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Film di fantascienza? tanti soldi, troppi, ma nella sostanza IL NULLA!

Ultimo Aggiornamento: 26/02/2010 02:17
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09/01/2010 20:37
 
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Fantascienza tra paure e speranze


di Luca Pellegrini


Il cinema di fantascienza è un genere libero per antonomasia, come lo è la fantasia, ma anche asservito agli umori del tempo e ai dettami del progresso scientifico. Per questo è lo strumento più idoneo per riflettere, nelle sue trame e nei suoi spicchi di verità, le tante paure e le poche speranze. Attraversa abilmente la nostra storia con un andamento sinusoidale, toccando picchi di elevata elaborazione narrativa e artistica e altri di ossequiosa routine, inaugurando ogni volta vere e proprie epoche con temi e personaggi di riferimento che hanno poi una ricaduta sui gusti e le aspettative comuni. Ci sono titoli che hanno contraddistinto questi intervalli e sono diventati punti di riferimento, come oggi appare Avatar, che potrebbe diventare una parola cult. E inaugurerà, forse, un nuovo genere, creando un immaginario collettivo in cui si rifletterà ancora una volta la forza attrattiva di mondi alternativi, una certa forma di spiritualismo ecologico oggi di moda e il timore, piuttosto diffuso, di una vera trascendenza.

Nel 1927, in concomitanza con la nascita ufficiale del termine scientific fiction (poi contratto in sci-fi), lo sviluppo urbano, la suddivisione in classi e il progresso tecnologico trovavano, nelle loro valenze etiche, la prima rappresentazione cinematografica con Metropolis, l'assoluto capolavoro espressionista di Fritz Lang. La città futura diverrà da allora protagonista e rappresentazione dei progressi e dei regressi della civiltà, fino a quel coacervo di architetture gigantesche, bagnate da pioggia incessante, che in Blade runner di Ridley Scott sono il luogo ideale per lo scontro uomo-macchina.

La celebrazione utopistica della tecnica avvenuta nel 1933 all'esposizione universale di Chicago ("Century of Progress"), comincerà però a trovare proprio nel cinema la sua antitesi, inaugurata con lo sfortunato e emblematico La vita futura di Cameron Menzies, su sceneggiatura addirittura di Herbert G. Wells, che si colora di una vena di anticapitalismo. Il sottotitolo - Nel 2000 guerra o pace - sinistramente sembrava porre un angoscioso dilemma che avrebbe sconvolto l'umanità ben prima di quella data. Ansie giustamente riflesse nell'epoca d'oro del cinema di fantascienza, il decennio 1950-1960, che crea tre opere classiche:  Il pianeta proibito di Fred McLeod Wilcox (dove il bene e il male si fronteggiano nella coscienza di uno scienziato), Ultimatum alla Terra di Robert Wise (alieno buono in versione liberal che mette in guardia un'umanità votata all'autodistruzione) e La cosa da un altro mondo di Nyby-Hawks (alieno cattivo che fagocita gli esseri umani, sintomo della paura del comunismo che  attanaglia  l'America di Mc Carthy).

Questi opposti si ritrovano in altri titoli indimenticabili, anche se per arrivare all'affermazione della bontà degli alieni (gli "altri", più o meno diversi e lontani) si dovranno attraversare strade impervie segnate da invasioni apocalittiche, metamorfosi subdole e bombe atomiche devastanti:  La guerra dei mondi di Byron Haskin, L'invasione degli ultracorpi di Don Siegel, L'ultima spiaggia di Stanley Kramer, Il pianeta delle scimmie di Franklin J. Shaffner. Insomma, una sequela di inquietudini e terrori (con doverosa autocritica) che culmina con il sanguinario ed esemplare Alien di Ridley Scott. A tutto questo hanno reagito due irriducibili ottimisti americani:  Steven Spielberg, con Incontri ravvicinati del terzo tipo ed ET, e George Lucas, con la serialità delle sue indimenticabili Star Wars, nelle quali l'epopea classica si colora abilmente di tinte contemporanee.

Ora non si sa se Cameron con Avatar, dall'alto dello splendore tecnologico già ampiamente celebrato, riuscirà a replicare quell'ammirazione e quello stupore, mai venuti meno, scatenati da 2001:  odissea nello spazio di Stanley Kubrick, uscito nel 1968. Sul piano estetico, formale, narrativo e tecnologico, si è trattato di una rivoluzione unica e inaspettata, in anticipo sui tempi. Questa fantascienza, dal sapore metafisico e visionario - che sarà ritentata soltanto da Andrej Tarkovskij, tre anni dopo, con Solaris, una fabula di sofisticata densità spirituale - rimane in sorprendente equilibrio tra vulnerabilità della scienza (la ribellione e morte del computer Hal 9000) e presenza del mistero (il monolite nero sospeso nel tempo e nello spazio, generatore di una nuova umanità), tra fiducia illuministica e afflato romantico. Il film non aveva avuto antenati. Nella sua forza geniale e innovativa non ha trovato, finora, alcun erede.



Costi enormi ed effetti speciali di ultima generazione per il film "Avatar" di James Cameron in uscita nelle sale italiane

Sotto le immagini ben poco


di Gaetano Vallini

Tanta stupefacente tecnologia da incantare, ma poche emozioni vere, emozioni umane per intendersi, in un mondo di alieni pur eccezionalmente immaginato e rappresentato. Tuttavia l'attesissimo film di James Cameron Avatar - che uscirà il 15 gennaio in Italia con un mese di ritardo rispetto al resto del mondo - non deluderà le aspettative degli appassionati del filone fantascientifico. Infatti con Avatar, la pellicola più costosa della storia (oltre 400 milioni di dollari, lancio compreso), la magia del cinema si rinnova in tutta la sua forza immaginifica.
 
Del resto la rilevanza del film sta nell'impatto visivo più che nella storia, piuttosto scontata, e nei messaggi peraltro non nuovi, già al centro, talvolta con ben altro spessore, di diverse pellicole alle quali il regista si richiama più o meno apertamente, da Piccolo grande uomo a Balla coi lupi, da Un uomo chiamato cavallo a Pocahontas.

L'innovativo 3D, unito alla rivoluzionaria tecnica performance capturing che coglie anche le espressioni degli attori per trasporle in animazione digitale, porta l'esperienza visiva a livelli mai visti. A cominciare dalla qualità dell'ambiente in cui si svolge l'azione, con una tridimensionalità che non punta a "bucare" lo schermo, ma a rendere la scena avvolgente, con una profondità che avvicina molto alla realtà e una maggiore nitidezza di dettagli. D'altra parte Cameron ha tenuto questo progetto nel cassetto per 10 anni - la prima idea è del 1995, la realizzazione è iniziata nel 2005 - proprio perché allora non c'erano i mezzi tecnici per rendere sullo schermo quanto da lui immaginato. E siccome è uno sperimentatore, il regista non si è limitato a usare tecniche di computer grafica già conosciute, ma ne ha inventate altre. E il risultato è affascinante.

La storia si svolge nel 2154. Protagonista è Jake Sully (Sam Worthington), un marine rimasto paralizzato alle gambe spedito sul pianeta Pandora, mondo primordiale ricco di materie prime preziose di cui gli umani vogliono impossessarsi e abitato dai Na'vi, giganteschi uomini blu, razza guerriera determinata a difendere il proprio territorio. Su Pandora non c'è ossigeno e gli uomini non potrebbero sopravvivere. Per avvicinare i nativi vengono utilizzati degli "avatar", Na'vi artificiali creati dalla scienziata Grace Augustine (Sigourney Weaver), che possono essere "indossati" da ospiti umani attraverso un travaso della coscienza. Per Jake è l'occasione per recuperare l'uso delle gambe e tornare in prima linea. Presto, però, il marine si innamora dell'indigena Neytiri (Zoë Saldana), comincia a comprendere la sua civiltà e le cose per cui lotta, finendo per passare dalla parte dei Na'vi e a combattere contro gli invasori umani.

Cameron punta, dunque, su un racconto di portata universale, facilmente condivisibile nella sua semplicità ed efficacia, che narra un evento più volte ripetutosi nella storia dell'umanità:  le violenze e i soprusi, non di rado sfociati in genocidio, compiuti da civiltà considerate più avanzate per soppiantare o sottomettere, per smania di potere e ancor più per interesse, le culture indigene. Un tema che negli Usa si riflette nel mito della frontiera e nella guerra dei bianchi contro le popolazioni dei nativi, ma che può essere fatto risalire ad altre colonizzazioni e adattabile anche a più recenti guerre.

Ma Cameron, più concentrato sulla creazione del fantastico mondo di Pandora, sceglie un approccio blando; racconta senza approfondire e finisce per cadere nel sentimentalismo. Il tutto si riduce a una parabola antimperialista e antimilitarista facile facile, appena abbozzata, che non ha lo stesso mordente di pellicole più impegnate su questo fronte. Analogamente il sotteso ecologismo si impantana in uno spiritualismo legato al culto della natura che ammicca non poco a una delle tante mode del tempo. La stessa identificazione dei distruttori con gli invasori e degli ambientalisti con gli indigeni appare poi una semplificazione che sminuisce la portata del problema.

Ciò detto, resta l'indubbio valore del film per il suo eccezionale impatto visivo. Se serviva una nuova frontiera per il cinema di fantascienza, Avatar l'ha segnata, spostandola molto in avanti. E il record di incassi - che peraltro appartiene a un altro lavoro di Cameron, Titanic (1997) - potrebbe essere superato. Del resto lo spettacolo vale il prezzo del biglietto.



 

La religione di Pandora


Pubblichiamo quasi integralmente un articolo apparso sul sito in rete della rivista "Mondo e Missione" (www.missionline.org ).

di Lorenzo Fazzini


La pellicola di James Cameron ha fatto discutere, e molto, anche per il suo rapporto con la religione. La domanda potrebbe suonare così:  di quale religione è Avatar? A dar fuoco alle polveri è stato il commentatore di religious affairs del "New York Times", Ross Douthat, che dalle colonne del quotidiano liberal l'estate scorsa aveva promosso a pieni voti la Caritas in veritate di Benedetto XVI.

Secondo Douthat, Avatar presenta "un'apologia del panteismo, una fede che rende Dio uguale alla Natura, e chiama l'umanità a una comunione religiosa con il mondo naturale".
Il commentatore ricorda come questa visione religiosa sia una sorta di cavallo di battaglia dell'Hollywood più recente. Per Douthat la scelta panteista di Cameron, e dell'industria cinematografica Usa in generale, continua su questa strada perché "milioni di americani vi hanno risposto in maniera positiva". E come riconosceva già nell'Ottocento il filosofo francese Alexis de Tocqueville, "il credo americano nell'essenziale unità del genere umano ci porta ad annullare ogni distinzione nella creazione. Il panteismo apre la strada a un'esperienza del divino per la gente che non si sente a proprio agio con la prospettiva scritturistica delle religioni monoteistiche".

All'editorialista hanno replicato diversi osservatori. Sul cliccatissimo giornale online "Huffington Post" Jay Michaelson ha corretto l'interpretazione di panteismo per Avatar, parlando invece di "visione unitaria dell'Essere". "I panteisti non pregano, i panessenzialisti sì, come avviene in Avatar", suona la precisazione di Michaelson. Un'altra interpretazione viene dal blog "politicsdaily.com", a firma di Jeffrey Weiss, che invece ha deteologicizzato l'opera di Cameron, affibiandole la qualifica di "allegoria di carattere neurologico, non teologico":  "Il film tende a fare in modo che lo spettatore pensi al modo in cui vuole trattare le persone con cui vive, i valori e le abitudini diverse dalle proprie".

Dall'Oriente arrivano interpretazioni ancora più "teologiche". Il quotidiano "Hindustan Times" ha ospitato una recensione in cui riconosce che i personaggi alieni che abitano Pandora "sono di colore blu, non molto diversi dalle immagini popolari di Shiva", una delle principali divinità induiste.

A dar man forte all'interpretazione indù del kolossal - che in pratica si sposa bene con la visione panteista del "New York Times" - è anche il sito di "Hinduism Today", in un articolo dal titolo che più chiaro non si può:  "Il nuovo film Avatar getta luce su una parola indù". Scrive l'articolista:  "La teologia indù elenca dieci tipi di avatar. Le origini di questa parola vengono dal sanscrito dei sacri testi indù ed è un termine per gli esseri divini mandati a ristabilire la divinità sulla Terra".
Il sito dà voce a un fedele induista, Anil Dandona:  "Il modo in cui la parola avatar viene usata nel film non è una distorsione della mia fede. È appropriato. Noi crediamo nell'Essere Supremo mandato presso gli uomini per creare la giustizia. Questi messaggeri di Dio prendono forme umani, ma hanno qualità divine".

E il cristianesimo, è assente da Avatar? Mark Silk, sul blog "SpiritualPolitics", rintraccia il nome "cristiano" di un personaggio del film:  Grace Augustine, che per Silk fa riferimento al santo di Ippona e al concetto cristiano di "grazia". Sarà Grace a spiegare al protagonista, l'ex marine Jake Sully, i significati nascosti del mondo di Avatar, come quello di "rinascere due volte", che Silk rilegge cristianamente secondo il dettato evangelico dei born again. "Per questo - conclude il blogger di "SpiritualPolitics" - è possibile affermare che Cameron ha unito la vecchia teologia cristiana della grazia e della redenzione alla sua parabola anti-imperialista". Il dibattito, come si vede, è più aperto che mai.

 




(©L'Osservatore Romano - 10 gennaio 2010)

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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13/01/2010 11:07
 
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dal NEW YORK TIMES una riflessione su "Avatar"

E’ del tutto appropriato che il film di James Cameron, “Avatar” giunga sugli schermi nel periodo natalizio. Come l’intera stagione delle feste anche l’epica fantascientifica è la grossolana esemplificazione degli eccessi del capitalismo avvolta attorno ad un profondo messaggio religioso. Così Avatar è allo stesso tempo il blockbuster di tutti i blockbuster e il Vangelo Secondo James.

Non però il Vangelo cristiano. Piuttosto Avatar è l’apologia cameroniana del panteismo, quella fede che equipara Dio con la Natura e chiama l’umanità alla comunione con il mondo che la circonda.

Nell’universo fantascientifico di Cameron, questa comunione è impersonata dai Na’Vi, una razza aliena dalla pelle blu e dalle forme armoniose che vive un’esistenza idilliaca sul pianeta Pandora ed è minacciata dall’invasore umano. I Na’Vi vengono salvati dall’eroe del film, un Marine rinnegato, ma in loro soccorso si aggiunge la fede in Eywa, la “Madre di tutto”, descritta variamente come una rete di energia o come la somma di tutti i viventi.

Se questo impianto narrativo suona familiare è perché il panteismo è stata la religione ufficiale di Hollywood ormai da una generazione. E’ la verità che Kevin Costner scopre ballando con i lupi. E’ la metafisica intessuta nei cartoni animati di Disney come “Il Re Leone” e “Pocahontas”. Ed è il dogma degli Jedi di George Lucas, la cui mistica Forza “ci circonda, ci penetra e tiene insieme la galassia”.

Hollywood continua a tornare su questi temi perché milioni di americani mostrano di gradirli. Da Deepak Chopra a Eckhart Tolle, la sezione “religione e spiritualità” di ogni libreria di quartiere è traboccante di titoli che spingono il messaggio panteistico. In un recente sondaggio del Pew Forum su come gli americani mescolano e rimaneggiano la teologia si vede che molti auto-dichiarati “cristiani” credono all’energia spirituale degli alberi e delle montagne proprio come i pelle-blù di Na’Vi.

Come sempre, Alexis di Tocqueville l’aveva previsto. Il credo americano sulla sostanziale unità di tutto il genere umano, scriveva Tocqueville nel 1830, conduce al collasso delle distinzioni ad ogni livello del creato. “Non contento della scoperta che nel mondo esiste solo la creazione e il Creatore, l’uomo democratico cerca di semplificare ed espandere il suo punto di vista includendo Dio e l’universo in un unico grande insieme”.

Allo stesso tempo, il panteismo apre un cammino verso esperienze mistiche per persone poco a loro agio con la letteralità delle religione monoteistiche: tutti quei santi che fanno miracoli, libri sacri, nascite virginali e corpi risorti. Come ha notato il filosofo polacco Leszek Kolakowski, attibuire divinità al mondo naturale “aiuta a portare Dio più vicino all’esperienza umana”, e insieme “a impoverirlo di tratti personali riconoscibili”. Per chiunque in cerca di trascendenza ma refrattario all’idea di un Onnipotente che interferisce con le cose umane, si tratta di una combinazione ideale.

D’altronde il panteismo rappresenta una forma di religione che persino gli atei possono ammettere. Richard Dawkins ha definito il panteismo “un ateismo un po’ più eccitante” (lui lo intende come un complimento). Sam Harris conclude il suo polemico “The End of Faith” con un elegiaca descrizione dell’esperienza mistica collegata “all’immersione nell’inquietante mistero del mondo”. E, citando l’espressione di stupore religioso di Albert Einstein davanti alla “sublime bellezza dell’universo”, Dawkins ammette: “in questo senso sono religioso anch’io”.

La domanda a questo punto è se la Natura meriti una risposta religiosa. La teologia tradizionale deve combattere con il problema del male: se Dio è bontà, perché permette sofferenza e morte? Ma la Natura è sofferenza e morte. La sua stessa armonia richiede la violenza. Il suo “cerchio della vita” è in realtà un ciclo di mortalità. E le società umane che più aderiscono alla dimensione naturale non somigliano allo sfavillante eden di James Cameron. Sono invece posti dove l’esistenza è cattiva, breve e brutale.

Le religioni esistono anche perché gli uomini non si sentono a loro agio dinanzi alla violenza dei ritmi naturali. Noi ci collochiamo metà dentro e metà fuori rispetto alla Natura. Siamo animali autocoscienti, predatori con un’etica, creature mortali che aspirano all’immortalità.

E’ una posizione dolorosa, e se non c’è via di fuga verso l’alto – o se non c’è un Dio che si fa di carne e viene in mezzo a noi, come racconta la storia del Natale – anche profondamente tragica.

Il panteismo offre una soluzione diversa: un’uscita verso il basso, un abbandono della nostra tragica autocoscienza, un rimescolamento con quel mondo naturale da cui i nostri antenati sono per metà fuggiti millenni orsono.

Ma salvo che come cenere e polvere la Natura non può riaverci del tutto.

www.nytimes.com/2009/12/21/opinion/21douthat1.html?_r=3&partner=rssnyt...

Fraternamente CaterinaLD

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(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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26/02/2010 02:17
 
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Guardate che il panteismo c'è anche in Guerre Stellari, e nessuno ha mai detto nulla...
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