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Ricostruzione storica vita di CRISTO con i dati Biblici ed extrabiblici

Ultimo Aggiornamento: 25/09/2009 12:31
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Da: Soprannome MSN°Teofilo  (Messaggio originale)Inviato: 23/11/2003 16.29
             CRONOLOGIA DELLA VITA DI GESÙ CRISTO

La ricostruzione cronologica della vita di Gesù presterà sempre il fianco a delle obiezioni, in quanto gli evangelisti, unica fonte autentica, non si sono preoccupati di fornirci dati cronologici con in criteri che l'uomo moderno - particolarmente scettico - pretende: date incontrovertibili, magari con riscontri in autori pagani, in manoscritti antichissimi ecc.; e anche se ci fossero tali prove, ugualmente sorgerebbero numerosi dubbi.

Gli Evangelisti, benché sapessero che il mistero dell'iniquità avrebbe negato che il Cristo fosse venuto nella carne (2 Gv 1,7: "Poiché molti sono i seduttori che sono apparsi nel mondo, i quali non riconoscono Gesù venuto nella carne. Ecco il seduttore e l'anticristo!"), non potevano anticipare le obiezioni dei vari razionalisti degli ultimi secoli e mai si sarebbero potuti immaginare il giro mentale di certi esegeti moderni (anche se cominciavano a meditare sul fatto che i negatori della realtà storica di Gesù non sarebbero sorti solo dall'ambiente pagano: cf. 1 Gv 2,19: "Sono usciti di mezzo a noi, ma non erano dei nostri").

Tuttavia le indicazioni cronologiche - poche e incomplete per le esigenze del pensiero moderno - assumono una particolare importanza; proprio una certa scarsità di questo tipo di indicazioni e il fatto che siano stati lasciati alcuni vuoti rendono gli evangelisti più credibili. Si vede chiaramente che questi non costruiscono "a tavolino" una cronologia della vita di Gesù: si preoccupano però di darne una collocazione spazio-temporale, proprio perché il Verbo si è fatto carne nello spazio e nel tempo, cioè in un ben preciso momento della storia. Queste poche indicazioni cronologiche - particolarmente credibili proprio per il fatto che si vede che non fanno parte di un sistema artificiale -, ci permettono di dedurre con grande verosimiglianza un'impalcatura cronologica esatta della vita di Gesù.

Riporto qui l'ottimo schema pubblicato in Il Vangelo unificato e tradotto dai testi originali, a c. del P. Pietro Vanetti S.J. e altri, con presentazione del P. Alberto Vaccari, Venezia 1961/8, pp. 363-369. Il testo è stato modificato leggermente (Don Alfredo Morselli)



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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 23/11/2003 16.30

1) L'inizio dell'era cristiana fu ritardato di quattro anni per un errore di calcolo attribuito al monaco scita Dionigi il Piccolo, morto nel 556, il quale datò al 754 di Roma la morte di Erode il Grande. Si sa invece con certezza che il re Erode morì a Gerico ai primi di aprile del 750, dopo sei mesi di atroce malattia. Certo non era malato quando diede le dovute indicazioni ai magi e ordinò la strage dei bambini al di sotto dei due anni, allorché i magi non ritornarono da lui per dargli notizie intorno al bambino Gesù.

Bisogna perciò concludere che la nascita di Gesù avvenne almeno un anno e mezzo prima della morte di Erode, cioè o nei 748 di Roma o nel 747 (6-7 a. C.). Questa data coincide approssimativamente con l'editto di Augusto e il censimento di Quirino, ricordati da Luca (Lc 2, 1-2). In forza di altri documenti si sa che sotto Quirino, che governò, come legato imperiale in Siria, dall'11 all'8 a. C., ebbe inizio il censimento, le cui operazioni poterono durare uno o due anni.

2) Un altro cenno cronologico ci è offerto da Luca all'inizio del ministero di Gesù: "Era l'anno quindicesimo dell'impero di Tiberio" (3, 1). Nel gennaio del 765 di Roma (12 d. C.), Tiberio veniva associato da Augusto al governo dell'impero. Due anni dopo, il 19 agosto 767 di Roma (14 d. C.), Augusto moriva. Da quale di queste due date si deve computare il quindicesimo anno? Nel primo caso si arriva al 779 di Roma (26 d. C.), nel secondo al 781 di Roma (28 d. C.).

Probabilmente Luca computò secondo il metodo orientale, cioè dalla morte di Augusto, e calcolò come un anno l'intervallo fra la morte dell'imperatore e l'inizio del nuovo anno civile, fissato, come per noi, al io gennaio. Allora il quindicesimo anno di Tiberio inizia dal 10 ottobre del 780 di Roma (27 d. C.).

Gesù, nato nel 6 o 7 a. C., avrebbe ricevuto il battesimo da Giovanni Battista negli ultimi mesi del 27 d. C. e avrebbe dato inizio al suo ministero ai primi mesi del 28, avendo circa trent'anni (Lc 3, 23), frase assai elastica, che permette di arrivare sino ai 33 o 34 anni.

3) Giovanni ricorda tre Pasque: la prima all'inizio dei ministero, poco dopo il battesimo (2, 13); la seconda a metà della predicazione (6, 4); la terza in occasione della morte (12, 1); da ciò si deduce che il ministero di Gesù dovette durare due anni completi, indicati dalle tre Pasque, più qualche mese, quanti ne passarono tra il battesimo e la prima Pasqua.

4) Tenendo dunque conto di quanto abbiamo detto sopra, proponiamo il seguente quadro cronologico:

Nascita di Gesù: 747-748 di Roma (= 7-6 a. C.).

Preparazione del Battista: dall'ottobre del 780 di Roma (= 27 d. C.) al gennaio del 781 di Roma (= 28 d. C.).

Battesimo e inizio del ministero: gennaio del 28 d.C.

Prima Pasqua: 31 marzo del 28 d.C.

Seconda Pasqua: 19 aprile del 29 d. C.

Terza Pasqua e morte di Gesù: 7 aprile del 30 d. C.

TAVOLA CRONOLOGICA

Quando dall'anno si passa a precisare il mese, il giorno, l'ora, generalmente bisogna sempre più attenersi ad una probabile approssimazione, fondata però su serie congetture.

Anno 11-8 a. C - 743-746 di Roma

Publio Sulpicio Quirino tiene la carica di legato in Siria - Iniziano le operazioni del censimento di tutto l'impero.

Anno 7-6 a. C - 747-748 di Roma

L'angelo Gabriele annuncia a Zaccaria la nascita di Giovanni Battista e alla Vergine Maria l'incarnazione dei Verbo -Visita di Maria SS. a Elisabetta - Nasce Giovanni Battista - A Betlemme nasce Gesù

Anno 6-5 a. C - 748-749 di Roma

Gesù è presentato al tempio - I magi lo adorano - Fugge in Egitto - Erode ordina la strage dei bambini

Anno 4 a. C - 750 di Roma

Aprile: Muore Erode il Grande - Gesù ritorna dall'Egitto a Nazareth

Anno 6 d. C - 759 di Roma

Archelao viene deposto - La Giudea diventa provincia romana.

Anno 7 d. C - 760 di Roma

Gesù va a Gerusalemme e resta tre giorni nel tempio

Anno 12 d. C - 765 di Roma

Gennaio

Augusto associa al suo governo Tiberio.

Anno 14 d. C - 767 di Roma

Agosto

Augusto muore - Subentra imperatore Tiberio.

Anno 17 d. C - 770 di Roma

Caifa eletto Sommo Sacerdote.

Anno 26 d. C - 779 di Roma

Ponzio Pilato nominato procuratore in Palestina.

Anno 27 d. C - 780 di Roma

Ottobre

Giovanni Battista inizia la sua predicazione (Mt 3, 1-6; Mc 1, 1-6; Lc 3, 1-6; Mt 3, 7-10; Lc 3, 7-9; Lc 3,10-14; Mt 3, 11-12; Mc 1, 7-8; Lc 3, 15-18).

Anno 28 d. C - 781 di Roma

Gennaio

Gesù riceve il battesimo (Mt 3, 11-12; Mc 1, 9-11; Lc 3, 21-23a).

Gennaio-Febbraio

Gesù nel deserto digiuna ed è tentato (Mt 4, 1-11; Mc 1, 12-13; Lc 4, 1-13).

Marzo

Gesù chiama i primi discepoli - Partecipa alle nozze di Cana

(Gv 1, 35-51; Gv 2, 1-12).

31: Prima Pasqua - Gesù scaccia i mercanti dal tempio (Gv 2, 13-25).

Aprile

Gesù riceve la visita di Nicodemo (Gv 3, 1-21).

Estate

Erode incarcera Giovanni Battista (Mt 4,12; Mc 1,14; Lc 3, 19-20; Gv 4, 1-3)

Gesù lascia la Giudea - Incontra la samaritana(Gv 4, 4-42)

Sceglie Cafarnao come sua città - Inizia la sua predicazione (Mt 4, 13-17; Mc 1, 14-15; Lc 4, 14-15).

Compie numerosi miracoli - Chiama definitivamente i primi discepoli. (Mt 4, 18-22; Mc 1, 16-20; Lc 5, 1-11)

Viene in urto con i farisei.

Pronuncia il suo discorso programmatico (Mt 5, 1-12; Lc 6, 17. 20-26)

Novembre

Gesù pronuncia le parabole del regno

Dicembre

Gesù seda la tempesta sul lago(Mt 8, 18. 23-27; Mc 4, 35-41; Lc 8, 22-25)

Libera gli indemoniati di Gerasa (Mt 8, 28-34; Mc 5, 1-20; Lc 8, 26-39)

Anno 29 d. C - 782 di Roma

Gennaio

Gesù guarisce l'emorroissa - Risuscita la figlia di Giairo - Viene scacciato da Nazareth

Febbraio

Gesù istruisce i discepoli e li manda a predicare

Marzo

I discepoli ritornano dalla predicazione - Erode fa decapitare Giovanni Battista - Gesù moltiplica i pani per cinquemila uomini - Cammina sulle acque - Pronuncia a Cafarnao il discorso sul pane di vita

Aprile

19: Seconda Pasqua.

Gesù risana il paralitico della piscina di Betesda - Fa la sua apologia contro i farisei - Lascia la Giudea per andare verso la Galilea

Giugno

Gesù attraversa la Fenicia e la Decapoli - Esaudisce la donna cananea - Moltiplica una seconda volta i pani

Luglio

A Cesarea di Filippo, Pietro proclama Gesù figlio di Dio e Gesù gli promette il primato - Dirigendosi poi verso la Galilea Gesù annuncia la sua passione (nn. 126-128).

Agosto

Gesù si trasfigura davanti a Pietro Giacomo e Giovanni - Ritornato a Cafarnao dà alcune istruzioni

Ottobre

Gesù passa per la Perea - Manda a predicare settantadue discepoli - Racconta la parabola del buon samaritano - Fa visita a Marta e Maria - Insegna il "Padre nostro" e parla della preghiera

15: Festa dei tabernacoli.

Gesù nel tempio proclama la sua missione divina - I giudei cercano di impadronirsi di lui - Decisioni del Sinedrio nei suoi riguardi - Assolve una donna adultera

Dicembre

Festa delle encenie - Gesù ridona la vista a un cieco dalla nascita - Proclama apertamente la sua divinità - Lascia la Giudea per la Perea

Anno 30 d. C - 782 di Roma

Gennaio-Febbraio

Gesù attorniato dai bambini. Pranza in casa d'un fariseo - Compie numerose guarigioni. Narra la parabola dei convitati, della pecorella smarrita, della dramma ritrovata, del figlio prodigo, del fattore disonesto, di Lazzaro e il ricco epulone, degli operai dell'undecima ora - Guarisce dieci lebbrosi - Annuncia la sua parusia - Parla della preghiera umile e fiduciosa

Marzo

Gesù risuscita l'amico Lazzaro - Si ritira ad Efraim - Si fa invitare in casa del pubblicano Zaccheo

Aprile

1-8: Ultima settimana.

SABATO 1

A Betania, durante un banchetto, Maria profuma con aromi il capo e i piedi di Gesù

DOMENICA 2

Gesù entra trionfalmente a Gerusalemme e piange sulla sorte della città - Di notte ritorna a Betania

LUNEDì 3

Gesù ritorna a Gerusalemme - Maledice il fico - Scaccia i mercanti dal tempio - Pernotta a Betania

MARTEDI 4

Gesù ritorna a Gerusalemme - Confonde farisei, scribi e sadducei - Narra le parabole dei due figli mandati a lavorare nella vigna, dei vignaioli omicidi, del convito nuziale - Pronuncia il discorso escatologico e preannuncia il giudizio universale

MERCOLEDÌ 5

Il Sinedrio cospira per impadronirsi di Gesù - Giuda offre la sua collaborazione - Gesù denuncia il mistero dell'incredulità dei giudei

GIOVEDÌ 6 (14 nisan)

Gesù manda Pietro e Giovanni in città perché preparino la cena pasquale

Ore 18-19 circa: Gesù celebra la cena pasquale

Ore 19-20 circa: Gesù istituisce l'Eucaristia e s'intrattiene a lungo con gli apostoli, dando le ultime raccomandazioni e pregando il Padre per sé e per i suoi

Ore 21 circa: Gesù con gli apostoli lascia il cenacolo e va al Getsemani

Ore 22 circa: Gesù inizia la sua agonia nell'orto e suda sangue

Ore 23 circa: Gesù è tradito da Giuda, arrestato e tradotto al palazzo dei sommi sacerdoti (nn. 283-288).

VENERDÌ 7

Ore 0-3 circa: Gesù compare davanti ad Anna e Caifa - È giudicato e condannato a morte - Pietro lo rinnega

Ore 6 circa: Gesù compare nuovamente davanti al Sinedrio - Giuda muore disperato (nn. 294-295).

Ore 7-8 circa: Gesù è condotto al tribunale di Pilato per la prima volta

Ore 8-9 circa: Pilato manda Gesù da Erode che lo deride

Ore 9-11 circa: Gesù compare per la seconda volta al tribunale di Pilato - È flagellato e coronato di spine

Ore 11 circa: Gesù è condannato e si avvia al Calvario

Ore 12 circa: Gesù viene crocifisso

Ore 15 circa: Gesù, emesso un grido, reclina il capo e spira

Ore 17 circa: Gesù morto viene tolto dalla croce e posto nel sepolcro

SABATO 8

Tutti osservano il riposo sabbatico.

DOMENICA 9

Gesù risorge glorioso - Appare a Maria Maddalena, alle pie donne, a Pietro, ai discepoli di Emmaus, agli apostoli nel cenacolo

DOMENICA 16

Gesù ricompare nel cenacolo per l'incredulo Tommaso

Maggio

GIOVEDÌ 18

Gesù ascende al Padre

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Da: Soprannome MSN°Teofilo  (Messaggio originale)Inviato: 21/04/2004 9.53

Il cristianesimo si propone come l'annuncio che Dio si è fatto uomo e chiede all'uomo di credere che la "storia" di Gesù di Nazareth è la storia di una Persona divina . Ma nello stesso tempo, ti chiede che il tuo atto di fede sia un atto ragionevole. Che cosa significa "ragionevole"? Non significa che quell'affermazione ti risulti come vera ed intelligibile alla luce della tua ragione. Significa che esistono dei motivi di credibilità tali che la decisione di credere non è "affatto un cieco moto dello spirito". Di conseguenza, il credente può "rendere ragione della sua speranza" anche a chi non crede. Ed anche chi non crede può verificare se questa "resa di ragione" è tale, cioè di ragione, oppure è solo esclamazione di stati d'animo.

All'interno della ragionevolezza della fede si colloca il problema della storicità dei Vangeli: problema certo che non va sopravalutato, ma neppure svalutato. Nel suo "rendere ragione" la Chiesa dice: "Gli autori sacri scrissero i quattro Vangeli ... sempre però in modo tale da riferire su Gesù cose vere e sincere" (DV 19). Ora è noto a tutti che l'affidabilità di un documento scritto è tanto maggiore quanto più vicina ai fatti narrati è la sua composizione. Dunque, la domanda sulla datazione dei vangeli è una domanda seria sia per il credente sia per il non credente. Non perché la fede nel Dio fatto uomo dipenda dalla data dei vangeli. Ma il fatto che quello scritto sia degno di fede storica a causa della sua vicinanza all'avvenimento narrato, costituisce uno degli elementi essenziali che formano quel fondamento razionale, capace di rendere ragionevole e degno dell'uomo l'atto di fede propriamente detta.



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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 21/04/2004 9.54

ADRIANO IMPERATORE

Publio Adriano, successore di Traiano, imperatore dal 117 al 138, ricevette una lettera da Quinto licinio Silvano Graniano, proconsole d'Asia nel 120 circa, nella quale si richiedevano istruzioni riguardo al comportamento da tenersi con i Cristiani, spesso oggetto di delazioni anonime e accuse ingiustificate. Egli rispose con un rescritto, che ci è pervenuto nella Storia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea, indirizzato al successore di Graniano, Caio Minucio Fundano, in carica nel 122-123.

In esso si legge:
"Se pertanto i provinciali sono in grado di sostenere chiaramente questa petizione contro i Cristiani, in modo che possano anche replicare in tribunale, ricorrano solo a questa procedura, e non ad opinioni o clamori. E' infatti assai più opportuno che tu istituisca un processo, se qualcuno vuole formalizzare un'accusa. Allora, se qualcuno li accusa e dimostra che essi stanno agendo contro le leggi, decidi secondo la gravità del reato; ma, per Ercole, se qualcuno sporge denuncia per calunnia, stabiliscine la gravità e abbi cura di punirlo" (Hist. Eccl. IV, 9, 2-3)1.


Gli apologisti, a partire da Giustino, che riporta il testo di questo rescritto in appendice alla sua prima Apologia, hanno interpretato favorevolmente questa disposizione, vedendo nella richiesta di Adriano il primo tentativo di distinguere tra l'accusa di nomen christianus e i suoi presunti flagitia; il semplice nome cristiano non doveva essere perseguito, e gli eventuali reati dovevano essere prima dimostrati tramite regolare processo, come per qualsiasi cittadino. In tal guisa interpretano anche molti studiosi moderni; tuttavia, ancora sotto Antonino Pio i Cristiani erano oggetto di persecuzione solamente in quanto tali. Nonostante la contraddittorietà dei provvedimenti, ci si avvia lentamente ad un progressivo riconoscimento della nuova fede.

CELSO

Chiude l'elenco delle testimonianze non cristiane del II secolo quella uscita dalla penna dell'oscura figura del filosofo Celso; di lui sappiamo solamente che fu un intellettuale seguace di quel medio platonismo che a quel tempo conobbe una notevole fioritura con Plutarco, Attico, Albino, Massimo di Tiro ed altri ancora.

Tra tutti coloro che si occuparono dell'attacco verso i Cristiani (ci sono rimasti i nomi e talora alcune accuse poco significative del cinico Crescente, di Cecilio, di Frontone, dell'oratore Aristide e di Ierocle), egli è, assieme a Porfirio nel secolo successivo, l'unico veramente degno di nota.

Sappiamo che Celso scrisse un'opera dedicata interamente alla polemica contro i Cristiani, dal titolo Discorso veritiero (Alethès lógos); esso è comunemente datato tra il 177 e il 180, gli ultimi anni della correggenza di Marco Aurelio col figlio Commodo (171-180). Ma quest'opera, ignorata a quel che sembra dai contemporanei e trascurata dalle generazioni successive, ci è giunta parzialmente solo perché Origene nel 248 decise di farne una dettagliata confutazione (il Contra Celsum); per ribatterne una ad una le argomentazioni, egli riportò letteralmente gran parte dei passi.

Celso pare non voler riconoscere nulla di buono ai Cristiani: pur sdegnando le volgari calunnie che ancora circolavano al suo tempo, che in parte abbiamo già ricordato e su cui gli apologisti ci hanno lasciato numerose attestazioni (incesto e banchetti tiestei, ma anche accuse di adorare un idolo con testa d'asino, la croce, il sole, i genitali dei sacerdoti, di suscitare venti e tempeste, di invocare fame e pestilenze, di compiere sortilegi), egli rappresenta l'atteggiamento degli avversari del II secolo. Il filosofo mostra di conoscere almeno in parte la Bibbia (certamente qualcosa del vangelo di Matteo) e le sette fuoriuscite dalla "grande Chiesa"; egli accusa il cristianesimo di essere il figlio bastardo della più abbietta religione nazionale, il giudaismo. Solamente l'etica di Cristo pare talora resistere alla sua disapprovazione, ed anche la dottrina del Logos gli aggrada.

In ultima analisi, tuttavia, il Discorso veritiero è uno scritto politico e pratico: Celso è preoccupato dal fatto che i Cristiani non partecipino alle feste pagane, non prestino servizio militare, non ricoprano cariche pubbliche, collocandosi al margine della società civile (l'odio del genere umano già descritto ottant'anni prima da Tacito). Questo rifiuto di partecipare alla vita pubblica è per lui un "grido di rivolta"1. L'appello con cui si concludeva l'opera di Celso, affinché i Cristiani non si sottraggano più all'ordine civile e religioso generale, servendo così al bene dello stato già tanto debilitato e in pericolo a causa di nemici interni ed esterni, mette in luce questa preoccupazione politica che attraversa tutto il suo scritto.

Da quanto Origene ci ha conservato, possiamo trarre alcuni giudizi su Gesù Cristo:

Ad un certo punto si parla della "madre di Gesù, scacciata dall'artigiano che l'aveva maritata, accusata di adulterio, messa incinta da un certo soldato di nome Panthera" (Contra Celsum, I, 322.


"Spinto dalla miseria andò in Egitto a lavorare a mercede, ed avendo quindi appreso alcune di quelle discipline occulte per cui gli Egizi son celebri, tornò dai suoi tutto fiero per le arti apprese, e si proclamò da solo Dio a motivo di esse" (Ivi, I, 28)3.

"Gesù raccolse attorno a sé dieci o undici uomini sciagurati, i peggiori dei pubblicani e dei marinai, e con loro se la svignava qua e là, vergognosamente e sordidamente raccattando provviste" (Ivi, I, 62)4.


L'accusa di illegittimità e la figura del soldato Panthera sono state rinvenute anche in ambiente giudaico5: in tal senso, l'origine del nome Gesù figlio di Panthera (Jesûa' ben Pandera), testimoniato con piccole varianti grafiche, sarebbe una corruzione del greco parthénos (vergine), una qualifica di Maria che sarebbe stata grossolanamente mal interpretata dai Giudei, fino a farne il nome di un presunto violentatore di lei; diversamente, altri ritengono queste accuse provenienti dai Giudei come tardive rispetto alla testimonianza di Celso. Panthera allora potrebbe essere un vero nome di persona, diffuso tra le truppe romane, come anche testimoniato da alcune iscrizioni.

È interessante vedere come Origene risponde alle accuse di Celso, specie quando mostra una perfetta ignoranza dei fatti (ad esempio quando parla di dieci o undici discepoli, quando è ben noto che erano dodici).

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Consiglia  Messaggio 3 di 5 nella discussione 
Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 21/04/2004 9.55

EPITTETO

Nato verso la metà del I secolo, a Gerapoli, il filosofo stoico Epitteto fu maestro a Roma e fu tra i filosofi che subirono la cacciata dalla capitale voluta dall'imperatore Domiziano. Raccolta una cerchia di discepoli a Nicopoli in Epiro, vi fondò una scuola, attiva nel periodo del principato di Adriano (117-138); alcune testimonianze del suo insegnamento ci sono pervenute tramite la raccolta di Dissertazioni del discepolo Arriano (95-175 circa).

In un passo di quest'opera, trattando di un tema assai caro allo stoicismo, ovvero la mancanza di paura di fronte alla morte, Epitteto enumera vari categorie di persone che hanno questo atteggiamento, come i bambini e i pazzi (incoscienti), coloro che per qualche motivo desiderano la morte, oppure coloro che accettano la morte con serenità, come i filosofi.

Tra coloro che invece non hanno paura della morte solo per abitudine (ethos), egli enumera i "Galilei".


"Anche per follia uno può resistere a quelle cose, o per ostinazione, come i Galilei" (Diss. Ab Arriano digestae IV, 6, 6)1.

>

Con l'espressione "quelle cose" il filosofo intende gli atti compiuti dai tiranni, e chiamando i Cristiani "Galilei" usa un titolo comune.

Egli ha forse davanti agli occhi alcuni casi di persecuzione (la lettera di Paolo a Tito presume una comunità cristiana a Nicopoli, ove Epitteto insegnò a lungo), e non riesce a spiegarsi l'atteggiamento di ostinazione dei Cristiani, al quale egli reagisce invocando nelle righe successive "il ragionamento e la dimostrazione". Come già per Plinio, i cristiani sono degli irrimediabili cocciuti; il motivo della fede per lui è completamente ignoto o incompreso.


FRONTONE


Marco Cornelio Frontone, di origine di Cirta, in Africa, visse a Roma, ove fu avvocato e retore a tal punto apprezzato da ottenere l'incarico di curare l'educazione retorica dei futuri imperatori Marco Aurelio e Lucio Vero. Nel 143 fu consul suffectus, e godette di tale fama da essere considerato dai suoi contemporanei un novello Cicerone; egli fu il rappresentante del cosiddetto movimento arcaicizzante che dominò la prosa del secolo II.

Di una sua Orazione contro i Cristiani, pronunciata tra il 162 e il 166, ci fa menzione l'apologista Minucio Felice nel suo Octavius (ultimo quarto II secolo); egli definisce Frontone: "non un teste diretto che arrechi la sua testimonianza, ma solo un declamatore che volle scagliare un'ingiuria"1, a causa delle sue accuse infamanti verso i Cristiani.

L'interlocutore pagano Cecilio, rifacendosi all'orazione suddetta che è ricostruibile per lo meno a grandi linee dalle citazioni2, affermava tra l'altro:

>

" Essi, raccogliendo dalla feccia più ignobile i più ignoranti e le donnicciuole, facili ad abboccare per la debolezza del loro sesso, formano una banda di empia congiura, che si raduna in congreghe notturne per celebrare le sacre vigilie o per banchetti inumani, non con lo scopo di compiere un rito, ma per scelleraggine; una razza di gente che ama nascondersi e rifugge la luce, tace in pubblico ed è garrula in segreto. Disprezzano ugualmente gli altari e le tombe, irridono gli dei, scherniscono i sacri riti; miseri, commiserano i sacerdoti (se è lecito dirlo), disprezzano le dignità e le porpore, essi che sono quasi nudi! […] Regna tra loro la licenza sfrenata, quasi come un culto, e si chiamano indistintamente fratelli e sorelle, cosicché, col manto di un nome sacro, anche la consueta impudicizia diventi incesto. […] Ho sentito dire che venerano, dopo averla consacrata, una testa d'asino, non saprei per quale futile credenza […] Altri raccontano che venerano e adorano le parti genitali del medesimo celebrante e sacerdote […] E chi ci parla di un uomo punito per un delitto con il sommo supplizio e il legno della croce, che costituiscono le lugubri sostanze della loro liturgia, attribuisce in fondo a quei malfattori rotti ad ogni vizio l'altare che più ad essi conviene […] Un bambino cosparso di farina, per ingannare gli inesperti, viene posto innanzi al neofita, […] viene ucciso. Orribile a dirsi, ne succhiano poi con avidità il sangue, se ne spartiscono a gara le membra, e con questa vittima stringono un sacro patto […] Il loro banchetto, è ben conosciuto: tutti ne parlano variamente, e lo attesta chiaramente una orazione del nostro retore di Cirta […] Si avvinghiano assieme nella complicità del buio, a sorte" (Octavius VIII,4-IX,7)3.

>

Graffito del colle Palatino: caricatura di un uomo crocefisso con testa d'asino.

A risposta di questo armamentario di accuse infamanti e di seconda mano (Ho sentito dire…), possono valere le parole che il cristiano Giustino rivolgeva in quegli stessi anni ad un altro accusatore del cristianesimo, il filosofo cinico Crescente: "Veramente è ingiusto ritenere per filosofo colui che, a nostro danno, rende pubblicamente testimonianza di cose che non conosce, dicendo che i Cristiani sono atei e scellerati; e dice ciò per ricavarne grazia e favore presso la folla, che resta ingannata"4.

Si noti che questo intervento raccoglie tutte assieme accuse che già circolavano dal secolo precedente, sottintese fin dalle parole di Tacito; ma se alcuni storici si prendevano la briga di verificarne la veridicità, come fece Plinio il Giovane, altri contribuivano a diffonderle.

Interessante il riferimento al culto della testa d'asino, una vecchia accusa già usata da Tacito contro gli Ebrei, dalla quale si era già difeso Giuseppe Flavio5; di essa abbiamo anche una rappresentazione figurativa, un graffito di età severiana ritrovato sul Palatino, e ora conservato nell'antiquarium, raffigurante la caricatura di un uomo crocifisso con testa d'asino, con ai suoi piedi un altro uomo in atto di adorazione, il tutto accompagnato dalla scritta: "Alessameno adora il suo Dio"6.

GIUSEPPE FLAVIO


Le prime chiare testimonianze storiche sulla persona di Gesù, ci sono tramandate dallo storico giudeo-romano Giuseppe Flavio (37-103 circa), che fu prima legato del Sinedrio, governatore della Galilea e comandante dell'esercito giudaico nella rivolta antiromana, ed in seguito consigliere al servizio dell'imperatore Vespasiano e di suo figlio Tito.

Nella sua opera Antichità giudaiche (93-94), nella quale narra la storia ebraica da Abramo sino ai suoi tempi, egli fa un accenno indiretto a Gesù; l'occasione gli è fornita dal racconto della illegale lapidazione dell'apostolo Giacomo (detto tradizionalmente il Minore), che era a capo della comunità cristiana di Gerusalemme, avvenuta nel 62, descritto come un atto sconsiderato del sommo sacerdote nei confronti di un uomo virtuoso:

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"Anano […] convocò il sinedrio a giudizio e vi condusse il fratello di Gesù, detto il Cristo, di nome Giacomo, e alcuni altri, accusandoli di trasgressione della legge e condannandoli alla lapidazione" (Ant. XX, 200)1.

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In un altro passo, invece, egli fa menzione della figura di Giovanni Battista; Erode Antipa, per sposare Erodiade moglie del proprio fratello aveva ripudiato la figlia di Arete, re di Nabatene, la quale si rifugiò dal proprio padre. Ne sorse una guerra nel 36 in cui Erode fu sconfitto, e questo è il commento di Giuseppe:

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"Ad alcuni dei Giudei parve che l'esercito di Erode fosse stato annientato da Dio, il quale giustamente aveva vendicato l'uccisione di Giovanni soprannominato il Battista. Erode infatti mise a morte quel buon uomo che spingeva i Giudei che praticavano la virtù e osservavano la giustizia fra di loro e la pietà verso Dio a venire insieme al battesimo; così infatti sembrava a lui accettabile il battesimo, non già per il perdono di certi peccati commessi, ma per la purificazione del corpo, in quanto certamente l'anima è già purificata in anticipo per mezzo della giustizia. Ma quando si aggiunsero altre persone - infatti provarono il massimo piacere nell'ascoltare i suoi sermoni - temendo Erode la sua grandissima capacità di persuadere la gente, che non portasse a qualche sedizione - parevano infatti pronti a fare qualsiasi cosa dietro sua esortazione - ritenne molto meglio, prima che ne sorgesse qualche novità, sbarazzarsene prendendo l'iniziativa per primo, piuttosto che pentirsi dopo, messo alle strette in seguito ad un subbuglio. Ed egli per questo sospetto di Erode fu mandato in catene alla già citata fortezza di Macheronte, e colà fu ucciso". (Ant. XVIII, 116-119)2.

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È interessante il motivo politico che Giuseppe aggiunge a quello addotto dai vangeli, ovvero le continue rampogne del battista ad Erode per la sua situazione adultera.

Ma la testimonianza di gran lunga più interessante è contenuta nel capitolo decimottavo della medesima opera, ed è nota tra gli storici come Testimonium flavianum. Essa, a causa della difficoltà di alcune sue affermazioni, fu oggetto di un lungo dibattito fra gli studiosi. Così infatti si presenta nella forma a noi tramandata:

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"Ci fu verso questo tempo Gesù, uomo saggio, se pure bisogna chiamarlo uomo: era infatti autore di opere straordinarie, maestro di uomini che accolgono con piacere la verità, ed attirò a sé molti Giudei, e anche molti dei greci. Questi era il Cristo. E quando Pilato, per denunzia degli uomini notabili fra noi, lo punì di croce, non cessarono coloro che da principio lo avevano amato. Egli infatti apparve loro al terzo giorno nuovamente vivo, avendo già annunziato i divini profeti queste e migliaia d'altre meraviglie riguardo a lui. Ancor oggi non è venuta meno la tribù di quelli che, da costui, sono chiamati Cristiani" (Ant. XVIII, 63-64)3.

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E' evidente che le affermazioni evidenziate dal carattere corsivo, presentate in tal modo, sono di uno scrittore che crede alla divinità di Gesù, alla sua risurrezione, alla sua qualità di Messia (Cristo) predetto dai profeti; un giudeo non convertito al cristianesimo, qual era Giuseppe, non avrebbe mai potuto scrivere tali cose.

Per questo motivo, a partire dal secolo XVI con Gifanio e Osiandro, l'autenticità del passo è stata messa in dubbio da un numero sempre crescente di commentatori, pur non mancando coloro che la difendevano anche tra autori di larga fama, quali F. K. Burkitt4, A. von Harnack5, C. G. Bretschneider e R. H. J. Schutt. Una gran parte di studiosi, invece, non giudicava il Testimonium come totalmente apocrifo, opera di getto d'un cristiano che l'ha inserito in quel punto della storia di Giuseppe, bensì lo riteneva un passo interpolato, scoprendovi il lavorio di una mano cristiana che avrebbe ritoccato volontariamente o involontariamente un tratto autentico delle Antichità6 (per ritocco involontario si allude ad un errore non così raro dei copisti, i quali talora inserivano inopportunamente nel testo alcune annotazioni o glosse marginali, apposte da qualche lettore; della possibilità di tale errore ci informano già gli antichi)7.

Si è notato che se il passo su Gesù fosse stato costruito a tavolino da un interpolatore cristiano, sarebbe stato verosimilmente inserito subito dopo il resoconto di Giuseppe su Giovanni Battista, mentre in Giuseppe l'accenno a Gesù non segue il racconto di Giovanni. D'altra parte, sarebbe strano che Giuseppe abbia omesso di registrare qualche informazione su Gesù, dato che si occupa del Battista, di Giacomo e di altri personaggi del genere; né il cristianesimo, da storico qual era, gli poteva essere ignoto, essendo a quei tempi penetrato fin nella famiglia imperiale. Quando poi Giuseppe più avanti tratta di Giacomo, invece di indicare come si faceva di solito il nome del padre per identificarlo (Giacomo figlio di …), lo chiama "fratello di Gesù detto il Cristo", senza aggiungere altro, lasciando intendere che questa figura era già nota ai suoi lettori. Se a ciò si aggiunge che Flavio Giuseppe parla già di altri "profeti" (come appunto Giovanni, oppure Teuda), è perfettamente plausibile che si sia occupato anche di Cristo.

Esaminando il problema, notiamo che:

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Tutti i manoscritti greci delle opere di Giuseppe che noi possediamo dal secolo XI in giù, contengono questo passo nella medesima forma; esso è pure citato due volte dallo storico Eusebio di Cesarea nei primi decenni del IV secolo8. Quindi, a questo proposito, la tradizione testuale è forte.

Origene, alla metà del secolo III, attribuisce al nostro Giuseppe l'affermazione che Gerusalemme fu distrutta per castigo divino in punizione del martirio dell'apostolo Giacomo, aggiungendo: "E la cosa sorprendente è che egli, pur non ammettendo il nostro Gesù essere il Cristo, ciò nondimeno rese a Giacomo attestazione di tanta giustizia" (Commentarium in Matthaeum X,17)9. Questa notizia pare essere in contraddizione con quanto si legge nel nostro Testimonium. In un'altra opera riprende il medesimo concetto, facendo egualmente rilevare come Giuseppe dica queste cose "sebbene non credente in Gesù come il Cristo" (Contra Celsum I,47)10. Di qui si ha la conferma di quanto ipotizzato riguardo alla fede non cristiana di Giuseppe. È invece discutibile la conoscenza che Origine mostra delle Antichità: vero è che Giuseppe considera iniqua la condanna sommaria di Giacomo, e la indica come la causa della deposizione del sommo sacerdote Anano da parte dell'autorità romana; egli infatti aveva convocato il sinedrio e pronunciato una condanna a morte senza il permesso del procuratore della Giudea, approfittando del periodo che incorse tra la morte di Festo e l'insediamento del successore Albino. Purtuttavia, Giuseppe Flavio in nessun passo afferma che per il martirio di Giacomo Gerusalemme si attirò la punizione divina, come ci dà ad intendere Origene. Nello stesso errore incorre Eusebio, che attribuisce a Giuseppe la medesima sentenza11. Secondo taluni12, poiché il medesimo Eusebio per i fatti di Giacomo utilizza ampiamente l'antico storico Egesippo13, vi fu una confusione tra le notizie di Egesippo e Giuseppe, forse anche favorita da una certa somiglianza dei nomi (pronunciati in greco rispettivamente Ighìsippos e Iòsipos). Questo ci può far pensare che Origene ed Eusebio non conoscessero a fondo le opere di Giuseppe, per lo meno in questi punti.

Dal lato della critica interna, il linguaggio del Testimonium non è dissonante dallo stile di Giuseppe. Tra i tanti commentatori, è opportuno ricordare H. St. J. Thackeray, il quale trattò a lungo dell'argomento dal punto di vista stilistico e filologico, e da negatore assoluto della autenticità del passo divenne sostenitore della sua sostanziale autenticità, sposando la tesi della parziale interpolazione cristiana14.

Il testo, se liberato dalle aggiunte evidenti, conserva un ottimo senso, sia grammaticalmente che storicamente; le aggiunte cristiane, che spezzano il fluire del discorso, sono tutte in forma parentetica, come se fossero state aggiunte in mezzo ad un testo preesistente. Se eliminate, rendono la narrazione più scorrevole. Alcune espressioni, inoltre, difficilmente appartengono ad un Cristiano (ad esempio, quando si dice che Pilato condannò a morte Cristo, si parla di "uomini notabili fra noi", come se l'autore fosse un Giudeo).

Sono state proposte alcune correzioni che renderebbero il testo ancora meno "cristiano". Ad esempio, la frase "maestro di uomini che accolgono con piacere la verità" potrebbe essere corretta in "maestro di uomini che accolgono con piacere le cose inconsuete" (a causa della somiglianza delle parole greche talêthê = la verità, e taêthê, le cose inconsuete). L'espressione taêthê è poco comune, e poteva essere più facilmente confusa con il più noto talêthê. In questo caso, la descrizione di Gesù come "autore di opere straordinarie" della riga precedente si attaglierebbe benissimo a questa osservazione. Più avanti, nella frase "E quando Pilato, per denunzia degli uomini notabili fra noi, lo punì di croce, non cessarono coloro che da principio lo avevano amato", se il kaí iniziale viene tradotto in senso avversativo (=ma) e non come semplice congiunzione (=e), si ha di fronte una considerazione sull'atteggiamento dei Cristiani, i quali avrebbero dovuto secondo l'autore abbandonare Gesù in seguito alla sua morte, ma invece continuarono a seguirlo.


Una svolta decisiva nell'analisi del testo fu impressa nel 1971 dalla scoperta di una Storia universale scritta in Siria nel X secolo dal vescovo e storico cristiano Agapio di Ierapoli (in Frigia, Asia Minore), che riporta una traduzione araba del Testimonium. Essa rappresenta un testo migliore di quello greco tramandato, compatibile con il pensiero di Giuseppe e privo di quelle rielaborazioni cristiane che sono state contestate dai critici; in tal modo, parve confermare sia la sostanziale autenticità del passo, sia la teoria di coloro che già prima avevano ipotizzato un'interpolazione successiva con i soli metodi della critica interna15.

Ecco il testo arabo:


 
"Similmente dice Giuseppe l'ebreo, poiché egli racconta nei trattati che ha scritto sul governo dei Giudei: "Ci fu verso quel tempo un uomo saggio che era chiamato Gesù, che dimostrava una buona condotta di vita ed era considerato virtuoso (o: dotto), e aveva come allievi molta gente dei Giudei e degli altri popoli. Pilato lo condannò alla crocifissione e alla morte, ma coloro che erano stati suoi discepoli non rinunciarono al suo discepolato (o: dottrina) e raccontarono che egli era loro apparso tre giorni dopo la crocifissione ed era vivo, ed era probabilmente il Cristo del quale i profeti hanno detto meraviglie"16.

Come è possibile notare da un semplice raffronto tra i due testi, siamo di fronte alle medesime informazioni: tuttavia, mentre nella recensione greca Giuseppe sembra riferire in prima persona le considerazioni "cristiane" nei riguardi di Gesù, quasi le condividesse, in quello arabo egli si limita esclusivamente a riportare quanto i discepoli di Gesù riferivano su di lui. Da parte sua, l'autore testimonia l'esistenza storica di quello che egli chiama in entrambi i testi un "uomo saggio".

L'importanza di questo testo più "puro" sta nel fatto che è opera di un vescovo cristiano: è difficile pensare che in uno scrittore cristiano il testo di Giuseppe sia stato modificato in senso minimizzante nei confronti di Gesù. Per cui, probabilmente, Agapio aveva di fronte una migliore recensione del testo di Giuseppe17. "Migliore recensione" non significa "originale"; egli infatti traduceva da una versione siriaca, forse anch'essa viziata da qualche intervento redazionale spurio.

Alla luce di tutto ciò, i critici moderni sono ormai concordi nel ritenere il passo del Testimonium come sostanzialmente autentico nella sua testimonianza storica di Gesù, sebbene abbia subito prima del secolo IV delle interpolazioni cristiane18.

Quanto ci interessa rilevare, in sostanza, è che Giuseppe Flavio cita nelle sue opere storiche tre personaggi evangelici, ovvero Giovanni Battista, Giacomo il Minore e Gesù medesimo, collocando intorno all'anno 30 d.C. l'attività e la SUA morte .


GALENO

Claudio Galeno (129-200 circa), il noto medico-filosofo di Pergamo, fu medico personale degli imperatori Marco Aurelio e Commodo. A differenza di Epitteto e Luciano, egli ha un'opinione realmente positiva sulla tenuta morale dei Cristiani1.

Attraverso la Historia anteislamica di Abulfida ci è pervenuto questo passo:

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"I più tra gli uomini non sono in grado di comprendere con la mente un discorso dimostrativo consequenziale, per cui hanno bisogno, per essere educati, di miti. Così vediamo nel nostro tempo quegli uomini chiamati Cristiani trarre la propria fede dai miti. Essi, tuttavia, compiono le medesime azioni dei veri filosofi. Infatti, che disprezzino la morte e che, spinti da una sorta di ritegno, aborriscano i piaceri carnali, lo abbiamo tutti davanti agli occhi. Vi sono infatti tra loro sia uomini che donne i quali per tutta la vita si sono astenuti dai rapporti; e vi sono anche coloro che sono a tal punto progrediti nel dominare e dirigere gli animi, e nella più tenace ricerca della virtù, da non cedere in nulla ai veri filosofi" (De sentent. Pol. Plat)2.

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Non è più soltanto il disprezzo della morte che colpisce Galeno, ma anche tutta la vita morale dei Cristiani. Giustino testimonia che alcuni Cristiani si astenevano interamente dal matrimonio, e tale costume era proposto ai pagani come esempio di virtù; si riteneva infatti che un tal genere di vita trovasse assentimento e ammirazione anche presso gli avversari. Invero, la filosofia del tempo inclinava all'ascetismo, e le attestazioni in favore della loro moralità non mancano. La Chiesa, tuttavia, metterà ben presto freno all'eccesso di questo rigetto della normale vita matrimoniale; esemplare è la condanna dell'apologista siro Taziano nel 172, il fondatore della setta degli Encratiti3.

Certamente, al di là di questo, Galeno condanna la fede dei cristiani come affermazione ostinata di cose affatto indimostrate; essa non è fondata sulla ragione (logos), per cui essa non è saggezza, bensì credulità.

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"Nessuno subito da principio, come se fosse pervenuto alla dottrina di Mosè o Cristo, ascolti leggi indimostrate, nelle quali non si deve per nulla credere". (De differentia pulsuum libri quattuor II, 4)4.

"Infatti si potrebbero dissuadere prima quelli che provengono da Mosé e Cristo, che non i medici o i filosofi, i quali si sono consumati sui loro principi". (Ivi, III, 3)5.

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Per Galeno, sarebbe molto più difficile far cambiare idea ad un filosofo o ad un medico, con alle spalle la sua scienza, che a un cristiano, aggrappato solo alla sua fede.


MARCO AURELIO

Il successore di Antonino Pio, Marco Aurelio Antonino, imperatore dal 161 al 180, scrisse intorno al 170, in lingua greca, un'opera in 12 libri, intitolata A se stesso, nella quale raccolse massime, pensieri, ricordi e meditazioni di contenuto filosofico.

In essa trova spazio un accenno al martirio dei Cristiani:

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"Oh, come è bella l'anima che si tiene pronta, quando ormai deve sciogliersi dal corpo, o estinguersi, o dissolversi o sopravvivere! Ma tale disposizione derivi dal personale giudizio, e non da una mera opposizione, come per i Cristiani; sia invece ponderata e dignitosa, in modo che anche altri possano esserne persuasi, senza teatralità" (Ad sem. XI, 3)1.

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Come già Plinio il Giovane, così anche Marco Aurelio pare essere infastidito dalla ostinazione dei cristiani, che vanno incontro al martirio pur di non rinnegare la propria fede. Per l'imperatore, questo tipo di morte non è frutto di un giudizio interno, sano e ponderato, ma è un segno di fanatismo, frutto di una " una mera opposizione". Ed è proprio sotto l'impero di questo sovrano saggio e filosofo, che prende forma la grande persecuzione che porterà alla morte, tra gli altri, di Giustino, Policarpo di Smirne, Carpo, Papilo, Agatonice, e dei cosiddetti Martiri di Lione.

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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 21/04/2004 9.57

PLINIO IL GIOVANE

Gaio Cecilio Plinio Secondo (61-112/113), nipote dello storiografo Plinio il Vecchio, fu allievo del famoso retore Quintiliano, avvocato, consul suffectus e governatore della Bitinia e del Ponto. Egli ci ha lasciato una raccolta di epistole contenute in 10 libri, l'ultimo dei quali contiene il carteggio ufficiale tra lui e l'imperatore Traiano. Queste lettere risalgono per lo più al periodo del governatorato di Plinio in Bitinia, ovvero agli anni 111-113, e sono una fonte documentaria di eccezionale importanza.

In una di queste lettere - scritta nello stesso periodo in cui l'amico Tacito redigeva il suo racconto sulla persecuzione cristiana del 64 - egli si rivolge a Traiano per ottenere istruzioni da seguirsi nel trattare con i cristiani della Bitinia e del Ponto, ove, come detto, ricopriva la carica di legato con potere consolare.

Eccone il testo:

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"E' per me un dovere, o signore, deferire a te tutte le questioni in merito alle quali sono incerto. Chi infatti può meglio dirigere la mia titubanza o istruire la mia incompetenza?

Non ho mai preso parte ad istruttorie a carico dei Cristiani; pertanto, non so che cosa e fino a qual punto si sia soliti punire o inquisire. Ho anche assai dubitato se si debba tener conto di qualche differenza di anni; se anche i fanciulli della più tenera età vadano trattati diversamente dagli uomini nel pieno del vigore; se si conceda grazia in seguito al pentimento, o se a colui che sia stato comunque cristiano non giovi affatto l'aver cessato di esserlo; se vada punito il nome di per se stesso, pur se esente da colpe, oppure le colpe connesse al nome.

Nel frattempo, con coloro che mi venivano deferiti quali Cristiani, ho seguito questa procedura: chiedevo loro se fossero Cristiani. Se confessavano, li interrogavo una seconda e una terza volta, minacciandoli di pena capitale; quelli che perseveravano, li ho mandati a morte. Infatti non dubitavo che, qualunque cosa confessassero, dovesse essere punita la loro pertinacia e la loro cocciuta ostinazione. Ve ne furono altri affetti dalla medesima follia, i quali, poiché erano cittadini romani, ordinai che fossero rimandati a Roma. Ben presto, poiché si accrebbero le imputazioni, come avviene di solito per il fatto stesso di trattare tali questioni, mi capitarono innanzi diversi casi.

Venne messo in circolazione un libello anonimo che conteneva molti nomi. Coloro che negavano di essere cristiani, o di esserlo stati, ritenni di doverli rimettere in libertà, quando, dopo aver ripetuto quanto io formulavo, invocavano gli dei e veneravano la tua immagine, che a questo scopo avevo fatto portare assieme ai simulacri dei numi, e quando imprecavano contro Cristo, cosa che si dice sia impossibile ad ottenersi da coloro che siano veramente Cristiani.

Altri, denunciati da un delatore, dissero di essere cristiani, ma subito dopo lo negarono; lo erano stati, ma avevano cessato di esserlo, chi da tre anni, chi da molti anni prima, alcuni persino da vent'anni. Anche tutti costoro venerarono la tua immagine e i simulacri degli dei, e imprecarono contro Cristo.

Affermavano inoltre che tutta la loro colpa o errore consisteva nell'esser soliti riunirsi prima dell'alba e intonare a cori alterni un inno a Cristo come se fosse un dio, e obbligarsi con giuramento non a perpetrare qualche delitto, ma a non commettere né furti, né frodi, né adulteri, a non mancare alla parola data e a non rifiutare la restituzione di un deposito, qualora ne fossero richiesti. Fatto ciò, avevano la consuetudine di ritirarsi e riunirsi poi nuovamente per prendere un cibo, ad ogni modo comune e innocente, cosa che cessarono di fare dopo il mio editto nel quale, secondo le tue disposizioni, avevo proibito l'esistenza di sodalizi. Per questo, ancor più ritenni necessario l'interrogare due ancelle, che erano dette ministre, per sapere quale sfondo di verità ci fosse, ricorrendo pure alla tortura. Non ho trovato null'altro al di fuori di una superstizione balorda e smodata.

Perciò, differita l'istruttoria, mi sono affrettato a richiedere il tuo parere. Mi parve infatti cosa degna di consultazione, soprattutto per il numero di coloro che sono coinvolti in questo pericolo; molte persone di ogni età, ceto sociale e di entrambi i sessi, vengono trascinati, e ancora lo saranno, in questo pericolo. Né soltanto la città, ma anche i borghi e le campagne sono pervase dal contagio di questa superstizione; credo però che possa esser ancora fermata e riportata nella norma" (Epist. X, 96, 1-9)1

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Segue la concisa risposta dell'imperatore Traiano:

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Traiano imperatore

"Mio caro Plinio, nell'istruttoria dei processi di coloro che ti sono stati denunciati come Cristiani, hai seguito la procedura alla quale dovevi attenerti. Non può essere stabilita infatti una regola generale che abbia, per così dire, un carattere rigido. Non li si deve ricercare; qualora vengano denunciati e riconosciuti colpevoli, li si deve punire, ma in modo tale che colui che avrà negato di essere cristiano e lo avrà dimostrato con i fatti, cioè rivolgendo suppliche ai nostri dei, quantunque abbia suscitato sospetti in passato, ottenga il perdono per il suo ravvedimento. Quanto ai libelli anonimi messi in circolazione, non devono godere di considerazione in alcun processo; infatti è prassi di pessimo esempio, indegna dei nostri tempi" (Epist. X, 97)2

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Plinio, da quanto si ricava da questa epistola, ma in genere da tutto il carteggio, ci appare come un funzionario scrupoloso e leale, ma anche alquanto indeciso, in balia alla costante preoccupazione di non prendere iniziative personali che rischino di essere disapprovate dal suo superiore. A ciò, da quanto trapela dalle risposte, fa riscontro l'energica e sbrigativa sicurezza dell'imperatore, che talora appare perfino infastidito dai continui quesiti di Plinio; lo stile di tali risposte rispecchia, specie nel lessico, il linguaggio tecnico-amministrativo della cancelleria imperiale.

Plinio, nella sua epistola, ci informa di non aver mai "preso parte ad istruttorie a carico dei Cristiani"; l'uso del termine cognitiones ci informa che doveva trattarsi di veri e propri processi, e non solo di comuni operazioni di polizia. Per questo motivo, egli non sa come deve comportarsi, ed eventualmente quanto deve tenere in conto l'età, l'eventuale precedente apostasia dalla fede e il ravvedimento. Soprattutto, egli non sa se deve processare il cristiano semplicemente come tale, o per i delitti che una tale qualifica supponeva. Rispondendo, Traiano non scioglie espressamente questo dubbio; ma dalla sua risposta risulta nettamente che era il solo nome di cristiano ad essere processato, ciò che del resto risulta anche da altri documenti, apologie, atti dei martiri, etc.

In effetti, non sono oggetto di inquisizione le consuete accuse che il volgo rivolgeva ai cristiani, le nefandezze che registrava Tacito3. Né Plinio avvalora tali accuse di crimina occulta; anzi, descrivendo il pasto comune dei cristiani come semplice ed innocente, rigetta implicitamente le dicerie di infanticidio, riunioni edipodee e cene tiestee in cui ci si cibava di infanti (cattiva comprensione dell'eucarestia, in cui ci si cibava del corpo di Cristo?), e non ritiene i cristiani pericolosi membri di eterìe, sodalizi sovversivi. Ugualmente, egli ritiene che "qualunque cosa confessassero, dovesse essere punita la loro pertinacia e la loro cocciuta ostinazione".

Il cartaginese Quinto Settimio Fiorente Tertulliano (160-222 circa), avvocato e letterato, assieme agli altri apologisti si è ampiamente diffuso su queste calunnie che circolavano tra il popolino (su cui aveva già fatto leva Nerone per accusare i cristiani dell'incendio di Roma), dichiarando espressamente che comunque non avevano nulla a vedere con i motivi delle sentenze di morte: "Le vostre sentenze", scrive, "muovono da un solo delitto: la confessione dell'essere cristiano. Nessun crimine è ricordato, se non il crimine del nome"4. Egli anzi cita la formula di queste sentenze: "In fin dei conti, che cosa leggete dalla tavoletta? Egli è cristiano. Perché non aggiungete anche omicida?"5

Il procedimento di Plinio è il seguente: egli interroga i presunti cristiani, e se essi risultano tali, e non ritrattano entro il terzo interrogatorio, li manda a morte. Per coloro che neghino di essere cristiani, o dicano di esserlo stato in passato, anche vent'anni prima (allusione alle apostasie dovute alla persecuzione di Domiziano?), egli pretende la dimostrazione di quanto affermano, inducendoli a sacrificare agli dei, a venerare l'effigie dell'imperatore e a imprecare contro Cristo.

Traiano approva la procedura del suo subordinato, aggiungendo che i cristiani non vanno ricercati, ma quando vengano denunciati debbono essere mandati al patibolo.

Tale curiosa istruzione sarà criticata ferocemente dagli apologisti cristiani successivi: i cristiani non vanno ricercati; se denunciati, vanno puniti, a meno che non ritrattino la loro fede. Evidentemente, se i cristiani fossero stati accusati di delitti veri e propri, non si vede perché non avrebbero dovuto essere giudicati per quanto avevano fatto; e se fossero stati individui colpevoli e pericolosi, avrebbero dovuto essere ricercati, per rendere conto dei loro misfatti.

Così Tertulliano commenta tali disposizioni imperiali:

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"Scopriamo pure che nei nostri confronti è persino proibita l'indagine. […] Traiano rispose che non si doveva ricercare questa gente, però la si doveva punire se veniva denunciata. O sentenza apertamente contraddittoria! Dice che non vanno ricercati, come se fossero innocenti, e comanda che siano puniti, come se fossero colpevoli. Risparmia ed infierisce, sorvola e punisce. Per qual motivo esponi te stesso alla censura? Se li condanni, perché allora non li fai ricercare? Se non li ricerchi, perché allora non li assolvi? […] Dunque voi condannate un accusato che nessuno volle si ricercasse, il quale, mi pare, non ha meritato la pena perché colpevole, ma perché, non dovendo essere ricercato, si è fatto prendere" (Apolog. II, 6-11)6.


Il rescritto di Traiano è un documento della incerta situazione in cui il governo si trovava di fronte al successo della propaganda cristiana, e della mancanza di una precisa e coerente legislazione in merito; ma l'epistola di Plinio ci procura anche una descrizione della vita religiosa di quei cristiani della Bitinia e del Ponto. Essi "sono soliti riunirsi prima dell'alba e intonare a cori alterni un inno a Cristo come se fosse un dio, e obbligarsi con giuramento non a perpetrare qualche delitto, ma a non commettere né furti, né frodi, né adulteri, a non mancare alla parola data e a non rifiutare la restituzione di un deposito, qualora ne fossero richiesti. Fatto ciò, avevano la consuetudine di ritirarsi e riunirsi poi nuovamente per prendere un cibo, ad ogni modo comune e innocente". Oltre al riferimento a Cristo, ed al suo culto, abbiamo il primo accenno alla celebrazione dell'eucarestia.

LUCIANO DI SAMOSATA


Il retore scettico Luciano, nato a Samosata intorno al 120 e morto dopo il 180, attivo nell'età degli Antonini, ci ha lasciato un'opera intitolata La morte di Peregrino, nella quale l'autore, un decennio dopo lo svolgimento dei fatti, narra del teatrale suicidio del fanatico Peregrino Proteo, sul rogo che si era eretto a Olimpia nel 165 o 167.

Questa singolare figura di filosofo, che per Luciano è certo un ciarlatano, era stato per un certo periodo cristiano, per poi passare alla filosofia cinica. Per mostrare il suo disprezzo per la morte, che Luciano invece definisce "amor di gloria", egli si gettò tra le fiamme del rogo.

Durante il periodo di adesione al cristianesimo, nel quale era stato anche in carcere, veniva visitato continuamente dai suoi fratelli cristiani, che da ogni dove si affrettavano a venire per consolarlo, assisterlo, aiutarlo; secondo Luciano essi erano degli sciocchi, ingannati da quell'impostore:

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"Allora Proteo venne a conoscenza della portentosa dottrina dei cristiani, frequentando in Palestina i loro sacerdoti e scribi. E che dunque? In un batter d'occhio li fece apparire tutti bambini, poiché egli tutto da solo era profeta, maestro del culto e guida delle loro adunanze, interpretava e spiegava i loro libri, e ne compose egli stesso molti, ed essi lo veneravano come un dio, se ne servivano come legislatore e lo avevano elevato a loro protettore a somiglianza di colui che essi venerano tuttora, l'uomo che fu crocifisso in Palestina per aver dato vita a questa nuova religione.

[…] Si sono persuasi infatti quei poveretti di essere affatto immortali e di vivere per l'eternità, per cui disprezzano la morte e i più si consegnano di buon grado. Inoltre il primo legislatore li ha convinti di essere tutti fratelli gli uni degli altri, dopoché abbandonarono gli dei greci, avendo trasgredito tutto in una volta, ed adorano quel medesimo sofista che era stato crocifisso e vivono secondo le sue leggi. Disprezzano dunque ogni bene indiscriminatamente e lo considerano comune, seguendo tali usanze senza alcuna precisa prova. Se dunque viene presso di loro qualche uomo ciarlatano e imbroglione, capace di sfruttare le circostanze, può subito diventare assai ricco, facendosi beffe di quegli uomini sciocchi" (De morte Per. XI-XIII)1.

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Interessante il riferimento al Cristo, che viene considerato un sofista, ed il "primo legislatore" dei Cristiani, le cui leggi sono da essi seguite; l'unica notizia storica su Gesù è il ricordo della sua crocifissione.


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Consiglia  Messaggio 5 di 5 nella discussione 
Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 21/04/2004 9.58

SVETONIO

Gaio Svetonio Tranquillo (70-126 circa), amico di Plinio e forse suo compagno in Bitinia, ricoprì l'importante incarico di archivista (procurator a studiis), segretario (ab epistulis) e bibliotecario (a bibliothecis) dell'imperatore Adriano, fino all'anno 122, quando assieme al prefetto del pretorio Setticio Claro venne destituito ed allontanato dalla corte imperiale.

Claudio Imperatore

Nella sua opera Vita dei dodici Cesari, una raccolta di dodici biografie degli imperatori da Cesare a Domiziano scritta intorno al 120, ci lascia due accenni ai cristiani. Il primo si trova nella vita di Claudio:

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"Espulse da Roma i Giudei che per istigazione di Cresto erano continua causa di disordine" (Vita Claudii XXIII, 4)1

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Non ci si deve stupire del fatto che Svetonio scriva Chrestus in luogo di Christus; basti notare che le parole greche Chrestòs (buono, eccellente) e Christòs (unto, Messia) erano pronunciate allo stesso modo, e potevano essere facilmente confuse, specie da chi non fosse ben informato sui fatti2 ; a riprova di ciò, vediamo che Svetonio parla di Giudei, ancora incapace come tanti suoi connazionali di avvertire le differenze tra quest'ultimi ed il cristianesimo nascente, che da essi ormai si differenziava e sempre più si allontanava. Per Svetonio, che probabilmente ricavò questa notizia dagli archivi imperiali cui aveva libero accesso, si tratta semplicemente di un provvedimento imperiale atto ad eliminare focolai di turbolenza, e non ancora di una reazione mirata al cristianesimo; è facile pensare che la predicazione del Cristo tra i Giudei romani da parte di altri Giudei, abbia generato qualche reazione del genere di quelle narrate negli Atti degli Apostoli, che agli occhi dell'autorità romana poteva turbare l'ordine pubblico.

La notizia di Svetonio concorda perfettamente con quanto è riportato negli Atti degli Apostoli riguardo all'arrivo di Paolo a Corinto:

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"Dopo di ciò, partito da Atene [Paolo] andò a Corinto. E trovato un giudeo di nome Aquila, pontico di nascita, da poco giunto dall'Italia, e la moglie sua Priscilla, per il fatto che Claudio aveva ordinato che tutti i Giudei partissero da Roma, andò da loro" (Act. XVIII, 1-2)3

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Secondo lo storico Paolo Orosio, che riprende la notizia di Svetonio e cita anche Giuseppe Flavio, tale espulsione avvenne nel nono anno dell'impero di Claudio, ovvero tra il gennaio del 49 e il gennaio del 50 d.C.; poiché Paolo probabilmente arrivò a Corinto nel dicembre del 49, il tutto coincide4.

Il secondo accenno ai Cristiani, Svetonio lo colloca nella vita di Nerone; esso in poche parole ci riassume quanto già narrato più diffusamente da Tacito, con il quale condivide anche le consuete accuse di superstitio nova ac malefica:

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"Sottopose a supplizi i Cristiani, una razza di uomini di una superstizione nuova e malefica" (Vita Neronis XVI, 2)5.

CORNELIO TACITO

Il grande storico romano Tacito (54-119), pretore, oratore, consul suffectus e proconsole in Asia, scrisse attorno al 112 i suoi 16 libri di Annali, che narrano la storia romana dalla fine del principato di Augusto (14 d.C.) alla morte dell'imperatore Nerone (68).

Nel 64 scoppiò il grande e ben noto incendio della città di Roma, del quale il medesimo imperatore fu accusato dall'opinione pubblica; il nostro storico ci narra che Nerone cercò in tutti i modi di favorire le vittime del disastro e di stornare da sé l'accusa che pendeva sul suo capo, con vari provvedimenti1


"Tuttavia né con sforzo umano, né per le munificenze del principe o cerimonie propiziatorie agli dei perdeva credito l'infamante accusa secondo la quale si credeva che l'incendio fosse stato comandato"

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A questo punto si inserisce il riferimento a Cristo ed ai suoi seguaci:

"Perciò, per far cessare tale diceria, Nerone si inventò dei colpevoli e sottomise a pene raffinatissime coloro che la plebaglia, detestandoli a causa delle loro nefandezze, denominava cristiani. Origine di questo nome era Cristo, il quale sotto l'impero di Tiberio era stato condannato al supplizio dal procuratore Ponzio Pilato; e, momentaneamente sopita, questa esiziale superstizione di nuovo si diffondeva, non solo per la Giudea, focolare di quel morbo, ma anche a Roma, dove da ogni parte confluisce e viene tenuto in onore tutto ciò che vi è di turpe e di vergognoso. Perciò, da principio vennero arrestati coloro che confessavano, quindi, dietro denuncia di questi, fu condannata una ingente moltitudine, non tanto per l'accusa dell'incendio, quanto per odio del genere umano. Inoltre, a quelli che andavano a morire si aggiungevano beffe: coperti di pelli ferine, perivano dilaniati dai cani, o venivano crocifissi oppure arsi vivi in guisa di torce, per servire da illuminazione notturna al calare della notte. Nerone aveva offerto i suoi giardini e celebrava giochi circensi, mescolato alla plebe in veste d'auriga o ritto sul cocchio. Perciò, benché si trattasse di rei, meritevoli di pene severissime, nasceva un senso di pietà, in quanto venivano uccisi non per il bene comune, ma per la ferocia di un solo uomo" (Ann. XV, 44)2

La descrizione di Tacito ci informa innanzitutto che a quell'epoca la comunità cristiana di Roma disponeva di un considerevole numero di membri, poiché una ingens multitudo rappresenta certo un numero considerevole. Poi, ci fornisce qualche spunto anche per comprendere quale fosse l'idea della Roma pagana riguardo a questa nuova fede.

Tacito ci fa notare che i cristiani erano invisi al popolo "a causa delle loro nefandezze", e che la loro fede era una "esiziale superstizione"; essi sono definiti "rei" e "meritevoli di pene severissime", accusati di "odio del genere umano".

Il cristianesimo era agli occhi dei pagani una superstitio nova, e i cristiani erano dei molitores rerum novarum, perché introducevano un culto e uno stile di vita assai diverso da quello tradizionale. Superstitio non è più, nel linguaggio romano, un sinonimo di religio, ma ne è l'opposto; superstitiones sono quei culti stranieri o innovatori che non corrispondono alla tradizione degli antenati (mos maiorum) e non hanno ricevuto pubblico riconoscimento. Così, fin dall'epoca antica, stabiliva la prescrizione attribuita al re Numa e riportata da Cicerone: "Nessuno abbia proprie divinità nuove o straniere, non riconosciute pubblicamente"3. Superstitiones sono definiti quindi tutti i culti orientali, il cui carattere a lor modo di vedere smodato (immodicus) non può non suscitare una istintiva diffidenza agli occhi del romano colto; non sono esenti da questa accusa il giudaismo e la religione egiziana.

Il cristianesimo è dunque una superstizione straniera, e per di più dotata dell'eccesso comune ai culti orientali; è una "superstizione nuova", per cui non gode neppure della caratteristica dell'antichità, che dai Romani veniva sempre guardata con grande rispetto4.

La colpa dei cristiani è quella riassunta dall'espressione "odio del genere umano": essi costituivano nella società imperiale un gruppo a sé, estraniato dalla vita pubblica e dalla religiosità comune, che era un elemento di coesione sociale. Il rifiuto di adesione alla religione dello stato era visto come un atto di sovversione politica, esattamente come la tendenza a rifiutare costumi ed istituzioni tradizionali e ad estraniarsi dalla vita pubblica. La stessa accusa era stata rivolta dagli scrittori greci ai Giudei, e il medesimo Tacito la aveva già affibbiata a loro, come ora fa con i Cristiani, tacciandoli di "ostile odio verso tutti gli altri"5. Ma mentre gli Ebrei potevano vantare l'antichità del loro culto, i Cristiani non erano visti altrimenti che come una pianta avulsa dal ceppo giudaico. Negli stessi anni, Plinio il Giovane pare essersi parzialmente ricreduto circa i pregiudizi che derivavano da tal giudizio, come ci indica la lettera che esamineremo più avanti.

Le poche parole di Tacito riferite a Gesù Cristo, mostrano che egli è ben informato a riguardo, e che la fonte a cui attinse dovette su questo punto essere ottima. Invero si sa che Tacito raccoglie le notizie con molta circospezione, al punto che talora si è potuto con buon esito riconoscere i documenti preesistenti di cui egli si è valso, e in qualche modo stabilire le derivazioni delle notizie riferite. Il fatto che Tacito non usi le classiche espressioni del "sentito dire", quali ferunt, tradunt (si dice, si racconta) ci fa pensare che egli attingesse a notizie di prima mano.

Il problema delle fonti delle quali Tacito si è avvalso è un tema ancora aperto, ma la critica ha oramai raggiunto dei risultati assodati6. Innanzitutto Tacito, per la sua posizione politica, aveva accesso agli acta senatus, ovvero i verbali delle sedute del senato romano, e gli acta diurna populi Romani, ovvero gli atti governativi e le notizie su ciò che accadeva giorno per giorno. Egli è comunemente riconosciuto come storico tra i più scrupolosi, come ci attesta anche l'antica testimonianza di Plinio il Giovane che ne loda la diligentia7; Tacito si dedicò infatti con gran diligenza e scrupolo alla raccolta di informazioni e notizie, utilizzando non solo fonti letterarie, ma anche documentarie. Certo anch'egli, come era costume, seguì pure i lavori degli storici precedenti: egli stesso cita le opere di quattro autori, ovvero Plinio il Vecchio, Vipsiano Messalla, Cluvio Rufo e Fabio Rustico. Difficile è però la ricostruzione precisa delle fonti (tutte perdute) usate per ogni singola sezione della sua opera, che erano probabilmente le stesse cui attinsero anche i contemporanei Svetonio e Plutarco, come dimostrano certe concordanze assai precise su alcuni argomenti comuni.

Si è detto che Plinio il Vecchio (23-79, deceduto mentre osservava l'eruzione del Vesuvio) è una delle fonti esplicitamente citate da Tacito; egli, inoltre, era amico del nipote di lui, Plinio il Giovane, il cui grande legame ci è testimoniato dall'epistolario incorso tra i due.

Prima di parlare delle guerre giudaiche Tacito ha una digressione sulla Giudea che, nell'insieme, riproduce una descrizione fatta da Plinio il Vecchio nel libro V della sua Naturalis historia8. Ora, sappiamo che Plinio conosceva la Palestina direttamente, in quanto si era colà recato e forse aveva preso parte alla guerra del 70; sappiamo anche che la sua opera più importante ed ambiziosa, alla quale certamente Tacito attinse, fu la perduta A fine Aufidi Bassi, che trattava il periodo tra la fine dell'impero di Claudio e l'ascesa di Vespasiano, e che fu pubblicata postuma dal nipote. Per questo, si è avanzata da alcuni l'ipotesi che Tacito, nel riferire notizie su Gesù, abbia seguito una qualche citazione di Plinio, oggi perduta9; questa congettura, pur essendo assai seducente, deve ancora essere sottoposta a verifica.

TRIFONE GIUDEO


Il martire e filosofo cristiano Giustino intorno all'anno 160 scrisse un Dialogo col giudeo Trifone, con il quale perseguiva lo scopo di dimostrare che il cristianesimo era la naturale continuazione dell'ebraismo. L'opera è strutturata in forma di un dialogo tra l'autore e l'ebreo Trifone, nel quale secondo alcuni, probabilmente a torto, è ravvisabile il noto Rabbi Tarphon1 ; in tal caso, la finzione letteraria del dialogo sarebbe forse l'eco di una reale discussione avvenuta tra i due ad Efeso nel 135. Nel racconto, Giustino ricorda un avvertimento che sarebbe stato inviato dagli Ebrei palestinesi ai Giudei della diaspora, che contiene un giudizio su Gesù: "E' sorta un'eresia senza Dio e senza Legge da un certo Gesù, impostore Galileo; dopo che noi lo avevamo crocifisso, i suoi discepoli lo trafugarono nottetempo dalla tomba ove lo si era sepolto dopo averlo calato dalla croce, ed ingannano gli uomini dicendo che è risorto dai morti e asceso al cielo" (Tryph. CVIII, 2)2. Il passo ci riporta un'accusa che avrà una certa fortuna, quella dell'inganno ordito dai discepoli di Gesù e del trafugamento del suo corpo dal sepolcro. La stessa accusa è ricordata da Tertulliano nel XXX capitolo del De spectaculis. Per il resto, il passo non è di grande interesse storico, anche perché la sua provenienza e la sua autenticità sono alquanto incerte; certo esso testimonia un giudizio di alcuni Giudei del tempo di Giustino su Gesù.

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