia di una specifica Chiesa, ma la sua stessa teologia, legge e spiritualità. In alcuni casi il termine può coinvolgere anche l’etnia e il linguaggio. Per questo motivo, vari membri di questi riti preferiscono parlare di chiesepiuttosto che di riti. Altri ancora ritengono che “Chiesa” si riferisce alle persone, e “rito” al loro patrimonio spirituale e culturale.

Non tutte queste 23 Chiese presentano una diversa liturgia, o si differenziano per la sola lingua utilizzata, oppure ancora per le loro tradizioni locali. Per tradizione le principali famiglie liturgiche sono sei: Latina, Alessandrina, Antiochena, Armena, Caldea e Costantinopolitana (chiamata anche Bizantina).
Il rito latino si basa quasi interamente sul rito romano, il quale si divide in forma ordinaria e straordinaria. Vi sono anche altre tradizioni liturgiche Latine, come l’Ambrosiana (solitamente celebrata nell’Arcidiocesi di Milano), la Mozarabica (celebrata in maniera ristretta a Toledo, in Spagna) e quella della città di Braga in Portogallo, che è consentita in quella diocesi ma di fatto non largamente usata. Altre, come il rito della Diocesi di Lione, in Francia, sono cadute in disuso. I riti specifici di alcuni ordini religiosi, come l’Ordine dei Frati Predicatori (o Domenicani), sembrano invece tornare in uso dopo una parentesi di vari anni.
La liturgia Costantinopolitana o Bizantina viene utilizzata da quattordici Chiese, l’Alessandrina da tre, così come l’Antiochena, mentre la Caldea da due e l’Armena da una.

Sarebbe arduo tracciare l’origine e la storia di ciascuna Chiesa. Grossomodo possiamo dire che i vari riti hanno avuto origine dallo sforzo dei diversi popoli di esprimere l’unica fede secondo le proprie tradizioni e caratteristici linguistici, musicali, letterari e artistici.

In qualche modo ciò assomiglia ai quattro Evangelisti, che presentano lo stesso Cristo ma ognuno con sfumature particolari, che messe insieme forniscono un quadro più completo. Non avendo ogni diocesi una propria liturgia, varie regioni del mondo antico tendevano ad unirsi attorno alle diocesi di origine apostolica e le loro liturgie. Roma divenne così il centro del mondo latino. La Chiesa di Alessandria d’Egitto, tradizionalmente fondata da San Marco, divenne l’ispirazione per l’Etiopia. Ad Antiochia, in Siria, la prima sede episcopale di San Pietro, c’erano cristiani di lingua sia greca che aramaica.

Alcuni partirono come missionari verso Est, e dalla loro liturgia si svilupparono il rito Caldeo e quello Siro-Malabarese. Quanti erano di lingua greca si diressero verso Ovest, e le loro usanze si fusero più tardi con le pratiche della capitale dell’Impero Bizantino formando le liturgie Costantinopolitane. I riti Maroniti ed Armeni si svilupparono un po’ più tardi e sintetizzarono molte tradizioni, introducendo inoltre vari elementi originali provenienti dal patrimonio culturale.

Riguardo alla comunione di queste Chiese all’interno dell’insieme cattolico, alcune non si sono mai formalmente distaccate dalla comunione col Papa, nonostante per molti secoli non abbiano più avuto contatti con lui, a causa di una mancanza di comunicazione – se non addirittura di conoscenza della propria esistenza reciproca. Altre sono ritornate alla comunione con Roma dopo un periodo di separazione in vari stadi della storia, persino fino agli inizi del XX secolo.

In questo processo di riunificazione, taluni hanno pensato che un ritorno alla comunione con Roma significasse l’abbandono delle antiche tradizioni e l’adozione del rito Latino. In realtà questo non fu praticamente mai nelle intenzioni, e i Papi, generalmente, vedevano la diversità come un valore piuttosto che una minaccia all’unità. La chiamata all’unità liturgica al termine del Concilio di Trento riguardava soprattutto il rito Romano e non toccò mai le Chiese Orientali.

I Papi reiterarono frequentemente il loro apprezzamento per le qualità specifiche delle Chiese Orientali, e le consideravano un prezioso dono per l’intera Chiesa universale.

Per questo Papa Benedetto XIV nella sua enciclica Allatae Sunt (1) del 1755 richiamò alcuni degli atti dei suoi predecessori in favore dei cristiani orientali:
“13. Nella raccolta di documenti greci, edita a Benevento, si hanno due Costituzioni, di Leone X e di Clemente VII, nelle quali si rimproverano violentemente quei Latini che censuravano nei Greci l’osservanza delle norme che nel Concilio di Firenze erano state loro permesse; soprattutto perché celebravano la Messa con pane fermentato, prendevano moglie prima di adire ai Sacri Ordini, e la conservavano dopo aver ricevuto l’ordinazione, e perché davano l’Eucarestia sub utraque specie anche ai bambini. Pio IV nella Costituzione Romanus Pontifex (n. 75, tomo 2, dell’antico Bollario), mentre stabilisce che i Greci abitanti nelle Diocesi dei Latini sono soggetti ai Vescovi Latini, subito aggiunge: “Con questo tuttavia non intendiamo che i Greci siano sottratti al loro Rito Greco o che siano impediti dagli Ordinari locali o da altri in alcun modo”.

“14. Gli Annali di Gregorio XIII raccolti da Padre Maffeo e stampati a Roma nel 1742 riportano molte cose che lo stesso Pontefice fece, sia pure con esito poco felice, per convertire alla Fede Cattolica i Copti e gli Armeni. Ma si confanno soprattutto al nostro argomento quelle che si leggono nella Costituzione 63 (nel nuovo Bollario al tomo 4, parte 3), e in altre due, cioè la 157 e la 173 dello stesso Bollario (tomo 4, parte 4) a proposito della fondazione in Roma di tre Collegi istituiti dallo stesso Pontefice per Greci, Maroniti e Armeni, nei quali volle che gli alunni delle dette Nazioni fossero educati in modo che restassero sempre nei loro Riti Orientali.

“Fu celeberrima l’Unione dei Ruteni con la Sede Apostolica al tempo di Papa Clemente VIII di felice memoria, i cui documenti si leggono negli Annali del Venerabile Cardinale Baronio dove si espone il decreto fatto dagli Arcivescovi e Vescovi Ruteni per realizzare l’Unione, a questa condizione: “Salve e osservate per intero le cerimonie e i riti del culto Divino e dei Santi Sacramenti, secondo la tradizione della Chiesa Orientale, correggendo soltanto quei particolari che potrebbero impedire l’Unione stessa, in modo che si faccia tutto secondo l’antico costume, come fu una volta” (edizione romana dell’anno 1596, tomo VII, p. 682).

“Ma poco dopo a turbare la pace, si diffuse la voce che nell’Unione erano stati tolti tutti i Riti che i Ruteni avevano usato nella divina salmodia, nel sacrificio della Messa, nell’amministrazione dei Sacramenti e nelle altre sacre cerimonie. Paolo V nel 1615 in una lettera apostolica sotto forma di Breve, che è stampata nella stessa Raccolta di Greci, dichiarò la sua volontà solennemente con queste parole: ‘Purché non contrastino con la verità e con la dottrina della Fede Cattolica e non escludano la comunione con la Chiesa Romana, non c’è stata né c’è l’intenzione, il pensiero e la volontà nella Chiesa Romana di togliere o far scomparire con la citata Unione (i Riti Orientali): né che ciò si potesse dire od opinare, ché anzi i detti Riti per apostolica benignità ai Vescovi e al Clero Ruteno furono permessi, concessi e dati’”.

Poco dopo, riferendosi al clero latino che aveva cercato di obbligare i cattolici orientali ad adottare il rito Latino, il Papa si dimostra intransigente:
“21. Ciò riguarda il passaggio dal Rito Latino al Greco. Ora poi parlando del passaggio dal Rito Orientale e Greco a quello Latino, si può liberamente affermare che questo passaggio è interdetto non come il primo; tuttavia non è lecito al Missionario indurre il Greco e l’Orientale, desiderosi di tornare all’Unità della Chiesa Cattolica, ad abbandonare il proprio Rito, poiché da questo modo di agire possono derivare gravissimi danni, come sopra abbiamo detto.

“I Cattolici Melchiti volentieri, una volta passarono dal Rito Greco a quello Latino: ma ciò fu loro proibito, e i Missionari furono ammoniti a non consigliare quel transito, il cui permesso è riservato al giudizio esclusivo della Sede Apostolica, come è manifesto nella Nostra Costituzione Demandatam del Bollario (tomo 1, 85, paragrafo 35): ‘Inoltre a tutti e ai singoli Melchiti Cattolici, che osservano il Rito Greco, proibiamo espressamente di passare al Rito Latino. A tutti i Missionari comandiamo, a prezzo delle pene che più sotto verranno indicate e di altre che verranno stabilite a nostro giudizio, di non presumere di far passare chiunque di essi dal Rito Greco al Latino, né lo permettano a coloro che lo desiderano, senza avere consultato la Sede Apostolica’”.

Alcune fra queste pene erano:

“Qualsiasi missionario di rito latino, non importa se del clero religioso o secolare, che con il suo consiglio o la sua assistenza induca un fedele di rito Orientale a passare al rito latino, verrà deposto ed escluso dai suoi benefici, in aggiunta alla sospensione ipso facto a divinis ed altre penalità in cui incorrerà, come imposto nella già citata Constitutio Demandatam”.

Più di un secolo dopo, nella costituzione apostolica Orientalium Dignitas del 1894, Papa Leone XIII confermò l’efficacia di queste penalità. Egli inoltre espresse la sua gratitudine per le Chiese Orientali. Il testo comincia con le parole seguenti:
“La dignità delle Chiese Orientali, che vanta antichissime ed insigni memorie, gode in tutto il mondo cristiano di grande venerazione e gloria. Infatti, iniziatasi nell’Oriente, per benignissima decisione di Dio, l’opera della redenzione umana, ne provennero in breve tali sviluppi da fare fiorire splendidamente in quelle Chiese le virtù dell’apostolato e del martirio, della dottrina e della santità, insieme con le consolanti primizie di saluberrimi frutti. Da esse poi mirabilmente si diffuse per ogni parte un’immensa produzione di benefìci nelle altre nazioni allorché il beatissimo Pietro, prìncipe dell’ordine apostolico, per disperdere la molteplice malvagità dell’errore e del vizio, con celeste ispirazione, portò il lume della verità divina, il vangelo della pace, la libertà di Cristo nell’Urbe, dominatrice dei popoli”.

Dichiarò inoltre:

“Infatti, mentre sempre più si comprova l’origine apostolica delle principali Chiese d’Oriente, appare contemporaneamente e risplende l’intima unione che le strinse fin dai primordi con la Chiesa Romana. Né vi è forse argomento più illuminante ad illustrare la nota di cattolicità nella Chiesa di Dio, quanto il singolare ossequio che prestano ad essa quelle diverse forme di cerimonie e quelle lingue, nobili per l’antichità, e più nobili per l’uso che ne fecero gli Apostoli e i Padri”.

In occasione del 15° centenario di San Giovanni Crisostomo (407-1907), San Pio X Papa presiedette alla solenne Messa pontificia di rito Bizantino celebrata il 12 Febbraio 1908 in Vaticano.  Nella lettera che promulgò questa celebrazione scriveva: “Possano gli Orientali da noi separatisi vedere e comprendere con quale sommo e profondo riguardo Noi consideriamo tutti i riti allo stesso modo”.

Nell’enciclica Dei Providentis (1917) Papa Benedetto XV affermò: “La Chiesa di Gesù Cristo non è né Latina né Greca né Slava, ma Cattolica; e parimenti questa non fa alcuna distinzione fra i suoi figli Greci, Latini e Slavi e i membri di tutte le altre nazioni, che sono uguali agli occhi della Sede Apostolica”.

Papa Pio XI aveva un grande rispetto per i riti Orientali e fece moltissimo per preservarli. Nella sua enciclica Ecclesiam Dei del Novembre 1923, pubblicata in occasione del terzo centenario del martire dell’Unità Cattolica, San Josaphat, scrisse: “Così dobbiamo vedere tutti gli individui, tutti radunati a questo modo, in possesso degli stessi diritti, qualsiasi sia la loro razza, lingua o liturgia. La Chiesa Romana ha sempre scrupolosamente rispettato e mantenuto i diversi riti, e ha ogni volta insistito sulla loro preservazione”.

Il suo successore, Papa Pio XII, celebrando il 15° centenario di San Cirillo d’Alessandria, affermò nella sua enciclica del 1944 Orientalis Ecclesiae:

“È necessario infatti che tutti e singoli i popoli di rito orientale in tutto quello che dipende dalla storia, dal genio e dall’indole di ciascuno in particolare, abbiano una legittima libertà che pur tuttavia non contrasti con la vera e integra dottrina di Gesù Cristo. […] Non saranno mai costretti a mutare i loro legittimi riti e le loro antiche istituzioni con le istituzioni e i riti latini. Gli uni e gli altri debbono essere tenuti in uguale stima e uguale lustro, perché incoronano di regale varietà la chiesa madre comune. Né solo questo; ma siffatta diversità di riti e di istituzioni, mentre conserva intatto e inviolabile ciò che per ciascuna confessione è antico e prezioso, non si oppone affatto alla vera e sostanziale unità”.

Il Concilio Vaticano II nel documento Orientalium Ecclesiarum stabilì che le tradizioni delle Chiese Cattoliche Orientali andavano preservate.
Così dichiarò:

“È infatti intenzione della Chiesa cattolica che rimangano salve e integre le tradizioni di ogni Chiesa o rito particolare; parimenti essa vuole adattare il suo tenore di vita alle varie necessità dei tempi e dei luoghi […]”. Tutte loro dovrebbero “[…] preservare i propri legittimi riti liturgici e il loro consolidato stile di vita; […] questi non potranno essere alterati eccetto che per ottenere un organico miglioramento per se stessi”.

La costituzione dogmatica del Concilio Vaticano II sulla Chiesa invece, Lumen Gentium, tratta le Chiese Cattoliche Orientali nel paragrafo 23, stabilendo:

“Per divina Provvidenza è avvenuto che varie Chiese, in vari luoghi stabilite dagli apostoli e dai loro successori, durante i secoli si sono costituite in vari raggruppamenti, organicamente congiunti, i quali, salva restando l’unità della fede e l’unica costituzione divina della Chiesa universale, godono di una propria disciplina, di un proprio uso liturgico, di un proprio patrimonio teologico e spirituale. Alcune fra esse, soprattutto le antiche Chiese patriarcali, quasi matrici della fede, ne hanno generate altre a modo di figlie, colle quali restano fino ai nostri tempi legate da un più stretto vincolo di carità nella vita sacramentale e nel mutuo rispetto dei diritti e dei doveri. Questa varietà di Chiese locali tendenti all’unità dimostra con maggiore evidenza la cattolicità della Chiesa indivisa. In modo simile le Conferenze episcopali possono oggi portare un molteplice e fecondo contributo acciocché il senso di collegialità si realizzi concretamente”.

San Giovanni Paolo II promulgò il Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, e celebrò il centenario della Orientalium Dignitas di Leone XIII con la lettera apostolica Orientale Lumen:

“Poiché infatti crediamo che la venerabile e antica tradizione delle Chiese orientali sia parte integrante del patrimonio della Chiesa di Cristo, la prima necessità per i cattolici e di conoscerla per potersene nutrire e favorire, nel modo possibile a ciascuno, il processo dell’unità”.

“I nostri fratelli orientali cattolici sono ben coscienti di essere i portatori viventi, insieme con i fratelli ortodossi, di questa tradizione. E necessario che anche i figli della Chiesa cattolica di tradizione latina possano conoscere in pienezza questo tesoro e sentire così, insieme con il Papa, la passione perché sia restituita alla Chiesa e al mondo la piena manifestazione della cattolicità della Chiesa, espressa non da una sola tradizione, né tanto meno da una comunità contro l’altra; e perché anche a noi tutti sia concesso di gustare in pieno quel patrimonio divinamente rivelato e indiviso della Chiesa universale che si conserva e cresce nella vita delle Chiese d’Oriente come in quelle d’Occidente”.

In conclusione, la Chiesa Cattolica desidera che i suoi componenti orientali non solo sopravvivano, ma continuino a crescere, ravvivando ed arricchendo la Chiesa Universale con i loro doni.




[Modificato da Caterina63 13/11/2016 13:35]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
Amministra Discussione: | Chiudi | Sposta | Cancella | Modifica | Notifica email Pagina precedente | 1 | Pagina successiva
Nuova Discussione
Rispondi

Feed | Forum | Bacheca | Album | Utenti | Cerca | Login | Registrati | Amministra
Crea forum gratis, gestisci la tua comunità! Iscriviti a FreeForumZone
FreeForumZone [v.6.1] - Leggendo la pagina si accettano regolamento e privacy
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 22:13. Versione: Stampabile | Mobile
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com