A tutti voi che passate da qui: BENVENUTI
Se avete desiderio di capire che cosa insegna la Bibbia che il Magistero della Santa Chiesa, con il Sommo Pontefice ci insegna, questo Gruppo fa per voi. Non siamo "esperti" del settore, ma siamo Laici impegnati nella Chiesa che qui si sono incontrati da diverse parti d'Italia per essere testimoni anche nella rete della Verità che tentiamo di vivere nel quotidiano, come lo stesso amato Giovanni Paolo II suggeriva.
Nuova Discussione
Rispondi
 
Pagina precedente | 1 | Pagina successiva

Echi tridentini in letteratura (da Messainlatino) IMPERDIBILE

Ultimo Aggiornamento: 30/10/2011 21:33
Autore
Stampa | Notifica email    
OFFLINE
Post: 39.988
Sesso: Femminile
21/09/2009 15:44
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

[SM=g1740733]

Riporto integralmente quanto segue dal Blog Messainlatino, perchè fa ben meditare...

blog.messainlatino.it/2009/09/georges-brassens-sans-le-latin-sans...



lunedì 21 settembre 2009
Georges Brassens: "Sans le latin, sans le latin, la messe nous emmerde..."

Grazie al contributo di un lettore, Giuseppe, riprende la nostra raccolta di Echi tridentini in letteratura. Già curata da Jacopo (da cui speriamo di ricevere altri approfondimenti letterari), Giuseppe ci presenta oggi il cantautore francese Brassens (e speriamo presto altri ancora). Ma innanzi tutto, vorremmo riportare le brevi note autobiografiche con cui Giuseppe si presenta, e che dicon tutto del valore missionario della Messa di sempre: "nato cattolico, chierichetto precoce e innamorato della Liturgia, mi sono allontanato dalla Chiesa e dalla Fede a partire dagli anni 1964-65; il mio percorso di agnostico convinto ha trovato sulla via, tre anni fa, inopinatamente, una Messa gregoriana frutto dell’indulto di papa Giovanni Paolo. Non me ne sono staccato più e ho intrapreso un percorso tutto nuovo: di pentimento, di riscoperta e amore, di ripensamento e giubilo, di dubbio, di umiltà e di preghiera".


Georges Brassens (1921-1981), sanguigno e gagliardo poeta chansonnier, in Italia è conosciuto soprattutto per le traduzioni di Nanni Svampa e Fabrizio de André (chi scorderà mai lo splendido “Gorilla”, contro il quale a poco gioverebbero i programmi di protezione del CSM?). Non era certo un baciapile, lui: agnostico sornione, anarcoide, umorale, ma dotato d’intelligenza, sensibilità e rispetto, capace persino di musicare ed eseguire con intensa commozione la splendida “Prière” di Francis Jammes
si può ascoltare, in Internet, all’indirizzo:






Nei primi anni settanta volle dire la sua sulla riforma liturgica di papa Montini: da par suo, con le parole sue (che naturalmente un credente non può non trovare eccessive e irriverenti), ma con sincerità e spregiudicatezza. La canzone ha per titolo “Tempête dans un bénitier” (Tempesta in un’acquasantiera); in assenza di un video originale, ecco gl’indirizzi di un paio di esecuzioni dignitose:






Sarà bene precisare che, al di là del divertimento spontaneo e di qualche amara risata, i frequentatori del blog di fede cattolica resteranno giustamente perplessi di fronte alla semplificazione dissacratoria di Brassens: la Messa – per un credente – è pur sempre la Santa Messa e la formula della Consacrazione (in latino, in italiano o in dialetto nepesino) compie l’incomprensibile e meravigliosamente reale miracolo della transustanziazione. Nel silenzio adorante, o nella chiacchierata volenterosa, o persino con un orripilante sottofondo di chitarre e bonghi, il miracolo avviene: ed è quel che più conta.

Ma… fra l’incanto del gregoriano e le lagne similquasisanremesidantan la differenza c’è, si vede, si sente; e grazie, dunque, al beffardo poeta agnostico che ha gli occhi e le orecchie funzionanti e – col suo stile – è il caso di dire che ce la canta e ce la suona. [SM=g1740727]


Qui di seguito, il testo:


Tempête dans un bénitier


Le souverain pontife avecque
Les évêques, les archevêques,
Nous font un satané chantier.
Ils ne savent pas ce qu'ils perdent,
Tous ces fichus calotins,
Sans le latin, sans le latin,
La messe nous emmerde.


A la fête liturgique,
Plus de grandes pompes, soudain,
Sans le latin, sans le latin,
Plus de mystère magique.
Le rite qui nous envoûte
S'avère alors anodin,
Sans le latin, sans le latin,
Et les fidèles s'en foutent.


O très Sainte Marie mère de
Dieu, dites à ces putains
De moines qu'ils nous emmerdent
Sans le latin.


Je ne suis pas le seul, morbleu!
Depuis que ces règles sévissent,
A ne plus me rendre à l'office
Dominical que quand il pleut.
Il ne savent pas ce qu'ils perdent
Tous ces fichus calotins,
Sans le latin, sans le latin,
La messe nous emmerde.


En renonçant à l'occulte,
Faudra qu'ils fassent tintin,
Sans le latin, sans le latin,
Pour le denier du culte.
A la saison printanière
Suisse, bedeau, sacristain,
Sans le latin, sans le latin
Feront l'église buissonnière,


O très Sainte Marie mère de
Dieu, dites à ces putains
De moines qu'ils nous emmerdent
Sans le latin.


Ces oiseaux sont des enragés,
Ces corbeaux qui scient, rognent, tranchent
La saine et bonne vieille branche
De la croix où ils sont perchés.


Ils ne savent pas ce qu'ils perdent,
Tous ces fichus calotins,
Sans le latin, sans le latin,
La messe nous emmerde.
Le vin du sacré calice
Se change en eau de boudin,
Sans le latin, sans le latin
Et ses vertus faiblissent.

A Lourdes, Sète ou bien Parme,
Comme à Quimper Corentin,
Le presbytère sans le latin
A perdu de son charme.
O très Sainte Marie mère deDieu,
dites à ces putains
De moines qu'ils nous emmerdent
Sans le latin.


Provo a darne una traduzione italiana, sperando che Luisa o qualche altro francofono volenteroso mi perdoni le inesattezze e integri e corregga da par suo:


“Tempesta in un’acquasantiera: il sovrano pontefice, e con lui vescovi e arcivescovi, hanno fatto un casino che non ti dico. Non sanno quel che si pèrdono, tutti ‘sti baciapile imbecilli: senza il latino, senza il latino la messa è una gran barba. Alla festa liturgica, niente più riti solenni: senza il latino, all’improvviso, niente più magici misteri. Il rito che ci incantava si rivela, allora, insignificante, senza il latino, e i fedeli zitti zitti se ne vanno. Maria santissima madre di Dio, diglielo tu a questi Fra Stronzoni che ci annoiano (ce li rompono!) senza il latino.
Caspita, non sono io, certo, il solo, da quando imperversano le regole nuove, a non andare più a messa, la domenica, a parte quando piove. Non sanno (…) Rinunciando al mistero, hai voglia a fare tin tin, con le monete della questua! E quando verrà la primavera, accoliti, chierichetti e sacrestani marineranno la chiesa. Maria santissima (…)
Uccellacci arrabbiati e stolidi, corvacci neri intenti a segare, rosicchiare e tranciare il sano e buon vecchio ramo della croce su cui sono appollaiati! Non sanno (…) Il vino del sacro calice si trasforma in acqua da sanguinaccio senza il latino, e le sue virtù si fiaccano. A Lourdes, a Sète, o magari a Parma o a Quimper Corentin, i preti senza il latino hanno perso ogni fascino. Maria santissima (…)



Esiste, di questa canzone, una traduzione ritmica a cura di Betto Balon e Salvo Lo Galbo. Mi pare di averne visto, su Internet, un’esecuzione, ma non riesco più a trovarla. Eccone, comunque, il testo, non fedelissimo ma – a parer mio – di buona efficacia:


"Acquesantiere in tempesta"


Non navigate, o marinai,
per le acquesantiere in tempesta;
il Pontefice ha perso la testa
e ci ha messi tutti nei guai!
Stanno giocandosi il gregge,
tutti questi gabbadei!

Senza il latino, amici miei,
la messa non si regge!
Niente più pompe in cammino,
durante la liturgia,
muore il mistero e la magia,
se tolgono il latino.
Tutto quel rito divino
ci sembrerà un'idiozia
e i parrocchiani andranno via,
se mancherà il latino.
Le nuove messe ci rompono,
Vergine, diglielo tu,
da quando in chiesa il latino
non si usa più.

Non sono l'unico, perdio!
che aborrendo le regole nuove,
solamente se il sabato piove,
fa visita in casa di Dio!
Stanno giocandosi il gregge,
tutti questi gabbadei!
Senza il latino, amici miei,
la messa non si regge!
Senza quel tocco eleusino,
nessun fedele vi fa
un obolo di carità,
se tolgono il latino.

Cerimoniere e scaccìno,
cominceranno via via
a marinar la sagrestia,
se mancherà il latino.
Le nuove messe ci rompono,
Vergine, diglielo tu,
da quando in chiesa il latino
non si usa più.

Questi pretonzoli, in realtà,
non rimangono che pinco palli,
se rosicchiano, come sciacalli,
la croce che sopra gli sta!
Stanno giocandosi il gregge,
tutti questi gabbadei!
Senza il latino, amici miei,
la messa non si regge!
Dai sacri calici, il vino
ci puzzerà di stantio
e lo berremo senza brio,
se tolgono il latino.
Fedeli del Palatino,
miracolati di Lourdes,
cosa potrà ammaliarci più,
se tolgono il latino?

Le nuove messe ci rompono,
Vergine, diglielo tu,
da quando in chiesa il latino
non si usa più!



[SM=g1740733]

[Modificato da Caterina63 21/09/2009 15:47]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.988
Sesso: Femminile
30/09/2009 14:30
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

Echi tridentini in letteratura: Elena Bono


“Quando venne il suo giorno, dopo novecentotrenta anni di vita, Adamo ritornò alla terra. (…) Dentro la tenda, accanto a Adamo, c’era Eva. E dentro Adamo, Dio.

Dio gridava: «Dove sei?». E Adamo cercava di n

ascondersi perché era nudo e insanguinato. Ma ovunque egli muovesse nella profonda oscurità, urtava contro un corpo che versava sangue, ed egli sapeva che quello era il corpo di Abele: la testa ancora infantile e tepida, i lunghi capelli che ora gli si avvinghiavano alle mani tremanti e non lo lasciavano andare.

(…)Dio guardò Adamo. «Vedo le tue lacrime», disse, «miste al sangue di tuo figlio. Non una lacrima è perduta per me, non una goccia di sangue. Fino a quando, Adamo, lotterai contro di me perché non renda giustizia?».Adamo taceva ma il suo cuore era un mare di angoscia che urlava dalle sue profondità fino a Dio. Allora lo Spirito di Dio si turbò.«Tu sei l’opera delle mie mani, ed ecco mi stai davanti come polvere, sangue e pianto. Sento il tuo cuore che grida fino a me».«Perché mi hai creato?» chiese Adamo in mezzo al suo pianto.Lo Spirito di Dio riguardò in se stesso e disse: «Io volevo contemplarmi nell’opera delle mie mani. Ho creato il cielo e la terra, il fuoco e le acque, ma in te ho posto il soffio della mia bocca, ho esultato nella vastità del tuo cuore. Io venivo a parlare con te solo in tutto l’universo. Tu solo, Adamo, eri la mia somiglianza».«Tu mi hai tentato», disse Adamo, «Tu, prima che la donna e il serpente. Perché mi hai tentato?».«Adamo», gridò Dio, «io volevo il tuo spirito in ogni momento dei tempi. Non l’ho preso io, tuo Dio, volevo che tu me lo dessi, in ogni momento dei tempi».Allora Dio e Adamo tacquero, e il loro cuore era pieno di dolore:(…)

Così la bocca di Adamo si aprì alla verità e gridò: «Con la mano di Caino il mio peccato ha ucciso Abele, mio figlio. Io ho detto: Voglio essere Dio; e Tu m’hai calpestato col tuo piede, hai affondato il mio capo nella terra che ha sapore di morte. Ecco, mi hai dato due figli, nati dal dolore della donna: l’uno ha il volto del mio peccato e della mia umiliazione; nell’altro Tu ti sei compiaciuto, hai raggiato dal suo volto, sì che in lui ho rivisto la tua somiglianza. Ed ecco il mio cuore si è riempito di tumulto: hanno urlato il mio peccato e la mia umiliazione, gioia e furioso amore, desiderio di morte e volontà di distruggere la tua traccia. Lo grido innanzi a Te: non volevo uccidere Abele, ma Dio. Ah perché sei tornato nel figlio dell’uomo?».

Lo Spirito di Dio taceva sopra Adamo. E Adamo disse: «Ho due figli e nel tuo segno sta la mia vita. Sino alla fine dei giorni sarò Caino e Abele, perseguiterò la tua somiglianza e gioirò dei tuoi ritorni in me, ucciderò e sarò ucciso nel tuo nome. Sino alla fine. E non ho nessuna speranza». Ansimava e il suo cuore si rompeva nell’affanno.

«Adamo», chiamò Dio, «ascolta ciò che dice il Signore. Dio dice: darò nelle tue mani mio figlio, l’agnello di Dio senza peccato: in Lui la mia somiglianza con te sarà rinnovata per sempre. Dio e Adamo in Lui saranno uno solo. Tu l’ucciderai, nuovo Abele, servendoti dell’albero, me l’offrirai in sacrificio e mangerai la sua carne e berrai il sangue suo. Egli prenderà su di sé i tuoi peccati e in Lui farò giustizia del pianto e del sangue. Starà come segno di pace tra noi, speranza per te ed i tuoi figli fino all’estrema generazione».

«Mai ucciderò Dio», gridò Adamo. Ma lo Spirito di Dio si allontanava come una grande tempesta. (…)”




Elena Bono [nella foto], nata a Sonnino nel Lazio nel 1921, vive da molti anni a Chiavari in Liguria. “La morte di Adamo” è un libro di racconti pubblicato da Garzanti nel 1956. Accolto con entusiasmo da Emilio Cecchi, non ebbe tuttavia riscontro di pubblico significativo (la seconda edizione, Microart’s, è del 1988; chi vuol farsi uno splendido regalo, lo cerchi nel catalogo dell’editrice Le Mani, nella collana che raccoglie tutte le opere poetiche, narrative e teatrali di Elena Bono). Per quanto mi riguarda è un capolavoro della narrativa italiana del secondo Novecento (ma forse andrebbe bene anche l’articolo determinativo). Un grande libro, da leggere e rileggere; a volte lo uso addirittura come occasione di preghiera, a casuale apertura di pagina, a mo’ di versione moderna dell’Imitazione di Cristo. Certo, da quando l’ho letto la prima volta, la recita dei misteri dolorosi del Rosario è costantemente accompagnata da squarci e immagini che mi vengono dalle sofferte illuminazioni di Elena Bono.

Trascrivendo questa pagina mirabile mi si accalcano nella memoria alcune strofe dell’inno “Pange lingua gloriosi lauream certaminis” (Venanzio Fortunato, VI secolo) dal rito tradizionale del Venerdì Santo:

(…)
De parentis protoplasti fraude Factor còndolens,
quando pomi noxialis in necem morsu ruit,
ipse lignum tunc notavit, damna ligni ut sòlveret. (…)

Quando venit ergo sacri plenitudo tèmporis,
missus est ab arce Patris Natus orbis Cònditor
atque ventre virginali carne amictus pròdiit. (…)

Lustra sex qui iam peregit tempus implens còrporis,
sponte libera Redemptor passioni dèditus,
Agnus in Crucis levatur immolandus stìpite.
(…)

[Mosso a pietà per l’inganno in cui cadde Adamo quando precipitò verso la perdizione per aver morso il frutto funesto, il Creatore scelse l’albero che avrebbe riparato i danni dell’albero.

Quando giunse la pienezza del tempo sacro, il Figlio, Creatore del mondo, fu mandato dalla reggia del Padre e, fattosi carne, nacque dal grembo di una Vergine.

Già trascorsi trent’anni, giunto alla piena maturità del corpo, Egli, che volontariamente si era votato alla Passione, viene innalzato sull’albero della Croce come Agnello da immolare].


Giuseppe



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.988
Sesso: Femminile
07/10/2009 22:14
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

Echi tridentini in Mallarmé



Tornando in Italia dall'Irlanda [dopo Heaney] una sosta in Francia è raccomandata. Cercando di volare alto, ecco una perla indiscutibile della letteratura ottocentesca transalpina, "Sainte" di Stéphane Mallarmé [nella foto, scattata niente meno che da Nadar], poesia risalente al 1865:


A la fenêtre recélant
Le santal vieux qui se dédore
De sa viole étincelant
Jadis avec flûte ou mandore,

Est la sainte, pâle, étalant
Le livre vieux qui se déplie
Du Magnificat ruisselant
Jadis selon vêpre et complie:

A ce vitrage d'ostensoir
Que frôle una harpe par l'Ange
Formée avec son vol du soir
Pour la délicate phalange

Du doigt que, sans le vieux santal
Ni le viuex livre, elle balance
Sur le plumage instrumental,
Musicienne du silence.

(Alla finestra ricetto / al sandalo vecchio che si sdora / della sua viola scintillante / con flauto o mandola un tempo // è la santa pallida, e mostra / il libro vecchio che si svolge / del Magnificat fluente / a vespro e compieta un tempo: // a quel vetro d'ostensorio / che sfiora un'arpa dall'Angelo / formata col suo volo della sera / per la delicata falange // del dito che, senza il vecchio sandalo / né il vecchio libro essa oscilla / sul piumaggio strumentale, / musicista del silenzio.)

Poeta difficile per antonomasia (ma un'ambiguità in questi versi è propria della lingua italiana: "santal" in francese è solo il legno di sandalo, al quale ci si riferisce), Mallarmé stesso in una lettera chiarisce l'argomento di questa poesia: una vetrata di chiesa, presumibilmente medioevale, raffigurante santa Cecilia, patrona dei musicisti. Per meglio intendere l'architettura estremamente complessa e raffinata del testo dobbiamo interpretare (non me ne voglia Mallarmé per questo tentativo di chiarimento che avrebbe disapprovato) il verso 9 come uno stato in luogo: "(la santa sta) in quel vetro" eccetera.
 
Il maestro del simbolismo ha qui espresso da par suo una verità tutto sommato semplice e nota (ai tempi) a ogni fedele: la musica liturgica è l'anticipo, la prefigurazione di una musica ineffabile a disposizione di chi sta "oltre", come chi è raffigurato sulle vetrate di una chiesa per esempio. Più in generale voleva forse significare, in linea con la poetica simbolista, che l'arte rimanda a mondi e dimensioni sconosciuti: ma l'immagine che ha trovato più confacente ed espressiva è stata appunto quella della musica sacra, dei Magnificat, dell'ufficio divino e infine della "musica degli angeli", loro corrispettivo celeste. E non era anche questo capacità da parte della Chiesa di confrontarsi e dialogare con il mondo moderno? Alle massime profondità, fra l'altro. O alle vette più alte, se preferite.


Jacopo






Suggerisco di seguire anche i dialoghi del Blog Messainlatino, cliccando su ogni titolo del testo....



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.988
Sesso: Femminile
16/10/2009 22:48
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

Echi tridentini in letteratura: James Joyce


«Solenne e paffuto, Buck Mulligan comparve dall’alto delle scale, portando un bacile di schiuma su cui erano posati in croce uno specchio e un rasoio. Una vestaglia gialla, discinta, gli levitava delicatamente dietro, al soffio della mite aria mattutina. Levò alto il bacile e intonò:

-
Introibo ad altare Dei
[...]

Maestosamente avanzò e ascese la rotonda piazzuola di tiro. Fece dietro-front e con gravità benedisse tre volte la torre, la campagna circostante e i monti che si destavano.
»

Quanto deve essersi divertito, da quale gratificante senso di rivalsa deve essersi sentito invaso e saziato, il cattolico apostata James Joyce (1882-1941), aprendo il primo capitolo dell’Ulisse con questa efficacissima parodia della Messa. (Ma il geniale irlandese non poteva immaginare che la riforma bugniniana avrebbe realizzato qualcosa di altrettanto efficace: di “vestaglie gialle discinte” ne abbiamo viste tante...).

All’antifona di Mulligan risponderà Stephen Dedalus nelle prime battute del lungo, fangoso, maleodorante capitolo dedicato al bordello: “ad deam qui laetificat iuventutem meam”, con trasparente traslato osceno; non prima di aver recitato per intero lo splendido brano di Ezechiele che la liturgia tridentina utilizza nel rito dell’aspersione nel tempo pasquale: “Vidi aquam egredientem de Templo a latere dextro. Alleluia. Et omnes ad quos pervenit aqua ista salvi facti sunt” (Ho visto un’acqua scaturire dal lato destro del Tempio. E tutti quelli cui è giunta quest’acqua sono stato salvati). Né mancano, più avanti nello stesso capitolo, riferimenti blasfemi ad altre parti della Messa e a brani evangelici. Verbi gratia, la battuta di Stephen: “In principio era il verbo, in fine il mondo nei secoli dei secoli. Benedette siano le otto beatitudini”. Ed ecco, in processione grottesca, avanzare e sfilare – in veste di Beatitudini (e cioè “in camici bianchi da internato”) – otto già ubriachi compagni di bagordi (tra i quali torna il Mulligan della parodia iniziale), che bofonchiano in coro: “Birra bue botolo bibblia busillis barnum buggerorum badessa”.

Coraggioso, spregiudicato e: finalmente libero! – così Joyce avrà forse pensato di se stesso, nuovo Sansone capace di abbattere le colonne dell’ipocrisia filistea.
Il Signore abbia pietà di lui e di tutti noi; e ponga sul piatto della bilancia, nel momento del giudizio, il racconto che lo stesso Stephen, nel romanzo giovanile Dedalus: Ritratto dell’artista da giovane, propone, del momento in cui – pentito dei suoi peccati e reso puro da un’intensa confessione – può accostarsi tremando all’Eucarestia:

«
L’altare era coperto di masse fragranti di fiori bianchi: e nella luce del mattino le fiamme pallide dei ceri tra i fiori bianchi erano chiare e silenziose come la sua anima.

S’inginocchiò davanti all’altare coi compagni, tenendo con loro la tovaglia dell’altare sopra una ringhiera vivente di mani. Le sue mani tremarono e la sua anima tremò quando sentì il sacerdote passare da comunicando a comunicando col ciborio.

“Corpus Domini nostri”.

Era vero? Era là in ginocchio, timido e senza peccati, e avrebbe ricevuto sopra la lingua l’ostia e nel suo corpo purificato sarebbe entrato Dio.

“In vitam aeternam. Amen”.

Una vita nuova! Una vita di grazia, di virtù e di felicità! Era vero. Non era un sogno da cui si sarebbe svegliato. Il passato era passato.

“Corpus Domini nostri”.

Il ciborio gli stava innanzi


Giuseppe
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.988
Sesso: Femminile
26/10/2009 18:08
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

Echi tridentini: Thomas Stearns Eliot (e Ildebrando Pizzetti)

Thomas S. Eliot


«(Entra il Terzo Sacerdote, preceduto da un accolito che porta lo stendardo di Santo Stefano)

Il Terzo Sacerdote
Un giorno da Natale,
il dì di Santo Stefano,
Stefano Primo Martire...

Il Coro dei Sacerdoti
– Sederunt principes, et adversum me loquebantur,
et iniqui persecuti sunt me.
– Beati immaculati in via, qui ambulant in lege Domini...

(Entra il Secondo Sacerdote, preceduto da un accolito che porta lo stendardo di San Giovanni Apostolo.)

Il Secondo Sacerdote
Dal dì di Santo Stefano,
un altro giorno, il giorno
di San Giovanni Apostolo.

Il Coro dei Sacerdoti
– In medio Ecclesiae aperuit os ejus,
et implevit eum Domini spiritu sapientiae et intellectu.
– Bonum est confiteri Domino:
et psallere nomini Tuo, Altissime...

(Entra il Primo Sacerdote, preceduto da un accolito che porta lo stendardo dei Santi Innocenti.)

Il Primo Sacerdote
Da San Giovanni Apostolo,
un giorno, il giorno dei Santi Innocenti...

Il Coro dei Sacerdoti
Ex ore infantium, Deus,
perfecisti laudem propter inimicos Tuos...

Il Secondo Sacerdote
Dal dì degli Innocenti, un altro giorno:
oggi, dopo Natale, il quarto giorno...

Il Coro dei Sacerdoti
Gaudeamus omnes in Domino,
diem festum celebrantes...»


San Tommaso di Canterbury (Thomas Becket) fu sgozzato nella sua cattedrale, fra le grida di terrore del clero e dei fedeli, il 29 dicembre 1170, a opera di quattro sicari inviati dal re d’Inghilterra Enrico II: il santo arcivescovo era colpevole di non essersi piegato alle pretese cesaropapiste del sovrano.

Il grande Thomas Stearns Eliot (1888-1965), americano ma naturalizzato inglese, convertito all’anglo-cattolicesimo, si ispirò alla vicenda per uno dei capolavori della letteratura novecentesca, il dramma “Murder in the Cathedral”, rappresentato per la prima volta nel 1935. Il compositore Ildebrando Pizzetti ne trasse il libretto per l’opera “Assassinio nella cattedrale” e lo musicò con intensa emozione (1958), attingendo a esiti di forte spiritualità.

A me sembra idea davvero originale scandire il trascorrere dei giorni dopo Natale, in attesa di un esito drammatico che tutti temono e che su tutto incombe, utilizzando antifona e versetto dell’Introito delle messe del 26, 27, 28 e 29 dicembre.

Ma gli “echi tridentini” nel dramma di Eliot non finiscono qui. Due altri esempi vorrei presentare.

- L’emozione si fa angosciosa nel momento in cui – nella scena che precede immediatamente il martirio – un coro di preti dietro le quinte intona la sequenza dei morti, il “Dies irae”; e intanto il Coro femminile in scena si abbandona a immagini (della morte e dell’inferno) che fanno davvero tremare:

«(...) Gli agenti dell’inferno scompaiono,
le presenze umane si ritraggono
e si dissolvono in polvere nel vento,
dimenticate, immemorabili. Rimane soltanto
il bianco volto piatto della Morte,
silenziosa serva di Dio.
E dietro il volto della Morte il Giudizio
e dietro il Giudizio il Vuoto, più orrido
delle frenetiche forme dell’inferno;
inesistenza, assenza, separazione da Dio;
l’orrore del viaggio senza sforzo
verso il territorio deserto che non è territorio,
ma solo assenza, inesistenza, il Vuoto (...)
Non è la cosa chiamata morte che temiamo,
ma ciò che oltre la morte non è morte.
Chi allora potrà implorare per me, chi allora
ci sarà a intercedere per me, nell’estrema mia angustia?».
“Quid sum, miser, tunc dicturus,
quem patronum rogaturus
cum vix iustus sit securus?”
«Morto sul legno, mio Salvatore,
non fare che sia vano il tuo dolore»
“Quaerens me sedisti lassus,
redemisti crucem passus:
tantus labor non sit cassus”
«Salvami dalla paura a cui mi arrendo:
polvere sono e alla polvere tendo»
“Oro supplex et acclinis,
cor contritum quasi cinis:
gere curam mei finis”.

- Nel finale del dramma il canto in sottofondo del “Te Deum” sostiene ed illumina la trepidazione del Coro femminile, che contemplando il cadavere insanguinato di Becket si volge a Dio con accenti palesemente ispirati al “Cantico” di Francesco d’Assisi:
«Noi ti lodiamo, Dio, per la tua gloria che si dispiega in tutte le creature della terra, nella neve, nella pioggia, nel vento, nella tempesta; in tutte le tue creature, nei cacciatori come nelle prede. Perché tutte le cose esistono solo in quanto Tu le vedi, solo in quanto Tu le conosci; tutte le cose esistono solo nella Tua luce e la Tua gloria è proclamata anche da colui che Ti nega; le tenebre proclamano la gloria della luce. (...)»

[Per il primo esempio ho preferito riportare il testo del libretto d’opera; ma l’idea di utilizzare l’introito della Messa per scandire i giorni che passano è già nel dramma originale. Il secondo e il terzo esempio sono tratti dalla traduzione italiana del dramma di Eliot, a cura di Tommaso Giglio e Raffaele La Capria, edita da Bompiani (Milano, 1985). (Nel secondo esempio, l’accostamento fra i versi di Eliot e alcune particolari strofe del “Dies irae” è iniziativa mia). Fra le esecuzioni discografiche dell’opera, straordinaria mi sembra quella della Deutsche Grammophon diretta nel 1960 da Karajan, con un cast assolutamente meraviglioso, ma in lingua tedesca. In Internet si trovano riferimenti a esecuzioni (anche in dvd) molto più recenti. Io consiglio di partire da qui:











Giuseppe

blog.messainlatino.it/2009/10/echi-tridentini-thomas-stearns-elio...

[SM=g1740733]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.988
Sesso: Femminile
02/11/2009 10:49
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

Echi tridentini in Giuseppe Gioachino Belli

È ttant’avaro quer vecchio assassino
che schiatterebbe pe nun dà una spilla,
e ppe nun spenne l’arma d’un quadrino
nun ze farebbe dì mmezza diasilla.

La matina, in ner batte l’acciarino
pe ppreparasse er tè de capomilla,
pijja un pezzo de lesca piccinino
piccinino ppiù assai de la favilla.

La bbarba se la fa ssenza sapone,
e ’r zu’ rasore nu l’affila mai
pe ppavura che vvadi in cunzunzione.

E ar tempo de li frutti fa er mistiere
d’ariccojje ossi, e cquanno ce n’ha assai
ne va a vvenne le mànnole ar drughiere.

(E’ tanto avaro, quel vecchio maledetto, che preferirebbe crepare piuttosto che regalare uno spillo, e per non spendere l’anima di un quattrino non si farebbe recitare nemmeno mezza “diasilla”. Al mattino, nel battere l’acciarino per prepararsi un tè di camomilla, usa un pezzetto di esca proprio minuscolo, molto più piccolo di una scintilla. La barba se la fa senza sapone, e il rasoio non lo affila mai per paura che vada in consunzione. E al tempo della frutta fa il mestiere di raccogliere i nòccioli, e quando ne ha tanti va a vendere le mandorle al droghiere).

Il sonetto, datato 13 settembre 1835, presenta – sotto il titolo “L’avaro” – una figura efficacemente scolpita, un pitocco senza dignità. Il motivo della nostra scelta è, peraltro, in quella misteriosa parola che non abbiamo voluto né potuto tradurre: “diasilla”. E’ questa, l’eco tridentina: dietro la misteriosa “diasilla”, che il vecchio miserabile, pur di risparmiare quattrini, eviterebbe di farsi recitare all’occorrenza, c’è la notissima sequenza della messa dei morti, il “Dies irae”.

La “diasilla” conserva un posto non cancellabile nei miei ricordi d’infanzia: era una lunga preghiera, in un italiano mescolato con voci dialettali e misteriose radici latine; preghiera e, insieme, una sorta di profezia, che veniva recitata in occasioni extra-liturgiche. Non tutti ne conoscevano il testo, considerato in qualche modo riservato a pochi, anche se non esplicitamente segreto; alcune donne, povere e anziane, si offrivano di recitarlo in cambio di qualche moneta o un po’ di cibo (due patate, un frutto, un pezzo di pane). [Chiara, adesso, la metafora paradossale utilizzata dal Belli nel suo sonetto?].

Nella cultura contadina fino a una cinquantina d’anni fa, pregare per la salvezza dell’anima dei “poveri morti”, recitare orazioni “in suffragio di quelle anime sante e benedette in Purgatorio”, era un dovere importante, rappresentava un legame di pensieri e di affetti consolante e ristoratore; significava, oltre al resto, fare i conti con l’idea della morte, trovare la formula che alleggerisse la naturale paura della fine, del distacco inevitabile e inesorabile. La Messa dei morti e le esequie, prima dell’incongrua riforma bugniniana, erano una cosa seria. Non s’insultava il dolore cocente gridando “Alleluia!” e via schitarrando: i testi e i canti oscillavano fra il terrore del passo estremo e del giudizio, da una parte, e la speranza della luce e del riposo, dall’altra. Nel cuore della celebrazione, il canto del “Dies irae” ne rappresentava la sintesi mirabile: la Chiesa di Cristo, madre e maestra, porgeva ai parenti e agli amici in lacrime il dono della “caritas in veritate”.

Per quelli, fra i nostri “naviganti”, che non dovessero averla familiare, vorrei qui presentarla, proponendone il testo integrale e una proposta di traduzione in italiano; alla fine, per chi avrà voglia di seguirmi in un’escursione nella tradizione popolare tosco-laziale, giungeremo a un esempio di “diasilla”.

Dies irae dies illa,
solvet saeclum in favilla
teste David cum Sibylla.

Quantus tremor est futurus
quando judex est venturus
cuncta stricte discussurus!

Tuba mirum spargens sonum
per sepulcra regionum,
coget omnes ante thronum.

Mors stupebit et natura,
cum resurget creatura
Judicanti responsura.

Liber scriptus proferetur
in quo totum continetur
unde mundus judicetur.

Judex ergo cum sedebit
quicquid latet apparebit,
nil inultum remanebit.

Quid sum, miser, tunc dicturus,
quem patronum rogaturus
dum vix justus sit securus?

Rex tremendae maiestatis,
qui salvandos salvas gratis,
salva me, fons pietatis.

Recordare, Jesu pie,
quod sum causa tuae viae,
ne me perdas illa die.

Quaerens me sedisti lassus,
redemisti crucem passus;
tantus labor non sit cassus.

Juste Judex ultionis,
donum fac remissionis
ante diem rationis.

Ingemisco tamquam reus,
culpa rubet vultus meus:
supplicanti parce, Deus.

Qui Mariam absolvisti
et latronem exaudisti,
mihi quoque spem dedisti.

Preces meae non sunt dignae,
sed tu, bonus, fac benigne
ne perenni cremer igne.

Inter oves locum praesta
et ab haedis me sequestra
statuens in parte dextra.

Confutatis maledictis
flammis acribus addictis,
voca me cum benedictis.

Oro supplex et acclinis,
cor contritum quasi cinis,
gere curam mei finis.

Lacrimosa dies illa
qua resurget ex favilla
judicandus homo reus:
huic ergo parce, Deus.
Pie Jesu Domine,
dona eis requiem.
Amen.


(Giorno d’ira, quel giorno che dissolverà il mondo nel fuoco, come già previdero David e la Sibilla. Come tremeremo quando il Giudice verrà a contestarci, inesorabile, ogni colpa! Uno squillo di tromba, mirabilmente risuonando per i sepolcri di regione in regione, tutti trascinerà dinanzi al trono. Stupefatta la morte, e con lei la natura, quando ogni creatura riprenderà vita per rispondere al Giudice divino. Un libro verrà mostrato, in cui tutto sarà compreso, ogni elemento di giudizio. Quando infine il Giudice prenderà posto, ogni cosa nascosta apparirà in piena luce, nulla rimarrà invendicato. Che dirò allora, disgraziato? A chi chiederò protezione quando a malapena i santi saranno al sicuro? Re di tremenda maestà, tu che salvi chi vuoi, per tua grazia salva me, fonte di pietà. Ricorda, Gesù pietoso, che io sono la causa del tuo venire al mondo: quel giorno, non condannarmi. Cercando me, pecorella smarrita, stanco ti sedesti; mi hai redento soffrendo la croce; non sia inutile tanta fatica. Giusto Giudice di vendetta, donami il perdono prima del giorno della resa dei conti. Pianti e lamenti per me, colpevole, il viso mi s’infiamma di rossore; Dio, abbi pietà di chi ti supplica. Hai assolto Maria, hai esaudito la preghiera del ladrone, e anche a me hai dato speranza. Non son degno neppure di pregarti, ma nella tua bontà fa’ ch’io non debba bruciare nel fuoco eterno. Preparami un rifugio fra le tue pecorelle, separami dai caproni, ponimi alla tua destra. Confutati i maledetti destinati alle fiamme soffocanti, chiamami fra i benedetti. Supplice, disteso ai tuoi piedi, ti prego col cuore incenerito dal rimorso: prenditi cura della mia morte. Giorno di lacrime, quello in cui dal fuoco risorgerà l’uomo reo, pronto per il giudizio; Dio, perdona dunque anche lui. Gesù, Signore di pietà, dona a tutti riposo. Amen.)

Sequenza composta di diciassette terzine a rima baciata; i versi sono ottonari (nella metrica latina, quantitativa, corrisponderebbero al trocaico). Esse sono seguite da un finale, articolato in due distici di ottonari a rima baciata e in un distico di senari sdruccioli non rimati. E’ attribuita al frate francescano Tommaso da Celano, morto nel 1256.

Nel “Dies irae” è ravvisabile un’articolazione tematica in tre parti. Le prime sei strofe presentano una sorta di cronaca di quanto avverrà, in un futuro indeterminato e perciò tanto più pauroso: il mondo che si dissolve nel fuoco dell’ira divina, il terrore di tutti all’apparire del Giudice, gli squilli di tromba che ridesteranno tutte le anime, costrette a riassumere sembianze umane per l’ultimo atto, lo stupore della Morte e della Natura di fronte al capovolgimento di ogni legge (i morti risorgono!), il grande libro in cui colpe e meriti saranno scritti nero su bianco e mostrati a tutti, prima della sentenza finale. La seconda parte (dalla settima alla diciassettesima strofa) procede presentando, accostate per contrasto o analogia, immagini e riflessioni di paura e speranza; la forma prevalente è quella della preghiera: Gesù ha tanto amato l’umanità, per essa si è incarnato e ha sopportato passione e morte, ha perdonato ladroni e prostitute, avrà dunque pietà anche di noi peccatori; ma a queste immagini si alternano lampi di terrore: il Re di tremenda maestà, il giusto Giudice di vendetta, i maledetti destinati alle fiamme soffocanti. Nei tre distici finali la tensione sembra sciogliersi in lacrime di pentimento, attraverso le quali anche gli occhi del “reo” possano intravedere il perdono e il riposo eterno.

Musicalmente il “Dies irae” presenta – a parte i distici finali, che seguono una loro melodia originale – tre schemi, che si ripetono nelle varie strofe raccolte a due a due. Il primo schema, di grande impatto per la sua terribile semplicità, riveste le strofe 1 e 2, 7 e 8, 13 e 14. Indimenticabile l’incipit, che scandisce martellante e inesorabile l’idea stessa di Giudizio Finale: fa mi fa re mi do re re. Il secondo schema – che riguarda le strofe 3 e 4, 9 e 10, 15 e 16 – si apre quasi con un grido di paura (la do do si sol la la sol fa sol la la re), per poi ripiegare sulla melodia del primo schema, conferendogli in tal modo una presenza ossessiva e, nella sua ripetitività, inesorabile. Il terzo schema, più ampio e rasserenante, sembra assumere le movenze di una preghiera; le strofe interessate sono la 5 e 6, la 11 e 12, la 17.

Precisi elementi testuali e musicali rendono evidente la dipendenza del “Dies irae” dallo splendido responsorio “Libera me Domine”, molto più antico; prima della sciagurata riforma bugniniana esso veniva eseguito durante il rito delle esequie:

Libera me, Domine, de morte aeterna,
in die illa tremenda,
quando coeli movendi sunt et terra,
dum veneris judicare
saeculum per ignem.

Tremens factus sum ego et timeo,
dum discussio venerit
atque ventura ira,
quando coeli movendi sunt et terra.

Dies illa dies irae,
calamitatis et miseriae,
dies magna et amara valde,
dum veneris judicare
saeculum per ignem.

Requiem aeternam dona eis, Domine,
et lux perpetua luceat eis.

Libera me, Domine...

(Liberami, Signore, dalla morte eterna in quel giorno tremendo quando cieli e terra saranno sconvolti e tu verrai a giudicare il mondo col fuoco. Io sarò tutto tremante di paura quando verrà il giudizio e l’ira, mentre cieli e terra saranno sconvolti. Giorno d’ira quel giorno, di calamità e miseria, giorno grande e di grande amarezza, quando verrai a giudicare il mondo col fuoco. L’eterno riposo dona loro, Signore, e per essi risplenda la luce perpetua. Liberami, Signore...).

Ma torniamo al “Dies irae”, e alla “diasilla” sua derivazione. Non è difficile immaginare perché questa sequenza abbia tanto colpito la sensibilità popolare da restare per qualcosa come sette secoli nella tradizione folclorica, in vaste zone d’Italia: personalmente conosco varianti venete, toscane, laziali, marchigiane, campane. Fra le tante privilegio la “mia” versione, che ho appreso quasi sessant’anni fa da un’anziana donna, contadina analfabeta dell’alto Lazio:

Diasilla diasilla
tutti secoli in favilla,
scrisse Davide e Sibilla.

Giorno trema, giorno scuro
il Giudizio sarà duro,
giorno senza più futuro.

Soneranno quattro trombe,
scapparanno dalle tombe
brutte facce e brutte ombre

e ripiglia la figura
che gli tolse la natura,
lasciarà la seppoltura.

Libro scritto e tribbunale
pesaranno bene e male,
come e quanto, tale e quale.

Ce sarà pena e dolore:
a giudizio il peccatore
della colpa e dell’errore.

Ce sarà pena e tormenti:
pure il giusto batte i denti,
‘un contaranno i pentimenti.

La tremenda maestà,
salva ............... per bontà,
Tu sei fonte di pietà.

Mi cercasti in ogni chiasso,
mi seguisti passo passo,
salva me da Satanasso!

Ci creasti e ci salvasti,
nel legno della Santissima Croce ci ricomprasti.
Fa’, Dio mio, che questo basti.

Giusto Giudice in funzione,
dacci Tu la remissione,
della pena la razione.

Arrossisco come rio
pe la colpa e ‘l fallo mio
e così m’aiuti Iddio!

A Maria li giorni tristi
e a Ladrone compatisti,
pure a me t’impietosisti.

O Signore, non so’ degno,
ma la Croce, il santo legno...
dammi un posto nel tuo Regno.

Non c’è in giro anima onesta:
scegli quella e scegli questa,
io mi siedo alla tua destra.

Contristati maledetti
stanno al fuoco e stanno stretti,
chiama me fra i benedetti.

Nello giorno spaventoso,
Gesù Cristo pietoso,
dàtece pace e riposo.

Lacrimosa diasilla
quando tutto va in favilla,
giudicando l’uomo rio
ci perdona e assolvi Iddio.
Diasilla lacrimosa
in eterno ci riposa.
Amen.
Giuseppe



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.988
Sesso: Femminile
07/11/2009 15:54
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

sabato 7 novembre 2009

Echi tridentini: Pirandello e il suddiacono

«— Avevate preso gli Ordini?
— Tutti no. Fino al Suddiaconato.
— Ah, suddiacono. E che fa il suddiacono?
— Canta l’Epistola; regge il libro al diacono mentre canta il Vangelo; amministra i vasi della Messa; tiene la patena avvolta nel velo in tempo del Canone.
— Ah, dunque voi cantavate il Vangelo?
— Nossignore. Il Vangelo lo canta il diacono; il suddiacono canta l’Epistola.
— E voi allora cantavate l’Epistola?
— Io? proprio io? Il suddiacono.
— Canta l’Epistola?
— Canta l’Epistola.
Che c’era da ridere in tutto questo?
Eppure, nella piazza aerea del paese, tutta frusciante di foglie secche, che s’oscurava e rischiarava a una rapida vicenda di nuvole e di sole, il vecchio dottor Fanti, rivolgendo quelle domande a Tommasino Unzio uscito or ora dal seminario senza più tonaca per aver perduto la fede, aveva composto la faccia caprigna a una tale aria, che tutti gli sfaccendati del paese, seduti in giro innanzi alla Farmacia dell’Ospedale, parte storcendosi e parte turandosi la bocca, s’erano tenuti a stento di ridere. (...)

La fede si può perdere per centomila ragioni; e, in generale, chi perde la fede è convinto, almeno nel primo momento, di aver fatto in cambio qualche guadagno; non foss’altro, quello della libertà di fare e dire certe cose che, prima, con la fede non riteneva compatibili.
Quando però cagione della perdita non sia la violenza di appetiti terreni, ma sete d’anima che non riesca più a saziarsi nel calice dell’altare e nel fonte dell’acqua benedetta, difficilmente chi perde la fede è convinto d’aver guadagnato in cambio qualche cosa. Tutt’al più, lì per lì, non si lagna della perdita, in quanto riconosce d’aver perduto in fine una cosa che non aveva più per lui alcun valore.
»

Tutti gli abitanti del paese (di cui non viene fatto il nome, ma la zona è identificabile grazie al riferimento ai monti Cimini e al Pian della Britta) ridacchiano e si danno di gomito, totalmente incapaci di capire. Il padre del ragazzo, dopo aver tentato di riportarlo alla fede a suon di legnate, si rassegna a riprendersi in casa l’ex seminarista che – dice lui – è tornato in paese per “mettersi a fare il porco”. Il poveretto – che in realtà si è lasciato attirare in un amore compassionevole e partecipe per la natura in tutte le sue manifestazioni, soprattutto quelle più umili e insignificanti, fino ad aderire a una sorta di panteismo – sarà chiamato beffardamente da tutti col nomignolo di “Canta l’Epistola”.

La conclusione della vicenda è tragica: poiché il racconto è scritto davvero molto bene, mi piacerebbe che i lettori curiosi fossero stimolati ad andarselo a cercare (anche in rete: ad esempio, qui) e a leggerselo integralmente; e per questo eviterò di anticiparla. Il titolo della novella è, appunto, “Canta l’Epistola”, e fa parte della raccolta “La rallegrata”.

Chi ama Pirandello potrà seguire non senza emozione uno dei temi suoi più luminosi, dalla comparsa magico-sacrale della luna nella novella di Ciaula (1907), al filino d’erba in “Canta l’Epistola” (1911), fino al lento dissolversi di Moscarda nel finale del romanzo “Uno nessuno e centomila” (1926): “Ah, non aver più coscienza d’essere, come una pietra, come una pianta! Non ricordarsi più neanche del proprio nome!”.

Tutti noi credenti potremo, in aggiunta, tornare a stupirci per l’attenzione che Pirandello – un agnostico dichiaratamente anticlericale ma con segni evidenti, anche lui come Tommasino Unzio, di “sete d’anima” – dimostra nei confronti della liturgia cattolica e dei suoi simboli plurisecolari.

Giuseppe


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.988
Sesso: Femminile
16/11/2009 09:11
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

Echi tridentini: Bruce Marshall



Dello scrittore scozzese Bruce Marshall (1899-1987), convertito al cattolicesimo nel 1917, ho letto diversi anni fa – e riletto in questi giorni, in anzianotte edizioni Longanesi – tre bei romanzi, peraltro riediti di recente da Jaca Book e facilmente rintracciabili in libreria. Il più intenso è forse “A ogni uomo un soldo”, il più frizzante e di facile lettura “Il miracolo di padre Malachia”; ma per questa ricerca di echi tridentini in letteratura il più ricco mi sembra “Il mondo la carne e padre Smith”, tenerissima e affettuosa narrazione in forma biografica pubblicata nel 1944.

Al centro della vicenda, che procede dal 1909 al 1940, è un prete cattolico, parroco di periferia in una Scozia pervicacemente protestante, ostile e spesso persecutoria e aggressiva. La parrocchia di padre Smith non può permettersi una chiesa vera e propria: la Messa della domenica viene celebrata al mercato della frutta, concesso in affitto dal municipio della città. Col passar degli anni, risparmiando monetina su monetina, riuscirà a costruire una chiesa parrocchiale, consacrandola al SS. Nome, ma l’inaugurazione ufficiale non ci sarà mai: due giorni prima della data stabilita le bombe tedesche la spazzeranno via, e il buon prete – con la sua fede eroica e la sua bella semplicità – farà appena in tempo, a costo della vita, a mettere in salvo la pisside con le ostie consacrate.

Accanto a padre Smith, tanti comprimari: il vescovo, diversi sacerdoti, un gran numero di fedeli un po’ santi un po’ peccatori: spiccano un gruppo di suore francesi, costrette all’esilio oltre Manica da un governo “democratico”, tanto illuminato e tanto tanto laico; il giovane Angus McNab, chierichetto nel 1909, che padre Smith, cappellano militare, ritrova e conforta in Francia durante la Grande Guerra, accompagnandolo poi al patibolo dopo un difficile dopoguerra e una condanna per uxoricidio; e poi, e soprattutto, Elvira e Giuseppe, che padre Smith battezza in fasce al mercato della frutta nel capitolo I e che lo assisteranno, nel capitolo XXXV, nel momento del ritorno alla Casa del Padre: lei dignitosa e salda nella fede anche nel travaglio di scelte di vita controverse (Hollywood!), lui acuto e coraggioso sacerdote, poi giovanissimo vescovo.

Lo stile è costantemente ispirato a una leggerezza di tocco frutto di humour di buona razza. La dimensione tragica dell’esistenza, la presenza inquietante del male ci sono e come; ma fra le pagine scorre una vena di serenità semplice e pulita, figlia di una fede vivace, naturale e allegra come un bicchiere di vino buono.

Echi della liturgia tridentina sono presenti in tutto il romanzo, venendo a costituire, nel richiamo costante alla liturgia, quasi una griglia d’interpretazione; a me fanno venire spesso un groppo alla gola, e nelle narici un profumo lieve lieve di paradiso perduto. Dovendo scegliere, riporto qui di seguito quattro brani (dai capitoli I, II, XXII e XXV), che si riferiscono, nell’ordine: alla Messa celebrata da padre Smith al mercato della frutta; alla Benedizione eucaristica officiata dal vescovo all’arrivo delle suore francesi; alla prima Messa del novello sacerdote Giuseppe Scott; alla Messa funebre e alle esequie di una delle suore.


*


«Quando il padre Smith uscì dal confessionale, la signorina O’Hara era ancora alle prese col coro, ma al vedere il prete che s’avvicinava interruppe la prova. “Mi pare che adesso ci siamo, padre; l’Introito zoppica ancora un po’ ma insomma...”. “Son sicuro che andranno benone”, rispose il prete, sorridendo alla signorina O’Hara e ai cantori stanchi e pieni d’impegno, coi loro cappelli a cencio e le loro gole da piccioni pavoncelli. E anche loro sorrisero, perché avevano simpatia per il padre Smith e perché provavano tanto gusto a cantar le lodi del Signore in quel bel latino sonoro. (...) I fedeli si alzarono quando il padre Smith fece il suo ingresso solenne. (...) “Asperges me”, intonò con la sua voce gutturale (per il canto, così aveva detto il vescovo, non sarebbe mai stato un asso), su di che la signorina O’Hara e il suo coro rimbombante e stridulo di biscazzieri, di agenti d’assicurazione e di vergini incontaminate proseguirono: “Domine, hyssopo et mundabor”. Il padre Smith percorse le file dei fedeli (...) e spruzzò di gocce d’argento i facchini ferroviari, gli scaricatori del porto, i marinai, le maestre di scuola, le commesse e le servette, che si segnarono. Sui capelli, sugli scialli, sulle zucche pelate, il prete spargeva l’acqua santa, lavando tutti, simbolicamente, dai pensieri e dalle ambizioni dei giorni feriali. (...) Alle tre girls del varietà, coi capelli che parevano trucioli, il padre Smith diede una spruzzatina speciale, perché quei loro visi gialli gli fecero un effetto così tremendo; e lo stesso fece per il prof. Brodie Ferguson, in terza fila, perché pensava che questo metafisico soffrisse di orgoglio intellettuale.»

*

«Quando tolse l’Ostia dal tabernacolo, cominciava a farsi buio; nella cappella, le sole luci erano le candele dell’altare, che splendevano come stelle. Nell’ombra sfumata e tenera, le suore, in ginocchio, cantavano parole bellissime, e perfino la grossa fetta di viso di mons. O’Duffy aveva un che di sacro, lì sospesa sopra la tastiera, come una luna rossa e cruda. Le suore cantarono “O Salutaris Hostia” e le litanie della Madonna: al padre Smith parve di non aver mai udito un suono più squisito delle sillabe “Speculum Justitiae” modulate chiare e dolci da quelle invisibili labbra francesi. Poi cantarono la “Salve Regina” e il “Tantum ergo”, e il vescovo, alzando l’ostensorio, tracciò il segno della Croce, lassù, sopra le suore inginocchiate, stendendo le braccia come a benedire anche tutti i peccatori che si trovavano nel mondo. Poi, mentre il padre Smith riponeva il Santissimo nel tabernacolo, le suore cantarono, come un piccolo galoppo pio, “Laudate Dominum”, e dopo ricantarono tutti insieme, in mezzo alle volute d’incenso, “Adoremus in aeternum”; quindi il vescovo, il padre Smith e il padre Bonnyboat, coi loro ricchi paramenti bianchi, uscirono di cappella.»

*

«... si riunirono in sacrestia ed aiutarono il padre Scott a indossare la vecchia pianeta rossa pesante che era stata portata dal Curato d’Ars, ora S. Giovanni Vianney, e che le suore avevano tirato fuori per l’occasione. Appena fecero il loro ingresso in cappella, madre Leclerc si mise a suonare “Ecce sacerdos magnus”. Fortuna che lo sapeva a memoria: piangeva così forte (...) che non riusciva a leggere le note. Le bambine invece non erano troppo sicure delle parole, avendole imparate soltanto la settimana prima, e quando arrivarono a “non est inventus similis illi, qui conservarem legem Excelsi”, s’incagliarono e non furono più capaci di andare avanti; ma madre Leclerc non se la prese troppo: tanto, sapeva che Dio sentiva lo stesso. (...) Dopo aver letto il Vangelo col suo opportuno avvertimento: “Ecce, ego mitto vos sicut oves in medio luporum. Estote ergo prudentes sicut serpentes et simplices sicut columbae”, il padre Scott si ritirò dall’altare e il vescovo prese a parlare (...) Disse che tanto il sacerdote novello quanto i bambini che si accingevano a ricevere dalle sue mani la prima comunione dovevano sempre ricordare che assai più grande dei prodigi del treno, dell’aeroplano e del telegrafo senza fili era il miracolo del SS. Sacramento, nel quale Gesù tornava sempre a discendere sull’altare in un vento bianco e mondo. Il sacramento dell’Ordine, col quale vescovi, sacerdoti e diaconi venivano consacrati ed ordinati per compiere il lavoro di Dio, garantiva la continuità di questo miracolo attraverso i secoli. Il Signore, prima di ascendere al cielo, aveva dato facoltà ai suoi apostoli non solo di rimettere i peccati e di trasformare il pane e il vino nel suo Corpo e nel suo Sangue come aveva fatto Egli stesso nell’ultima cena, ma anche di trasmettere ad altri questo potere sacro, onde i sacramenti potessero durare per sempre, attraversando continenti e foreste vergini, sopravvivendo a re, regine e papi, scivolando giù giù, lungo le finestre d’imperi, regni e repubbliche, in una meravigliosa fune d’oro e d’argento. Questa fune era nota ai teologi col nome di successione apostolica, ed ogni volta che un vescovo ordinava un sacerdote scendeva dal paradiso un gran soffio di Spirito Santo che gonfiava l’anima dell’ordinando degli stessi poteri che il Signore aveva soffiato sugli apostoli quando aveva loro comandato di andare a insegnare a tutte le nazioni le cose che avevano imparato da Lui. A queste parole le suore si misero a piangere, ma non piangevano di tristezza: piangevano di gioia perché era stato dato a Dio un nuovo sacerdote. I primi a ricevere la comunione dalle mani del sacerdote novello furono i suoi genitori: ed era giusto, visto che erano stati loro a darlo a Dio. Il signor Scott era in divisa di tranviere perché dopo doveva andare subito in servizio, ma sua moglie si era comprata un cappellino nuovo, un cappellino giallo, verde, blu e rosso.»

*

«Le voci attutite delle alunne cantarono l’Offertorio. Non avevano che dieci anni di età, quelle bambine, e un giorno non si sarebbero più ricordate affatto di madre Leclerc; sarebbero andate a spasso lungo qualche fiume con l’innamorato, avrebbero avuto dei bambini, sarebbero invecchiate in un letto sconosciuto; ma ora cantavano con dolore: “Domine Jesu Christe, Rex gloriae, libera animas omnium fidelium defunctorum de poenis inferni et de profundo lacu”. Mentre cantavano, il can. Smith pregava per la pace dell’anima di madre Leclerc; (...) poi pregò per gli abissini che gli italiani stavano ammazzando, perché Dio cullasse il loro trapasso selvaggio e li facesse presto felici in Paradiso; e pregò anche per gli italiani, giacché anche per loro era doloroso morire col viso spaccato e gli occhi scucchiaiati, e anche loro erano stati ragazzini fra mura di casa. Quando ebbe finito di pregare, le bambine erano già al “Fac eas, Domine, de morte transire ad vitam”, e benché avessero voluto tanto bene a madre Leclerc la loro voce non aveva mai tremato. Terminata la Messa e l’assoluzione della salma, portarono fuori la cassa di legno e la deposero in giardino, nella buca scavata sotto gli alberi spogli; e ciascuno portava una candela accesa, per significare che l’anima di madre Leclerc non s’era spenta ma in qualche posto continuava a risplendere. Ammantato dei paramenti neri e argento, il vecchio vescovo fragile pregò Dio che le concedesse il riposo eterno, che le risplendesse la luce perpetua e che riposasse in pace.»


[“Ecce sacerdos magnus” è una magnifica pagina di gregoriano: veniva cantato, fra l’altro, come Graduale nella Messa “De Confessore Pontifice”: Ecce sacerdos magnus, qui in diebus suis plàcuit Deo. Non est inventus sìmilis illi qui conservaret legem Excelsi. Alleluia. Tu es sacerdos in aeternum secundum òrdinem Melchìsedech. (Ecco un sacerdote grande, che durante la sua vita piacque a Dio. Non si trovò alcuno simile a lui nell’osservare la legge dell’Altissimo. Alleluia. Tu sei sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedech).]


[Ecce, ego mitto vos sicut oves in medio luporum. Estòte ergo prudentes sicut serpentes et sìmplices sicut columbae; è una citazione dal Vangelo (Matteo: 10, 16): Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe.]

[“Domine Jesu Christe” è lo splendido offertorio della Messa dei defunti: Domine Jesu Christe, Rex gloriae, libera animas omnium fidelium defunctorum de poenis inferni et de profundo lacu: libera eas de ore leonis, ne absòrbeat eas tàrtarus, ne cadant in obscurum: sed sìgnifer sanctus Mìchael repraesèntet eas in lucem sanctam quam olim Abrahae promisisti et sèmini eius. Hostias et preces tibi, Domine, laudis offèrimus: tu sùscipe pro animabus illis, quarum hodie memoriam fàcimus: fac eas, Domine, de morte transìre ad vitam quam olim Abrahae promisisti et sèmini eius. (Signore Gesù Cristo, Re di gloria, libera le anime di tutti i fedeli defunti dalle pene dell’inferno e dalla fossa profonda; liberale dalle fauci del leone, né le inghiotta il tartaro, né cadano nelle tenebre: ma il vessillifero San Michele le conduca alla luce santa, che già promettesti ad Abramo e alla sua discendenza. Noi ti offriamo, Signore, preghiere e sacrifici di lode; tu ricevili a suffragio di quelle anime che oggi commemoriamo; fa’ o Signore che passino dalla morte alla vita che già promettesti ad Abramo e alla sua discendenza).]



Giuseppe
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.988
Sesso: Femminile
22/11/2009 13:00
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

Guareschi e il compagno don Camillo


Giovannino Guareschi (1908-1968) fu molto amato e molto odiato negli ultimi vent’anni della sua vita: giornalista formidabile, polemista tenace, scrittore popolarissimo in patria e all’estero (indiscutibilmente il numero uno, per fama e numero di copie vendute), ebbe il torto – agli occhi degli “intelligenti” per autodefinizione – di essere cattolico e anticomunista. Gli arroganti del potere e del sapere lo combatterono in tutti i modi, brindando a champagne quando un malaccorto (e ingeneroso) Alcide De Gasperi trovò il machiavello per fargli fare 409 giorni di galera più sei mesi di libertà vigilata.

Scrittore grande, a più di quarant’anni dalla morte non sembrano affatto venuti meno l’affetto e la stima dei suoi lettori. Il fallimento politico, culturale e morale degli arroganti di cui sopra non ha portato a significative richieste di perdono; ma intanto i poveretti tacciono, ed è già qualcosa: lo champagne si è, nel frattempo, leggermente inacidito.

Soprattutto nella saga di don Camillo i riferimenti alla liturgia tridentina abbondano; anzi, Guareschi si trovò negli ultimi suoi anni ad essere testimone dei prodromi della riforma post-conciliare, e in più occasioni – come era sua abitudine – ne cantò e ne suonò quante doveva. Ma per questo post preferisco privilegiare due brani tratti dal volume Il compagno don Camillo (1963), un breve “romanzo” che ho sempre trovato alto e ispirato (NB: parlo del volume, non del film che porta lo stesso titolo, fra i tanti forse il più squinternato e superficiale). E’ bene precisare che i vari capitoli erano stati scritti e pubblicati, in vari numeri del settimanale “Candido”, a partire dal 1959.

Peppone, divenuto senatore comunista e funzionario alle Botteghe Oscure, è incaricato di selezionare e accompagnare un gruppo di solidi compagni di sezione per una sorta di viaggio-premio in Unione Sovietica. Fra questi deve suo malgrado inserire, per evitare uno scandalo personale e politico, don Camillo, finto militante comunista, che ha assunto ovviamente un falso nome. Il prete (che ha faticato non poco ad ottenere l’autorizzazione del vecchio vescovo) porta con sé un breviario-messalino travestito da volume di “massime” di Lenin, nonché un piccolo crocifisso dalle braccia ripiegabili inserito in una finta penna stilografica. Impossibile riassumere in breve le vicende e i colpi di scena di questo bel romanzo (peraltro facilmente rintracciabile in libreria in economica edizione BUR). Per la comprensione dei due brani che seguono, basterà dire che Stephan, soldato italiano disperso in Russia, originario di un paese vicino a quello di don Camillo e Peppone, si è salvato durante la terribile ritirata del 1941 grazie alle sue eccezionali capacità nel campo della meccanica e a una ragazza polacca che è poi riuscito a sposare. Ora vive a Grevinec, con la moglie, l’anziana madre di lei e i sei bambini frutto di quel matrimonio. La vecchia, che sta morendo ed è rimasta cattolica nonostante tutto (cattolica senza Chiesa, senza Messa, senza Sacramenti), pronuncia qualche parola piena di amarezza che la figlia traduce: sul letticciolo veglia una piccola immagine della Madonna Nera. Don Camillo fa allora uscire dalla stanzetta Peppone e Stephan, che vadano a pianterreno a tener compagnia ai sei bambini.


«Fuori pioveva che Dio la mandava.
Don Camillo si strappò il giubbotto, cavò dalla finta stilografica il Crocifisso dalle braccia pieghevoli, l’infilò nel collo d’una bottiglia e lo dispose in mezzo al tavolino che era contro al muro, a fianco del lettuccio della vecchia. Trasse il bicchierino di alluminio che fungeva da Calice.
Un quarto d’ora dopo, allarmati dal lungo silenzio, Peppone e Stephan salivano, si affacciavano alla porta della soffitta e rimanevano senza parola: don Camillo celebrava la Santa Messa.
La vecchia, a mani giunte, lo guardava con occhi pieni di lagrime.
Quando la vecchietta poté ricevere la Comunione parve che la vita le rifluisse d’improvviso impetuosa nelle vene esangui.“Ite, Missa est...”
La vecchia parlò convulsa all’orecchio della figlia che, d’un balzo, raggiunse il marito:
“Reverendo” disse ansimando “sposateci davanti a Dio. Ora siamo sposi soltanto davanti agli uomini”.
Fuori diluviava: pareva che le nuvole di tutta la grande Russia si fossero concentrate nel cielo di Grevinec. (...)
“Signore” implorò don Camillo “non badate se mangio qualche parola o qualche periodo”.
Peppone pareva la classica statua di gesso: don Camillo interruppe un momento il rito e lo spinse verso la porta:
“Spicciati, porta su tutta la banda!”
Oramai la pioggia stava decrescendo rapidamente, ma don Camillo era lanciato e pareva una mitragliatrice: battezzò tutti e sei i bambini con una rapidità da togliere il fiato. E non è che, come aveva detto, mangiasse le parole o saltasse addirittura dei periodi interi. Diceva tutto quel che doveva dire, dalla prima sillaba all’ultima. Ma il fiato glielo dava Gesù. (...)
Don Camillo fu l’ultimo a uscire e, giunto sulla soglia, si volse e tracciò un rapido segno di croce sussurrando:“Pax vobiscum”.
“Amen” risposero gli occhi della vecchietta.»



*



«Arrivati ai piedi della quercia, risalirono la sponda del fosso e s’apersero un varco nella siepe. Ed ecco, davanti a loro, un gran campo e, sulla bruna terra, la peluria verde del grano.
Rimasero tutt’e due sgomenti a guardare quello squallore disperato, poi don Camillo si riscosse e, voltatosi verso il grande tronco della quercia, rimosse con la mano tremante l’edera che vi si era abbarbicata.
C’era qualcosa inciso sulla corteccia diciotto anni prima, una croce e una data: “27 XII 1941”. E una parola breve: “Italia”.
Ricompose i rami d’edera.
Peppone, che lentamente s’era tolto il berretto, rimase a contemplare quel campo di grano ripensando alle rustiche croci che non c’erano più e alle ossa sgretolate coperte dalla terra fredda, e il gelo del vento gli entrava nel cuore.“Requiem aeternam dona eis, Domine: et lux perpetua luceat eis...”
Si riscosse e si volse: ai piedi della secolare quercia, don Camillo celebrava la Messa dei Morti.
Una Messa sotto la croce che, diciotto anni prima, la mano di Stephan aveva inciso nella corteccia della vecchia quercia.
“Deus, cujus miseratione animae fidelium requiescunt: famulis et famulabus tuis, et omnibus hic et ubique in Christo quiescentibus, da propitiam veniam peccatorum; ut a cunctis reatibus absoluti, tecum sine fine laetentur. Per eundem Dominum...”Il vento correva per il grande piano deserto e le tenere pianticelle di grano palpitavano.»

[La preghiera con cui si chiude il secondo brano è l’orazione della Messa “per quelli che riposano nel cimitero”: una scelta significativa, quella di Guareschi, certamente non casuale: quel campo di grano, che prende alimento dalle povere carni devastate, appare come consacrato dalla croce incisa sulla quercia. Traduzione: “O Dio, che nella tua misericordia concedi il riposo alle anime dei fedeli: ai tuoi servi e alle tue serve, e a tutti quelli che qui e dovunque riposano in Cristo, perdona propizio i peccati, affinché, assolti da ogni colpa, con te gioiscano in eterno”.]




Giuseppe


[SM=g1740733]









[SM=g1740722]

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.988
Sesso: Femminile
26/11/2009 14:10
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

Echi tridentini: Benson, Il dominatore del mondo


Un romanzo ambientato ai giorni nostri. Titolo: Il dominatore del mondo.

Antefatto e situazione di partenza: il rapporto fra l’umanità e il messaggio cristiano sembra gravemente, e definitivamente, incrinato. Le varie confessioni protestanti sono sparite o in via di sparizione, ma persino la Chiesa cattolica apostolica romana è in crisi fortissima, malgrado l’elevatezza morale e l’acuta intelligenza del sommo pontefice Benedetto XVI. Milioni, miliardi di uomini si allontanano da Dio, affermano di non aver bisogno di Cristo: la loro è la religione dell’uomo, un “umanitarismo” fondato sulla ragione, sulla scienza, su un’idea di fratellanza che prescinde da Dio e ne combatte la fede in nome della pace, della difesa dell’ambiente, di una sedicente tolleranza. Fra i diritti fondamentali e imprescindibili c’è quello al suicidio assistito: istituzioni pubbliche chiamate “Euthanasia” ne garantiscono l’esercizio per chiunque ne faccia richiesta. Anche gli ex-comunisti non esitano ad aderire alla religione dell’umanitarismo, sono anzi in prima fila. Il progresso scientifico-tecnologico (e soprattutto l’incredibile velocizzazione dei trasporti) ha reso il mondo molto più piccolo, facendone una sorta di villaggio globale. L’Europa è ormai un’unica nazione...

Cose risapute, anzi, un po’ banalotte, dirà qualcuno a questo punto. Salvo restare spiazzato, o allocchito se vi piace di più, verificando che l’autore di questo romanzo, un prete anglicano convertito alla fede cattolica, è nato nel 1871 e morto, all’età di 43 anni, nel 1914 [Robert Hugh Benson, nella foto a destra]. Il romanzo di cui ci stiamo occupando (edito in italiano nel 1920, presso Vallecchi, traduzione di Corrado Raspini) è originariamente apparso nel 1907, più di cent’anni fa. Come abbia potuto, Benson, prete cattolico sotto il pontificato di San Pio X, divinare – oltre a tutto il resto – il nome di papa Benedetto e il numero XVI, be’, cari amici, vedete un po’ voi.

La vicenda procede fra imprevisti, cambiamenti di prospettiva e colpi di scena. Protagonisti, un prete cattolico inglese di nome Percy Franklin, e un misterioso intellettuale e demagogo americano conosciuto come Giuliano Felsemburg; i due non si incontrano mai di persona ma – altro mistero non facile da decifrare – si somigliano, fisicamente, in modo incredibile. Percy sarà papa dopo la morte violenta di Benedetto XVI e la completa distruzione di Roma; Giuliano (come l’imperatore Apostata?) assumerà sempre più le caratteristiche del “dominatore del mondo” (di questo mondo, se ci capiamo). A lui è affidato il potere supremo di una sorta di repubblica mondiale, tra le fanatiche acclamazioni dei suoi seguaci adoranti. La persecuzione anticattolica diviene violentissima e generale, quale mai fin allora. Il papa, nascosto in un rifugio segreto a Nazareth, è in contatto clandestino con i dodici cardinali da lui scelti e consacrati. Uno di questi tradisce...

Il finale, permettetemi di non rivelarlo. (Il romanzo è edito – col titolo Il padrone del mondo – da Jaca Book, ma la versione di Vallecchi è scaricabile gratuitamente dal sito Totus tuus). [SM=g1740722]
Dirò soltanto che fra gli altri personaggi spiccano un ex-deputato comunista di nome Oliviero (no, tranquilli, il cognome non è Diliberto) e la giovane moglie di lui, Mabel.

E gli “echi tridentini”? Ho selezionato due citazioni, che trascrivo dall’ultima parte del romanzo (traduzione Raspini). L’autore assume qui il punto di vista di un prete fedele, che collabora in fede e semplicità, nel nascondiglio di Nazareth, con papa Silvestro.

*

«... parole udite come attraverso un velame che ne lasciasse passare unicamente il significato essenziale.
“Spiritus Domini replevit orbem terrarum. Lo Spirito del Signore ha riempito tutto l'universo, Alleluia... E questo, che tutto contiene, ha coscienza della sua voce. Alleluja, alleluja, alleluja!...
Exurgat Deus – e la voce diventava più alta. – Sorga il Signore, siano dispersi i suoi nemici e fuggano quei che lo odiano davanti a Lui.
Gloria Patri...”
Il prete alzò la testa: era davanti all'altare una figura trasumanata, avvolta nei paramenti rossi che sembrava non poggiare immobile a terra; ma fluttuare sospesa per aria tra il chiarore diffuso dai ceri, con le sottili mani distese e lo zucchino sui capelli bianchi. Un servente vestito di bianco stava inginocchiato sul gradino.
“Kyrie eleison... Gloria in excelsis Deo....”»

*

«Si volse di nuovo all'altare: là come ben sapeva, tra lo splendore dei ceri, tutto era in pace. Il celebrante, veduto come attraverso un liquido vetro, adorava con prece sommessa il Mistero del Verbo Incarnato, e cadeva in ginocchio nel passare davanti.
Tutto allora comprese pienamente; giacché il suo pensiero non procedeva più per atti successivi, ma con la intuizione immediata dei puri spiriti, tutto comprese, e, con un irresistibile impulso aprì la bocca al canto, siccome fiore che spiega per la prima volta le sue corone al sole:
O salutaris hostia.
quae coeli pandis ostium.
E tutti ora cantavano; perfino il catecumeno maomettano, accorso gridando un momento prima, cantava insieme con gli altri con il volto sparuto proteso in avanti e le braccia incrociate sul petto. Il piccolo tempio risuonava di quaranta voci, tremando il vasto mondo al di fuori....
Cantando parve al prete di vedere uno spirito distendere il velo sugli omeri del Pontefice; poi un muoversi, un ondeggiare di sembianze: le sole ombre intorno alla Sostanza verace.
...Uni Trinoque Domino....

(...)
Il cielo era passato da una oscurità carica di luce ad una luce sovraccarica di tenebre; dal barlume della notte al color rosso del dì dell'ira....
Da sinistra a destra, dal Tabor al Carmelo, sulle circostanti colline si distendeva l'enorme volta sanguigna; nessuna gradazione dallo zenit all'orizzonte nella misteriosa tinta cremisi, pari a quella di un ferro incandescente. Era come il colore che imporpora il tramonto dopo la pioggia, quando le nuvole, a mano a mano più diafane, trasmettono i raggi del sole che non possono assorbire,
Là, sul monte della Trasfigurazione saliva scialbo il disco del sole, e sull'estremo occidente, dove un giorno gli uomini avevano gridato a Baal invano, pendeva, in forma di pallida falce, la luna. Era tutto una luce colorata, come se passasse attraverso un vetro....

In supremae nocte coenae....
- cantavano ora miriadi di voci -
recumbens cum fratribus,
observata lege plene
cibis in legalibus,
cibum turbae duodenae
Se dat suis manibus.» (...)

[Le citazioni latine presenti nel primo brano sono tratte dall’introito della Messa di Pentecoste.]

[Nel secondo brano sono riportati squarci di due inni liturgici molto diffusi prima della riforma liturgica di Annibale Bugnini; gli squarci, anzi, sono molto più ampi di quanto qui non appaia: ho dovuto operare una selezione affinché non apparisse troppo evidente il finale del romanzo, avendo deciso di tenerlo (quasi) nascosto per invogliare i lettori a un approccio diretto. “O Salutaris Hostia” si cantava in apertura del rito della Benedizione Eucaristica, su melodie assai diversificate, sia medievali sia moderne. Si tratta – in realtà – delle due ultime strofe dell’inno “Verbum supernum prodiens”, attribuito a San Tommaso d’Aquino. La versione integrale dell’inno si cantava, fra l’altro, durante l’ufficio del Corpus Domini (ad Laudes). Ma nel mio ricordo personale di chierichetto precoce le due strofette avevano ormai assunto vita propria, e tutti (alfabeti e analfabeti) le cantavamo scivolando ignari e felici nel misterioso gioco di parole hostia-ostium-hostilia:
«O Salutaris Hostia
quae coeli pandis òstium:
bella premunt hostìlia,
da robur, fer auxìlium.

Uni Trinòque Domino
sit sempiterna gloria,
qui vitam sine tèrmino
nobis donet in patria. Amen.»
(O Vittima fonte di salvezza che apri la porta del cielo: le guerre nemiche ci opprimono, dacci forza, portaci aiuto. / Al Signore Uno e Trino sia gloria perenne: la vita perpetua Egli ci doni, nella patria celeste. Amen.)

Anche il “Pange lingua” era un inno attribuito a San Tommaso; anche in questo caso le due ultime strofe, con incipit “Tantum ergo”, erano notissime per il loro uso universale a conclusione della Benedizione Eucaristica. L’inno veniva peraltro integralmente eseguito in molte occasioni (per esempio, nei primi e secondi vespri del Corpus Domini, ma anche nella liturgia del Giovedì Santo).

«Pange lingua gloriosi
Còrporis mystèrium,
Sanguinìsque pretiosi,
quem in mundi pretium,
fructus ventris generosi,
rex effudit gentium.
Nobis datus, nobis natus
ex intacta Vìrgine,
et in mundo conversatus,
sparso verbi sèmine,
sui moras incolatus
miro clàusit òrdine.
In supremæ nocte cœnæ
recùmbens cum fràtribus,
observata lege plene
cibis in legàlibus,
cibum turbæ duodenæ
se dat suis mànibus.
Verbum caro, panem verum
verbo carnem èfficit:
fitque sanguis Christi merum;
et, si sensus dèficit,
ad firmandum cor sincerum
sola fides sùfficit.
Tantum ergo Sacramentum
venerèmur cèrnui:
et antìquum documentum
novo cedat rìtui:
præstet fides supplementum
sènsuum defèctui.
Genitori Genitòque
laus et iubilàtio,
salus, honor, virtus quoque
sit et benedìctio:
Procedenti ab utròque
compar sit laudàtio. Amen.»
(Celebra o lingua il mistero del glorioso Corpo e del Sangue prezioso che il Re delle genti, frutto di un ventre generoso, sparse per riscattare il mondo. / Dato a noi, nato per noi da una Vergine intatta, dopo aver vissuto nel mondo spargendo il seme della sua parola, concluse la sua dimora quaggiù con un mirabile disegno. / Nella notte dell’ultima cena, a mensa accanto ai fratelli, dopo aver pienamente osservata la legge sui cibi legali, al gruppo dei dodici diede in cibo se stesso con le sue proprie mani. / Il Verbo fatto carne, con una parola, trasforma in carne un pezzo di pane, e il vino diviene sangue di Cristo. Anche se i sensi vengono meno, a rassicurare un cuore sincero è sufficiente la sola fede. / Veneriamo dunque, in ginocchio, un sacramento così grande, e l’antico documento ceda al nuovo rito. Sia la fede a supplire all’inganno dei sensi. / Al Padre e al Figlio rivolgiamo lode e giubilo, ad essi salute, onore, virtù e benedizione; allo Spirito che da essi procede si renda identica lode. Amen.)]


Giuseppe
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.988
Sesso: Femminile
07/01/2010 09:04
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

mercoledì 6 gennaio 2010

Echi tridentini: Nicolò Tommaseo


Singolare personaggio, il Tommaseo (1802-1874), protagonista sanguigno e irriverente della vita letteraria italiana e europea di metà Ottocento. Fra le varie e contraddittorie caratteristiche del Romanticismo appaiono rilevanti, nella sua formazione intellettuale e spirituale: l’adesione convinta alle verità del Cattolicesimo; l’amore per l’Italia e la sua tradizione letteraria (era nato in Dalmazia ma si sentì sempre veneziano e italiano: ebbe una parte non secondaria nei moti repubblicani di quegli anni), non disgiunta da un atteggiamento vigorosamente cosmopolita; l’interesse per la storia; l’attenzione ai problemi della lingua (a lui si deve, fra l’altro, un monumentale e vivacissimo Dizionario tuttora assai utile); una sensibilità – infine – originale e benemerita per gli studi e le ricerche di “poesia” e tradizioni popolari: vedi la fondamentale raccolta di Canti popolari italiani, corsi, illirici, greci. Dopo una vita travagliata e a lungo esule, rientrato in Italia negli anni fra le due prime guerre d’indipendenza, rifiutò i riconoscimenti e le prebende del nuovo governo nazionale respingendo anche, con dignità e coerenza, la nomina a senatore del Regno.

La sua opera narrativa più significativa, degna ancor oggi a mio parere di una affettuosa rilettura, è il romanzo Fede e bellezza, scritto in Corsica fra il ’38 e il ’39. E’ la storia dell’incontro in terra straniera fra Maria e Giovanni, giovani e già tanto provati dalla sventura, sfiorati ma non deturpati dalla colpa, riscattati dal pentimento e da una fede a volte offuscata mai perduta. Tutte le sfumature dell’amicizia e dell’amore appaiono e si confondono, con rispetto e pudore ma in un’atmosfera di morbida sensualità che è già quasi decadente, non senza un misterioso senso d’inquietudine e incompiutezza che è un po’ il leit motiv dell’opera e la rende unica, nella tradizione romantica italiana. Questa dimensione di modernità appare consolidata e confermata dalle scelte linguistiche e letterarie, davvero inconsuete per l’epoca. Soprattutto interessante, ai limiti dello sperimentalismo, mi sembra l’utilizzazione di diversi “generi”, giustapposti o mescolati con sensibilità musicale da grande creatore di “sinfonie”: la confessione, il diario, il romanzo epistolare, il racconto psicologico-realistico, la narrazione storica vengono come gettati in un caleidoscopio da cui escono, agli occhi del lettore, non privi di una loro armoniosa consonanza. Certo, l’esito complessivo è interessante ma – come dire – non molto più che volenteroso: Tommaseo non è Thomas Mann e neppure James Joyce! Ma nel suo piccolo Fede e bellezza, pur coi suoi conflitti irrisolti, merita ancor oggi un’occhiata non distratta. [Facilmente rintracciabili, in libreria, diverse edizioni più o meno economiche; ma il benemerito sito liberliber consente di scaricare gratuitamente il romanzo all’indirizzo
www.liberliber.it/biblioteca/t/tommaseo/fede_e_bellezza/pdf/fede_e_p.pdf]

*

Nelle ultime pagine del romanzo, pacificata con Dio e col proprio passato, la notte dell’antivigilia di Natale Maria muore di tisi, accanto a Giovanni che la aiuta a pregare con le parole del Rituale Romanum (orazioni per gli agonizzanti) riportate per squarci e in traduzione italiana. E’ un momento di grande intensità: le preghiere della liturgia tridentina si alternano alle ultime raccomandazioni della moribonda, cullata – si direbbe – fra i due comandamenti dell’amore: Dio e il prossimo, in un andirivieni di forte semplicità e commozione. [Non sfugga l’originalità dell’impasto linguistico; siamo negli anni in cui Manzoni risciacquava i suoi panni in Arno: le scelte dei due scrittori divergono notevolmente, ma l’effetto complessivo li affratella a un livello che – nei limiti della tradizione letteraria italiana dell’Ottocento – si può definire alto senza andare molto lontani dal vero.]

«
La notte calava cupa, e Maria si sentiva finire. Chiese l’estrema unzione: il curato venne; e adempiuto con doloroso rispetto il debito suo, disse che a qualunque ora chiamassero, tornerebbe. Ma, in quella notte cruda non volend’ella a nessun costo disturbare il buon vecchio, Giovanni leggeva tradotte le preci, e Maria le accompagnava col mover tacito delle labbra. Alle cinque pregò Matilde, che da più notti vegliava, andasse a riposarsi una mezz’ora lì accanto: ripregò di lì a poco,
rassicurandola: e Matilde per tema di non la inquietare, ci andò: ma nell’andare supplicò la chiamassero a ogni occorrenza; e diceva con gli occhi: "Non m’ingannate per pietà". Seguitava Giovanni a raccomandarle l’anima con le parole che la Chiesa pronunzia al letto di peccatori e di santi, di mendichi e di re; e v’intrecciava memorie de’ Salmi e del Vangelo: e alle parole di lei non trovava da rispondere altro che le parole di Dio.

"Il tuo soggiorno, anima cristiana, sia in luogo di pace. Pàrtiti di questo mondo nel nome del Padre che ti creò, del Figliuolo che t’ha redenta, dello Spirito che t’ha rinnovata nell’amor suo. Dio possente, riguarda alla tua creatura. Pietà di lei che non fida se non in te. Dio ti perdoni, sorella, quanto fallasti cogli occhi, con la lingua, co’ piè, col pensiero".

"Giovanni, quella poca di roba, datela a Matilde, la porti e la serbi a memoria di me. Voi tenetevi il mésero del mio matrimonio e del viatico, e quest’anello ch’è vostro. Ecco tutta la mia eredità. Vi rammentate del primo incontro sul poggio, e del verso 'che innanellata pria'?... Tagliate una ciocca de’ miei capelli: ora subito, che sien tolti da me viva”.

Prese la ciocca, l’anello: e, pregato da Maria, seguitò: "Ti raccomando, carissima sorella, all’onnipotente Iddio. Apparisca all’anima uscente l’aspetto di Gesù, splendido e mansueto. Ti liberi dall’eterna morte, egli morto per te. Io son pellegrina, o Dio, sulla terra. Padre delle misericordie, Dio di tutta consolazione, riguarda alla tua serva Maria, che, lavata nel sangue di Cristo, salga alla vita. Venite, santi di Dio, angeli del Signore, ricevete l’anima di lei, offeritela nel cospetto dell’Altissimo".

"Giovanni, la povera donna che veniva tutti i sabbati, lasciatele qualcosa; pregatela preghi per noi".

"Apritemi le porte della luce perpetua. Spera, sorella, vedere a faccia a faccia il tuo liberatore; veder manifesta con gli occhi beati la verità".

"Scrivete ad Aiaccio l’ultimo mio saluto ai parenti di mia zia: se passate da Pisa, dite a mio cugino che son morta consolata, e, spero, in grazia di Dio. Avrei voluto che la mia sepoltura fosse in Italia, e lì potere scontare con buoni esempi le colpe mie”.

Tacquero un poco.

"Non morrò ma vivrò, per narrare le meraviglie del Signore. Interceda per me la madre di Lui che nella notte di domani nacque povero di povera; interceda Giovanni al qual furono rivelati i secreti del cielo”. Levati gli occhi, disse: "Padre mio, è giunta l’ora". "La mia sepoltura porti il mio nome, e che fui moglie vostra: non più. Gesù mio, raccogliete a voi i miei pensieri”.

Giovanni, con gli occhi in alto e con viso di chi si sente venir meno: "Questo è il dì che Dio fece: rallegriamoci in esso. Per la morte, Gesù, e per il nascere vostro, pietà. Il suo sudore come goccie di sangue grondante in terra. Lode a Dio, perché buono! Gesù, che l’anima di questa donna amaste d’eterna carità, congiungetela a voi con amore indivisibile".

"La pace eterna": diss’ella, e mosse le labbra a baciare il crocifisso offertole da Giovanni; e nel bacio dell’Amico suo immortale spirò.

L’infelice marito non osava levare il pianto per non affrettare le lagrime alla povera donna dormente accanto. Accese una candela allato al cadavere, e aprì pian piano le imposte. Sorgeva torbido il dì: nevicava. Egli, seduto tra il letto e la finestra, guardava ora al cielo biancheggiante, ora alla sua moglie morta; e pregava Dio senza piangere


*

[Tommaseo attinge al Rituale Romanum di papa Paolo V (1614), titulus V, caput VII: “Ordo Commendationis Animae”. Ragioni di equilibrio narrativo lo spingono a riportarne, in traduzione italiana, solo alcuni brani significativi, muovendosi liberamente fra le cinque bellissime preghiere che caratterizzano il rito. Di queste ecco qui di seguito il testo originale:

Proficiscere, anima christiana, de hoc mundo, in nomine Dei Patris omnipotentis, qui te creavit: in nomine Iesu Christi, Filii Dei vivi, qui pro te passus est: in nomine Spiritus Sancti, qui in te effusus est: in nomine gloriosae et sanctae Dei Genetricis Virginis Mariae: in nomine beati Ioseph, inclyti eiusdem Virginis Sponsi: in nomine Angelorum et Archangelorum: in nomine Thronorum et Dominationum: in nomine Principatuum et Potestatum: in nomine Virtutum, Cherubim et Seraphim: in nomine Patriarcharum et Prophetarum: in nomine sanctorum Apostolorum et Evangelistarum: in nomine sanctorum Martyrum et Confessorum: in nomine sanctorum Monachorum et Eremitarum: in nomine sanctarum Virginum, et omnium Sanctorum et Sanctarum Dei. Hodie sit in pace locus tuus, et habitatio tua in sancta Sion. Per eundem Christum Dominum nostrum.

Deus misericors, Deus clemens, Deus qui secundum multitudinem miserationum tuarum peccata paenitentium deles, et praeteritorum criminum culpas venia remissionis evacuas: respice propitius super hunc famulum tuum N. (hanc famulam tuam N.), et remissionem omnium peccatorum suorum tota cordis confessione poscentem deprecatus exaudi. Renova in eo (ea), piissime Pater, quidquid terrena fragilitate corruptum, vel quidquid diabolica fraude violatum est; et unitati corporis Ecclesiae membrum redemptionis annecte. Miserere, Domine, gemituum, miserere lacrimarum eius; et, non habentem fiduciam, nisi in tua misericordia, ad tuae sacramentum reconciliationis admitte. Per Christum Dominum nostrum.

Commendo te omnipotenti Deo, carissime frater (carissima soror), et ei, cuius es creatura, committo; ut, cum humanitatis debitum morte interveniente persolveris, ad auctorem tuum qui te de limo terrae formaverat, revertaris. Egredienti itaque animae tuae de corpore splendidus Angelorum coetus occurrat: iudex Apostolorum tibi senatus adveniat: candidatorum tibi Martyrum triumphator exercitus obviet: liliata rutilantium te Confessorum turma circumdet: iubilantium te Virginum chorus excipiat: et beatae quietis in sinu Patriarcharum te complexus astringat: sanctus Ioseph, morientium Patronus dulcissimus, in magnam spem te erigat: sancta Dei Genetrix Virgo Maria suos benigna oculos ad te convertat: mitis atque festivus Christi Iesu tibi aspectus appareat, qui te inter assistentes sibi iugiter interesse decernat. Ignores omne quod horret in tenebris, quod stridet in flammis, quod cruciat in tormentis. Cedat tibi teterrimus satanas cum satellitibus suis: in adventu tuo, te comitantibus Angelis, contremiscat, atque in aeternae noctis chaos immane diffugiat. Exsurgat Deus, et dissipentur inimici eius, et fugiant qui oderunt eum, a facie eius. Sicut deficit fumus, deficiant: sicut fluit cera a facie ignis, sic pereant peccatores a facie Dei: et iusti epulentur, et exsultent in conspectu Dei. Confundantur igitur et erubescant omnes tartareae legiones, et ministri satanae iter tuum impedire non audeant. Liberet te a cruciatu Christus, qui pro te crucifixus est. Liberet te ab aeterna morte Christus, qui pro te mori dignatus est. Constituat te Christus, Filius Dei vivi, intra paradisi sui semper amoena virentia, et inter oves suas te verus ille Pastor agnoscat. Ille ab omnibus peccatis tuis te absolvat, atque ad dexteram suam in electorum suorum te sorte constituat. Redemptorem tuum facie ad faciem videas, et, praesens semper assistens, manifestissimam beatis oculis aspicias veritatem. Constitutus (-a) igitur inter agmina Beatorum, contemplationis divinae dulcedine potiaris in saecula saeculorum. (...)

Commendamus tibi, Domine, animam famuli tui N. (famulae tuae N.), precamurque te, Domine Iesu Christe, Salvator mundi, ut, propter quam ad terram misericorditer descendisti, Patriarcharum tuorum sinibus ininuare non renuas. Agnosce, Domine, creaturam tuam, non a diis alienis creatam, sed a te, solo Deo vivo et vero; quia non est alius Deus praeter te, et non est secundum opera tua. Laetifica, Domine, animam eius in conspectu tuo; et ne memineris iniquitatum eius antiquarum et ebrietatum, quas suscitavit furor sive fervor mali desiderii. Licet enim peccaverit, tamen Patrem, et Filium, et Spiritum Sanctum non negavit, sed credidit; et zelum Dei in se habuit, et Deum, qui fecit omnia, fideliter adoravit.

Delicta iuventutis et ignorantias eius, quaesumus, ne memineris, Domine; sed secundum magnam misericordiam tuam memor esto illius in gloria claritatis tuae. Aperiantur ei caeli, collaetentur illi Angeli. In regnum tuum, Domine, servum tuum (ancillam tuam) suscipe.
(...)]
Giuseppe
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.988
Sesso: Femminile
08/02/2010 13:23
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

Echi tridentini: Ippolito Nievo



«Di solito, mezz'ora innanzi la messa quotidiana, io era cercato per servirla a Monsignore, il quale intendeva darmi con ciò un segno della sua speciale deferenza, a scapito dei figliuoli di Fulgenzio. Ma io, che non mi sentiva gran fatto riconoscente di questa distinzione, sapeva prender le mie misure in modo che chi mi dava la caccia tornava il più delle volte colle mani vuote alla sacristia. Di consueto io mi rifugiava presso mastro Germano e non usciva dal suo buco se non quand'era sonata l'ultima campanella. In quel frattempo aveano già messo la cotta a Noni o a Menichetto, i quali coi loro zoccoli di legno correvano sempre il pericolo di rompersi il naso sugli scalini nel cambiar di posto al messale; ed io entrava in chiesa, sicuro di averla scapolata. Siccome poi queste mie arti furono in breve scoperte, così me ne toccarono molte ramanzine per parte di Monsignore dinanzi al focolar di cucina; ma io mi scusava della mia ripugnanza dicendo che non sapeva il Confiteor. E infatti, per giustificare questa mia scusa, le poche volte che era beccato, aveva sempre l'accorgimento di tornar a capo, una volta giunto al mea culpa; e per due tre e quattro volte ripeteva una tale manovra, finché Monsignore impazientato lo finiva lui. Quei giorni nefasti aveva poi la compiacenza di star chiuso in un camerino sotto la colombaia, col libricciuolo della messa, un bicchier d'acqua ed un pane bigio fino a un'ora innanzi i vespri. Io mi divertiva immollando il libro nell'acqua, e sminuzzando il pane ai piccioni; e poi, quando Gregorio, il cameriere di Monsignore, veniva a sprigionarmi, correva da Martino presso il quale era certo di trovare il mio pranzo. Peraltro durante quelle ore aveva il dispetto di udir la voce della Pisana che si trastullava cogli altri ragazzotti senza darsi melanconia pel mio carceramento; e allora mi prendeva una tal bile contro il Confiteor, che lo faceva in pallottole e lo gettava giù nel cortile sopra quei birboncelli assieme a quanti sassuoli e calcinacci potea raccattar nei canti e raspar dalla muraglia colle unghie. Talvolta anche squassava con quanta forza poteva la porta, e le dava addosso coi gomiti coi piedi e colla testa; e dopo un mezz'ora di tali strepiti il fattore non mancava mai di venir a ricompensarmene con quattro sonate di staffile. E questa dose si replicava la sera, quando scoprivano ch'io aveva tutto fradicio e guasto il mio libricciuolo.»

Ippolito Nievo (1831-1861; nella foto) è l’autore delle Confessioni di un italiano, romanzo importante, unanimemente considerato fra i migliori dell’Ottocento italiano; chi gli rimprovera uno stile non compiutamente definito e un andamento lento, frenato da troppe digressioni e inutili abbondanze, dimentica che morì a trent’anni senza avere il tempo di adoperare la lima. [Morendo a trent’anni il Manzoni avrebbe lasciato – in tutto – un’ode e quattro inni sacri, di fattura più volenterosa che compiuta. Ariosto, Machiavelli e Cervantes nulla di nulla. Shakespeare (forse) non molto più che un paio di testi teatrali: il Tito Andronico e l’Enrico VI...].
Al netto da ingenuità e incongruenze, Le confessioni di un italiano riescono tuttora a farsi leggere volentieri per la capacità di tenere insieme – cosa non frequente nella nostra letteratura nazionale – il romanzo di formazione, la storia picaresca, il viaggio interiore come scoperta di sé e del mondo, la grande vicenda d’amore (indimenticabile la figura della Pisana, l’anti-Lucia dell’Ottocento), in una cornice storica credibile e con un’intenzione palesemente educativa nella direzione di una religiosità civile non spregevole. La parte forse stilisticamente più compiuta è la prima, dedicata all’infanzia di Carlino, orfano e povero, allevato al castello di Fratta fra servi e signori, in un bizzarro universo concentrazionario interclassista che diviene una specie di luogo dello spirito. Da questa prima parte, e precisamente dal capitolo II del romanzo, abbiamo tratto la citazione riportata sopra.


Conclusa in pochi mesi la prima stesura, Nievo non fece in tempo a provvedere alla necessaria revisione, soprattutto a causa di impegni politici non lievi: fervente repubblicano, prese parte alla spedizione dei Mille, e non solo come combattente: il generale Garibaldi, nominandolo responsabile dell’Intendenza, gli affidò tutta la documentazione sull’uso dei fondi segreti (somme ingenti, soprattutto frutto della “generosità” del governo inglese, oltre che di ricche ricchissime sottoscrizioni: corrisponderebbero, oggi, a svariati milioni di euro). Cominciamo a capire meglio – si chiedeva ironico Vittorio Messori qualche anno fa – come fece realmente una banda di volenterosi volontari a conquistare un regno mettendo in fuga un esercito di centomila uomini bene armati, riportando appena 78 vittime sui 1162 partiti da Quarto? E capiamo meglio, anche, la dissennata e isterica politica anticattolica del rosso avventuriero e dei suoi inopinati e imprevedibili protettori? In questa situazione esemplare, il povero Nievo ci rimise la pelle: un sabotaggio provocò un’esplosione alle caldaie del piroscafo “Ercole”, su cui – con tutte le sue ricevute e pezze d’appoggio – era imbarcato il nostro Intendente, tornando da Palermo a Napoli al termine della spedizione.


Povero “Carlino”! Forse avrebbe fatto meglio – nel castello di Fratta – a imparare il Confiteor e servire la Messa a Monsignore...

[Il testo integrale delle Confessioni di un italiano è presente in libreria in svariate e ben curate edizioni anche economiche; ma è anche liberamente scaricabile dal sito liberliber.]



Giuseppe

 
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.988
Sesso: Femminile
09/02/2010 20:09
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

Echi tridentini in gastronomia: ferri da cialde e ostie

La forma schiacciata del pane consacrato cominciò ad apparire in Oriente alla fine del quarto secolo. S. Epifanio, morto nel 403 d.C., fu il primo a fare degli accenni su questo tipo di pane rotondo "Hoc est enim rotundae formae".

Anche in Occidente le ostie, dopo il quinto secolo, assunsero la forma arrotondata, ma di diametro superiore e di spessore notevolmente maggiore di quelle odierne.

Il più antico stampo di pietra fu trovato a Cartagine ed è risalente al sesto secolo. A partire dall'undicesimo secolo si utilizzò d'abitudine un'ostia più grande destinata al sacerdote e una più piccola per i fedeli; la produzione avveniva nei monasteri ed era riservata agli uomini.

Verso l'inizio del secolo dodicesimo diminuirono la dimensione dei pani e si formarono simultaneamente più ostie, sovente grandi e piccole.

Il più antico ferro da ostie datato che si conosca in Italia risale al 1132 ed è conservato al museo del vino di Torgiano (Pg).

La decorazione degli stampi per ostie aveva come temi principali l'Agnello Pasquale, la flagellazione, la crocifissione ed i monogrammi IHS e IHC, completati a volte da XPS.

Le ostie non consacrate venivano offerte durante i pellegrinaggi o nei giubilei; distribuite alle porte delle chiese permettevano ai fedeli di sostentarsi fino all'ora dei pasti. Il loro consumo non violava i precetti della Chiesa perché non venivano considerate un alimento, ed erano un risparmio per il pellegrino che le riceveva gratuitamente. A partire dal quindicesimo secolo la produzione passò anche in mano ai laici e con il tempo le immagini incise sui ferri assunsero, oltre al simbolo della sacralità, la funzione profana di contraddistinguere un casato o una proprietà.

Il Rinascimento fu il periodo della "cialda personalizzata", quindi i ferri portavano incisi con gli stemmi araldici, i nomi dei proprietari e talvolta quelli dell'incisore. A partire da questo momento iniziò la produzione di ferri di grande pregio artistico, usati per la realizzazione di dolci da consumarsi in occasioni speciali. In Umbria i nobili ed i vescovi facevano decorare i loro ferri dagli orafi, in Spagna questi strumenti entravano nei beni inventariati delle diocesi, mentre in Francia non mancavano nelle liste di nozze delle famiglie borghesi facoltose.

A partire da fine settecento i ferri iniziarono a cambiare nel materiale (dal ferro dolce si passò alla ghisa), nello spessore e nella tecnica di realizzazione del decoro (dal bulino allo stampo). Diventarono sempre più rari i simboli ed i motivi geometrici e man mano vennero ad assomigliare sempre di più ai quadretti.

È ancora presente nella nostra gastronomia la tradizione di cuocere tra due piastre un composto fatto nelle ricette più semplici a base di farina e acqua, e arricchito nelle preparazioni più elaborate con uova, zucchero, aromi naturali, panna e birra.

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.988
Sesso: Femminile
07/03/2010 23:18
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

Echi tridentini in letteratura: Gertrud von Le Fort

Fra i grandi della letteratura tedesca del Novecento, Gertrud von Le Fort (1876-1971) nacque protestante, si convertì al cattolicesimo nel 1925, fu autrice di romanzi, poesie, racconti, fiabe, saggi importanti. Un capolavoro assoluto, apprezzato anche in Italia, è L’ultima al patibolo (1931), breve romanzo storico ambientato all’epoca della rivoluzione francese. Ad esso si ispirò Georges Bernanos per i suoi Dialoghi delle Carmelitane (1948); con lo stesso titolo abbiamo due film (1959, con Jeanne Moreau e Alida Valli; e 1983, per la regia di Pierre Cardinal) e un’opera di Francis Poulenc (libretto proprio, 1957).

Il 17 luglio 1794, al culmine del Terrore, sedici suore carmelitane, strappate al loro monastero di Compiègne, furono ghigliottinate a Parigi, martiri della Fede. La loro colpa: non essersi piegate al vento della libertà. Fra i diritti dell’uomo proclamati cinque anni prima, in testa a tutti svetta, come è giusto, la libertà: ma accettare di farsi suore vuol dire rifiutare di essere libere: si tagli dunque la testa in pubblico a chi non vuole la libertà di essere libera. Sei libera, cittadina, libera di fare quello che io stabilisco essere, per te, la libertà ["pas de liberté pour les ennemis de la liberté", diceva Saint Just]

Fra le migliaia di martiri, massacrati dai liberatori, le sedici carmelitane di Compiègne lasciarono un segno incancellabile: giunsero in piazza, con le braccia legate dietro la schiena, cantando inni e salmi. Persino l’orrida marmaglia indemoniata cessò un attimo il frastuono, stupefatta. Cantando fin sotto la mannaia, offrirono la vita a Dio una dopo l’altra, senza un grido. Due di loro avevano 79 anni, la più giovane 28. La madre superiora chiese e ottenne di essere l’ultima al patibolo e a tutte recò conforto.

Il 27 maggio 1906 papa Pio X le proclamò beate.

Il romanzo di Gertrud von Le Fort è fedelissimo ai fatti storici, anche i nomi delle suore corrispondono. Aggiunge però un personaggio di fantasia, Bianca de la Force, figlia di un nobiluomo simpatizzante per la causa rivoluzionaria e ciò nonostante – come spesso avviene – vittima della medesima. Il carattere timido, evidente fin dalla prima infanzia, è divenuto in lei una vera e propria nevrosi: “si sarebbe tentati di dire che si angosciasse, oltre che di ogni cosa, perfino della propria paura”. Novizia a Compiègne, alle prese con la violenza dei rivoluzionari, attanagliata dal terrore, ecco come si presenta al colloquio con la madre superiora, che vorrebbe consigliarle di lasciare il Carmelo:

«Bianca ritrasse le mani dal visetto minuto: ogni espressione in esso appariva quasi contratta, ma nello stesso tempo il volto suggeriva stranamente l’idea d’una terribile vastità. La superiora stentava adesso a riconoscerlo. Nella sua fantasia sorse repentina una schiera d’immagini slegate: uccelli morenti, guerrieri feriti sul campo di battaglia, criminali ai piedi del patibolo. Non le pareva più di osservare l’angoscia di Bianca, ma, né più né meno, le pareva di aver davanti l’angoscia di ogni creatura.»

La lotta fra una paura invincibile e una Fede intrepida e ostinata sembra concludersi con una sconfitta: Bianca fugge dal Carmelo. Tornata a casa, assiste terrificata al linciaggio di suo padre, cedendo persino all’inaudita violenza di becere megere che la costringono ad accostare le labbra a una coppa che raccoglie il sangue di lui. Intanto si consuma il destino delle carmelitane, arrestate, processate e condannate a morte. Trascinata fra le tricoteuses, irriconoscibile, Bianca assiste alla tragedia da sotto la ghigliottina.

«Mi trovavo – racconta il narratore testimone – in mezzo al pigia pigia della folla urlante (...) non sono alto di statura (...) potevo appena sentire. (...) Le Carmelitane giunsero sulla piazza della Rivoluzione cantando; s’udiva il loro canto già da lontano; perveniva straordinariamente netto attraverso l’urlìo della plebe, o forse taceva il tumulto della massa crudele all’apparire delle vittime? Io distinsi con gran chiarezza le ultime parole del Salve Regina, che si canta, come lei sa, quando muore una monaca, e subito dopo le prime del Veni Creator. C’era nell’inno qualcosa di luminoso e di gentile, un tono delicato ma nello stesso tempo molto sicuro e sereno; (...) Quel canto annullava completamente quel senso del tempo, annullava la piazza insanguinata della Rivoluzione, annullava la ghigliottina, annullava – Creator Spiritus, Creator Spiritus! – l’immagine del Caos. (...) Il canto a questo punto era sostenuto solo da due voci (...) poi se ne spense una (...)».

Ma ecco l’imprevedibile, l’impensabile: una vocina nuova, esile, fine e infantile, si aggiunge, proveniente da «qualche punto dal profondo della folla, quasi che fosse la folla stessa a rispondere. (...) In quell’istante, davanti a me (...) vidi (...) in mezzo al vortice delle terribili donne, Bianca de la Force: il suo viso pallido, minuto e raccolto si staccava da tutte le figure che le stavano intorno respingendole via, lungi da sé, come stracci. La riconobbi. Era impavida. Cantava. Cantava con la debole vocetta da bimba ma senza il minimo tremito, anzi piena di gioia come quella d’un uccellino. E cantò sola, sulla grande piazza della Rivoluzione, il Veni Creator
delle sue sorelle fino alla fine.

Deo Patri sit gloria
et Filio, qui a mortuis
surrexit, ac Paraclito
in saeculorum saecula.

Sentii chiaramente anche il Credo del Dio trino; l’Amen non potei udirlo. Lei sa che quelle megere furiose trucidarono Bianca sul posto.»


***


Il tema del romanzo è il rovesciamento radicale, la sovversione cristiana, lo sconvolgimento. Chi vuol salvare la propria vita la perderà. Cristo, appeso alla Croce, innalza il mondo fino a sé. Bianca, che perde la propria vita, la riacquista, lei debole e spaurita, trionfante su Satana e i suoi scherani, imponendo la forza della Fede (non sfugga il senso di quel cognome; che assomiglia poi in modo illuminante a quello dell’autrice.


Rovesciamento, nel bene come nel male: chi non raccoglie con Cristo disperde. Satana è solo la scimmia di Dio: si comincia con un messaggio che sembra cristiano (libertà, uguaglianza, fraternità) e rapidamente si giunge al Terrore; si parte dai diritti dell’uomo e si finisce organizzando i campi di sterminio.

[Due riflessioni, prima di chiudere.
1. Si direbbe che anche le idee, come le persone, vengano al mondo con un loro “peccato d’origine”. Anche la prosopopea dei diritti dell’uomo ha avuto bisogno di un battesimo: il battesimo del sangue di queste nostre sorelle di Fede, così fragili e così intrepide. Solo grazie a loro è diventata giusta e santa.
2. Cadute nel fango e nello sterco le insegne del comunismo, milioni di facce di bronzo si sono riciclate recuperando i Lumi e i princìpi dell’89. Chissà che prima o poi qualcuno di loro, stremato da presuntuosi, compulsivi e pluridecennali “colloqui con Io”, arrivi a chiedere perdono per le atrocità dei suoi padri, àvoli e arcàvoli...]

[L’ultima al patibolo è facilmente rintracciabile, in economica, nel catalogo della BUR.
La scena finale, con la resurrezione e morte di Bianca, è rappresentata nello spezzone del film del ’59 all’indirizzo
http://www.youtube.com/watch?v=7fc2_DmegYU&NR=1
Il finale dell’opera di Poulenc: con una regia un po’ astratta ma di grande fascino, all’indirizzo http://www.youtube.com/watch?v=od4m5lN1HOo&feature=related; con una regia più “realistica”, all’indirizzo http://www.youtube.com/watch?v=GcUXp-fpiD0&feature=related
Per la Salve regina in gregoriano, vedi: http://www.youtube.com/watch?v=vpXu-kULxVc
Per il Veni Creator Spiritus gregoriano, vedi: http://www.youtube.com/watch?v=VnUJWDEQDW4]


Giuseppe
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.988
Sesso: Femminile
09/10/2010 12:42
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

Tratto da: http://www.unavoceverona.it/documenti/Pasolini%20e%20la%20tavola%20rotonda%20del%20'69%20sulla%20liturgia%20con%20E.%20Balducci%20%20Burgalassi%20%20Marsili%20e%20Zizola.pdf


e pubblicato da www.oriensforum.net


PASOLINI: CATTOLICI NON ADEGUATEVI!


NOTE SENSATE SU UNA FOLLE TAVOLA ROTONDA SESSANTOTTINA A PROPOSITO DELLA MESSA, CON LO SCOLOPIO ERNESTO
BALDUCCI, IL BENEDETTINO MARSILI, IL PRETE SOCIOLOGO BURGALASSI E LO SCRITTORE-REGISTA PASOLINI



Il quotidiano Avvenire (1/11/2005) riporta quanto dibattuto in una tavola rotonda, organizzata da Giancarlo Zizola nelle sede romana de “Il Giorno”, nel dicembre del 1969. I
 partecipanti erano: Pier Paolo Pasolini, intellettuale comunista e noto regista (autore fra gli altri de “Il Vangelo secondo Matteo”), padre Ernesto Balducci, il liturgista benedettino Salvatore Marsili e il prete sociologo Silvano Burgalassi. La tavola rotonda è significativa perché denuncia la mens ecclesiastica di quel tempo e il clima che si respirava allora anche nelle sagrestie: cosa poteva  sortire liturgicamente di buono, in un ambiente politico-religioso come quello e che a noi pare oggi  così penosamente datato, in un’atmosfera sessantottina satura dei veleni dell’ideologia e dell’analisi marxista della storia?

Il 1969, oltre che per le note tensioni a livello sociale, fu un anno capitale anche per la Chiesa cattolica, in quanto giunse al suo approdo anche la riforma liturgica richiesta dal Concilio Vaticano II ed elaborata da un’apposita commissione, giustamente accusata di essere andata molto al di là dei dettami conciliari in materia di riforma della Messa, in precedenza rimasta inalterata per secoli.. Il 3 aprile di quell’anno, infatti, Paolo VI firmava la Costituzione apostolica Missale Romanum che varava la nuova Messa, sulla base delle indicazioni contenute nella Costituzione Sacrosantum Concilium redatta dal Concilio Vaticano II.

Erano i primi anni del postconcilio. L’assise conciliare si era chiusa quattro anni prima e negli ambienti ecclesiali si respirava un’atmosfera di rinnovamento, da “nuova Pentecoste”, di spirito di riforma, di abbattimento della Tradizione. Come se duemila anni di storia e di dottrina fossero un inutile peso di cui scrollarsi al più presto e fosse arrivato il momento in cui si poteva pensare e proporre idee che sarebbero state impensabili anche solo nel decennio precedente, sotto il pontificato di Papa Pio XII. Basti ricordare le profetiche parole dell’augusto Pontefice nell’enciclica Mediator Dei (1947): “Notiamo con molta apprensione che alcuni sono troppo avidi di novità e si allontanano dalla via della sana dottrina e della prudenza. Giacché all'intenzione e al desiderio di un rinnovamento liturgico, essi frappongono spesso princìpi che, o in teoria o in pratica, compromettono questa santissima causa, e spesso anche la contaminano di errori che toccano la fede cattolica e la dottrina ascetica”. Il dibattito, di cui riportiamo alcuni spunti interessanti, è indicativo proprio di questo radicale cambiamento di prospettiva, qual’era intervenuto in alcuni esponenti della Chiesa.

Già nelle parole di padre Balducci, ritroviamo le nuove definizioni di Messa, quando ricorda che “la nostra fede si deve riferire a un convivio, e non ad un banchetto religioso o magico, ma ad un banchetto normale”. Idee, se ci si pensa bene, che non sono poi così nuove. Anzi sono vecchie di quattro secoli, da quando Lutero mise in dubbio la validità sacrificale della Messa, riducendola ad un semplice memoriale, ad un convivio appunto. Su questo punto il Concilio di Trento intervenne con assoluta fermezza, affermando: “Se qualcuno dirà che nella Messa non si offre a Dio un vero e proprio sacrificio, sia anatema” (Sess. XXII, can. I).

In quella stessa tavola rotonda anche il liturgista Marsili critica la liturgia tradizionale, con frasi concettose, pregne di sociologismo marxista e di freudismo, accusandola di essere “espressione di una religione carica di un atavismo più o meno magico”, come se la transustanziazione fosse paragonabile ad un qualsiasi rito magico. E va oltre, ricordando che “Lutero rimproverava di non fare la messa per i vivi, di non invitare la gente alla cena, ma di fare sacrifici per i defunti”, mettendo in dubbio quello che la Chiesa c’insegna, e cioè di pregare per le anime del Purgatorio, così da alleviarne le sofferenze e anticipare il tempo in cui potranno contemplare Dio.

Oltre ai contenuti, si potrebbe obiettare anche sulla fonte della citazione fatta da Marsili, visto che Lutero pensava che, per sconfiggere il Papa, bisognasse passare per la distruzione della Messa cattolica. Interessante anche il giudizio del progressistissimo. Marsili sul Medioevo che, sono sue parole, “è stata la rovina della Chiesa Cattolica, perché è stato la prostrazione della fede, riempita di tutto il magismo nordico”, confondendo forse Gesù Cristo e i Vangeli con “Il Signore degli anelli”.
 

Aggiunge Marsili che “bisogna che cominciamo a diventare antitridentini e antimedievali per fare la riforma”. Parole davvero illuminanti, visto che il Concilio di Trento fu convocato apposta per arginare i disastri della pseudo-Riforma e per sconfiggerne le eresie. Da sottolineare poi che l’impostazione tridentina della Chiesa è durata per tutto il Rinascimento, ha superato la Rivoluzione francese, l’Ottocento, il Novecento, prima di arenarsi al “1789 della Chiesa”, come il cardinale Suenens definì il Concilio Vaticano II. L’odio per il Medioevo porta il liturgista benedettino a criticare le meravigliose cattedrali costruite all’epoca, che Pasolini (dotato evidentemente di un maggior sensus fidei) invece difende, sottolineando lo stretto rapporto fra arte e  religione.

Addirittura il benedettino Marsili si spinge a ricordare che Cristo “annunzia la distruzione di un tempio e la ricostruzione in se stesso, proprio per creare una forma nuova alla base della quale c’è solo la conversione”, riconoscendo così solo forme astratte di religiosità e non anche quelle concrete, come può essere l’edificazione di una cattedrale. Marsili ricorda infine che Cristo l’esortazione “Convertitevi!” l’aveva rivolta agli ebrei, che erano più religiosi e non ai pagani; dimenticando quello che Nostro Signore aveva ordinato a San Paolo, cioè di portare il Vangelo fra i pagani.

Restando in tema di liturgia, è da riportare il pensiero di Pasolini: “La liturgia, abolendo il latino, dando questa forma di democrazia alla Chiesa, si adegua ai tempi”. Sembrano le parole uscite dalla bocca di un cattolico tradizionalista e invece le pronunziava trent’anni fa una persona che neanche frequentava la Messa e che dialogava con sacerdoti che la pensavano in maniera opposta. Il latino è la lingua universale della Chiesa, non soggetta a mutamenti e quindi degna depositaria delle verità di fede che annuncia. La democrazia nella Chiesa è un altro dei punti su cui i modernisti si sono più battuti in Concilio, cercando d’introdurre una maggiore collegialità nelle decisioni, in particolare dei vescovi a discapito del Papa. In aperto contrasto con la dottrina dell’infallibilità papale sancito dal Concilio Vaticano I. La Chiesa si era poi retta su una organizzazione monarchica fin dall’inizio, e la sua democratizzazione è la prova più evidente di come le idee rivoluzionarie abbiano fatto breccia nel suo interno.

Pasolini dà dimostrazione di quest’avvenuta democratizzazione anche nella liturgia, facendo notare come si sia passati da un rapporto feudale fra sacerdoti e fedeli, ad uno più borghese. Da notare anche la connotazione negativa che Pasolini dà al fatto che la Chiesa si adegui ai tempi. Lo scendere a compromessi con il mondo è condannato più volte da Nostro Signore Gesù Cristo neiVangeli: “Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia” (Gv 15,19); “Non prego per il mondo” (Gv 17,9). Che il mondo vada per una certa via e che i tempi cambino è un dato di fatto. Il fatto inaudito (e che non è in linea con il precedente Magistero) è che la Chiesa si debba riformare, per inseguire il mondo e per convertirsi ad esso, anziché convertirlo: per “meglio adattare alle esigenze del nostro tempo quelle istituzioni che sono soggette a mutamenti” (Sacrosantum Concilium). Anche perché non si spiegherebbe perché, altrimenti, ci siano voluti due millenni per cambiare in un modo cosi drastico.

Durante la tavola rotonda si dibatte anche del ruolo del fedele nella liturgia. Pasolini fa un magnifico ritratto della fede popolare, indicando nel popolo un soggetto che “vive la ritualità in concreto, completamente, esistenzialmete, corporalmente” e ricorda la “civiltà agraria, nell’ambito in cui è nata la religione cristiana”. Queste parole, pronunciate da un comunista, fanno impressione. Un marxista, in linea di principio, dovrebbe essere più vicino e solidale con la classe proletaria, sorta con l’industrializzazione, che non con il “reazionario” mondo contadino. Qui invece, Pasolini si oppone alla civiltà consumistica, rievocando una “religiosità primitiva” che non
 sembra essere un tributo al primitivismo indigenista e terzomondista (c.d. inculturazione liturgica) di ascendenza dal mitico “buon selvaggio” di Rousseau, che sarebbe poi divenuto uno dei punti chiave dell’ideologia conciliare. In buona sostanza, non sembra che lo scrittore friulano avesse qui abbracciato il regressismo primitivista che sarebbe in seguito diventato predominante in ambito rivoluzionario, rispetto all’ottimismo un po’ ingenuo del positivismo ottocentesco, fiducioso nella scienza e nelle magnifiche sorti progressive dell’avvenire.
 

Questa visione pasoliniana è però in contrasto con quella del suo interlocutore, padre Balducci, il quale, in una prospettiva conciliare e moderna, contesta il ritorno a modelli popolari del passato, che Pasolini apprezza per le loro forme simboliche e sensibili. Pasolini accosta la religiosità popolare a quella borghese, ritenendo la prima più legata al “mistero, al momento estatico, al silenzio, al mistero di una liturgia incomprensibile”. Egli crede che il punto di contatto fra il popolo preindustriale e l’uomo moderno sia da trovarsi “nell’esigenza misticheggiante, che è anche estetizzante”.

Degna di nota, anzi clamorosa, è pure un’interessante osservazione di padre Balducci, secondo il quale “gli uomini meno religiosi si trovano meglio nella liturgia rinnovata”.. Ma che bella scoperta! Chissà perché? Forse perché la nuova liturgia è meno religiosa di quella tradizionale? Come si fa a non essere d’accordo con questa affermazione? Un'altra tendenza di quegli anni e che purtroppo si trascina fino ad oggi, la si può ricavare dalle parole del prete sociologo Burgalassi, quando dice che “la Chiesa può esprimere anche in futuro valori di profezia riscoprendo l’uomo” e aggiunge: “La liturgia di oggi, nella misura in cui permette la riscoperta dei valori umani – la spontaneità, la comunità, la comunione, l’amore – guarda al futuro, cioè scopre l’uomo e favorisce la crescita dell’uomo”. Una visione antropocentrica, che fa dell’uomo il fine ultimo di tutto, culto divino compreso e che trova le sue radici più nell’illuminismo che nella civiltà cattolica. Una prospettiva che esalta i valori umani sganciati da Dio, i quali non sono certo centrali nel Vangelo, anzi sono opposti ad esso, tanto che sembrano usciti dalla bocca più di qualche seguace di movimenti new age o di qualche deificatore massonico dell’uomo.

Si aggiunga il continuo riferimento al “mistero dell’uomo”, concetto ripreso più volte negli anni a seguire da Giovanni Paolo II, in particolare in alcuni suoi libri. L’unico vero mistero è, sinceramente, che cosa voglia dire effettivamente quest’espressione, che sembra più adatta a un linguaggio filosofico (e psicologico in specie) che a istanze religiose. Padre Balducci rincara la dose: “Il momento liturgico dovrebbe essere, una volta realizzato fuori dagli involucri sacrali che ancora lo inceppano, il momento della massima responsabilizzazione dell’uomo”. E prosegue: “L’uomo mediante la fede ha la possibilità di trascendere le forze storiche che lo dominano”. Un discorso che ha più di un vago sentore marxista. “Il credente diventa non l’uomo che volta le spalle alla storia per rivolgersi a Dio, ma l’uomo che si pone in faccia alla storia”. E conclude: “Tutte le forze che responsabilizzano l’uomo per noi sono forza evangeliche”. Concetti questi di liberazione dall’autorità, contro le forze “oppressive” della storia e in nome di un presunto Vangelo socialista, che trovano le proprie radici nel protestantesimo e richiami moderni nella teologia della liberazione. E che promuovono un’idea di uomo che deve focalizzare i propri interessi a capire se stesso, non all’anima e a Dio, come diceva Sant’Agostino.

Un uomo che può fare a meno di Dio, che vuole creare un suo paradiso qui sulla terra. Pasolini, da buon marxista, concorda anch’egli con padre Balducci nel definire il Vangelo
come “strumento perenne di liberazione dell’uomo”. Ma il religioso scolopio fa un’affermazione ancora più scandalosa sulle Sacre Scritture: “Se il Vangelo è cristiano, Paolo è cattolico!” (e dunque, par di capire, peggiore, anzi opposto all’essere cristiano). La concezione tradizionale viene dunque stravolta e rovesciata: non sono gli acattolici a usurpare il nome di cristiani, bensì i cattolici. Potenza della rivoluzione nella Chiesa!

A parte il fatto che Balducci ci parla di Paolo e non di San Paolo, declassandolo o scanonizzandolo, come usano fare tutti i modernisti, l’impressione che si ha è quella di un Vangelo letto come fattore ecumenico-indifferentista accomunante tutti i cristiani, quindi anche protestanti, anglicani e ortodossi. L’apostolato di San Paolo viene letto come una prerogativa (negativa) dei cattolici, quasi fossero un sottoinsieme qualunque e non i depositari della Vera Fede.
 
Dal dibattito appare chiaro insomma come la pensassero nel 1969 molti esponenti della Chiesa su questioni scottanti, quali la riforma liturgica e il rapporto tra popolo fedele e autorità e i nuovi concetti di uomo e di ecumenismo che venivano veicolati. Queste posizioni, tenute e caldeggiate soprattutto dai preti, erano così “avanzate” da far dire a padre Balducci, a fine dibattito che “la cosa paradossale è che il più religioso è stato Pasolini”. Verissimo, confermiamo noi. Lo spirito modernista postconciliare di allora è dilagato fino a intridere oggi di sé tutto il mondo parrocchiale e curiale, facendo divenire minoritario chi oggi difende la dottrina di sempre della Chiesa dal dilagare dell’errore. Vi sarebbe di che smarrirsi, se non fosse per un insignificante dettaglio. Che la Chiesa è di Dio, che vige la sua promessa che le forze infernali non prevarranno mai contro di lei (“et portae inferi non praevalebunt adversum eam”, Mt. 16, 18) e che nella trionfante Restaurazione promessa dalla Santissima Vergine a Fatima, non potrà non essere ricompreso anche il trionfale ritorno della Santa Messa e della liturgia cattolica di sempre, con cui i modernisti pensavano di avere regolato definitivamente i conti nel ‘69, su tutti gli altari del mondo. Giacché, secondo la profezia di Abacuc, “egli trionferà sui Re e i tiranni sono ridicoli al suo cospetto, si fa gioco di ogni fortezza, assedia una città e la conquista”.

Ad majorem Dei gloriam!
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.988
Sesso: Femminile
22/10/2010 15:42
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

Echi tridentini: L'ultimo crociato. Il ragazzo che vinse a Lepanto, di Louis De Wohl

In questa splendida opera di Louis De Wohl (1903 – 1961), autore di numerosi romanzi storici che hanno per protagonisti santi o icone della Cristianità, si ripercorrono le gesta umane, il percorso politico e militare e le battaglie spirituali di Juan d'Austria, il don Giovanni che guiderà giovanissimo la Lega Santa, nella famosa battaglia di Lepanto (7 ottobre 1571), contro la flotta musulmana: proprio il 7 ottobre scorso abbiamo ricordato l'anniversario di questa data decisiva per la storia dell'Europa, con la festa della Madonna del Rosario.

In questi brevi passi che Vi offro – ma Vi invito a procurarvi il libro, che è anche piacevole alla lettura – il protagonista del racconto, Juan, figlio illegittimo dell'Imperatore Carlo V ma infine cresciuto a corte accanto al fratellastro Re Filippo II, si sta avvicinando inconsapevolmente alla missione a cui sarà chiamato; Juan non sa infatti quale sarà il suo destino di soldato, ma in cuor suo desidera servire la Spagna e la Cristianità così come aveva imparato da don Luiz, suo ammirato tutore.

Gli estratti ben si innestano nella rubrica degli Echi tridentini in letteratura (e per questo Ve li propongo), ma rimane inteso che molti sono gli spunti – in tutta l'opera – che meriterebbero di essere condivisi e commentati.

In questa fase del racconto Juan si trova in un monastero per un ritiro quasi forzato, e trova nel frate Calahorra una provvidenziale illuminazione sul significato dell'essere Crociato, sulle motivazioni e sul senso di essere soldato di Cristo.

Dal Capitolo XXVIII:

“L'abitudine” continuò con occhio terribile “l'abitudine è uno dei peggiori nemici dell'umanità. Talora sembra che ci stiamo abituando alla nostra eredità. Tale possesso ci sembra sicuro, quasi non potessimo perderlo all'indomani. Non ci rendiamo nemmeno conto che lo spirito ci ha abbandonati”.

“Finora la Spagna non manca di uomini coraggiosi” disse risentito Juan.

“È vero, e ne avrà sempre, per grazia di Dio. Ma la maggior parte di quelli che hanno lo spirito d'avventura lo combinano con lo spirito di conquista. Vanno in lontane contrade non tanto per diffondervi la Fede, quanto per depredarle dell'oro. Questi uomini vogliono che il loro coraggio serva a loro, non a Dio. Non è necessario essere cristiano per questo! Qualunque pagano potrebbe fare altrettanto. Dov'è l'uomo che ha lo spirito dei veri crociati? L'uomo che vuole compiere una missione, non perchè egli vuole, ma perchè Dio lo vuole? Deus lo vult: non ho mai udito questo grido in tutta la mia vita! Lasciamo che le cose vadano per la loro via, e le future generazioni non capiranno nemmeno più come un grido di tal genere si sia potuto proferire. Lo tradurranno nelle loro anime mercenarie come una strana specie di ipocrisia, Dio mi perdoni, come una superstizione”.

“Vi saranno certamente sempre dei buoni preti, che continueranno a insegnarci quel che è giusto...”

“Sì, vi saranno. Le porte dell'inferno non prevarranno, lo sappiamo. Ma ciascuno di noi deve vivere come se quella promessa di Cristo dipendesse da lui e da lui solo. I preti e le monache non sono abbastanza. Cristo ha anche bisogno dei laici.”

Juan scosse la testa. “Prima d'ora non l'avevo mai sentito dire da nessuno”.

“Preti, frati, monache sono stati costituiti per la loro specifica missione” disse Calahorra. “Ma il loro lavoro verrebbe annullato non soltanto in singoli casi, ma in intere regioni, se Dio non suscitasse degli apostoli laici.”

“Questo è un pensiero nuovo” commentò Juan.

“Fino a non molto tempo fa gli ecclesiastici erano i soli a saper leggere e scrivere” proseguì Calahorra. “Non perchè le università fossero chiuse a tutti gli altri, ma perchè il popolo non si curava d'imparare. I preti e i monaci avevano pure il compito di leggere e di scrivere. E così un giorno si dirà: “il compito dei preti e dei monaci è di pregare e predicare” e, come un tempo l'istruzione, la preghiera verrà confinata nei monasteri. Lasciate passare del tempo e il prete sarà il solo a ricordarsi del Padre Nostro.”

“Non posso crederlo.”

“Dacchè quel caro Tedesco inventò un nuovo metodo di scrittura con la macchina da stampa, ci siamo trovati di fronte a un altro genere di problemi. Che cosa si stamperà su quei fogli che nascono così alla svelta e così numerosi da ricoprire le città e i paesi di manifesti e di libelli? I Principi e i dotti si serviranno di questo mezzo per diffondere ordini e conoscenza. Quali comandi e quali conoscenze? La potenza del laico aumenta e continuerà ad aumentare. Di per sé tutto questo è un bene. Vi sarà più modestia e umiltà tra gli ecclesiastici e sarà aumentata la responsabilità del laico. Ma ora tutto dipende dall'uso che il laico farà di tale responsabilità, se si servirà cioè del suo nuovo potere per sua gloria o per il servizio di Nostro Signore”. Si alzò e mise altra legna nel fuoco. “Non pensate che questo sia una novità” disse. “Cristo stesso lo aveva già detto. Non parlò della scarsità degli operai nella vigna? E inviò gli Apostoli non a insegnare soltanto a poche persone privilegiate ma a tutte le genti. Laici, laici! Ecco la nuova crociata, Deus lo vult!”
Segue ora una bellissima preghiera di Calahorra, e la celebrazione della Santa Messa, che risveglia in Juan il desiderio di essere unito indissolubilmente a Dio.

Un ultimo ceppo andò a finire nel fuoco. E mostrando il fuoco Calahorra continuò: “Se Dio è come il fuoco, che io ne sia bruciato. Se Dio è come acqua, che io anneghi in essa. Se è come aria, che in essa voli. Se è come terra, che io scavi in essa la mia vita, finchè non abbia raggiunto il centro.”

Fu dopo questa conversazione che Juan incominciò ad assistere alla Messa del piccolo frate, tutte le mattine alle cinque. La notte invernale pesava tristemente sopra Del Abrojo e la chiesa era piena di ombre e delle sussurranti voci degli altri frati, che celebravano la Messa agli altri altari.

La Messa di Calahorra fu una rivelazione. Egli non sfiorava in fretta i sacri testi, né faceva lunghe pause sentimentali, come certi preti conosciuti da Juan. Parlava chiaramente. Non era né svelto, né lento. Tracciava il suo solco nel campo del Signore, coscienziosamente e amorosamente, e il Signore stava sicuro nelle sue mani.

Ma se così egli serviva Dio, anche Dio faceva qualcosa per lui. I suoi lineamenti forti e grossolani erano nobilitati a tal punto che si stentava a riconoscerli, e ogni gesto, ogni movimento era regale. Il piccolo e tozzo uomo, reso ancora più grosso dai sacri paramenti, era trasformato in un essere di tale dignità e maestà, che pareva avesse superato i limiti della semplice umanità.

All'altare stava la sorgente della sua potenza. Quivi attingeva la sua forza, come una volta faceva Anteo toccando sua madre, la Terra.

Juan si accorse di esser capace di pensare a cose, cui prima non aveva mai pensato. Anteo, il titano della leggenda greca, era invincibile, finchè con il suo corpo fosse stato in contatto con quello della madre. Il cristiano era invincibile, finchè fosse stato unito a Cristo, il Verbo fatto Carne, al Dio fatto Uomo, e del cui Corpo vivente poteva partecipare nell'Ostia.

Come spesso i pagani avevano avuto i primi barlumi, le prime idee geniali sulle cose future!

Il maomettano, però, cercava di tagliare il ponte fra Dio e l'uomo; Cristo, non più uomo-Dio, diventava un semplice profeta di second'ordine, che doveva inginocchiarsi di fronte a Maometto. E anche Maometto era soltanto un profeta. Una volta di più il legame fra Dio e il genere umano veniva spezzato con violenza; la più compatta e amorosa unione infranta.

Ancora una volta Dio sarebbe divenuto lontano, non più il Padre dell'uomo, ma soltanto il Re, il terribile, tremendo Signore dei tempi antichi. L'Islam segnava un regresso, e, in quanto cercava di annullare il supremo sacrificio di Cristo, una delle peggiori degenerazioni.

L'importante era questo e questo solo: innalzare e propagare un Regno sulla terra, dove Dio non regnasse solo come Re, ma anche come Padre; dove all'uomo fosse concesso di partecipare alla divinità di Lui, che non aveva disdegnato di assumere l'umanità dell'uomo. Questo voleva Cristo, quando disse: ”Andate e insegnate a tutte le genti...”.
La missione e l'annuncio: perchè l'uomo appartiene a Dio, e il cuore dell'uomo cerca Dio.

Che l'uomo si chiamasse Principe o Eccellenza o non avesse affatto un nome, non aveva importanza. Come mangiasse o bevesse o vestisse, se fosse seduto su un trono o sul più basso sgabello, non aveva importanza. Anche se avesse o no trovato la felicità tra le braccia di una moglie, poco contava al confronto del più grande di tutti i problemi. Poiché l'uomo apparteneva non a se stesso, ma a Dio.

Per questo i cavalieri delle passate età lasciavano le loro mogli e i loro castelli per amore della Croce. Deus lo vult.
Riprendo ora un passo dalla parte finale del libro: sono in corso le “trattative” per decidere chi guiderà la Lega Santa, posto che la battaglia contro i Mori è inevitabile e necessaria. Tra miopie e bassi interessi di fazione, il Santo Padre Pio V è stremato, e sembra essere il solo a capire l'importanza straordinaria che avrà Lepanto per le sorti dell'Europa. È chiamato a scegliere il Condottiero dei Cristiani: non può fallire la scelta, perchè non può fallire la battaglia. E proprio nella Santa Messa...

Dal Capitolo XXXIV:

Spuntò l'alba, ma era l'alba di novembre, senza alcun splendore.

Il vecchio si alzò dal pavimento di pietra stanco e tremante. Si fece il segno della croce. Come sempre al mattino e spesso durante il giorno sentiva nel suo petto affollarsi le sofferenze, che gli salivano tutte alla gola, facendolo sospirare alquanto. “Signore” pregò “accresci pure le mie sofferenze, ma anche la mia pazienza.”

Si aggiustò come meglio potè, l'abito. E girando intorno all'altare passò attraverso una piccola porta quasi dietro all'altare stesso, in una stanza accanto.

La stanza era una cappella di forma ottagonale. A sinistra dell'altare, a lato del Vangelo, stava un baldacchino di stoffa dorata, coperta di broccato d'oro.

Quattro prelati vestiti di porpora, con bianchi rocchetti e stole ricamate, si alzarono dai loro inginocchiatoi e fecero un profondo inchino.

Per alcuni momenti il Papa pregò, in ginocchio dinanzi alla sedia sotto il baldacchino. Poi, stanco ed esausto, si mise a sedere.

[…]

Caro, amabile, glorioso regno di Cristo! Le porte dell'Inferno non prevarranno contro di esso, finchè a difenderlo vi sarà un solo cristiano. E vi sarà sempre. Vengano pure i pagani, gli Arabi, i Turchi o quant'altri mai pericoli, nascosti nel seno dei secoli futuri!

Pio V si sentì pervaso da un'ondata di forza. Ancora una vota s'inginocchiò per una breve preghiera. Fece quindi un cenno ai quattro prelati, i quali presero i paramenti, sistemati sulla mensa dell'altare, e incominciarono a vestirlo.

Disse la Messa come sempre, in assoluta serenità leggendo e pronunciando lentamente le parole. Dio, invocato con le Sue stesse sacre Parole, discendeva sull'altare, facendosi Carne e Sangue, e il Suo servo per tre volte si dichiarava indegno di accoglierlo sotto il suo tetto, con le parole dell'ufficiale romano, il cui nome da tutti era stato dimenticato, ma la cui fede era stata ricordata da tanti attraverso i secoli e sempre lo sarebbe stata come esempio per l'umanità. La fede di un soldato, di un capo di uomini in battaglia...

E Pio V partecipò della Carne e del Sangue di Cristo, sperando come chiunque altro che le preghiere dei grandi santi lo avrebbero aiutato a essere meno indegno.

Pochi minuti dopo, uno dei prelati voltò la pagina del messale e il Papa incominciò a leggere la preghiera finale della Messa, “l'ultimo Vangelo”, preso dal primo capitolo di San Giovanni: “In principio era il Verbo e il Verbo era con Dio; e il Verbo era Dio. Egli era in principio con Dio. Tutte le cose furono fatte per suo mezzo e senza di Lui non fu fatto nulla di quel che è stato fatto. In lui era la vita, e la vita era la luce degli uomini. E la luce risplendè nelle tenebre; e le tenebre non la compresero. Vi fu un uomo, mandato da Dio, il cui nome era Giovanni”.

Il Papa si arrestò.

Tutti e quattro i prelati guardarono, non perchè si era fermato, ma perchè l'ultima frase era stata pronunciata con voce del tutto differente, una voce del tutto strana, profonda e vibrante come una grossa campana.

Il vecchio stava tremando, ma la sua faccia splendeva.
Deo gratias. Don Giovanni D'Austria, 1547 – 1578.

Sursum corda

Andrea Pernigotti
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.988
Sesso: Femminile
28/08/2011 09:00
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

Chateaubriand: il Genio del Cristianesimo (e della Tradizione)

François-René de Chateaubriand
di Lucetta Scaraffia

Viviamo un momento di crisi nella trasmissione del messaggio cristiano. In particolare, è in crisi il linguaggio con cui la cultura cattolica cerca di trasmettere ideali ed entusiasmi; e forse non solo a causa del predominio assoluto dell'immagine e dei sistemi informatici, ma per qualcosa di più sostanziale. Avremmo bisogno di un colpo d'ala, di un nuovo scrittore della statura di Chateaubriand che, provocando un "grande colpo al cuore del lettore", riesca di nuovo a convincere della bellezza della fede, e così a riaccendere gli animi spenti della religiosità europea.

È questa la conclusione a cui porta la lettura del libro di Giuliano Zanchi Il Genio e i Lumi. Estetica teologica e umanesimo europeo in François-René de Chateaubriand (Vita e Pensiero) dedicato a una delle principali opere del grande scrittore francese - Le Génie du christianisme, uscito nel 1802, cioè immediatamente dopo la tempesta rivoluzionaria - che in poco tempo divenne il libro più letto d'Europa. L'opera ebbe l'effetto di risvegliare la passione per una religione data per morta attraverso un'apologia estetica del cristianesimo.
L'autore usava una lingua nuova per affrontare questo complesso tema: una lingua "incantatrice", ben diversa dall'arido razionalismo a cui si erano ridotti i teologi che si misuravano con la filosofia illuminista, una lingua che si voleva riallacciare a quella dei Padri della Chiesa, dei quali egli aveva compreso l'impostazione soggettiva e moderna. Chateaubriand era consapevole d'imporre alla questione religiosa uno scatto complessivo, d'imprimere un cambiamento di marcia alla cultura cristiana attraverso una nuova audacia comunicativa.

In quell'epoca dominata da intellettuali che coltivavano l'ideale di un razionalismo intransigente c'era in realtà - e lo scrittore lo sapeva - fame di consolazioni religiose, di fede: "Quanti cuori spezzati, quante anime rimaste sole imploravano una mano divina per guarirli! Ci si precipitava nella casa di Dio come si entra nella casa del medico il giorno di una epidemia". Insomma, la rimozione dell'esperienza religiosa dalla vita sociale stava avvenendo in modo troppo grossolano, e le braci della fede ardevano ancora, se pure nascostamente.
Chateaubriand era stato capace di creare un discorso che, secondo Zanchi, intendeva "dar voce alla ridotta eloquenza di una tradizione dottrinale in sé traboccante di ricchezza, di una eredità dogmatica di cui, a causa di una cultura che ha nella stessa misura avvolto la filosofia e la teologia, sono diventate invisibili le ragioni e impalpabile il fascino". Davanti all'uomo dei Lumi che - come l'uomo contemporaneo - cercava in se stesso l'autonoma giustificazione dell'intera storia umana, terrena e spirituale, lo scrittore riesce a risvegliare interesse e ammirazione per "il genio cristiano", dando voce e onore a una percezione della coscienza collettiva, ormai ridotta alla clandestinità proprio per la sua incapacità di riformularsi.

Come dovrebbe intervenire il nuovo Chateaubriand oggi? Sarebbe efficace la sua "apologia estetica" della fede? Probabilmente, la bellezza della tradizione cattolica ormai ignorata può avere presa in un mondo in cui - scrive PierAngelo Sequeri nell'introduzione al libro - "la potenza performativa dell'estetico, invece, è dispositivo essenziale per il rapido formarsi di un immaginario pubblico che consegna la religione, in blocco, alla sfera dell'obsoleto, del residuo, del volgare". Mentre l'impatto sentimentale, emotivo, del linguaggio romantico, se pure grondante soggettività, può essere percepito come esagerato.

Ma soprattutto oggi, a secolarizzazione compiuta, abbiamo da sfruttare un'altra opportunità: la tradizione cristiana costituisce un punto di vista nuovo, anticonformista, sulla realtà, tale da incuriosire e affascinare soprattutto i giovani, se solo ne vengono a contatto nel modo giusto. Quando scriveva Chateaubriand, questo aspetto di novità non si era ancora sedimentato, e il grande scrittore non aveva potuto fare ricorso a questo motivo di fascino che, paradossalmente, ci offrono proprio la lunga fase di secolarizzazione e perfino la diffusa ignoranza in ambito religioso.


Fonte: L'Osservatore Romano 26 agosto 2011

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.988
Sesso: Femminile
30/10/2011 21:33
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

Echi tridentini in Goethe - II parte

Tempo fa avevamo proposto una lettera che Goethe scrisse ai suoi, durante il suo secondo soggiorno a Roma nel 1788, in cui apprezzava la bellissima funzione papale a cui aveva assistito nella Cappella Sistina al Vaticano, e nelle cui righe si dichiarava estasiato ed ammirato per la solennità e dignità del rito e diceva di essere rimasto affascinato per l'esecuzione dei canti (link). Seguono ora due brani tratti dal resoconto del suo primo soggiorno romano: soltanto un anno e mezzo prima, la sua partecipazione alle Ss. Messe Pontificali celebrate da Papa Pio VI (nella Cappella Paolina al Quirinale e a San Pietro) ebbe ben altri effetti.
L'ammirazione per i posti, l'imponenza delle cerimonie e la solenne riverenza tributata al "Vicario di Cristo" lasciò presto, nell'animo del poeta, il posto a stupore e fastidio, vedendo il Papa "borbottare" e "ballonzolare" attorno all'altare.
Si può certo cercar di comprendere il motivo di disturbo provato da Goethe verso la complessa liturgia prevista dal cerimoniale papale: dobbiamo ammetterlo, per un protestante, avverso allo magnificenza della liturgia cattolica, abituato ai sermoni dei pastori, e "ignorante" di riti cattolici, vedere il Papa muoversi (senza conoscere il significato dei movimenti e dei gesti) senza nemmeno udirne la voce (coperta dai pur sublimi canti della Cappella) poteva risultare bizzarro, e la Messa poteva risultare indigesta e incomprensibile.
E misteriosa (nella forma) forse poteva risultare anche a molti pur ferventi e devoti fedeli cattolici, che però supplivano all'ignoranza del cerimoniale con la fede nel Mistero (sostanziale)!
Oggi, sicuramente, l'uso del microfono e la maggior conoscenza dei nostri riti, e delle preghiere, hanno aiutato a far comprendere meglio ai fedeli i significati dei gesti, dei movimenti, dei luoghi e dei paramenti sacri. E a partecipare quindi ancor più fruttuosamente (se mai sia possibile) alla sacre celebrazioni.
Nel secondo brano, inoltre, emergono i suoni dei magnifici organi, approntati a produrre ogni tipo di suono, anche il più svariato, prima che fossero zittiti dalla riforma di San Pio X.




Roberto


"Roma, 3 novembre 1786.
[...] Ieri invece, giorno dei Morti, fui più fortunato. Il Papa commemora i defunti nella sua Cappella privata del Quirinale [nella foto è la Cappella Sistina, Pio XI]. L'ingresso è libero a tutti. [...] Unendoci alla folla, attraversammo lo spazioso e splendido cortile e salimmo la scalinata di smisurate sproporzioni. In queste anticamere, dirimpetto alla cappella e intravedendo la fuga delle stanze, si prova una forte impressione al sapersi sotto un unico tetto col Vicario di Cristo.
La funzione era già incominciata, e il Papa si trovava in chiesa con i cardinali. Bellissima e dignitosa la virile figura del Santo Padre; vari i cardinali d'età e d'aspetto.
Mi prese lo strano desiderio che il capo supremo della Chiesa aprisse l'aurea sua bocca e, parlando estatico dell'indicibile letizia delle anime beate, comunicasse anche a noi la propria estasi. Ma poiché lo vidi semplicementegesticolando e borbottando come un prete qualunque, si risvegliò in me il peccato originale del protestante e il noto e consueto rito della messa non mi piacque più per nulla. [...]. Che direbbbe, pensavo, se entrasse qui e scorgesse la sua immagine in terra andar su è giù biascicando e ballonzolando? Mi venne in mente il Venio iterum crucifigi, tirai per la manica il mio compagno e ce ne andammo a cercar respiro nei saloni dalle volte affrescate."

"Roma, 6 gennaio 1787.
andar su è giù davanti all'altare, volgendosi un po' di qua e un po' di là,
Tanto per parlare ancora di cose ecclesiastiche, vi dirò che abbiamo passato la notte di Natale, andando in giro a visitare diverse chiese, dove si tenevano le funzioni. Una di esse [S. Apollinare, nei pressi di piazza Navona, n.d.r.] è particolarmente frequentata, perché l'organo e i musicanti vi sono accomodati in maniera da rendere udibili tutti i suoni d'una musica pastorale, dalle zampogne dei pastori al cinguettio degli uccelli e ai belati delle pecore.
Il primo giorno di Natale vidi in San Pietro il Papa, con tutto il pretume celebrava la Messa solenne, in parte davanti al trono, in parte dall'alto di esso. E' uno spettacolo unico nel suo genere, molto sfarzoso e imponente: ma io ormai son così invecchiato nel mio diogenismo protestante, che tanta magnificenza mi disturba più di quanto mi affascini e avrei voglia di dire, come il mio valente predecessore, a codesti conquistatori religiosi del mondo: "Non nascondetemi il sole dell'arte somma e della pura umanità".
Oggi festa dell'Epifania ho veduto e ascoltato la celebrazione della Messa col Rito Greco. Queste cerimonie mi son parse più grandiose, severe e austere di quelle del Rito Latino, e tuttavia più popolari."

J. W. Goethe,
Viaggio in Italia.


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
Amministra Discussione: | Chiudi | Sposta | Cancella | Modifica | Notifica email Pagina precedente | 1 | Pagina successiva
Nuova Discussione
Rispondi

Feed | Forum | Bacheca | Album | Utenti | Cerca | Login | Registrati | Amministra
Crea forum gratis, gestisci la tua comunità! Iscriviti a FreeForumZone
FreeForumZone [v.6.1] - Leggendo la pagina si accettano regolamento e privacy
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 10:45. Versione: Stampabile | Mobile
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com