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Cerchiamo di comprendere la sacralità della Messa (e del Rito) nella Tradizione Cattolica

Ultimo Aggiornamento: 13/11/2016 13:35
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02/04/2010 12:20
 
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La riforma della Settimana Santa negli anni Cinquanta

Sepolcro a Taggia

Disputationes Theologicae ha pubblicato un magnifico e documentato saggio di don Stefano Carusi sulla riforma della Settimana Santa ai tempi del pontificato di Pio XII. E' uno studio da leggere, assaporare e studiare, per apprendere, nella comparazione tra l'antico e il nuovo (divenuto presto anch'esso obsoleto: le riforme postconciliari erano alle porte), il senso di moltissimi gesti della liturgia di questa settimana. L'esteso articolo si apre con una sinistra citazione dalla costituzione apostolica Missale romanum del 1969 di Paolo VI:
“Si è sentita l'esigenza che le formule del Messale Romano fossero rivedute e arricchite. Primo passo di tale riforma è stata l'opera del Nostro Predecessore Pio XII con la riforma della Veglia Pasquale e del Rito della Settimana Santa, che costituì il primo passο dell'adattamento del Messale Romano alla mentalità contemporanea”
Queste parole gettano retrospettivamente una luce sfavorevole sulla riforma degli anni Cinquanta e le stesse conclusioni del breve saggio non sono encomiastiche per quell'intervento liturgico, che non si limitò ad un 'riaggiustamento' (forse opportuno) degli orari delle cerimonie (la veglia pasquale, come noto, era celebrata fino al 1951 la mattina del Sabato Santo). Il giudizio complessivamente negativo per quella riforma non tange peraltro la venerata figura di Pio XII, cui non si può certo imputare che il suo intervento sia stato un primo passo verso la devastazione liturgica che seguì, dato che solo noi posteri possiamo ricostruire, col senno di poi, quel tragico itinerario discendente. Ecco dunque le conclusioni dell'articolo:


In conclusione, come già affermato, i cambiamenti non si limitarono a questioni di orario, che legittimamente e sensatamente potevano essere modificati per il bene dei fedeli, ma stravolsero i riti secolari della Settimana Santa. Fin dalla Domenica delle Palme si inventa una ritualità verso il popolo e con le spalle alla croce e al Cristo dell’altare, il Giovedì Santo si fanno accedere i laici nel coro, nel rito del Venerdì Santo si riducono gli onori da rendere al Santissimo e si altera la venerazione della croce, nel Sabato Santo non solo si lascia libero sfogo alla fantasia riformatrice degli esperti, ma si demolisce la simbologia relativa al peccato originale e al Battesimo come porta d’accesso alla Chiesa.

In un’epoca che dice di voler riscoprire la Scrittura si riducono i passaggi letti in questi importantissimi giorni, e si tagliano proprio i passaggi evangelici relativi all’istituzione dell’eucaristia nei Vangeli di Matteo, Luca e Marco. Nella tradizione ogni volta che si leggeva in questi giorni l’istituzione dell’eucaristia essa era messa in rapporto con il racconto della Passione, ad indicare quanto l’Ultima cena fosse anticipazione della morte sulla croce dell’indomani, ad indicare quanto l’ultima cena avesse una natura sacrificale. Tre giorni erano consacrati alla lettura di questi passi, la Domenica delle Palme, martedì e mercoledì santo, grazie alla riforma l’istituzione dell’eucaristia scompare dall’intero ciclo liturgico!

Tutta la ratio di questa riforma appare permeata da un misto di razionalismo e archeologismo dai contorni a volte fantasiosi. Non si vuole affatto affermare che questo rito manchi della necessaria ortodossia, sia perché l’affermazione non consta, sia perché l’assistenza divina promessa da Cristo alla Chiesa anche in quelli che la teologia chiama “fatti dogmatici” (e fra essi riteniamo debba annoverarsi la promulgazione di una legge liturgica universale) impedisce l’espressione chiaramente eterodossa all’interno dei riti. A fronte di questa precisazione, non ci si può esimere tuttavia dal notare l’incongruenza e la stravaganza di alcuni riti della Settimana Santa riformata, nel contempo si reclama la possibilità e la liceità di una discussione teologica sull’argomento, nella ricerca della vera continuità dell’espressione liturgica della Tradizione.

Negare che l’ “Ordo Hebdomadae Sanctae Instauratus” sia il prodotto di un gruppo di sapienti accademici, cui purtroppo si accompagnarono avventati sperimentatori liturgici, è negare la realtà dei fatti; con il rispetto che dobbiamo all’autorità papale che promulgò questa riforma ci siamo permessi di avanzare le suddette critiche, poiché la natura sperimentale di queste innovazioni richiede che di esse si faccia un bilancio.

Secondo Padre Carlo Braga: questa riforma fu la “testa d’ariete” che scardinò la liturgia romana dei giorni più santi dell’anno, tanto stravolgimento ebbe notevoli ripercussioni su tutto lo spirito liturgico susseguente. In effetti segnò l’inizio di una deprecabile attitudine per cui in materia liturgica si poteva fare e disfare a piacimento degli esperti, si poteva sopprimere o reintrodurre sulla base di un’opinione storico-archeologica, salvo poi rendersi conto che gli storici si erano sbagliati (il caso più eclatante si rivelerà, mutatis mutandis, il tanto decantato “canone di Ippolito”).

La liturgia non è il giocattolo nelle mani del teologo o del simbolista più in voga, la liturgia trae la sua forza dalla Tradizione, dall’uso che la Chiesa infallibilmente ne ha fatto, da quei gesti che si sono ripetuti nei secoli, da una simbologia che non può esistere solo nelle menti di accademici originali, ma che risponda al senso comune del clero e del popolo, che per secoli ha pregato in quel modo. La nostra analisi è confermata dalla sintesi di Padre Braga, protagonista d’eccezione di quegli eventi: “ciò che non era possibile, psicologicamente e spiritualmente, al tempo di Pio V e Urbano VIII a causa della tradizione (e vorremmo sottolineare questo “a causa della tradizione” nda) della insufficiente formazione spirituale e teologica, della mancanza di conoscenza delle fonti liturgiche, era possibile al tempo di PIO XII”.

Pur condividendo l’analisi dei fatti, sia permesso obiettare che la Tradizione, lungi dal costituire un ostacolo alle opere di riforma liturgica, ne è il fondamento. Trattare con sufficienza l’epoca successiva al Concilio di Trento e definire San Pio V e i Papi che gli succedettero, uomini “dalla insufficiente formazione spirituale e teologica” è pretestuoso e pressoché eterodosso nel suo rifiuto dell’opera plurisecolare della Chiesa. Non è un mistero che questo fu il clima negli anni ’50 e ’60 durante le riforme. Sotto pretesto d’archeologismo si finisce per sostituire alla saggezza millenaria della Chiesa, il capriccio dell’arbitrio personale. Così facendo non si “riforma” la liturgia, ma la si “deforma”.

Sotto il pretesto di restaurare aspetti antichi, sui quali esistono studi scientifici di valore dubbio e altalenante, ci si sbarazza della tradizione e, dopo aver squarciato il tessuto liturgico, si fa un vistoso rammendo ricucendovi un reperto archeologico di improbabile autenticità. L’impossibilità di resuscitare nella loro integralità riti che, se esistiti, sono morti da secoli, fa sì che il resto dell’opera di “restauro” sia lasciato allo sfogo della libera fantasia degli “esperti”.

Il giudizio globale sulla riforma della Settimane Santa, ma non solo, in ragione del carattere di assemblaggio artefatto e di attuazione di intuizioni personali, mal raccordate con la tradizione, è complessivamente alquanto negativo, essa non costituisce certo un modello di riforma liturgica. Si è analizzato il caso della riforma del 1955-56, perché fu, secondo Annibale Bugnini, la prima occasione d’inaugurare un nuovo modo di concepire la liturgia.

I riti nati da questa riforma furono universalmente praticati nella Chiesa per pochissimi anni, in un susseguirsi continuo di riforme. Oggi quel modo artefatto di concepire la liturgia sta tramontando. Una vasta opera di riappropriazione delle ricchezze liturgiche del rito romano si fa strada. Lo sguardo deve andare immancabilmente a ciò che la Chiesa ha fatto per secoli, nella certezza che quei riti secolari beneficiano dell’ “unzione” dello Spirito Santo e in quanto tali costituiscono il modello insostituibile di ogni opera di riforma.

L’allora Cardinal Ratzinger ebbe a dire: “nel corso della sua storia la Chiesa non ha mai abolito o proibito forme ortodosse di liturgia, perché ciò sarebbe estraneo allo spirito stesso della Chiesa”, esse, specie se millenarie restano il faro per ogni opera di riforma.



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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