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Il vescovo Gian Matteo Giberti (1530) animatore della libertà d'Italia

Ultimo Aggiornamento: 03/12/2009 00:40
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Un convegno di studi a Verona su Gian Matteo Giberti e il suo tempo

Il vescovo animatore della libertà d'Italia


di Adriano Prosperi
Scuola Normale di Pisa

Gian Matteo Giberti
è noto negli studi come il vescovo che risiedendo e operando a Verona tra il 1530 e il 1543 dette forma al modello del Buon Pastore promosso poi sul piano più generale dalla Chiesa cattolica nel concilio di Trento.

Continua a rimanere in ombra la parte maggiore o almeno più lunga della vita e dell'opera sua: quella che si chiuse sostanzialmente col Sacco di Roma del 1527 e definitivamente con l'incoronazione papale di Carlo v a Bologna nel 1530. Questo Giberti giace ancora del colpo che fortuna gli diede. Colpo gravissimo e tale da seppellire ben altri protagonisti: ma non tale da far dimenticare almeno in sede storica che fino al 1530 Gian Matteo Giberti fu l'animatore e il responsabile di quella politica non solo papale che fu chiamata della libertà d'Italia.

Certo, misurando le cose dall'osservatorio di quel 1530, si capisce bene l'inevitabilità di quel rifugio nella diocesi di Verona dopo l'immensa tragedia del Sacco di Roma. E se è indiscutibile che non fu solo lui a perseguire la strategia che condusse a quell'esito, fu soprattutto lui che in prima persona, influenzando con un impegno fortissimo le decisioni del Pontefice, decise di imboccare la strada che portò al Sacco. Fu su di lui, del resto, che si appuntarono i feroci giudizi dei diplomatici e della cancelleria di Carlo v; il quale non perse occasione per manifestargli personalmente una ripulsa, anzi un vero e proprio odio personale che si rivelò determinante per fargli definitivamente abbandonare ogni ambizione residua e respingerlo al rifugio veronese.

Inutilmente nel marzo 1529, a poca distanza dal disastro militare e dalla più grave umiliazione del potere papale nel cuore di Roma che si fosse mai vista, implorò l'ambasciatore spagnolo di consentirgli di recarsi in Spagna per gettarsi ai piedi dell'imperatore. L'ambasciatore sapeva bene grazie alle sue spie quanto poco ci fosse da fidarsi dell'uomo che si presentava umilmente come un semplice strumento passivo della politica papale: era quello stesso uomo che si adoperava intanto per ottenere l'avallo di Venezia a un suo rientro nel grande gioco politico romano e per convincere Andrea Doria a chiudere le porte di Genova alla minacciata venuta di Carlo v. Una venuta che, secondo Giberti, avrebbe siglato la rovina dell'Italia.

Che dopo l'avvenuta rovina di Roma incombesse sull'Italia intera la minaccia di un disastro più grande è un argomento che impone di soffermarci sul significato di quelle parole. Che cosa significavano allora espressioni come rovina dell'Italia e libertà dell'Italia? E come le intese Gian Matteo Giberti?

Nel 1524, ringraziando la Signoria di Venezia per la concessione della diocesi di Verona, Giberti scrisse una frase importante per capire come volesse presentare la sua posizione politica in un momento particolarmente importante: "Piacemi ancora dover havere la fede della vecchiezza mia nello Stato di quella illustrissima Signoria alla quale ancor più che quel che devo al senso comune di buon italiano, sono stato sempre devotissimo, parendomi vedere in essa la viva imagine dell'antica grandezza, et della vera libertà d'Italia".

Quel ringraziamento di un vescovo per la concessione della diocesi è una dichiarazione di carattere politico fatta da un uomo che proprio nel 1524, dopo la svolta avvenuta nella sua vita con l'elezione papale di Clemente vii, godeva di una elevata posizione e di responsabilità eccezionali. Era - attesta Francesco Guicciardini - uno dei due consiglieri di Clemente vii, condividendo con Niccolò Schomberg questo ruolo. Ma Giberti, diventato il potente e onnipresente Datario, assunse da quell'anno un ruolo decisivo. Ricostruire la sua azione politica e diplomatica nei dettagli significherebbe inseguire una fitta trama di contatti e di trattative, di maneggi segreti, di congiure. Qui si cercherà piuttosto di capire quali fossero le ragioni dell'indirizzo da lui dato alla politica papale.

Fissiamo intanto la nostra attenzione sull'espressione libertà d'Italia. Essa rimanda al più generale fenomeno del nazionalismo delle élites che caratterizzò allora in modi diversi e con diversa intensità la cultura italiana e quella tedesca. Nella vittoria delle lingue volgari sul latino e nel richiamo alle glorie militari, rispettivamente dei popoli germanici e dell'antica Roma, trovò espressione un senso di appartenenza nazionale chiamato a sorreggere l'affermazione dell'indipendenza da servitù a stranieri. In Italia, fin dai tempi di Petrarca, si parlava di barbaria, di furor Teutonicus, di tedesca rabbia: e nel 1500 si celebravano episodi come la disfida di Barletta tra italiani e francesi con l'animo con cui si potrebbe commentare oggi una partita di calcio.

Ma nel caso di Giberti non si trattò solo di parole: questa fu la differenza tra lui e la maggior parte dei letterati che affollavano la Roma dei suoi giorni. L'insistente, ripetuta professione di voler combattere per la libertà d'Italia che si incontra nelle sue lettere di quegli anni chiede a chi le legge oggi nelle molte raccolte a stampa del 1500 di spostare l'attenzione dal mondo dei letterati e dalla loro coscienza umanistica dell'identità italiana al mondo dei conflitti politici, militari e religiosi negli anni delle guerre d'Italia. Fu in quel contesto che le parole antiche rivelarono una nuova presa sulle cose.

L'opposizione retorica degli italiani aveva trovato rispondenza in Germania nella diffusa e sempre più violenta ostilità contro gli italiani, considerati come i rapinatori delle rendite delle chiese locali per colpa della Roma papale. Gli argomenti di questo tipo divennero armi aggressive efficacissime nei pamphlets di Martin Lutero. Così l'opposizione tra mondo latino e mondo germanico passò improvvisamente dalle parole ai fatti dopo il 1517 con la diffusione della protesta luterana e con l'opposta e parallela reazione del papato, sempre più spinto a fare dell'Italia la sua cintura di sicurezza.

L'agitarsi affannoso di Giberti in questo scenario e le molte lettere con cui cercò di guidare le trattative non potevano risolvere problemi così profondamente radicati. Di giorno in giorno si fece sempre più evidente che la partita era perduta e che intorno a lui si era fatto il vuoto, lasciandolo emergere come il principale responsabile della politica della libertà d'Italia.
Resta tuttavia da capire il nesso che ci fu tra l'opera di vescovo che apparve fin da allora esemplare e innovativa e l'impegno appassionato nel gioco delle grandi potenze. È qui che ritroviamo i connotati peculiari che in lui assunse l'idea della libertà d'Italia.

L'uomo dimostrò col suo esempio personale come interpretasse gli obblighi di vita di un ecclesiastico facendosi immediatamente consacrare vescovo senza limitarsi a godere i redditi dei suoi numerosi benefici. Questa fu la sua risposta alle critiche che venivano dal movimento di riforma luterana. Nel momento più caldo dell'organizzazione diplomatica e politica della lega per la libertà d'Italia si dedicò a misure di riforma dei costumi ecclesiastici dimostrando che questa era per lui la via giusta e non quella del concilio richiesto da Lutero.

Nel concilio egli vide sempre la minaccia di una diminuzione del potere del Pontefice romano, unico potere rimasto in Italia assieme a quello della Repubblica di Venezia: ogni attacco a quel potere significava per lui la minaccia della totale rovina dell'Italia, come disse all'oratore veneto Marco Foscari nel maggio 1528. E l'incubo peggiore che si affacciava alla mente sua e a quella dei suoi più stretti amici e collaboratori era l'immagine di un imperatore che entrava a Roma da padrone per regolare tutte le questioni politiche e religiose mettendo sotto tutela la figura del Papa.

Ma che cosa spinse Gian Matteo Giberti a perseguire con tanta costanza quella politica? E di quale politica si trattava? Il linguaggio dell'epoca distingueva tra partito francese e partito spagnolo, secondo un modo di parlare che divenne poi abituale fino a partorire il famoso motto del cinismo italiano: "Franza o Spagna purché se magna". Non fu questo il caso di Gian Matteo Giberti: per lui la libertà dell'Italia significava un sistema di equilibrio capace di garantire l'esercizio dell'autorità del Papa e di allontanare il pericolo di assoggettamento dell'Europa e della Chiesa a un solo potere, quello della monarchia universale che Carlo v apparve vicinissimo a realizzare proprio negli anni tra la battaglia di Pavia e il Sacco.

Alla minaccia della cancellazione del clero dal sistema sociale portata avanti dalla Riforma protestante e a quella della monarchia universale di Carlo v, la risposta di Gian Matteo Giberti fu quella di una restaurazione religiosa e politica capace di ristabilire l'autorità del Papa e del corpo ecclesiastico: per questo era necessario preservare uno spazio politico italiano fatto di piccoli Stati liberi dall'ingombrante dominio di una sola grande potenza.


Umanista e riformatore



"Vescovo molto savio di scrittura e di senno naturale" diceva monsignor Giovanni della Casa alludendo a Gian Matteo Giberti che governò la diocesi di Verona tra il 1524 e il 1543. A dimostrazione di quanto il giudizio dell'autore de Il Galateo sia appropriato si celebra nei giorni 2 e 3 dicembre nella città scaligera un convegno di studi sul grande vescovo la cui figura consente uno sguardo approfondito sull'Europa e sulla Chiesa in una delle fasi più turbolente e ricche di fermenti per la vicenda del vecchio continente.

Attraverso l'intervento di qualificati studiosi si potrà meglio conoscere una poliedrica personalità di rilevante spessore, umano, spirituale e culturale e se ne potrà altresì considerare l'azione riformatrice sul piano storico, culturale e artistico. Il convegno si articola in tre sessioni presiedute rispettivamente dal cardinale Raffaele Farina, Bibliotecario e Archivista di Santa Romana Chiesa, da monsignor Giuseppe Zenti, vescovo di Verona, e da Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani. In questa pagina pubblichiamo stralci di alcune relazioni.



(©L'Osservatore Romano - 3 dicembre 2009)

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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03/12/2009 00:40
 
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La ragione di un nuovo clero


di Danilo Zardin
Università Cattolica del Sacro Cuore Milano


Gian Matteo Giberti visse la sua fortunata ascesa ai vertici della curia papale negli stessi anni che videro l'esplosione della protesta luterana e l'apertura dei conflitti che avrebbero portato a una dolorosa scissione religiosa. Saldamente installato al centro della delicata gestione degli "affari" da cui dipendeva il destino della cristianità, Giberti non poteva evitare di prendere posizione intorno alle sfide che la Riforma poneva al corpo dei fedeli cristiani nel suo insieme.

Sappiamo che fu coinvolto in prima persona nella corrispondenza intrattenuta con la curia di Roma dal nunzio Aleandro, inviato a Worms per dare esecuzione alla volontà di arginare con ogni mezzo l'avanzata della rivolta.

La gravità di quello che si aveva preso l'abitudine di chiamare l'"incendio" luterano e la necessità di porvi drastico rimedio erano un tema all'ordine del giorno nei concistori presieduti da Leone x nel 1521. Nella sua lettera di risposta all'Aleandro dell'1 maggio 1521, Giberti riprende da parte sua la battagliera simbologia del fuoco, rallegrandosi per l'appoggio che l'imperatore Carlo v sembrava intenzionato a garantire allo scopo di estirparlo. Nella drammaticità della situazione che si era venuta a creare in terra tedesca, cominciava a profilarsi l'ancora incerta possibilità di un'auspicata vittoria contra Luther.

Guardare a Giberti reinserendolo in questo contesto generale delle lacerazioni create dal contagio della Riforma, costringe a ridimensionare l'impressione di una sua radicale distanza, se non di una sua pressoché totale estraneità rispetto al pensiero e alle linee di azione dei riformatori cattolici ben più decisamente di lui schierati a favore del riordino disciplinare e del restauro dell'ortodossia sottoposta a contestazione, anche con il ricorso a metodi coercitivi e inquisitoriali.

Bisogna trovare il modo di rendere storicamente comprensibile il legame di amicizia e la stretta collaborazione operativa che, già negli anni romani, si stabilì tra il Giberti e Gian Pietro Carafa, il futuro artefice del decollo della santa inquisizione alle sue origini, ma da cui Giberti volle farsi consacrare vescovo. Non solo Giberti, ma anche altri suoi collaboratori che lo seguirono sulla strada di Verona entrarono in rapporto, come Carafa e Gaetano da Thiene, i fondatori della congregazione dei teatini, con l'Oratorio del Divino Amore.

In questo cenacolo carico di fervore e di slancio missionario si lasciò coinvolgere Marcantonio Flaminio, che solo molto più tardi, muovendosi in una direzione opposta a quella di Carafa, trovò il suo approdo finale nell'entusiastica adesione allo spiritualismo valdesiano, passando fra i ranghi dell'altrettanto eletta famiglia del cardinal Pole. Ma con il Pole aveva stretto relazioni, tempi addietro, lo stesso Gian Matteo Giberti, che vediamo saldamente inserito nella rete che abbracciava i più alti prelati interessati, al pari di lui, a un vigoroso rilancio delle sorti della Chiesa. Era il grande ideale tenuto vivo da dotti e pii ecclesiastici come Contarini e Sadoleto, che tramite le loro clientele raggiungeva e chiamava a collaborare religiosi e predicatori favorevoli alla causa di una riforma in capite e in membris, letterati e uomini di cultura, anche laici, esponenti dell'aristocrazia e delle élites sociali attratti dalla conversione a una vita devota resa compatibile con le loro condizioni secolari.

Ciò che in primo luogo avvicinava e faceva dialogare uomini tra loro così diversi era il fermento di un umanesimo cristiano che aveva riaperto la possibilità di introdursi nello studio e nell'assimilazione delle fonti del pensiero cristiano di ogni tempo. E da questo tesoro recuperato doveva rifluire sull'intero popolo dei fedeli il vivo nutrimento di una tenace opera educativa, affidata in via prioritaria alla responsabilità di un nuovo clero. Era un umanesimo che bisognava rendere pienamente devoto, capace di coniugare insieme l'amore per le "sacre lettere" e il gusto di una "pietà" concentrata sul fondamento essenziale di una vera coscienza di fede, l'uso sapiente della ragione e i "buoni costumi" regolati dagli affetti ricondotti al loro fine più alto.


Eredi di un modo di pensare



di Antonio Filipazzi

La figura di Nicolò Ormaneto consente di affrontare il tema dell'influsso che Giovanni Matteo Giberti, il suo stile pastorale, le norme che egli stabilì e le istituzioni da lui create, ebbero nei decenni successivi alla sua morte sia in Italia sia fuori, attraverso le persone che lo conobbero e con lui collaborarono. Infatti, anche grazie all'Ormaneto, lo spirito e le opere del pastore veronese ebbero un influsso nell'Inghilterra della regina Maria Tudor e del cardinal Pole, nella Milano di Carlo Borromeo, nella Roma di Pio v, nella diocesi di Padova e nella Spagna di Filippo ii.

Questo sacerdote veronese, nato fra il 1515 e il 1517, compì gli studi giuridici presso l'università di Padova, laureandosi in utroque iure nel 1538. Ascritto al collegio dei giureconsulti veronesi nel 1540, tre anni dopo venne nominato dal vescovo Giberti arciprete di Bovolone. Nel 1553 accompagnò il cardinale Reginald Pole nella sua missione in Inghilterra, collaborando con lui fino al 1558. Partecipò all'ultima fase del concilio di Trento (1563), dove lo aveva condotto il cardinale Bernardo Navagero, vescovo di Verona e legato al concilio stesso. Nel 1564 Carlo Borromeo lo volle come suo vicario generale a Milano, dove rimase per circa due anni, dopo i quali Pio v lo chiamò a Roma per collaborare all'opera di riforma della corte papale e dell'Urbe. Nel 1570 fu eletto vescovo di Padova, ma nel 1572 Gregorio xiii lo destinò come nunzio apostolico presso Filippo ii. La morte lo colse a Madrid nel 1577.

La familiaritas dell'Ormaneto col Giberti durò solo pochi anni, ma questo dato non basta da solo a misurare la profondità dell'impronta che quest'ultimo lasciò nella vita e nell'impostazione dell'azione del suo chierico. Nel 1554 l'Ormaneto accompagnò Pole, inviato da Giulio iii come legato sia presso Carlo v e Enrico ii di Francia in missione di pace sia presso la regina inglese Maria Tudor per restaurare il cattolicesimo in Inghilterra. Dal 1555 al 1557 Ormaneto fu a capo della cancelleria del legato pontificio e fu impegnato nel sinodo di Londra voluto da Pole, che fu la sua prima esperienza sinodale. È significativo che il decreto sulla visita pastorale sia stato ispirato, secondo quanto testimonia lo stesso Ormaneto, dal "Memoriale... che portava in mano il vescovo di Verona" nelle sue visite. Oltre a ciò, partecipò alla visita delle università di Oxford e Cambridge, che fu forse uno dei maggiori successi dell'opera riformatrice del Pole.

Fondamentale fu poi l'incontro con il giovane cardinale nipote di Pio iv: ne nacque infatti un rapporto che durò per oltre un decennio e che soprattutto si caratterizzò per la grande sintonia. Si potrebbe dire che l'Ormaneto è non meno un uomo del Borromeo di quanto non lo sia del Giberti.

Nei due anni nei quali egli fu il vicario generale dell'arcivescovo di Milano, emerge l'innegabile influsso della scuola pastorale del presule veronese sull'Ormaneto stesso e, per suo mezzo, su san Carlo e sull'impostazione da lui data alla sua vasta e importante diocesi. Egli, infatti, continuò a occuparsi delle vicende dell'arcidiocesi ambrosiana e ad avere intensi contatti con il cardinale Borromeo durante gli anni romani prima, e, poi, nello svolgimento della missione di nunzio in Spagna.

Le questioni principali che l'Ormaneto dovette trattare in Spagna furono: la lotta contro i turchi, le controversie giurisdizionali nei domini spagnoli in Italia, l'impresa per la riconquista dell'Inghilterra e la riforma degli ordini religiosi. Si pone però anche una questione: come si compone il duplice ruolo di vescovo di Padova e di nunzio con la visione della riforma ecclesiale propria del suo maestro e ispiratore, per il quale la scelta di risiedere nella propria diocesi fu l'inizio e il mezzo per realizzare l'opera di riforma a Verona? L'Ormaneto accettò gli incarichi fuori sede per obbedienza, ma manifestò sempre il desiderio di ritornare alla sua parrocchia e diocesi, percependosi in una situazione di disagio. Scriveva infatti a san Carlo: "Vi è da considerar lo scandalo che possono ricevere le genti vedendomi star tanto absente che non possono così saper l'intrinseco dell'animo mio; et quando io faccio officio et col Re et con qualche Prelato sopra la ressidentia, sempre temo che mi sia detto Medice cura te ipsum".

A questa difficoltà rispose il Borromeo, osservando come Ormaneto fosse trattenuto "fuori della sua Chiesa particolare per servitio della universale". In queste parole i due livelli a cui si compie l'opera di riforma ecclesiale non sono visti come alternativi e contrapposti, come talvolta avviene a seguito di una lettura forse unilaterale e forzata, ma come fra loro complementari.



La forza del tabernacolo sparito



di Marco Agostini

La riconfigurazione della cappella grande della cattedrale di Verona, voluta dal vescovo Gian Matteo Giberti tra il 1533 e il 1542, è una pagina importante di storia dell'arte, un intervento di quelli che marcano l'aspetto di una chiesa. La cappella rappresenta anche una tappa significativa nello sviluppo del culto al sacramento dell'altare. Era prassi prevalente, prima del concilio di Trento, conservare il sacramento in luoghi appartati della chiesa. Per un vescovo come Giberti che celebrava messa tutti i giorni - esempio raro prima del concilio - l'uso era riprovevole.

Già nella seconda metà del XV secolo ci sono noti alcuni tabernacoli marmorei sull'altar maggiore a forma di tempietto circolare, ma la soluzione veronese ebbe risonanza particolare perché fu attuata nella propria cattedrale da un vescovo grandemente stimato. Fu realizzata a ridosso di quel concilio alla cui preparazione lo stesso vescovo aveva largamente contribuito.

Inoltre la forma che Giberti conferì all'altare col tabernacolo sollevato in alto dagli angeli in bronzo, la straordinaria recinzione marmorea che separa e unisce la cappella grande al resto della chiesa, sono innovazioni dalle radici antiche.

Nell'abside romanica orientata a est, già trasfigurata dai temi mariani affrescati dal Torbido, al centro del presbiterio Giberti fece costruire un altare voltato a ovest, aperto sul fronte dalla fenestella confessionis. La ragione di un altare così girato, la cui posizione oggi ci appare incongrua, è da individuarsi nel tabernacolo che stava sopra. Il vescovo rinunciò al tradizionale orientamento dell'altare, non perché non lo comprendesse o condividesse il senso della preghiera a oriente, ma a motivo del tabernacolo.

Con il tabernacolo l'altare diveniva il cardine del sistema geometrico della cappella e l'approdo della direzione processionale della cattedrale: lo spazio riaveva il suo fuoco e la preghiera il suo orientamento. E così il tabernacolo bello, chiuso con la chiave, stabile e sicuro si diffuse come elemento fisso sull'altare maggiore non solo nella diocesi veronese, ma dopo il concilio di Trento nell'orbe cattolico. San Carlo Borromeo, prendendo a modello Giberti, ne fu un tenace propugnatore.

Ma le cose più preziose sono anche le più fragili, e il tabernacolo, probabilmente nella seconda metà del Settecento disparve. La cappella risultò ferita; l'altare mutilo mostrò una debolezza imprevista e marcata che nemmeno la cancellata marmorea riusciva a sostenere. S'affacciò, allora, l'idea che l'altare della cattedrale potesse essere officiato a ovest e a est.

La scomparsa di un tale presidio aveva tolto allo spazio ellittico il suo significato e avviato il lento degrado derivante dalla perdita del centro. Gli studi di teologia e liturgia dimostrano interesse per questo tabernacolo, per il suo contesto architettonico, l'altare, l'abside affrescata e il tornacoro, per il suo significato nelle connessioni tra liturgia e architettura ultimamente, o in primis, per la fede.




(©L'Osservatore Romano - 3 dicembre 2009)
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