«… Ci andai. E mi annoiai moderatamente. Non assistevo a una messa da almeno un quarto di secolo. (…) E poiché era la prima volta che la sentivo in italiano, mi abbandonai a riflessioni sulla Chiesa, la sua storia, il suo destino. E cioè il suo passato splendore, il suo squallido presente, la sua inevitabile fine. Sotto specie estetica, credevo: ma c’era invece, in quel che andavo disordinatamente pensando, qualcosa di più remoto ed oscuro; qualcosa di più pericoloso. Un fondo di disagio, di apprensione; come in chi, partendo, appena partito, sente di aver dimenticato o smarrito qualcosa, e non sa precisamente che.
Ma a voler confessare pienamente, e magari in eccesso, quello stato d’animo: mi sentivo un po’ defraudato e sperduto.
Quell’immobile macigno cui mi ero, nemico, affilato per anni; quel macigno di superstizioni e paure, di intolleranza, di latino: eccolo friabile e povero come la zolla più povera. Ricordavo ancora (a dieci anni avevo servito messa) certi passi della messa in latino: e li confrontavo all’italiano cui erano stati ridotti; propriamente ridotti, e anche nel senso di quando si dice com’è ridotto il tale. “L’acqua unita al vino sia segno della nostra unione con la vita divina di Colui che ha voluto assumere la nostra natura umana”. Che insulsa dicitura, da far pensare a quegli esseri insulsi che a tavola allungano il vino con l’acqua.
“Deus, qui humanæ substantiæ dignitatem mirabiliter condidisti, et mirabilius reformasti: da nobis per huius aquæ et vini mysterium, eius divinitatis esse consortes, qui humanitatis nostræ fieri dignatus est particeps, Jesus Christus Filius tuus Dominus noster: Qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus: per omnia sæcula sæculorum”: dov’era ormai il senso di queste parole e, al di qua o al di là del senso, il mistero?». (Leonardo Sciascia, Todo modo, 1974).
[Il narratore, che discetta sconsolato sulle differenze fra la messa tradizionale in latino e le miserevoli traduzioni dei bugniniani, poveretto, non sa che in realtà gli è andata persin bene, imbattendosi nel Canone romano sia pure così mal ridotto. Poteva andargli ben peggio, con qualcuno dei Canoni alternativi…].
Sciascia (1921-1989) rappresenta forse la personalità più significativa in una generazione di intellettuali figli dichiarati dell’illuminismo: maestro riconosciuto di relativismo culturale, nemico intelligente di Santa Madre Chiesa; fra i più pericolosi, probabilmente, perché equilibrato, onesto, capace di ripensamenti e di coraggio civile.
Non a caso, l’universo della “grande cultura italiana” (tutta condizionata e foraggiata dal partito comunista e dai suoi camerieri) ebbe nei suoi confronti un atteggiamento ambivalente: visto fallire il tentativo di farne un “compagno di strada/utile idiota”, prese a diffidare di lui, scendendo infine agli attacchi più sgangherati e (addirittura) alle denunce in tribunale (caso Berlinguer/Guttuso).
Il rapporto dello Sciascia maturo con il cattolicesimo politico (ma anche con la fede cattolica tout court) è al centro di Todo modo, romanzo pubblicato nel 1974: l’anno del referendum sul divorzio, che lo vide attivo nella propaganda per il no [cioè contro l'abrogazione della legge sul divorzio], ma che lo vide anche oggetto della rabbiosa contestazione femminista, la quale non sopportava – in una sua intervista all’Espresso – la lucida polemica sul matriarcato siciliano, condìta dalla franca dichiarazione: “Credendo nella famiglia come cellula prima della società, sono necessariamente un po’ conservatore”.
Protagonista e narratore è un pittore di successo, colto, pensoso e inquieto: un evidente alter ego di Sciascia medesimo. Capitato per caso in un albergo/eremo voluto e gestito da don Gaetano (potentissimo e spregiudicato “prete in carriera”), apre con lui un confronto a tutto campo, sul potere, la fede, i compromessi e le realtà ultime (morte, giudizio, inferno, paradiso). Partecipa dall’esterno (con ironico distacco) a un “turno” di esercizi spirituali riservati a uomini dei “poteri forti”: banchieri, finanzieri, politici, ministri, cardinali. Dopo un paio di misteriosi omicidi (di cui è, probabilmente, colpevole lo stesso don Gaetano) finisce con l’uccidere (con don Gaetano) quella componente di se stesso che – passate da decenni le esperienze di chierichetto – resiste imperterrita dentro di lui, trionfa sul disprezzo e sui sarcasmi e marca una presenza che gli fa paura.
Il sorriso bonario e un po’ sornione da erede di Voltaire e di Courier è spesso presente, in questo romanzo come in decine di articoli e interviste. Penso soprattutto alle interviste concesse a Vittorio Messori (soprattutto quella apparsa prima su Jesus e poi nel volume Inchiesta sul Cristianesimo), sempre rispettose nei confronti della fede ma all’apparenza impermeabili. E poi penso al funerale religioso del 1989: al Crocifisso che, per sua esplicita ultima volontà, Leonardo Sciascia teneva dolcemente fra le mani, sul petto. Davvero, lo Spirito soffia dove vuole e quando vuole.
Giuseppe