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La bellezza di essere sacerdote storie lontane e vicine

Ultimo Aggiornamento: 15/06/2018 23:26
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10/12/2009 19:18
 
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Riflessioni per l'Anno sacerdotale

Rolando Rivi
e il sangue versato sulla talare


di Alfonso M. A. Bruno

In Emilia, nella chiesetta di Visignolo di Baiso, sulle prime alture dell'Appennino, in un grande quadro con il crocifisso attorniato di santi, si nota la presenza di un seminarista con la veste e il cappello da prete. Lo fece dipingere circa trent'anni fa il parroco, convinto che quel giovane aspirante al sacerdozio, prima o poi, sarebbe stato riconosciuto santo. Si tratta di Rolando Rivi, una delle numerose vittime che nell'immediato dopoguerra, a pochi chilometri da quel luogo, caddero a causa della furia omicida di alcuni gruppi armati della resistenza. La terra emiliana, infatti, fu particolarmente irrorata dal sangue di preti e seminaristi che in quel periodo furono vittime d'una persecuzione in odio a Cristo e alla Chiesa.

Rolando Rivi nacque a San Valentino di Reggio Emilia il 7 gennaio 1931 da agricoltori umili e ricchi di fede. I parroci, don Luigi Jemmi prima e don Olinto Marzocchini poi, ebbero il merito di formare generazioni di parrocchiani. Il loro apostolato era alimentato da una ricca vita interiore trasparente e percettibile anche agli occhi di un bambino. Rolando infatti era affascinato dal suo parroco don Olinto:  "Che bello - pensava - diventare come lui! Celebrare la messa con Gesù tra le mani, portare le anime a Gesù". Così, appena undicenne entrò nel seminario diocesano di Marola. Era ai primi d'ottobre del 1942. Quello stesso giorno, come allora si usava, il ragazzo vestì con gioia l'abito talare. Il rettore monsignor Luigi Bronzoni, prete colto, autorevole e paterno, insegnava più con la vita che con le parole. All'approssimarsi del periodo estivo, spiegava che in vacanza i seminaristi avrebbero dovuto non solo guardarsi dalle occasioni di peccato, ma ancora di più distinguersi dagli altri nella preghiera e nel servizio in parrocchia, nello studio e nella purezza, nelle opere buone e nella dedizione al Signore. "Anche in vacanza - aveva raccomandato - il seminarista porta sempre l'abito talare, segno della nostra appartenenza a Gesù". 

Rolando così anche nei giorni di vacanza dei caldi mesi estivi portava con orgoglio la veste nera con il colletto bianco. La veste non creava per lui una barriera umana o sociale nelle relazioni con gli altri né tantomeno un impedimento allo svolgimento d'ogni attività, anche ricreativa. Il seminarista Rolando Rivi era sempre un trascinatore. Testimonia un compagno di seminario, ora sacerdote e parroco, don Vezzosi:  "Rolando era vivace e svelto in tutti i giochi:  a pallone, a pallavolo. Campione della classe, della camerata. Attentissimo a scuola, studioso esemplare, innamoratissimo di Gesù. Tutto in lui era superlativo. Si stava volentieri con lui; contagiava gioia e ottimismo".

La sua vita, tuttavia, non fu solo gaiezza e spensieratezza. Alle sue vicende familiari e personali faceva da sfondo la guerra nella quale gli morirono tre zii. E altre sorprese spiacevoli si profilavano all'orizzonte. Nel settembre 1944 il seminario fu occupato da un centinaio di soldati nazisti. I seminaristi dovettero tornare a casa.

In famiglia, Rolando continuò a sentirsi seminarista. La sua gioia erano la messa quotidiana con la comunione, la meditazione, la visita pomeridiana a Gesù eucaristico, il rosario alla Madonna. Il luogo prediletto era sempre la casa parrocchiale. Oltre allo sport, altra sua grande passione era la musica. Quando poteva posare le mani sulla tastiera dell'harmonium, quasi si estasiava a suonare. E ai bambini, ai cuginetti, anche solo di cinque o sei anni insegnava a servire la messa e giocava con i più piccoli per diffondere serenità anche nei giorni più tristi.

La vita a San Valentino trascorse abbastanza tranquilla fino all'estate del 1944. Poi iniziarono le scorribande. Si ebbero ruberie, razzie, fatti spiacevoli e violenze anche contro i sacerdoti. Diventava, infatti, sempre più forte l'odio contro i preti che operavano per la pacificazione degli animi e denunciavano le violenze, da qualunque parte venissero compiute. Rolando sperimentò questo clima.

A San Valentino fu preso di mira il parroco don Olindo Marzocchini. Una mattina d'estate si venne a sapere che durante la notte precedente l'avevano aggredito e umiliato. Gli avevano portato via tutto, comprese le scarpe che aveva ai piedi. Durante la messa, celebrata dopo la brutale aggressione, don Olinto si sentì male:  Rolando e l'altro chierichetto che servivano all'altare capirono che qualcosa di grave era successo. Quando Rolando lo seppe chiaramente, pianse come per un'offesa fatta al proprio padre. Ma non disse parole di odio.

Don Olinto Marzocchini intanto fu fatto riparare in luogo più sicuro. Per assicurare il servizio sacerdotale arrivò in paese un giovane prete venticinquenne:  don Alberto Camellini. Ancora oggi racconta:  "Si viveva un'atmosfera di paura e di tensione. Per conoscere luoghi e parrocchiani mi facevo accompagnare nelle visite da alcuni seminaristi tra cui Rolando Rivi". Il seminarista ne profittò per spiegargli i suoi progetti per l'avvenire - "Sarò prete e missionario". Tutti vedevano passare per la strada il giovane seminarista, tutti conoscevano il suo stile di vita. E i genitori gli dicevano:  "Togliti la veste nera. Non portarla per ora". Ma Rolando rispondeva:  "Ma perché, che male faccio a portarla? Non ho motivo di togliermela. Io studio da prete e la veste è segno che io sono di Gesù".

Rolando intuiva cosa significasse prepararsi al sacerdozio in quel clima, ma non si scoraggiò, né si chiuse in casa. Aveva solo quattordici anni, poco più di un bambino, ma mai si era mimetizzato né aveva nascosto la sua chiara identità d'aspirante appassionato al sacerdozio. In maniera istintiva era consapevole che la mimetizzazione mortifica la pastorale che si avvale di segni e di simboli, ma anche di gesti concreti. Racconta monsignor Giuseppe Mora:  "Spesso in paese scoppiavano dispute alle quali era più conveniente tacere. Capitò che in una discussione alcuni attaccarono ingiustamente la Chiesa e l'attività dei sacerdoti. Rolando difese a fronte alta Gesù, il Papa, la Chiesa e i sacerdoti, senza paura alcuna".

Il 10 aprile 1945, martedì dopo la domenica in Albis, al mattino presto è già in chiesa. Esce contento perché ha già ricevuto l'eucarestia. Non sa ancora che sarà per lui il viatico. Torna a casa, libri sottobraccio va al boschetto a studiare. Indossa come sempre la talare. A mezzogiorno, non vedendolo rientrare, i genitori lo cercano. Tra i libri trovano un biglietto:  "Non cercatelo, viene un momento con noi".

I partigiani lo hanno portato alla loro base sull'Appennino Emiliano. Lo spogliano della veste talare. Lo insultano, lo percuotono con la cinghia sulle gambe, lo schiaffeggiano. Adesso hanno davanti un ragazzino coperto di lividi, piangente. Per tre giorni Rolando rimane nelle mani di quegli uomini. Una valanga di bestemmie contro Cristo, insulti contro la Chiesa e il sacerdozio, di scherni volgari si abbatte su di lui. Quindi, l'orrore della flagellazione sul suo corpo di ragazzo. Rolando piange e geme. Qualcuno si commuove e propone di lasciarlo andare perché è soltanto un ragazzo e non c'è motivo o pretesto per ucciderlo. Ma altri si rifiutano:  "Taci o farai anche tu la stessa fine". Prevale l'odio al prete, all'abito che lo rappresenta. Decidono di ucciderlo:  "Avremo domani un prete in meno!".

Scende la sera ormai, lo portano sanguinante in un bosco presso Piane di Monchio (Modena). Davanti alla fossa già scavata Rolando comprende tutto. Singhiozza, implora d'essere risparmiato. Gli viene risposto con un calcio. Allora dice:  "Voglio pregare per la mia mamma e per il mio papà".
S'inginocchia sull'orlo della fossa e prega per sé, per i suoi cari, forse per i suoi stessi uccisori. Due scariche di rivoltella lo rotolano a terra nel suo sangue. Un ultimo pensiero, un ultimo palpito del cuore per Gesù, perdutamente amato... poi la fine. Gli assassini lo coprono con poche palate di terra e di foglie secche. La veste da prete diventa un pallone da calciare, poi sarà appesa come "trofeo da guerra" sotto il porticato d'una casa vicina.

Era il 13 aprile 1945. Rolando aveva quattordici anni e tre mesi. Con la vita, la parola e perfino il suo sangue aveva proclamato:  "Quanto ho di più caro al mondo è Cristo".



(©L'Osservatore Romano - 11 dicembre 2009)

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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