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Il sacramento della RICONCILIAZIONE

Ultimo Aggiornamento: 12/11/2009 11:16
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12/11/2009 11:13
 
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Da: Soprannome MSN°GinoInviato: 21/11/2002 13.19

IL RITO DELLA PENITENZA

La nuova formula di assoluzione mette in luce tutta la ricchezza del rinnovamento che avviene in chi accoglie in pienezza la grazia del perdono. Per comprendere meglio la formula è bene tenere davanti agli occhi il vangelo di Giovanni: La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: "Pace a voi!". Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: "Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi". Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: "Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi" (Gv 20,19-23).

In questo brano sono indicati chiaramente i quattro elementi messi in luce dalla nuova formula di assoluzione: Dio, Padre di misericordia, che ha riconciliato a sé il mondo nella morte e risurrezione del suo Figlio, e ha effuso lo Spirito Santo per la remissione dei peccati, ti conceda, mediante il ministero della Chiesa, il perdono e la pace. E io ti assolvo dai tuoi peccati nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.

Evidenziamo i quattro elementi fondamentali: <DIR> <DIR>

1) Dio, Padre di misericordia,
2) ha riconciliato a sé il mondo nella morte e risurrezione del suo Figlio,
3) ha effuso lo Spirito Santo per la remissione dei peccati,
4) concede il perdono e la pace mediante il ministero della Chiesa.</DIR></DIR>

Il Padre misericordioso che perdona
Prima del peccato e al di sopra del peccato, c’è la misericordia di Dio. Egli è sempre pronto a perdonare, perdona in anticipo. È detto misericordioso chi ha un cuore misero (s. Tommaso d’Aquino). La misericordia è chiamata così perché rende misero il cuore di chi soffre per il dolore altrui (s. Agostino). Qui si tratta di Dio.
Egli partecipa alla nostra miseria in modo reale, con un amore gratuito, impastato di tenerezza, fedele, che non si arrende mai. Proprio nel perdonare Dio trova la sua gioia più grande. L’ha detto Gesù: Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione
(Lc 15,7). Scrive s. Ambrogio: Rendiamo grazie al Signore Dio nostro che fece un’opera nella quale potesse trovare riposo. Fece il cielo, ma non trovo che ivi si riposò; fece la terra, ma non leggo che ivi si riposò; fece il sole, la luna e le stelle, ma non leggo che ivi si riposò. Leggo invece che fece l’uomo e che allora si riposò perché aveva qualcuno a cui rimettere i peccati.
Dio ha completato la sua opera creatrice nel momento in cui ha creato un essere libero che avrebbe potuto offenderlo, a cui Lui avrebbe potuto offrire nell’amore il suo perdono e, attraverso quel perdono, rivelare le ricchezze insondabili del suo cuore. Una orazione liturgica recita così: Dio, che riveli la tua onnipotenza soprattutto con la misericordia e il perdono, continua ad effondere su di noi la tua grazia... (Dom XXVI).
L’onnipotenza di Dio crea da capo l’uomo con la misericordia e il perdono. Il suo amore non si arrende mai.

Dimensione pasquale del perdono
Il Padre della misericordia ha riconciliato a sé il mondo nella morte e risurrezione del suo Figlio. Dunque c’è un rapporto stretto tra il peccato e la Croce: è il peccato che ha provocato la Croce. E c’è un rapporto altrettanto stretto tra il perdono e la Croce, perché è proprio la morte di Cristo che ha distrutto il peccato. Il nostro peccato non solo ha crocifisso una volta Cristo, ma lo crocifigge di nuovo nelle sue membra, che siamo noi, ogni volta che pecchiamo. Per loro conto crocifiggono di nuovo il Figlio di Dio e lo espongono all’infamia (Eb 6,6).
La Croce è stata causata dal peccato, ma è anche il rimedio del peccato. Perché piacque a Dio di far abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli
(Col 1,20). Cristo ha inchiodato il peccato sulla croce e l’ha distrutto. Con lui Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti per i vostri peccati e per l’incirconcisione della vostra carne, perdonandoci tutti i peccati, annullando il documento scritto del nostro debito, le cui condizioni ci erano sfavorevoli. Egli lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce (Col 2,13-14).
Il peccato è una realtà tragicamente seria: ha fatto morire il Figlio di Dio sulla croce. Di conseguenza il perdono dei peccati è una realtà indicibilmente gioiosa: è il ritorno dalla morte alla vita.

Il Padre disse ai servi: "Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato" (Lc 15,22-24).
Il sacramento della riconciliazione è una festa.
Scriveva s. Teresa di Lisieux: Tornavo a confessarmi in tutte le maggiori feste ed era per me una festa ogni volta che mi confessavo.

Dimensione pentecostale del perdono
Il momento del perdono è una nuova pentecoste. È lo Spirito del Risorto che annulla il peccato e ridona la vita di Dio. All’inizio ci ha creati il soffio di Dio (Gen 2,7), ora ci ricrea il soffio (lo Spirito) del Risorto (Gv 20,22). Così prega la Chiesa: Venga, Signore, il tuo Spirito Santo e disponga i nostri cuori a celebrare degnamente i santi misteri, perché egli è la remissione di tutti i peccati (Sabato della VII sett. di Pasqua).

La mediazione ecclesiale
Dio ci ha riconciliati a sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. È stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro: lasciatevi riconciliare con Dio. Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in favore nostro, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio. E poiché siamo suoi collaboratori, vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio (2Cor 5,18-21; 6,1). La Chiesa è lo strumento attraverso il quale Dio concede agli uomini il perdono e la pace. Essa, per volontà di Dio e non per capriccio personale o per scopi inconfessabili, entra di diritto e di dovere, nell’opera della riconciliazione: Dio ha affidato a noi il ministero della riconciliazione... Ha affidato a noi la parola della riconciliazione... Dio esorta per mezzo nostro... Siamo suoi collaboratori. Ma c’è anche un altro motivo per cui la Chiesa deve entrare in questa faccenda della nostra riconciliazione con Dio. Il peccato non ricade solo su chi lo fa. Noi viviamo in una comunità di vita e di destino, in cui non possiamo fare del male a noi senza fare, nello stesso tempo, del male a tutta la Chiesa. Il peccato commesso da me, anche nella più grande segretezza, danneggia tutto il corpo mistico di Cristo perché siamo membra gli uni degli altri (Ef 4,25). Siamo solidali nel bene e nel male. Se è così, se la Chiesa è coinvolta nel mio peccato, è chiaro che dovrà essere presente anche nel momento del perdono. Confesso a Dio onnipotente e a voi, fratelli, che ho molto peccato. Di conseguenza non mi riconcilio solo con Dio, ma anche con i fratelli, con la Chiesa. Il peccato e il perdono hanno sempre una dimensione comunitaria: il peccato e il perdono non sono mai affari miei, ma sempre affari nostri.
Rinnovati nel perdono di Dio canteremo, con la voce e con la vita, un canto nuovo: quello che nasce dall’esperienza meravigliosa dell’amore misericordioso del Padre.

CONCLUSIONE

Il peccato spezza o allenta il rapporto personale d’amore con Dio e con la Chiesa; quindi è un male, il peggiore di tutti i mali.
Tuttavia il peccato non ci toglie la possibilità dell’esperienza di Dio, ma ci apre uno spazio privilegiato per questa stessa esperienza. Il perdono è la realtà nella quale Dio si rende più sensibile al cuore dell’uomo, dove Dio si fa meglio conoscere, perché è lì che si rivela nel modo più sublime l’amore del Padre, un amore che va verso la miseria diventando così misericordia. Nel momento del perdono, mentre misuro l’abisso del peccato, misuro ancor più l’abisso della misericordia che lo inghiotte, e il mio grande peccato non è che una piccola pietra che sprofonda nell’oceano del suo amore.
Al di fuori di questa esperienza, c’è il rischio che la nostra conoscenza di Dio sia frammentaria e contraddittoria. Per esempio, a livello concettuale, la collera di Dio, di cui la Bibbia parla spesso, sembra il contrario dell’amore. Allora ci si chiede: Può amare Dio, mentre è adirato?
E la risposta logica sembrerebbe: No! fino a quando non sarà sbollita la sua ira!
E invece no! Chi fa l’esperienza della conversione coglie il mistero di una collera che distrugge il male, e, contemporaneamente, di un amore che avvolge, preserva e trasforma chi era affetto dal male.
Come il medico combatte la malattia perché ama il malato, così Dio odia il peccato perché ama il peccatore.
Al di fuori di questa esperienza c’è il rischio di conoscere il Signore per sentito dire, mentre la parola di Dio ci invita a provare per credere: Gustate e vedete quant’è buono il Signore; beato l’uomo che in lui si rifugia
(Sal 34,9).
L’ascesi (lo sforzo personale per evitare il peccato e avvicinarsi a Dio), se è priva dell’esperienza penitenziale, può diventare una tensione verso un sistema di giustizia analogo a quello dei farisei. Invece l’esperienza del perdono ci fa capire che è Dio che ci salva. Allora nasce spontanea l’umiltà: l’unica virtù che commuove le viscere della misericordia di Dio perché Dio resiste ai superbi e dà grazia agli umili (
1Pt 5,5). Rileggiamo la parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18,9-14) e diciamo con Maria il suo cantico (Lc 1,46-55).
L’apostolo Paolo, dopo aver avuto visioni e rivelazioni dal Signore e dopo essere stato rapito in paradiso, non si vanta se non delle sue debolezze (cf. 2Cor 12,1-6) e ci descrive la sua situazione che è tanto consolante anche per noi. Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata data una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia. A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: "Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza".
Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte (2Cor 12,7-10).
Un grande autore orientale,
Isacco di Ninive (sec. VII) scrive: Colui che conosce i propri peccati è più grande di chi risuscita un morto con la preghiera. Chi geme su se stesso per un’ora, è più grande di chi insegna all’universo intero. Chi conosce la propria debolezza è più grande di colui che vede gli angeli. Chi, solitario e contrito, segue Cristo è più grande di colui che gode il favore delle folle nelle Chiese
(Discorso 34).
E il papa san Gregorio Magno: È più gradita a Dio una vita ardente dopo la colpa che un’innocenza che intorpidisce nella sicurezza
(Regola Pastorale, III,28).
Per chi si sente perdonato, non c’è il rischio che la vita spirituale sia considerata una prodezza dell’uomo, una conquista delle sue forze. Al centro della sua vita non ci sarà più l’uomo, ma Dio che perdona. Allora nascerà la preghiera, quella genuina, che sposta lo sguardo del povero dalla propria miseria alla misericordia di Dio. Allora, diffidenti di noi, saremo totalmente fiduciosi in Lui. Niente prodezze fatte da noi, ma solo miracoli operati dal Signore e accolti in cuori umili e totalmente aperti a Lui.
Il perdono ci apre le porte della più meravigliosa esperienza di Dio.
Paolo scrive: "Tutto concorre al bene di coloro che amano Dio"
(Rm 8,28). E sant’Agostino, commentando, non esita ad aggiungere: "anche i peccati", non certo perché il peccato sia una prodezza (è piuttosto una suprema miseria), ma per quell’arte meravigliosa che è propria di Dio: sa trarre il bene anche dal male. Perfino dal peccato!

Sia lodato Gesù Cristo.

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