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Ricostruzione storica vita di CRISTO con i dati Biblici ed extrabiblici

Ultimo Aggiornamento: 25/09/2009 12:31
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25/09/2009 12:31
 
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Consiglia  Messaggio 4 di 5 nella discussione 
Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 21/04/2004 9.57

PLINIO IL GIOVANE

Gaio Cecilio Plinio Secondo (61-112/113), nipote dello storiografo Plinio il Vecchio, fu allievo del famoso retore Quintiliano, avvocato, consul suffectus e governatore della Bitinia e del Ponto. Egli ci ha lasciato una raccolta di epistole contenute in 10 libri, l'ultimo dei quali contiene il carteggio ufficiale tra lui e l'imperatore Traiano. Queste lettere risalgono per lo più al periodo del governatorato di Plinio in Bitinia, ovvero agli anni 111-113, e sono una fonte documentaria di eccezionale importanza.

In una di queste lettere - scritta nello stesso periodo in cui l'amico Tacito redigeva il suo racconto sulla persecuzione cristiana del 64 - egli si rivolge a Traiano per ottenere istruzioni da seguirsi nel trattare con i cristiani della Bitinia e del Ponto, ove, come detto, ricopriva la carica di legato con potere consolare.

Eccone il testo:

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"E' per me un dovere, o signore, deferire a te tutte le questioni in merito alle quali sono incerto. Chi infatti può meglio dirigere la mia titubanza o istruire la mia incompetenza?

Non ho mai preso parte ad istruttorie a carico dei Cristiani; pertanto, non so che cosa e fino a qual punto si sia soliti punire o inquisire. Ho anche assai dubitato se si debba tener conto di qualche differenza di anni; se anche i fanciulli della più tenera età vadano trattati diversamente dagli uomini nel pieno del vigore; se si conceda grazia in seguito al pentimento, o se a colui che sia stato comunque cristiano non giovi affatto l'aver cessato di esserlo; se vada punito il nome di per se stesso, pur se esente da colpe, oppure le colpe connesse al nome.

Nel frattempo, con coloro che mi venivano deferiti quali Cristiani, ho seguito questa procedura: chiedevo loro se fossero Cristiani. Se confessavano, li interrogavo una seconda e una terza volta, minacciandoli di pena capitale; quelli che perseveravano, li ho mandati a morte. Infatti non dubitavo che, qualunque cosa confessassero, dovesse essere punita la loro pertinacia e la loro cocciuta ostinazione. Ve ne furono altri affetti dalla medesima follia, i quali, poiché erano cittadini romani, ordinai che fossero rimandati a Roma. Ben presto, poiché si accrebbero le imputazioni, come avviene di solito per il fatto stesso di trattare tali questioni, mi capitarono innanzi diversi casi.

Venne messo in circolazione un libello anonimo che conteneva molti nomi. Coloro che negavano di essere cristiani, o di esserlo stati, ritenni di doverli rimettere in libertà, quando, dopo aver ripetuto quanto io formulavo, invocavano gli dei e veneravano la tua immagine, che a questo scopo avevo fatto portare assieme ai simulacri dei numi, e quando imprecavano contro Cristo, cosa che si dice sia impossibile ad ottenersi da coloro che siano veramente Cristiani.

Altri, denunciati da un delatore, dissero di essere cristiani, ma subito dopo lo negarono; lo erano stati, ma avevano cessato di esserlo, chi da tre anni, chi da molti anni prima, alcuni persino da vent'anni. Anche tutti costoro venerarono la tua immagine e i simulacri degli dei, e imprecarono contro Cristo.

Affermavano inoltre che tutta la loro colpa o errore consisteva nell'esser soliti riunirsi prima dell'alba e intonare a cori alterni un inno a Cristo come se fosse un dio, e obbligarsi con giuramento non a perpetrare qualche delitto, ma a non commettere né furti, né frodi, né adulteri, a non mancare alla parola data e a non rifiutare la restituzione di un deposito, qualora ne fossero richiesti. Fatto ciò, avevano la consuetudine di ritirarsi e riunirsi poi nuovamente per prendere un cibo, ad ogni modo comune e innocente, cosa che cessarono di fare dopo il mio editto nel quale, secondo le tue disposizioni, avevo proibito l'esistenza di sodalizi. Per questo, ancor più ritenni necessario l'interrogare due ancelle, che erano dette ministre, per sapere quale sfondo di verità ci fosse, ricorrendo pure alla tortura. Non ho trovato null'altro al di fuori di una superstizione balorda e smodata.

Perciò, differita l'istruttoria, mi sono affrettato a richiedere il tuo parere. Mi parve infatti cosa degna di consultazione, soprattutto per il numero di coloro che sono coinvolti in questo pericolo; molte persone di ogni età, ceto sociale e di entrambi i sessi, vengono trascinati, e ancora lo saranno, in questo pericolo. Né soltanto la città, ma anche i borghi e le campagne sono pervase dal contagio di questa superstizione; credo però che possa esser ancora fermata e riportata nella norma" (Epist. X, 96, 1-9)1

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Segue la concisa risposta dell'imperatore Traiano:

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Traiano imperatore

"Mio caro Plinio, nell'istruttoria dei processi di coloro che ti sono stati denunciati come Cristiani, hai seguito la procedura alla quale dovevi attenerti. Non può essere stabilita infatti una regola generale che abbia, per così dire, un carattere rigido. Non li si deve ricercare; qualora vengano denunciati e riconosciuti colpevoli, li si deve punire, ma in modo tale che colui che avrà negato di essere cristiano e lo avrà dimostrato con i fatti, cioè rivolgendo suppliche ai nostri dei, quantunque abbia suscitato sospetti in passato, ottenga il perdono per il suo ravvedimento. Quanto ai libelli anonimi messi in circolazione, non devono godere di considerazione in alcun processo; infatti è prassi di pessimo esempio, indegna dei nostri tempi" (Epist. X, 97)2

<

Plinio, da quanto si ricava da questa epistola, ma in genere da tutto il carteggio, ci appare come un funzionario scrupoloso e leale, ma anche alquanto indeciso, in balia alla costante preoccupazione di non prendere iniziative personali che rischino di essere disapprovate dal suo superiore. A ciò, da quanto trapela dalle risposte, fa riscontro l'energica e sbrigativa sicurezza dell'imperatore, che talora appare perfino infastidito dai continui quesiti di Plinio; lo stile di tali risposte rispecchia, specie nel lessico, il linguaggio tecnico-amministrativo della cancelleria imperiale.

Plinio, nella sua epistola, ci informa di non aver mai "preso parte ad istruttorie a carico dei Cristiani"; l'uso del termine cognitiones ci informa che doveva trattarsi di veri e propri processi, e non solo di comuni operazioni di polizia. Per questo motivo, egli non sa come deve comportarsi, ed eventualmente quanto deve tenere in conto l'età, l'eventuale precedente apostasia dalla fede e il ravvedimento. Soprattutto, egli non sa se deve processare il cristiano semplicemente come tale, o per i delitti che una tale qualifica supponeva. Rispondendo, Traiano non scioglie espressamente questo dubbio; ma dalla sua risposta risulta nettamente che era il solo nome di cristiano ad essere processato, ciò che del resto risulta anche da altri documenti, apologie, atti dei martiri, etc.

In effetti, non sono oggetto di inquisizione le consuete accuse che il volgo rivolgeva ai cristiani, le nefandezze che registrava Tacito3. Né Plinio avvalora tali accuse di crimina occulta; anzi, descrivendo il pasto comune dei cristiani come semplice ed innocente, rigetta implicitamente le dicerie di infanticidio, riunioni edipodee e cene tiestee in cui ci si cibava di infanti (cattiva comprensione dell'eucarestia, in cui ci si cibava del corpo di Cristo?), e non ritiene i cristiani pericolosi membri di eterìe, sodalizi sovversivi. Ugualmente, egli ritiene che "qualunque cosa confessassero, dovesse essere punita la loro pertinacia e la loro cocciuta ostinazione".

Il cartaginese Quinto Settimio Fiorente Tertulliano (160-222 circa), avvocato e letterato, assieme agli altri apologisti si è ampiamente diffuso su queste calunnie che circolavano tra il popolino (su cui aveva già fatto leva Nerone per accusare i cristiani dell'incendio di Roma), dichiarando espressamente che comunque non avevano nulla a vedere con i motivi delle sentenze di morte: "Le vostre sentenze", scrive, "muovono da un solo delitto: la confessione dell'essere cristiano. Nessun crimine è ricordato, se non il crimine del nome"4. Egli anzi cita la formula di queste sentenze: "In fin dei conti, che cosa leggete dalla tavoletta? Egli è cristiano. Perché non aggiungete anche omicida?"5

Il procedimento di Plinio è il seguente: egli interroga i presunti cristiani, e se essi risultano tali, e non ritrattano entro il terzo interrogatorio, li manda a morte. Per coloro che neghino di essere cristiani, o dicano di esserlo stato in passato, anche vent'anni prima (allusione alle apostasie dovute alla persecuzione di Domiziano?), egli pretende la dimostrazione di quanto affermano, inducendoli a sacrificare agli dei, a venerare l'effigie dell'imperatore e a imprecare contro Cristo.

Traiano approva la procedura del suo subordinato, aggiungendo che i cristiani non vanno ricercati, ma quando vengano denunciati debbono essere mandati al patibolo.

Tale curiosa istruzione sarà criticata ferocemente dagli apologisti cristiani successivi: i cristiani non vanno ricercati; se denunciati, vanno puniti, a meno che non ritrattino la loro fede. Evidentemente, se i cristiani fossero stati accusati di delitti veri e propri, non si vede perché non avrebbero dovuto essere giudicati per quanto avevano fatto; e se fossero stati individui colpevoli e pericolosi, avrebbero dovuto essere ricercati, per rendere conto dei loro misfatti.

Così Tertulliano commenta tali disposizioni imperiali:

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"Scopriamo pure che nei nostri confronti è persino proibita l'indagine. […] Traiano rispose che non si doveva ricercare questa gente, però la si doveva punire se veniva denunciata. O sentenza apertamente contraddittoria! Dice che non vanno ricercati, come se fossero innocenti, e comanda che siano puniti, come se fossero colpevoli. Risparmia ed infierisce, sorvola e punisce. Per qual motivo esponi te stesso alla censura? Se li condanni, perché allora non li fai ricercare? Se non li ricerchi, perché allora non li assolvi? […] Dunque voi condannate un accusato che nessuno volle si ricercasse, il quale, mi pare, non ha meritato la pena perché colpevole, ma perché, non dovendo essere ricercato, si è fatto prendere" (Apolog. II, 6-11)6.


Il rescritto di Traiano è un documento della incerta situazione in cui il governo si trovava di fronte al successo della propaganda cristiana, e della mancanza di una precisa e coerente legislazione in merito; ma l'epistola di Plinio ci procura anche una descrizione della vita religiosa di quei cristiani della Bitinia e del Ponto. Essi "sono soliti riunirsi prima dell'alba e intonare a cori alterni un inno a Cristo come se fosse un dio, e obbligarsi con giuramento non a perpetrare qualche delitto, ma a non commettere né furti, né frodi, né adulteri, a non mancare alla parola data e a non rifiutare la restituzione di un deposito, qualora ne fossero richiesti. Fatto ciò, avevano la consuetudine di ritirarsi e riunirsi poi nuovamente per prendere un cibo, ad ogni modo comune e innocente". Oltre al riferimento a Cristo, ed al suo culto, abbiamo il primo accenno alla celebrazione dell'eucarestia.

LUCIANO DI SAMOSATA


Il retore scettico Luciano, nato a Samosata intorno al 120 e morto dopo il 180, attivo nell'età degli Antonini, ci ha lasciato un'opera intitolata La morte di Peregrino, nella quale l'autore, un decennio dopo lo svolgimento dei fatti, narra del teatrale suicidio del fanatico Peregrino Proteo, sul rogo che si era eretto a Olimpia nel 165 o 167.

Questa singolare figura di filosofo, che per Luciano è certo un ciarlatano, era stato per un certo periodo cristiano, per poi passare alla filosofia cinica. Per mostrare il suo disprezzo per la morte, che Luciano invece definisce "amor di gloria", egli si gettò tra le fiamme del rogo.

Durante il periodo di adesione al cristianesimo, nel quale era stato anche in carcere, veniva visitato continuamente dai suoi fratelli cristiani, che da ogni dove si affrettavano a venire per consolarlo, assisterlo, aiutarlo; secondo Luciano essi erano degli sciocchi, ingannati da quell'impostore:

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"Allora Proteo venne a conoscenza della portentosa dottrina dei cristiani, frequentando in Palestina i loro sacerdoti e scribi. E che dunque? In un batter d'occhio li fece apparire tutti bambini, poiché egli tutto da solo era profeta, maestro del culto e guida delle loro adunanze, interpretava e spiegava i loro libri, e ne compose egli stesso molti, ed essi lo veneravano come un dio, se ne servivano come legislatore e lo avevano elevato a loro protettore a somiglianza di colui che essi venerano tuttora, l'uomo che fu crocifisso in Palestina per aver dato vita a questa nuova religione.

[…] Si sono persuasi infatti quei poveretti di essere affatto immortali e di vivere per l'eternità, per cui disprezzano la morte e i più si consegnano di buon grado. Inoltre il primo legislatore li ha convinti di essere tutti fratelli gli uni degli altri, dopoché abbandonarono gli dei greci, avendo trasgredito tutto in una volta, ed adorano quel medesimo sofista che era stato crocifisso e vivono secondo le sue leggi. Disprezzano dunque ogni bene indiscriminatamente e lo considerano comune, seguendo tali usanze senza alcuna precisa prova. Se dunque viene presso di loro qualche uomo ciarlatano e imbroglione, capace di sfruttare le circostanze, può subito diventare assai ricco, facendosi beffe di quegli uomini sciocchi" (De morte Per. XI-XIII)1.

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Interessante il riferimento al Cristo, che viene considerato un sofista, ed il "primo legislatore" dei Cristiani, le cui leggi sono da essi seguite; l'unica notizia storica su Gesù è il ricordo della sua crocifissione.


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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 21/04/2004 9.58

SVETONIO

Gaio Svetonio Tranquillo (70-126 circa), amico di Plinio e forse suo compagno in Bitinia, ricoprì l'importante incarico di archivista (procurator a studiis), segretario (ab epistulis) e bibliotecario (a bibliothecis) dell'imperatore Adriano, fino all'anno 122, quando assieme al prefetto del pretorio Setticio Claro venne destituito ed allontanato dalla corte imperiale.

Claudio Imperatore

Nella sua opera Vita dei dodici Cesari, una raccolta di dodici biografie degli imperatori da Cesare a Domiziano scritta intorno al 120, ci lascia due accenni ai cristiani. Il primo si trova nella vita di Claudio:

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"Espulse da Roma i Giudei che per istigazione di Cresto erano continua causa di disordine" (Vita Claudii XXIII, 4)1

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Non ci si deve stupire del fatto che Svetonio scriva Chrestus in luogo di Christus; basti notare che le parole greche Chrestòs (buono, eccellente) e Christòs (unto, Messia) erano pronunciate allo stesso modo, e potevano essere facilmente confuse, specie da chi non fosse ben informato sui fatti2 ; a riprova di ciò, vediamo che Svetonio parla di Giudei, ancora incapace come tanti suoi connazionali di avvertire le differenze tra quest'ultimi ed il cristianesimo nascente, che da essi ormai si differenziava e sempre più si allontanava. Per Svetonio, che probabilmente ricavò questa notizia dagli archivi imperiali cui aveva libero accesso, si tratta semplicemente di un provvedimento imperiale atto ad eliminare focolai di turbolenza, e non ancora di una reazione mirata al cristianesimo; è facile pensare che la predicazione del Cristo tra i Giudei romani da parte di altri Giudei, abbia generato qualche reazione del genere di quelle narrate negli Atti degli Apostoli, che agli occhi dell'autorità romana poteva turbare l'ordine pubblico.

La notizia di Svetonio concorda perfettamente con quanto è riportato negli Atti degli Apostoli riguardo all'arrivo di Paolo a Corinto:

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"Dopo di ciò, partito da Atene [Paolo] andò a Corinto. E trovato un giudeo di nome Aquila, pontico di nascita, da poco giunto dall'Italia, e la moglie sua Priscilla, per il fatto che Claudio aveva ordinato che tutti i Giudei partissero da Roma, andò da loro" (Act. XVIII, 1-2)3

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Secondo lo storico Paolo Orosio, che riprende la notizia di Svetonio e cita anche Giuseppe Flavio, tale espulsione avvenne nel nono anno dell'impero di Claudio, ovvero tra il gennaio del 49 e il gennaio del 50 d.C.; poiché Paolo probabilmente arrivò a Corinto nel dicembre del 49, il tutto coincide4.

Il secondo accenno ai Cristiani, Svetonio lo colloca nella vita di Nerone; esso in poche parole ci riassume quanto già narrato più diffusamente da Tacito, con il quale condivide anche le consuete accuse di superstitio nova ac malefica:

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"Sottopose a supplizi i Cristiani, una razza di uomini di una superstizione nuova e malefica" (Vita Neronis XVI, 2)5.

CORNELIO TACITO

Il grande storico romano Tacito (54-119), pretore, oratore, consul suffectus e proconsole in Asia, scrisse attorno al 112 i suoi 16 libri di Annali, che narrano la storia romana dalla fine del principato di Augusto (14 d.C.) alla morte dell'imperatore Nerone (68).

Nel 64 scoppiò il grande e ben noto incendio della città di Roma, del quale il medesimo imperatore fu accusato dall'opinione pubblica; il nostro storico ci narra che Nerone cercò in tutti i modi di favorire le vittime del disastro e di stornare da sé l'accusa che pendeva sul suo capo, con vari provvedimenti1


"Tuttavia né con sforzo umano, né per le munificenze del principe o cerimonie propiziatorie agli dei perdeva credito l'infamante accusa secondo la quale si credeva che l'incendio fosse stato comandato"

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A questo punto si inserisce il riferimento a Cristo ed ai suoi seguaci:

"Perciò, per far cessare tale diceria, Nerone si inventò dei colpevoli e sottomise a pene raffinatissime coloro che la plebaglia, detestandoli a causa delle loro nefandezze, denominava cristiani. Origine di questo nome era Cristo, il quale sotto l'impero di Tiberio era stato condannato al supplizio dal procuratore Ponzio Pilato; e, momentaneamente sopita, questa esiziale superstizione di nuovo si diffondeva, non solo per la Giudea, focolare di quel morbo, ma anche a Roma, dove da ogni parte confluisce e viene tenuto in onore tutto ciò che vi è di turpe e di vergognoso. Perciò, da principio vennero arrestati coloro che confessavano, quindi, dietro denuncia di questi, fu condannata una ingente moltitudine, non tanto per l'accusa dell'incendio, quanto per odio del genere umano. Inoltre, a quelli che andavano a morire si aggiungevano beffe: coperti di pelli ferine, perivano dilaniati dai cani, o venivano crocifissi oppure arsi vivi in guisa di torce, per servire da illuminazione notturna al calare della notte. Nerone aveva offerto i suoi giardini e celebrava giochi circensi, mescolato alla plebe in veste d'auriga o ritto sul cocchio. Perciò, benché si trattasse di rei, meritevoli di pene severissime, nasceva un senso di pietà, in quanto venivano uccisi non per il bene comune, ma per la ferocia di un solo uomo" (Ann. XV, 44)2

La descrizione di Tacito ci informa innanzitutto che a quell'epoca la comunità cristiana di Roma disponeva di un considerevole numero di membri, poiché una ingens multitudo rappresenta certo un numero considerevole. Poi, ci fornisce qualche spunto anche per comprendere quale fosse l'idea della Roma pagana riguardo a questa nuova fede.

Tacito ci fa notare che i cristiani erano invisi al popolo "a causa delle loro nefandezze", e che la loro fede era una "esiziale superstizione"; essi sono definiti "rei" e "meritevoli di pene severissime", accusati di "odio del genere umano".

Il cristianesimo era agli occhi dei pagani una superstitio nova, e i cristiani erano dei molitores rerum novarum, perché introducevano un culto e uno stile di vita assai diverso da quello tradizionale. Superstitio non è più, nel linguaggio romano, un sinonimo di religio, ma ne è l'opposto; superstitiones sono quei culti stranieri o innovatori che non corrispondono alla tradizione degli antenati (mos maiorum) e non hanno ricevuto pubblico riconoscimento. Così, fin dall'epoca antica, stabiliva la prescrizione attribuita al re Numa e riportata da Cicerone: "Nessuno abbia proprie divinità nuove o straniere, non riconosciute pubblicamente"3. Superstitiones sono definiti quindi tutti i culti orientali, il cui carattere a lor modo di vedere smodato (immodicus) non può non suscitare una istintiva diffidenza agli occhi del romano colto; non sono esenti da questa accusa il giudaismo e la religione egiziana.

Il cristianesimo è dunque una superstizione straniera, e per di più dotata dell'eccesso comune ai culti orientali; è una "superstizione nuova", per cui non gode neppure della caratteristica dell'antichità, che dai Romani veniva sempre guardata con grande rispetto4.

La colpa dei cristiani è quella riassunta dall'espressione "odio del genere umano": essi costituivano nella società imperiale un gruppo a sé, estraniato dalla vita pubblica e dalla religiosità comune, che era un elemento di coesione sociale. Il rifiuto di adesione alla religione dello stato era visto come un atto di sovversione politica, esattamente come la tendenza a rifiutare costumi ed istituzioni tradizionali e ad estraniarsi dalla vita pubblica. La stessa accusa era stata rivolta dagli scrittori greci ai Giudei, e il medesimo Tacito la aveva già affibbiata a loro, come ora fa con i Cristiani, tacciandoli di "ostile odio verso tutti gli altri"5. Ma mentre gli Ebrei potevano vantare l'antichità del loro culto, i Cristiani non erano visti altrimenti che come una pianta avulsa dal ceppo giudaico. Negli stessi anni, Plinio il Giovane pare essersi parzialmente ricreduto circa i pregiudizi che derivavano da tal giudizio, come ci indica la lettera che esamineremo più avanti.

Le poche parole di Tacito riferite a Gesù Cristo, mostrano che egli è ben informato a riguardo, e che la fonte a cui attinse dovette su questo punto essere ottima. Invero si sa che Tacito raccoglie le notizie con molta circospezione, al punto che talora si è potuto con buon esito riconoscere i documenti preesistenti di cui egli si è valso, e in qualche modo stabilire le derivazioni delle notizie riferite. Il fatto che Tacito non usi le classiche espressioni del "sentito dire", quali ferunt, tradunt (si dice, si racconta) ci fa pensare che egli attingesse a notizie di prima mano.

Il problema delle fonti delle quali Tacito si è avvalso è un tema ancora aperto, ma la critica ha oramai raggiunto dei risultati assodati6. Innanzitutto Tacito, per la sua posizione politica, aveva accesso agli acta senatus, ovvero i verbali delle sedute del senato romano, e gli acta diurna populi Romani, ovvero gli atti governativi e le notizie su ciò che accadeva giorno per giorno. Egli è comunemente riconosciuto come storico tra i più scrupolosi, come ci attesta anche l'antica testimonianza di Plinio il Giovane che ne loda la diligentia7; Tacito si dedicò infatti con gran diligenza e scrupolo alla raccolta di informazioni e notizie, utilizzando non solo fonti letterarie, ma anche documentarie. Certo anch'egli, come era costume, seguì pure i lavori degli storici precedenti: egli stesso cita le opere di quattro autori, ovvero Plinio il Vecchio, Vipsiano Messalla, Cluvio Rufo e Fabio Rustico. Difficile è però la ricostruzione precisa delle fonti (tutte perdute) usate per ogni singola sezione della sua opera, che erano probabilmente le stesse cui attinsero anche i contemporanei Svetonio e Plutarco, come dimostrano certe concordanze assai precise su alcuni argomenti comuni.

Si è detto che Plinio il Vecchio (23-79, deceduto mentre osservava l'eruzione del Vesuvio) è una delle fonti esplicitamente citate da Tacito; egli, inoltre, era amico del nipote di lui, Plinio il Giovane, il cui grande legame ci è testimoniato dall'epistolario incorso tra i due.

Prima di parlare delle guerre giudaiche Tacito ha una digressione sulla Giudea che, nell'insieme, riproduce una descrizione fatta da Plinio il Vecchio nel libro V della sua Naturalis historia8. Ora, sappiamo che Plinio conosceva la Palestina direttamente, in quanto si era colà recato e forse aveva preso parte alla guerra del 70; sappiamo anche che la sua opera più importante ed ambiziosa, alla quale certamente Tacito attinse, fu la perduta A fine Aufidi Bassi, che trattava il periodo tra la fine dell'impero di Claudio e l'ascesa di Vespasiano, e che fu pubblicata postuma dal nipote. Per questo, si è avanzata da alcuni l'ipotesi che Tacito, nel riferire notizie su Gesù, abbia seguito una qualche citazione di Plinio, oggi perduta9; questa congettura, pur essendo assai seducente, deve ancora essere sottoposta a verifica.

TRIFONE GIUDEO


Il martire e filosofo cristiano Giustino intorno all'anno 160 scrisse un Dialogo col giudeo Trifone, con il quale perseguiva lo scopo di dimostrare che il cristianesimo era la naturale continuazione dell'ebraismo. L'opera è strutturata in forma di un dialogo tra l'autore e l'ebreo Trifone, nel quale secondo alcuni, probabilmente a torto, è ravvisabile il noto Rabbi Tarphon1 ; in tal caso, la finzione letteraria del dialogo sarebbe forse l'eco di una reale discussione avvenuta tra i due ad Efeso nel 135. Nel racconto, Giustino ricorda un avvertimento che sarebbe stato inviato dagli Ebrei palestinesi ai Giudei della diaspora, che contiene un giudizio su Gesù: "E' sorta un'eresia senza Dio e senza Legge da un certo Gesù, impostore Galileo; dopo che noi lo avevamo crocifisso, i suoi discepoli lo trafugarono nottetempo dalla tomba ove lo si era sepolto dopo averlo calato dalla croce, ed ingannano gli uomini dicendo che è risorto dai morti e asceso al cielo" (Tryph. CVIII, 2)2. Il passo ci riporta un'accusa che avrà una certa fortuna, quella dell'inganno ordito dai discepoli di Gesù e del trafugamento del suo corpo dal sepolcro. La stessa accusa è ricordata da Tertulliano nel XXX capitolo del De spectaculis. Per il resto, il passo non è di grande interesse storico, anche perché la sua provenienza e la sua autenticità sono alquanto incerte; certo esso testimonia un giudizio di alcuni Giudei del tempo di Giustino su Gesù.

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