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IL PRIMATO DEL SUCCESSORE DI PIETRO NEL MISTERO DELLA CHIESA

Ultimo Aggiornamento: 05/07/2013 09:17
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CONSIDERAZIONI DELLA
CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE
RIGUARDO GLI ATTI DEL SIMPOSIO SU
IL PRIMATO DEL SUCCESSORE DI PIETRO NEL MISTERO DELLA CHIESA





La Congregazione per la Dottrina della Fede, proseguendo l’approfondimento della tematica riguardante Il Primato del Successore di Pietro nel mistero della Chiesa, tema del Simposio svoltosi in Vaticano dal 2 al 4 dicembre 1996, di cui sono stati appena pubblicati gli Atti a cura della Libreria Editrice Vaticana, propone le Considerazioni che riportiamo di seguito:

1. Nell'attuale momento della vita della Chiesa, la questione del Primato di Pietro e dei Suoi Successori presenta una singolare rilevanza, anche ecumenica. In questo senso si è espresso con frequenza Giovanni Paolo II, in modo particolare nell'Enciclica Ut unum sint, nella quale ha voluto rivolgere specialmente ai pastori ed ai teologi l'invito a «trovare una forma di esercizio del Primato che, pur non rinunciando in nessun modo all'essenziale della sua missione, si apra a una situazione nuova(1).

La Congregazione per la Dottrina della Fede, accogliendo l'invito del Santo Padre, ha deciso di proseguire l'approfondimento della tematica convocando un simposio di natura prettamente dottrinale su Il Primato del Successore di Pietro, che si è svolto in Vaticano dal 2 al 4 dicembre 1996, e di cui sono stati pubblicati gli Atti(2).

2. Nel Messaggio rivolto ai partecipanti al simposio, il Santo Padre ha scritto: «La Chiesa Cattolica è consapevole di aver conservato, in fedeltà alla Tradizione Apostolica e alla fede dei Padri, il ministero del Successore di Pietro(3). Esiste infatti una continuità lungo la storia della Chiesa nello sviluppo dottrinale sul Primato. Nel redigere il presente testo, che compare in appendice al suddetto volume degli Atti(4), la Congregazione per la Dottrina della Fede si è avvalsa dei contributi degli studiosi, che hanno preso parte al simposio, senza però intendere offrirne una sintesi né addentrarsi in questioni aperte a nuovi studi. Queste "Considerazioni" - a margine del Simposio - vogliono solo ricordare i punti essenziali della dottrina cattolica sul Primato, grande dono di Cristo alla sua Chiesa in quanto servizio necessario all'unità e che è stato anche spesso, come dimostra la storia, una difesa della libertà dei Vescovi e delle Chiese particolari di fronte alle ingerenze del potere politico.



I

ORIGINE, FINALITA E NATURA DEL PRIMATO


3. «Primo Simone, chiamato Pietro(5). Con questa significativa accentuazione della primazia di Simon Pietro, San Matteo introduce nel suo Vangelo la lista dei Dodici Apostoli, che anche negli altri due Vangeli sinottici e negli Atti inizia con il nome di Simone(6). Questo elenco, dotato di grande forza testimoniale, ed altri passi evangelici(7) mostrano con chiarezza e semplicità che il canone neotestamentario ha recepito le parole di Cristo relative a Pietro ed al suo ruolo nel gruppo dei Dodici(8). Perciò, già nelle prime comunità cristiane, come più tardi in tutta la Chiesa, l'immagine di Pietro è rimasta fissata come quella dell'Apostolo che, malgrado la sua debolezza umana, fu costituito espressamente da Cristo al primo posto fra i Dodici e chiamato a svolgere nella Chiesa una propria e specifica funzione. Egli è la roccia sulla quale Cristo edificherà la sua Chiesa(9); è colui che, una volta convertito, non verrà meno nella fede e confermerà i fratelli(10); è, infine, il Pastore che guiderà l'intera comunità dei discepoli del Signore(11).

Nella figura, nella missione e nel ministero di Pietro, nella sua presenza e nella sua morte a Roma -attestate dalla più antica tradizione letteraria e archeologica- la Chiesa contempla una profonda realtà, che è in rapporto essenziale con il suo stesso mistero di comunione e di salvezza: «Ubi Petrus, ibi ergo Ecclesia(12). La Chiesa, fin dagli inizi e con crescente chiarezza, ha capito che come esiste la successione degli Apostoli nel ministero dei Vescovi, così anche il ministero dell'unità, affidato a Pietro, appartiene alla perenne struttura della Chiesa di Cristo e che questa successione è fissata nelle sede del suo martirio.

4. Basandosi sulla testimonianza del Nuovo Testamento, la Chiesa Cattolica insegna, come dottrina di fede, che il Vescovo di Roma è Successore di Pietro nel suo servizio primaziale nella Chiesa universale(13); questa successione spiega la preminenza della Chiesa di Roma(14), arricchita anche dalla predicazione e dal martirio di San Paolo.

Nel disegno divino sul Primato come «ufficio dal Signore concesso singolarmente a Pietro, il primo degli Apostoli, e da trasmettersi ai suoi successori(15), si manifesta già la finalità del carisma petrino, ovvero «l'unità di fede e di comunione(16) di tutti i credenti. Il Romano Pontefice infatti, quale Successore di Pietro, è «perpetuo e visibile principio e fondamento dell'unità sia dei Vescovi sia della moltitudine dei fedeli(17), e perciò egli ha una grazia ministeriale specifica per servire quell'unità di fede e di comunione che è necessaria per il compimento della missione salvifica della Chiesa(18).

5. La Costituzione Pastor aeternus del Concilio Vaticano I indicò nel prologo la finalità del Primato, dedicando poi il corpo del testo a esporre il contenuto o ámbito della sua potestà propria. Il Concilio Vaticano II, da parte sua, riaffermando e completando gli insegnamenti del Vaticano I(19) ha trattato principalmente il tema della finalità, con particolare attenzione al mistero della Chiesa come Corpus Ecclesiarum(20). Tale considerazione permise di mettere in rilievo con maggiore chiarezza che la funzione primaziale del Vescovo di Roma e la funzione degli altri Vescovi non si trovano in contrasto ma in un'originaria ed essenziale armonia(21).

Perciò, «quando la Chiesa Cattolica afferma che la funzione del Vescovo di Roma risponde alla volontà di Cristo, essa non separa questa funzione dalla missione affidata all'insieme dei Vescovi, anch'essi "vicari e legati di Cristo" (Lumen gentium, n. 27). Il Vescovo di Roma appartiene al loro collegio ed essi sono i suoi fratelli nel ministero(22). Si deve anche affermare, reciprocamente, che la collegialità episcopale non si contrappone all'esercizio personale del Primato né lo deve relativizzare.

6. Tutti i Vescovi sono soggetti della sollicitudo omnium Ecclesiarum(23) in quanto membri del Collegio episcopale che succede al Collegio degli Apostoli, di cui ha fatto parte anche la straordinaria figura di San Paolo. Questa dimensione universale della loro episkopè (sorveglianza) è inseparabile dalla dimensione particolare relativa agli uffici loro affidati(24). Nel caso del Vescovo di Roma -Vicario di Cristo al modo proprio di Pietro come Capo del Collegio dei Vescovi(25)-, la sollicitudo omnium Ecclesiarum acquista una forza particolare perché è accompagnata dalla piena e suprema potestà nella Chiesa(26): una potestà veramente episcopale, non solo suprema, piena e universale, ma anche immediata, su tutti, sia pastori che altri fedeli(27). Il ministero del Successore di Pietro, perciò, non è un servizio che raggiunge ogni Chiesa particolare dall'esterno, ma è iscritto nel cuore di ogni Chiesa particolare, nella quale «è veramente presente e agisce la Chiesa di Cristo(28), e per questo porta in sé l'apertura al ministero dell'unità. Questa interiorità del ministero del Vescovo di Roma a ogni Chiesa particolare è anche espressione della mutua interiorità tra Chiesa universale e Chiesa particolare(29).

L'Episcopato e il Primato, reciprocamente connessi e inseparabili, sono d'istituzione divina. Storicamente sono sorte, per istituzione della Chiesa, forme di organizzazione ecclesiastica nelle quali si esercita pure un principio di primazia. In particolare, la Chiesa Cattolica è ben consapevole della funzione delle sedi apostoliche nella Chiesa antica, specialmente di quelle considerate Petrine -Antiochia ed Alessandria- quali punti di riferimento della Tradizione apostolica, intorno a cui si è sviluppato il sistema patriarcale; questo sistema appartiene alla guida della Provvidenza ordinaria di Dio sulla Chiesa, e reca in sé, dagli inizi, il nesso con la tradizione petrina(30).



II

L'ESERCIZIO DEL PRIMATO E LE SUE MODALITA'


7. L'esercizio del ministero petrino deve essere inteso -perché «nulla perda della sua autenticità e trasparenza(31)- a partire dal Vangelo, ovvero dal suo essenziale inserimento nel mistero salvifico di Cristo e nell'edificazione della Chiesa. Il Primato differisce nella propria essenza e nel proprio esercizio dagli uffici di governo vigenti nelle società umane(32): non è un ufficio di coordinamento o di presidenza, né si riduce ad un Primato d'onore, né può essere concepito come una monarchia di tipo politico.

Il Romano Pontefice è -come tutti i fedeli- sottomesso alla Parola di Dio, alla fede cattolica ed è garante dell'obbedienza della Chiesa e, in questo senso, servus servorum. Egli non decide secondo il proprio arbitrio, ma dà voce alla volontà del Signore, che parla all'uomo nella Scrittura vissuta ed interpretata dalla Tradizione; in altri termini, la episkopè del Primato ha i limiti che procedono dalla legge divina e dall'inviolabile costituzione divina della Chiesa contenuta nella Rivelazione(33). Il Successore di Pietro è la roccia che, contro l'arbitrarietà e il conformismo, garantisce una rigorosa fedeltà alla Parola di Dio: ne segue anche il carattere martirologico del suo Primato.

8. Le caratteristiche dell'esercizio del Primato devono essere comprese soprattutto a partire da due premesse fondamentali: l'unità dell'Episcopato e il carattere episcopale del Primato stesso. Essendo l'Episcopato una realtà «una e indivisa(34), il Primato del Papa comporta la facoltà di servire effettivamente l'unità di tutti i Vescovi e di tutti i fedeli, e «si esercita a svariati livelli, che riguardano la vigilanza sulla trasmissione della Parola, sulla celebrazione sacramentale e liturgica, sulla missione, sulla disciplina e sulla vita cristiana(35); a questi livelli, per volontà di Cristo, tutti nella Chiesa -i Vescovi e gli altri fedeli- debbono obbedienza al Successore di Pietro, il quale è anche garante della legittima diversità di riti, discipline e strutture ecclesiastiche tra Oriente ed Occidente.

9. Il Primato del Vescovo di Roma, considerato il suo carattere episcopale, si esplica, in primo luogo, nella trasmissione della Parola di Dio; quindi esso include una specifica e particolare responsabilità nella missione evangelizzatrice(36), dato che la comunione ecclesiale è una realtà essenzialmente destinata ad espandersi: «Evangelizzare è la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda(37).

Il compito episcopale che il Romano Pontefice ha nei confronti della trasmissione della Parola di Dio si estende anche all'interno di tutta la Chiesa. Come tale, esso è un ufficio magisteriale supremo e universale(38); è una funzione che implica un carisma: una speciale assistenza dello Spirito Santo al Successore di Pietro, che implica anche, in certi casi, la prerogativa dell'infallibilit(39). Come «tutte le Chiese sono in comunione piena e visibile, perché tutti i pastori sono in comunione con Pietro, e così nell'unità di Cristo(40), allo stesso modo i Vescovi sono testimoni della verità divina e cattolica quando insegnano in comunione con il Romano Pontefice(41).

10. Insieme alla funzione magisteriale del Primato, la missione del Successore di Pietro su tutta la Chiesa comporta la facoltà di porre gli atti di governo ecclesiastico necessari o convenienti per promuovere e difendere l'unità di fede e di comunione; tra questi si consideri, ad esempio: dare il mandato per l'ordinazione di nuovi Vescovi, esigere da loro la professione di fede cattolica; aiutare tutti a mantenersi nella fede professata. Come è ovvio, vi sono molti altri possibili modi, più o meno contingenti, di svolgere questo servizio all'unità: emanare leggi per tutta la Chiesa, stabilire strutture pastorali a servizio di diverse Chiese particolari, dotare di forza vincolante le decisioni dei Concili particolari, approvare istituti religiosi sopradiocesani, ecc.Per il carattere supremo della potestà del Primato, non v'è alcuna istanza cui il Romano Pontefice debba rispondere giuridicamente dell'esercizio del dono ricevuto: «prima sedes a nemine iudicatur(42). Tuttavia, ciò non significa che il Papa abbia un potere assoluto. Ascoltare la voce delle Chiese è, infatti, un contrassegno del ministero dell'unità, una conseguenza anche dell'unità del Corpo episcopale e del sensus fidei dell'intero Popolo di Dio; e questo vincolo appare sostanzialmente dotato di maggior forza e sicurezza delle istanze giuridiche -ipotesi peraltro improponibile, perché priva di fondamento- alle quali il Romano Pontefice dovrebbe rispondere. L'ultima ed inderogabile responsabilità del Papa trova la migliore garanzia, da una parte, nel suo inserimento nella Tradizione e nella comunione fraterna e, dall'altra, nella fiducia nell'assistenza dello Spirito Santo che governa la Chiesa.

11. L'unità della Chiesa, al servizio della quale si pone in modo singolare il ministero del Successore di Pietro, raggiunge la più alta espressione nel Sacrificio Eucaristico, il quale è centro e radice della comunione ecclesiale; comunione che si fonda anche necessariamente sull'unità dell'Episcopato. Perciò, «ogni celebrazione dell'Eucaristia è fatta in unione non solo con il proprio Vescovo ma anche con il Papa, con l'ordine episcopale, con tutto il clero e con l'intero popolo. Ogni valida celebrazione dell'Eucaristia esprime questa universale comunione con Pietro e con l'intera Chiesa, oppure oggettivamente la richiama(43), come nel caso delle Chiese che non sono in piena comunione con la Sede Apostolica.

12. «La Chiesa pellegrinante, nei suoi sacramenti e nelle sue istituzioni, che appartengono all'età presente, porta la figura fugace di questo mondo(44). Anche per questo, l'immutabile natura del Primato del Successore di Pietro si è espressa storicamente attraverso modalità di esercizio adeguate alle circostanze di una Chiesa pellegrinante in questo mondo mutevole.

I contenuti concreti del suo esercizio caratterizzano il ministero petrino nella misura in cui esprimono fedelmente l'applicazione alle circostanze di luogo e di tempo delle esigenze della finalità ultima che gli è propria (l'unità della Chiesa). La maggiore o minore estensione di tali contenuti concreti dipenderà in ogni epoca storica dalla necessitas Ecclesiae. Lo Spirito Santo aiuta la Chiesa a conoscere questa necessitas ed il Romano Pontefice, ascoltando la voce dello Spirito nelle Chiese, cerca la risposta e la offre quando e come lo ritiene opportuno.

Di conseguenza, non è cercando il minimo di attribuzioni esercitate nella storia che si può determinare il nucleo della dottrina di fede sulle competenze del Primato. Perciò, il fatto che un determinato compito sia stato svolto dal Primato in una certa epoca non significa da solo che tale compito debba necessariamente essere sempre riservato al Romano Pontefice; e, viceversa, il solo fatto che una determinata funzione non sia stata esercitata in precedenza dal Papa non autorizza a concludere che tale funzione non possa in alcun modo esercitarsi in futuro come competenza del Primato.

13. In ogni caso, è fondamentale affermare che il discernimento circa la congruenza tra la natura del ministero petrino e le eventuali modalità del suo esercizio è un discernimento da compiersi in Ecclesia, ossia sotto l'assistenza dello Spirito Santo e in dialogo fraterno del Romano Pontefice con gli altri Vescovi, secondo le esigenze concrete della Chiesa. Ma, allo stesso tempo, è chiaro che solo il Papa (o il Papa con il Concilio ecumenico) ha, come Successore di Pietro, l'autorità e la competenza per dire l'ultima parola sulle modalità di esercizio del proprio ministero pastorale nella Chiesa universale.



* * *

14. Nel ricordare i punti essenziali della dottrina cattolica sul Primato del Successore di Pietro, la Congregazione per la Dottrina della Fede è certa che la riaffermazione autorevole di tali acquisizioni dottrinali offre maggior chiarezza sulla via da proseguire. Tale richiamo è utile, infatti, anche per evitare le ricadute sempre nuovamente possibili nelle parzialità e nelle unilateralità già respinte dalla Chiesa nel passato (febronianesimo, gallicanesimo, ultramontanismo, conciliarismo, ecc). E, soprattutto, vedendo il ministero del Servo dei servi di Dio come un grande dono della misericordia divina alla Chiesa, troveremo tutti -con la grazia dello Spirito Santo- lo slancio per vivere e custodire fedelmente l'effettiva e piena unione con il Romano Pontefice nel quotidiano camminare della Chiesa, secondo il modo voluto da Cristo(45).

15. La piena comunione voluta dal Signore tra coloro che si confessano suoi discepoli richiede il riconoscimento comune di un ministero ecclesiale universale «nel quale tutti i Vescovi si riconoscano uniti in Cristo e tutti i fedeli trovino la conferma della propria fede(46). La Chiesa Cattolica professa che questo ministero è il ministero primaziale del Romano Pontefice, Successore di Pietro, e sostiene con umiltà e con fermezza «che la comunione delle Chiese particolari con la Chiesa di Roma, e dei loro Vescovi con il Vescovo di Roma, è un requisito essenziale -nel disegno di Dio- della comunione piena e visibile(47). Non sono mancati nella storia del Papato errori umani e mancanze anche gravi: Pietro stesso, infatti, riconosceva di essere peccatore(48). Pietro, uomo debole, fu eletto come roccia, proprio perché fosse palese che la vittoria è soltanto di Cristo e non risultato delle forze umane. Il Signore volle portare in vasi fragili(49) il proprio tesoro attraverso i tempi: così la fragilità umana è diventata segno della verità delle promesse divine.

Quando e come si raggiungerà la tanto desiderata mèta dell'unità di tutti i cristiani? «Come ottenerlo? Con la speranza nello Spirito, che sa allontanare da noi gli spettri del passato e le memorie dolorose della separazione; Egli sa concederci lucidità, forza e coraggio per intraprendere i passi necessari, in modo che il nostro impegno sia sempre più autentico(50). Siamo tutti invitati ad affidarci allo Spirito Santo, ad affidarci a Cristo, affidandoci a Pietro.

+ JOSEPH Card. RATZINGER
Prefetto

+ TARCISIO BERTONE
Arcivescovo emerito di Vercelli
Segretario



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(1) GIOVANNI PAOLO II, Lett. Enc. Ut unum sint, 25-V-1995, n. 95.

(2) Il Primato del Successore di Pietro, Atti del Simposio teologico, Roma 2-4 dicembre 1996, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1998.

(3) GIOVANNI PAOLO II, Lettera al Cardinale Joseph Ratzinger,in Ibid, p. 20.

(4) Il Primato del Successore di Pietro nel mistero della Chiesa, Considerazioni della Congregazione per la Dottrina della Fede, in Ibid, Appendice, pp. 493-503. Il testo è pubblicato anche in un apposito fascicolo, edito dalla Libreria Editrice Vaticana.

(5) Mt 10, 2.

(6) Cfr. Mc 3, 16; Lc 6, 14; At 1, 13.

(7) Cfr. Mt 14, 28-31; 16, 16-23 e par.; 19, 27-29 e par.; 26, 33-35 e par.; Lc 22, 32; Gv 1, 42; 6, 67-70; 13, 36-38; 21, 15-19.

(8) La testimonianza per il ministero petrino si trova in tutte le espressioni, pur differenti, della tradizione neotestamentaria, sia nei Sinottici -qui con tratti diversi in Matteo e in Luca, come anche in San Marco-, sia nel corpo Paolino e nella tradizione Giovannea, sempre con elementi originali, differenti quanto agli aspetti narrativi ma profondamente concordanti nel significato essenziale. Questo è un segno che la realtà Petrina fu considerata come un dato costitutivo della Chiesa.

(9) Cfr. Mt 16, 18.

(10) Cfr. Lc 22, 32.

(11) Cfr. Gv 21, 15-17. Sulla testimonianza neotestamentaria sul Primato, cfr. anche GIOVANNI PAOLO II, Lett. Enc. Ut unum sint, nn. 90 ss.

(12) S. AMBROGIO DI MILANO, Enarr. in Ps., 40, 30: PL 14, 1134.

(13) Cfr. ad esempio S. SIRICIO I, Lett. Directa ad decessorem, 10-II-385: Denz-Hün, n. 181; CONC. DI LIONE II, Professio fidei di Michele Paleologo, 6-VII-1274: Denz-Hün, n. 861; CLEMENTE VI, Lett. Super quibusdam, 29-IX-1351: Denz-Hün, n. 1053; CONC. DI FIRENZE, Bolla Laetentur caeli, 6-VII-1439: Denz-Hün, n. 1307; PIO IX, Lett. Enc. Qui pluribus, 9-XI-1846: Denz-Hün, n. 2781; CONC. VATICANO I, Cost. dogm. Pastor aeternus, cap. 2: Denz-Hün, nn. 3056-3058; CONC. VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium, cap. III, nn. 21-23; CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA, n. 882; ecc.

(14) Cfr. S. IGNAZIO D'ANTIOCHIA, Epist. ad Romanos, Intr.: SChr 10, 106-107; S. IRENEO DI LIONE, Adversus haereses, III, 3, 2: SChr 211, 32-33.

(15) CONC. VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium, n. 20.

(16) CONC. VATICANO I, Cost. dogm. Pastor aeternus, proemio: Denz-Hün, n. 3051. Cfr. S. LEONE I MAGNO, Tract. in Natale eiusdem, IV, 2: CCL 138, p. 19.

(17) CONC. VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium, n. 23. Cfr. CONC. VATICANO I, Cost. dogm. Pastor aeternus, proemio: Denz-Hün, n. 3051; GIOVANNI PAOLO II, Enc. Ut unum sint, n. 88. Cfr. PIO IX, Lett. del S. Uffizio ai Vescovi d'Inghilterra, 16-IX-1864: Denz-Hün, n. 2888; LEONE XIII, Lett. Enc. Satis cognitum, 29-VI-1896: Denz-Hün, nn. 3305-3310.

(18) Cfr. Gv 17, 21-23; CONC. VATICANO II, Decr. Unitatis redintegratio, n. 1; PAOLO VI, Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 8-XII-1975, n. 77: AAS 68 (1976) 69; GIOVANNI PAOLO II, Lett. Enc. Ut unum sint, n. 98.

(19) Cfr. CONC. VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium, n. 18.

(20) Cfr. ibidem, n. 23.

(21) Cfr. CONC. VATICANO I, Cost. dogm. Pastor aeternus, cap. 3: Denz-Hün, n. 3061; cfr. Dichiarazione collettiva dei Vescovi tedeschi, genn.-febbr. 1875: Denz-Hün, nn. 3112-3113; LEONE XIII, Lett. Enc. Satis cognitum, 29-VI-1896: Denz-Hün, n. 3310; CONC. VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium , n. 27. Come spiegò PIO IX nell'Allocuzione dopo la promulgazione della Costituzione Pastor aeternus: «Summa ista Romani Pontificis auctoritas, Venerabiles Fratres, non opprimit sed adiuvat, non destruit sed aedificat, et saepissime confirmat in dignitate, unit in caritate, et Fratrum, scilicet Episcoporum, jura firmat atque tuetur» (Mansi 52, 1336 A/B).

(22) GIOVANNI PAOLO II, Lett. Enc. Ut unum sint, n. 95.

(23) 2 Cor 11, 28.

(24) La priorità ontologica che la Chiesa universale, nel suo essenziale mistero, ha rispetto ad ogni singola Chiesa particolare (cfr. CONGR. PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lett. Communionis notio, 28-V-1992, n. 9) sottolinea anche l'importanza della dimensione universale del ministero di ogni Vescovo.

(25) Cfr. CONC. VATICANO I, Cost. dogm. Pastor aeternus, cap. 3: Denz-Hün, n. 3059; CONC. VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium, n. 22; cfr. CONC. DI FIRENZE, Bolla Laetentur caeli, 6-VII-1439: Denz-Hün, n. 1307.

(26) Cfr. CONC. VATICANO I Cost. dogm. Pastor aeternus, cap. 3: Denz-Hün, nn. 3060.3064.

(27) Cfr. Ibidem; CONC. VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium, n. 22.

(28) CONC. VATICANO II, Decr. Christus Dominus, n. 11.

(29) Cfr. CONGR. PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lett. Communionis notio, n. 13.

(30) Cfr. CONC. VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium, n. 23; Decr. Orientalium Ecclesiarum, nn. 7 e 9.

(31) GIOVANNI PAOLO II, Lett. Enc. Ut unum sint, n. 93.

(32) Cfr. ibidem, n. 94.

(33) Cfr. Dichiarazione collettiva dei Vescovi tedeschi, genn.-febbr. 1875: Denz-Hün, n. 3114.

(34) CONC. VATICANO I, Cost. dogm. Pastor aeternus, proemio: Denz-Hün, n. 3051.

(35) GIOVANNI PAOLO II, Lett. Enc. Ut unum sint, n. 94.

(36) Cfr. CONC. VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium, n. 23; LEONE XIII, Lett. Enc. Grande munus, 30-IX-1880: ASS 13 (1880) 145; CIC can. 782 § 1.

(37) PAOLO VI, Esort. ap. Evangelii nuntiandi, n. 14. Cfr. CIC can. 781.

(38) Cfr. CONC. VATICANO I, Cost. dogm. Pastor aeternus, cap. 4: Denz-Hün, nn. 3065-3068.

(39) Cfr. ibidem: Denz-Hün, nn. 3073-3074; CONC. VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium, n. 25; CIC can 749 § 1; CCEO can. 597 § 1.

(40) GIOVANNI PAOLO II, Lett. Enc. Ut unum sint, n. 94.

(41) Cfr. CONC. VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium, n. 25.

(42) CIC, can. 1404; CCEO, can. 1058. Cfr. CONC. VATICANO I, Cost. dogm. Pastor aeternus, cap. 3: Denz-Hün, n. 3063.

(43) CONGR. PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lett. Communionis notio, n. 14. Cfr. CATECHI SMO DELLA CHIESA CATTOLICA, n. 1369.

(44) CONC. VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium, n. 48.

(45) Cfr. CONC. VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium, n. 15.

(46) GIOVANNI PAOLO II, Lett. Enc. Ut unum sint, n. 97.

(47) Ibidem.

(48) Cfr. Lc 5, 8.

(49) Cfr. 2 Cor 4, 7.

(50) GIOVANNI PAOLO II, Lett. Enc. Ut unum sint, n. 102.
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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La pienezza dei poteri del Vicario di Cristo nella Chiesa del Duecento

Il rosso e il bianco


Nell'ambito dell'"Anno giubilare celestiniano" il 20 marzo si è tenuto a Sulmona un convegno sul tema "L'esperienza di Pietro del Morrone in un secolo fervido e tormentato", primo di una serie di incontri che si concluderanno in ottobre a L'Aquila. Pubblichiamo la relazione d'apertura.

di Agostino Paravicini Bagliani

Nella plurisecolare storia del papato il Duecento occupa uno spazio di notevolissimo rilievo. A tutti i livelli - religiosi, ecclesiologici, istituzionali e politici, ma anche culturali, giurisdizionali e di autorappresentazione - i Papi di quel secolo hanno conferito al papato un ruolo di assoluta centralità in seno alla cristianità. I problemi della società cristiana furono discussi da tre concili, celebrati a Roma (Lateranense IV, 1215) e a Lione (Lione I, 1245; Lione II, 1274), che contribuirono a consolidare il ruolo legislativo promosso da Pontefici che erano sovente maestri di diritto e la cui produzione di decretali irrigò le varie diocesi della cristianità e l'insegnamento del diritto presso le maggiori università europee, anzitutto quelle di Bologna e di Parigi, la cui storia è nel Duecento indissociabile da quella del papato.
 
Il papato duecentesco è presente in tutte le grandi questioni che attraversano la società di quel tempo, dalla creazione degli ordini mendicanti alla formazione di una legislazione canonica che non aveva precedenti, dalla lotta contro le eresie ai movimenti religiosi femminili, da una politica di forte intervento nelle crociate a una vivacissima azione missionaria oltre che alla messa in opera di azioni diplomatiche ad ampio raggio con i mongoli, i principi islamici e così via.

Persino sul piano residenziale, quel secolo segnala grandi novità:  Innocenzo III (1198-1216) fece edificare un nuovo palazzo a nord della basilica vaticana. Il nascendo Stato pontificio ma anche nuove sensibilità culturali - la paura della malaria, il piacere della natura - e aspre contingenze politiche (i conflitti con Federico ii e con la città di Roma) indussero i Papi del Duecento a vivere per più della metà del secolo fuori di Roma. E nel corso del secolo affidarono ai più grandi artisti italiani, da Cimabue a Giotto, da Jacopo Torriti ad Arnolfo di Cambio, il compito di fare di Roma la capitale artistica della cristianità occidentale e di sostenere con documenti visivi la plenitudo potestatis del Papa.

Non a caso soltanto con Innocenzo III il concetto di plenitudo potestatis entra nel linguaggio della cancelleria papale. Le formule proposte da Innocenzo III nei suoi sermoni e nelle sue lettere diventarono classiche e furono considerate come definitive. Innocenzo III aveva sostenuto il concetto di plenitudo potestatis con il ricorso alla regalità:  "Pietro è l'unico che è stato chiamato a godere della pienezza del poteri. Ho ricevuto da lui la mitra per il mio sacerdozio e la corona per la mia regalità; mi ha stabilito Vicario di Colui sul cui abito sta scritto:  "Re dei re e signore dei signori, prete per l'eternità secondo l'ordine di Melchisedek"".

Un altro concetto chiave - quello di christianitas - si impone nel corso del Duecento, grazie proprio a Innocenzo III secondo cui il Papa è caput et fundamentum totius christianitatis, ossia "necessità e utilità di tutto il popolo cristiano".

La fusione tra Ecclesia e christianitas appare nettamente nella lettera di convocazione del quarto concilio Lateranense (1215) che rinvia a una christianitas a un tempo ecclesiale e politica.


Come nei concili dell'antichità cristiana, per la prima volta nel medioevo, un Papa invitò a prendere parte a un'assemblea conciliare non soltanto l'episcopato, ma anche gli abati e i priori dei monasteri, delle collegiali e degli ordini cavallereschi, oltre che i principi laici; insomma tutti i rappresentanti della christianitas, intesa nel senso più ampio di "società cristiana".

La centralità e l'universalità del papato sono sostenute da metafore e riflessioni di assoluta importanza che hanno però grandi implicazioni nella storia dell'autorappresentazione visiva della figura del Papa. In questa prospettiva, il titolo di Vicario di Cristo appare di estrema importanza, un titolo che Innocenzo III riservò esclusivamente alla figura del Papa. Già nel suo trattato sui misteri della messa, Lotario dei Conti di Segni, il futuro Innocenzo III, ricordava come il Papa debba rivestire paramenti rossi quando celebra il giorno della festa dei santi Pietro e Paolo (29 giugno) e paramenti bianchi nella festa della Cattedra di san Pietro (22 febbraio).

In occasione delle due massime feste romane in onore di san Pietro, dunque, il Papa doveva quindi portare due colori, il rosso e il bianco che erano, secondo una grande tradizione altomedievale, colori cristici. Vestendosi di rosso (29 giugno) e di bianco (22 febbraio), il Papa rivestiva dunque i colori di Cristo, ossia della Chiesa romana. Lo affermerà con altre parole lo stesso Innocenzo III, nel sermone vi pronunciato al IV concilio Lateranense (1215):  il Papa è vestito di lino (ossia di bianco) perché in quanto sommo Pontefice "deve  attraversare  la  Chiesa universale".
 
Il discorso inaugurato da Innocenzo III si farà sempre più intenso nel corso del Duecento. Verso il 1286, il grande liturgista Guglielmo Durando conierà una definizione destinata a diventare classica:  "Il sommo Pontefice appare sempre vestito di un manto rosso all'esterno; ma all'interno è ricoperto di veste candida:  perché il biancore significa innocenza e carità; il rosso esterno simbolizza la compassione (...) il Papa infatti rappresenta la persona di Colui che per noi rese rosso il suo indumento".

Mai come prima del Duecento, i Papi ricorsero alle immagini pittoriche, e, verso la fine del secolo, persino alla statuaria, per sostenere la plenitudo potestatis del Papa. È una creatività che si esprime in affreschi, mosaici, statue che accompagnano l'azione storica del papato duecentesco.
Al centro del mosaico dell'abside della basilica di San Pietro fatta restaurare da Innocenzo III - l'affresco è andato perduto, tranne qualche frammento, all'inizio del Seicento quando si costruì la moderna basilica vaticana - era raffigurato il Cristo in trono benedicente, con ai lati san Pietro e san Paolo, inquadrati da due palme. Nella zona del fregio figurava la successione degli agnelli uscenti dalla città simbolica e convergenti verso l'Agnello, ai lati del quale si trovavano Innocenzo III e la Ecclesia romana.

La Ecclesia romana era rappresentata da una figura di donna che portava il vessillo con le Chiavi ed era incoronata da un vistoso diadema gemmato. Anche il Pontefice portava la tiara e teneva le mani rivolte verso l'Ecclesia romana, un gesto che significava che nell'esercizio della sua "pienezza del potere", ecclesiale (pallio) e temporale (tiara), il Papa agisce su delega della Chiesa romana senza mediazione, perché il suo potere proviene da Cristo (Trono/Agnello).

Anche il programma pittorico ordinato da Niccolò III (1277-1280) nella cappella del Sancta sanctorum, consacrata prima del 4 giugno 1280, costituisce un documento di grandissima efficacia artistico-ecclesiologica. Niccolò III è rappresentato in effigie, nell'affresco della parete orientale, in atto di presentare il modello della cappella al Cristo in trono. Niccolò è raffigurato a metà inginocchiato e san Pietro lo aiuta a reggere la cappella. Il Papa è più vicino a Pietro che a Paolo, un chiaro riferimento all'apostolicità petrina e paolina del papato romano ma con il gesto della mano sinistra, Cristo accoglie lo sguardo che gli viene offerto dagli apostoli e dal Papa.

Nel magnifico mosaico di Santa Maria Maggiore, Niccolò IV (1288-1292), il primo Papa francescano, è invece rappresentato ai piedi di Cristo che incorona Maria Vergine che è qui - secondo una tradizione ecclesiologica romana che risale all'xi secolo - non soltanto la Madre di Cristo ma anche la sua Sposa e dunque il simbolo della Chiesa.

È dunque alla luce di questa prospettiva che si deve comprendere il messaggio ecclesiologico del busto di Papa Bonifacio VIII (1294-1303) che si può ammirare negli Appartamenti del Palazzo Apostolico (Sala dei Papi), una delle più celebri statue di Arnolfo di Cambio. Perché secondo studi recenti (Serena Romano), nel busto arnolfiano il gesto della mano destra del Papa appartiene a una tradizione iconografica in cui veniva raffigurato Cristo benedicente, come nel ritratto pre-iconoclasta di Cristo del Sinai.

L'abside di San Pietro restaurata da Innocenzo III, l'affresco del Sancta sanctorum di Niccolò III, il mosaico di Niccolò IV a Santa Maria Maggiore e il busto di Bonifacio VIII sono straordinari documenti storico-artistici attraversati da un identico itinerario ecclesiologico, rivolto a rendere visibile una delle grandi affermazioni del papato duecentesco, ossia il fondamento cristico della plenitudo potestatis del Papa e quindi il suo ruolo di centralità in seno alla christianitas.


(©L'Osservatore Romano - 22-23 marzo 2010)

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Cum Petro, Sub Petro


Un omaggio al Papato romano

"Habemus pontificem!

Abbiamo il Maestro infallibile che non può essere ingannato nè ingannare, che sa sciogliere i nostri dubbi, rispondere ai problemi più vitali, dir l'ultima parola che invano si aspetta dai sapienti e dalle cattedre del mondo: parola infallibile, parola purissima come argento passato al crogiuolo, sette volte raffinato.


Habemus pontificem!

cioè un Maestro infallibile col quale siamo sicuri di essere sulla retta via, di non sbagliare, di dire sempre la verità giacchè anche noi, stando col Papa, diventiamo, in certo qual modo, infallbili. Come i satelliti che si aggirano attorno al Sole, così noi, seguendo il Papa, veniamo a risplendere della sua stessa luce e, con tutta ragione possiamo dire: "Io sono infallibile!". Si, affermando in materia di Fede e costumi, quello che afferma il Papa, la mia affermazione è infallibile: negando quello che nega il Papa, la mia negazione è infallibile; giudicando sempre come giudica il Papa, il mio giudizio è sempre infallibile.

Habemus Pontificem!

Abbiamo il Maestro infallibile. Egli sorge gigante e fulgido qual faro sulla buia e interminabile riva di questo mare magnum che è il mondo...I flutti non possono offenderlo, le nubi oscurarlo, la distanza nasconderlo; gli altri luminari si esclissano intorno: "Muore ogni astro in faccia al sol".
O uomini, o popoli, che navigate sopra il mare procelloso e torbido della vita, volete voi la verità? la soluzione chiara e certa dei grandi problemi che vi agitano? la guida che conduce al porto sicuro?
Non badate ai luminari tremolanti qua e là nelle tenebre come lucciole, dirigetevi tutti verso il faro che splende sul colle Vaticano.

E Tu, o Maestro infallibile, parla!

Oh parla! In mezzo al dissolvimento universale dell'ora presente, allo scetticismo di un secolo che dubita di tutto, ad una società che si sfascia, a tante dottrine che si combattono, a scuole che succedono a scuole, a sistemi che distruggono sistemi, a opinioni che s'incalzano per finir tutte nel nulla...noi abbiamo bisogno di una voce autorevole e sicura che riveli quella verità la quale insegna la via che conduce alla vita! Oh parla dunque, Maestro infallibile! TU SOLO hai parola di verità e vita...Dove andremo noi a cercarle lontano da te? Forse nei libri, nelle teorie, nei sistemi dei filosofi? Nelle scuole di Parigi, d'Oxford, di Ginevra? Nella politica, nelle massime del mondo? Ah! Tacete tutti...voci dell'umana sapienza, voci di cattedre menzognere, voci di sette malvage, voci discordi della pubblica opinione, della politica, degl'interessi del mondo...tacete, tacete! Lasciate che ascolti la voce che viene da Roma.

Oh! Parla, parla dunque, Maestro infallibile, io ti ascolto in ginocchio come si ascolta Iddio, e mi si paralizzi il braccio, muta diventi la lingua, ciechi gli occhi, prima che mi dimentichi dei tuoi insegnamenti!

O Maestro infallibile!

parla, che con me Ti ascolta e crede tutta la Chiesa Cattolica, nè potenza mai del mondo o dell'inferno potrà separarci da Te, come nessuna forza potrà mai separar Te dalla verità, poichè Gesù Cristo per questo ha pregato: Ego rogavi pro te ut non deficiat fides tua".

Da "Il Triregno. Autorità, Infallibilità, Santità papale" (1929) di Padre Angelico Arrighini
Fraternamente CaterinaLD

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[SM=g1740733] Chiariamo subito un pretesto....

si è aperto il SINODO DEI VESCOVI PER IL MEDIO ORIENTE.... e un Padre del Sinodo ha lanciato l'ennesima sfida:


I patriarchi vogliono eleggere il Papa

La bomba però è stata lanciata stamane dall'esarca di San Gregorio di Narek in Argentina, il salesiano Vartan Waldir Boghossian, che presiede la cura pastorale di tutti i cattolici di rito armeno in Sudamerica e Messico.
Il pastore ha chiesto esplicitamente che . ''I patriarchi delle Chiese cattoliche orientali - ha detto Boghossian - a causa della loro identità di padri e capi di Chiese 'sui iuris' che compongono l'universalità della Chiesa cattolica dovrebbero essere di fatto membri del collegio che elegge il papa senza il bisogno del titolo latino di cardinali. Per questo stesso motivo dovrebbero avere la precedenza su di loro''.
Se la richiesta venisse accolta da Benedetto XVI, sarebbe rivoluzionata tutta la pratica che porta all'elezione del papa. Nei primi secoli della cristianità il vescovo di Roma veniva deciso dall'interezza della comunità, nel 336 invece il pontefice Marco decise che potessero aspirare al titolo solo i sacerdoti di Roma. Il diritto di voto ai cardinali, titolo laico del mondo cattolico, risale all'undicesimo secolo. Nel 1059, qualche anno dopo lo scisma d'Oriente, Niccolò II affidò l'elezione ai soli cardinali vescovi mentre nel nel 1179 Alessandro III dichiarò elettori tutti i cardinali.


***********************

immediatamente è scattata la solidarietà SENTIMENTALE a sostegno di questa assurda richiesta....
il frate A.R. del blog cantonianum ha giustamente risposto a chi applaudiva alla proposta:


fr. A.R. ha detto...

No sorelline, non lasciatevi ingannare dalle apparenze. Questa proposta è proprio assurda e fuori di ogni sana ecclesiologia. Il Papa è Papa perchè è semplicemente vescovo della città di Roma. NON è il contrario, cioè che il pastore universale di tutte le chiese risiede a Roma. Questa è una visione moderna e niente affatto tradizionale. I patriarchi orientali, ma se è per questo anche i vescovi occidentali e latini, non c'entrano nulla con l'elezione del Papa. Solo coloro che a qualche titolo fanno parte della Chiesa della Città di Roma e i vescovi delle sedi confinanti possono affermare il loro diritto ad eleggere il vescovo di Roma. Ecco perchè solo i cardinali, cioè i diaconi, i presbiteri e i vescovi suburbicari di Roma eleggono il nuovo Papa. Se uno è chiamato a far parte del collegio dei cardinali diventa prete o diacono romano e a quel titolo, non come arcivescovo di New York o di Milano, è elettore del Papa. Anzi, se vogliamo dirla tutta, avrebbero diritto di eleggere il Papa più le parrocchiane di San Giovanni in Laterano che il Patriarca di Cilicia in quanto tale.
La chiesa non è una multinazionale, è la comunione universale delle Chiese locali, a cui presiede nella carità la Chiesa di Roma, anche lei una chiesa locale che si dà, come ha sempre fatto, il suo vescovo.


dal mio canto ho aggiunto quest'altra riflessione:

Non rispondiamo però a certe tematiche con spirito sentimentale.....^__^

Non esiste alcun DIRITTO e non esiste l'erba VOGLIO....
questo è il primo DOVERE di ogni Vescovo, Patriarca e Cardinale....nonchè di noi Laici...

Nel Conclave, con i Cardinali, sono rappresentati tutti i Continenti, è per tanto da sfatare immediatamente che ci siano Chiese Cattoliche ESCLUSE dal Conclave...
I Laici non partecipano fisicamente, ma sono rappresentati dai Cardinali e vi partecipano CON LA PREGHIERA....
questo è sufficiente....
se poi si PRETENDE l'eventualità di far passare una certa nomina per interessi TERRITORIALI, cessa il servizio e comincia la TATTICA....

Per quante ombre ci siano state su tante elezioni del Pontefice specialmente in passato (specialmente prima della regolamentazione del Conclave), occorre evitare invece che oggi se ne aggiungano di nuove...
La stessa elezione di Karol Wojtyla ha aperto la strada in modo del tutto confacente alla Chiesa per le nomine di Vescovi dell'Est....e al Conclave passato ci sono già stati cardinali Orientali (mi pare uno)....

Se poi si pretende la partecipazione dei Patriarchi NON cardinali, attenzione all'inganno ed alla pretesa di allargare l'elezione ai Vescovi togliendola ai Cardinali....

A Giovanni Paolo II fu addirittura chiesto di ammettere al Conclave i Patriarchi delle Chiese Ortodosse NON ancora in comunione con Roma....una pretesa davvero assurda per chi rifiuta per altro il primato Petrino ma poi pretenderebbe di starne al Conclave che lo elegge...^__^

Aperture si,ma senza sentimentalismi...la Chiesa ha una sua Disciplina che non è messa li per caso...
;-)


Fraternamente CaterinaLD

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SACERDOTIUM ET REGNUM NELLA
BOLLA "UNAM SANCTAM" DI PAPA BONIFACIO VIII

(Roma, il 13 maggio 1996)




(Padre Alex sito italiano)









0. INTRODUZIONE
 

Alla fine questo lavoro scritto dovrà essere diventato un aiuto per entrare direttamente nella famosa bolla di Bonifacio VIII, Unam sanctam. Ma dobbiamo amettere subito, che ci sarà soltanto un primo viaggio molto generico. Ci interessa sopratutto il rapporto preciso tra sacerdotium et regnum in questa bolla di 1302. Perciò primo vengono date alcune spiegazioni sul contesto, cioè sul contesto dottrinale in generale e sul contesto storico. Poi viene la parte più importante, che semplicemente "racconta" il contenuto di Unam sanctam, ma con chiari riferimenti alle fonti e qualche volta già con piccole interpretazioni. Forse possono servire anche gli appendici (comprendendo la bolla e uno schema, diciamo, sulla sua parte seconda). La parte seguente tratta proprio delle interpretazioni, sopratutto considerandone la questione potestas directa oppure potestas indirecta, e nell'ambito di quella directa o con significato soltanto in spiritualibus o anche in temporalibus. L'unico punto chiarissimo prima di iniziare è solamente la definizione dogmatica finale (DS 875) sulla sottomissione di ogni uomo al successore di Pietro essendo de necessitate salutis.



I. IL CONTESTO DOTTRINALE IN GENERALE(1)

La teoria ierocratica, chiamata in genere teocrazia papale e "più giustamente ... potestas directa"(2) pur avendo radici lontane, fu concretamente formulata al principio del secolo XIII da alcuni canonisti, soprattuto da Alano, che abbandonò la dottrina del decretista Uguccione da Pisa (+ 1210), e poi questa teoria fu autorevolmente affermata e diffusa da Innocenzo IV (+ 1254), sotto la spinta della grande lotta tra papato ed impero. Nella seconda metà del '200 i canonisti l'ebbero consacrata nei loro monumentali commenti alle Decretali, trasmettendola così ai teologi, che attinsero al diritto canonico per la dottrina sul primato del papa. L'apporto dei teologi fu di grande importanza, perché permise di unificare ed inquadrare gli eterogenei elementi dei canonisti nel grande sistema teologico-scolastico. S. Bonaventura (+ 1274) più di altri contribuì a questo inserimento della teoria ierocratica nella teologia del tempo, mentre più cauta era la posizione di S. Tommaso (+ 1274). Sorse intanto, tra i teologi della generazione successiva, la giusta critica alla dottrina, ed uno dei più acuti, il francescano Pietro di Giovanni Olivi (+ 1298), pur discepolo fedele di S. Bonaventura, con geniale argomentazione ne demolì le malferme basi. Ma la nuova lotta tra i due poteri, portata dai difensori di Filippo IV il Bello (+ 1314), re di Francia, sul terreno teologico, sospinse i teologi di Bonifacio VIII a mantenere le estreme posizioni dei canonisti. Egidio Romano (+ 1316) e Giacomo da Viterbo (+ 1307) consolidarono ed allargarono la teoria ierocratica, facendone la dottrina del papato, e sviluppando a suo favore motivi teologici ed idee del loro maestro S. Agostino (+ 430).



II. IL CONTESTO STORICO(3)

Alla genesi del documento stavano anche e sopratutto le rivalità tra Bonifacio e Filippo il Bello. Già nel 1294 e nel 1295 Filippo ebbe imposto un tributo agli ecclesiastici del suo regno per finanziare la campagna imperialista che stava conducendo contro l'Inghilterra. Il papa, che era contrario alla guerra, si lanciò alla difesa delle immunità ecclesiastiche con la bolla Clericis laicos (24. 2. 1296), senza però nominare il re, il quale comunque rispose il 17. 8. 1296 con la proibizione di esportare valuta dalla Francia e privando così il papa degli introiti pecuniari provenienti dal clero francese. Bonifacio pubblicò allora un'altra bolla rivendicando la libertà della Chiesa (Ineffabilis amor - 20. 9. 1296).

La reazione contro le due bolle fu tumultuosa ed anche una parte degli ecclesiastici si schierò con il re, inviando una lettera di protesta al papa (31. 1. 1297) firmata dagli arcivescovi di Reims, di Sens e di Rouen. Bonifacio fu costretto a far marcia indietro e mitigare il senso delle precedenti con altre due bolle (De temporum spatiis e Romana mater Ecclesia, entrambe del 7. 2. 1297). Seguirono, sempre in tono conciliante, la bolla Coram illo fatemur (28. 2.) e la costituzione Etsi de statu (31. 7.). Si addivenne così ad un accomodamento provvisorio, al quale contribuì non poco la canonizzazione del re Luigi IX (11. 8.).

Ma il dissidio infuriò di nuovo qualche anno dopo e con maggior asprezza. Fin dall'anno 1298 Filippo provocava Bonifacio ad esercizio più severo della pontificale potestà. Gli avversari del papa, pilotati dai cardinali della casa Colonna e da una parte della nobiltà romana, tentarono non solo di esautorarlo, ma addirittura di sancirne la deposizione sotto l'accusa di illegittimità. Sconfitti e trattati con una certa magnanimità, si diedero alla fuga e ripararono nel 1303 in terra franca, dove il re continuava a spremere denaro al clero ed ebbe incarcerato il vescovo di Pamiers, nunzio pontificio a Parigi e particolarmente benvoluto dal papa (12. 10. 1301).

Quando lo venne a sapere, Bonifacio mandò al re la bolla Ausculta fili, importantissima perché svela la mentalità del pontefice. Egli insiste sulla necessità della comunione con la Chiesa Romana, fuori della quale non c'è salvezza, e dell'obbedienza di tutti i battezzati al suo capo, che è il vicario di Cristo e il successore di Pietro. È stoltezza pensare che i re non debbano essergli sottomessi come ogni altro cristiano. Contemporaneamente (5. 12. 1301) il papa convocò i prelati per il 1. 12. dell'anno successivo (1302) allo scopo di procedere alla correzione del re di Francia. Il re da parte sua convocò la prima assemblea degli "stati generali", che, riuniti a Parigi il 10. 4. 1302 nella cattedrale die Nôtre-Dame, si allinearono in massa dalla sua parte.

Approfittando del soggiorno dei legati del clero francese, Bonifacio tenne un solenne concistoro (24. 6. 1302). Dopo aver ascoltato un grandioso discorso del Cardinale Matteo d'Acquasparta, discepolo di S. Bonaventura, il papa vi prese lo spunto per minacciare la deposizione del re di Francia(4) e la degradazione dei prelati che l'avevano favorito, e confermò l'indizione del sinodo romano, da inaugurarsi il 30. 10. con il compito di esaminare i principi dottrinali che devono regolare le relazioni del potere temporale con la suprema autorità pontificia.

L'11. 7. 1302 Filippo fu sconfitto dai fiamminghi nella battaglia di Courtrai, provocata dalle su mire imperialistiche. Il sinodo romano fu aperto il 30. 10. con la partecipazione da parte francese di quattro arcivescovi, trentacinque vescovi, sei abati e numerosi dottori e teologi, in aggiunta agli italiani. Il decreto emanato l'ultimo giorno (18. 11.), che dobbiamo analizzare fra poco, ha forse il pregio di essere stato elaborato in collaborazione da un'équipe di numerosi prelati e teologi d'oltralpe. Di nuovo Filippo non fu nominato nella famosissima bolla. Malgrado tutto non diede il minimo segno di resipiscenza, e il papa preparò una bolla di scomunica che avrebbe dovuto essere pubblicata l'8. 9. 1303; ma il giorno prima fu arrestato ad Anagni da Guglielmo di Nogaret. La vertenza si chiuse soltanto con la morte di Bonifacio (+ 11. 10. 1303).



III. IL CONTENUTO DI "UNAM SANCTAM": COMPENDIO GENERICO DELLE FONTI PRINCIPALI E DELL'ARGOMENTAZIONE(5)

È ovvio che il materiale presentato al sinodo fu considerato nella bolla. Ma in realtà Bonifacio VIII non fece che ribadire principalmente il detto in altre sue scritte papali.(6) Non ci sono più dubbi oggi circa l'autenticità della bolla(7), le cui fonti principali sono Bernardo di Chiaravalle(8) (+ 1153), Ugo di S. Vittore(9) (+ 1141), Egidio Romano(10), Tommaso d'Aquino(11) e anche Innocenzo III(12) (+ 1216). Forse Bonifacio poté scriverla da solo con l'aiuto di Card. Acquasparta e, in questo caso ci sarebbe stato l'opera De postestate ecclesiastica del predetto Egidio Romano(13). Le sentenze bibliche non erano tutte di Bonifacio, come vedremo sotto. A Bonifacio si attribuì la violenta contorsione delle bibliche sentenze (prese dalla tradizione Patristica), perché dovette lui più immediatamente combattere gli usurpatori del diritto ecclesiastico.(14)

La grossa bipartizione nel Denziger corrisponde secondo l'autore alla logica e al contenuto del documento: DS 870 - 872 (D 468) = De unicitate Ecclesiae; DS 873 - 875 (D 469) = De potestate spirituali Ecclesiae. Su questa seconda parte c'è uno schema come appendice (VI./2.). Adesso cominciamo a riferire il contenuto preciso.

III./1. L'unica Chiesa di Cristo

Questa prima parte della bolla è il grande presupposto per il suo resto. La Chiesa è unica, santa, cattolica, apostolica e fuori di essa non c'è salvezza. È il corpo mistico di Cristo, che ne è il capo, e il cui vicario è il successore di Pietro. Così la Chiesa è definita, per la prima volta in un documento ufficiale, corpo mistico di Cristo.

1.1 Canticum Canticorum VI,8 (= VI,9 NOVA VULGATA)

"Una est columba mea, perfecta mea. Una est matri(s) suæ, electa genetrici suæ"(15).

Viene preso dal papa per dire, che c'è soltanto una sola e vera Chiesa come l'unico corpo mistico di Cristo, "extra quam nec salus est". Già questo passo della scrittura fu usata da S. Bernardo, che al riguardo disse chiaramente: "Ubi unitas, ibi perfectio."(16)

1.2 Epistula B. Pauli ad Ephesios IV,5

(Cominciamo con Eph 4,4: "Unum corpus, et unus Spiritus, sicut vocati estis in una spe vocationis vestræ." 4,5: "Unus corpus, una fides, unum baptisma." 4,6: "Unus Deus et Pater omnium, qui est super omnes, et per omnia, et in omnibus nobis.")(17)

Le parole vengono usate per continuare il grande concetto divino dell'unità della e nella Chiesa.

1.3 Liber Genesis VI,16

("Fenestram in arca facies, et in cubito consummabis summitatem ejus; ostium autem arcæ pones ex latere; deorsum, coenacula et tristega facies in ea.")(18)

Viene ricordato l'arca di Noè come ulteriore prova dell' unità incomparabile della Chiesa, perché "in uno cubito consummata unum". Inoltre ebbe un solo timoniere e un solo comandante. Il brano serve anche come nuova dimostrazione della sua necessità assoluta ad salutem, perché "extra quam omnia subsistentia super terram legimus fuisse deleta."

1.4 Liber Psalmorum XXI,21 (= XXII,21 NOVA VULGATA)

"Erue a framea, Deus, animam meam, et de manu canis unicam meam."

Secondo il papa questo è la preghiera del Signore per se stesso, per la testa e il corpo, "quod corpus unicam scilicet ecclesiam nominavit" a causa dell'unità dello Sposo, della fede, dei sacramenti e della carità ecclesiale.

1.5 Evangelium secundum Joannem XIX,23

("Milites ergo cum crucifixissent eum, acceperunt vestimenta ejus, [et fecerunt quatuor partes, unicuique militi partem] et tunicam. Erat autem tunica inconsutilis, desuper contexta per totum.")(19)

L'immagine della tunica inconsutile del Signore, che non venne divisa, bensì estratta a sorte dai soldati nella Passione, fu presa sin dal III secolo, quale simbolo della Chiesa, che rimane intatta contro le scissure inutilmente provocate dagli eretici, e divenne sia nella patristica, sia in tutto il Medio Evo, un motivo per l'approfondimento dottrinale della nota della unità, data alla Chiesa nel simbolo apostolico.(20) E nella bolla viene presa quest'immagine chiarissima per spiegare quest'unità, con cui non potrebbero esserci due teste come se fosse un mostro.

1.6 Evangelium secundum Joannem XXI,17

"Pasce oves meas."

Adesso vengono citate parole del Signore stesso sulla confermazione di aver istituito Pietro come vicario, il che vale anche per tutti i successori di Pietro. Importante è il risalto a "meas", perché secondo il papa si capisce così, che Cristo gliele affidò tutte, ne non soltanto una parte qualsiasi - tutto dev'essere sotto il Romano Pontefice.

1.7 Evangelium secundum Joannem X,16

("Et alias oves habeo, quæ non sunt ex hoc ovili; et illas oportet me adducere, et vocem meam audient, et fiet unum ovile, et unus pastor.")(21)

Viene usato per mostrare, che secondo le parole di Cristo c'è solo un gregge, è percio tutti coloro che affermano di non essere stati affidati ai successori di Pietro non possono essere in o di questo gregge.

III./2. Le due spade nell'unica Chiesa di Cristo(22)

Contenutisticamente comincia adesso la seconda grande parte di Unam santam. - Nella Chiesa, appena esposta come questo solo gregge, esistono due spade: una spirituale, a lei stessa affidata, e una temporale, che essa manovra per la mano degli stati e dei regnanti.

2.1 Evangelium sec. Lucam XXII,38 - Matthæum XXVI,52 (comprensione di S. Bernardo)

"Ecce gladii duo hic". ("Satis est.") - "Converte gladium tuum in vaginam."

S. Bernardo - dopo aver citato simili brani (Jo 18,11 al posto di Mt 26,52) - scrisse: "Uterque ergo Ecclesiæ et spiritualis scilicet gladius, et materialis; sed is quidem pro Ecclesia, ille vero et ab Ecclesia exserendus: ille sacerdotis, is militis manu, sed sane ad nutum sacerdotis, et jussum imperatoris."(23) La teoria dei duo gladii fu già enunciata da Goffredo di Vendôme (+ 1115) e così accettata da Bernardo di Chiaravalle. L'argomento preso come simbolo dai canonisti del sec. XIII fu seguito presto dai teologi come il segno biblico del possesso di ambedue nelle mani di Pietro.(24) Anche S. Tommaso prese questi passi di S. Bernardo positivamente.(25)

Secondo Bonifacio si deve comprendere bene il brano di Matteo: il papa ha entrambe le spade in posesso(26). - Perciò possiamo dire, che non basterebbe l'uso non "contra Ecclesiam", ma era sempre necessario l'uso "in commodum et favorem Ecclesiæ"(27).

III./3. La spada materiale è sotto l'altra

Quindi il potere civile, pur distinto da quello ecclesiastico, le è subordinato, perché da lei trae la propria origine: deve dunque a lei ispirarsi quanto alle leggi, e tenerne conto nelle relative applicazioni.

3.1 Epistola B. Pauli ad Romanos XIII,1

"Non est potestas nisi a Deo; quæ autem sunt, a Deo ordinata sunt".

Viene usato per confermare questa predetta soggezione, perché essi non sarebbero disposti se una spada non fosse sottoposta all'altra.

3.2 Reductio omnium ad unum

L'argomento della reductio omnium ad papam, fondato sul principio aristotelico che tra gli uomini c'è una subordinazione ed una gerarchia, che conduce ad un unico uomo, il quale ne è la misura ed il vertice(28), fu stato utilizzato ormai da più di un secolo, per asserire la subordinazione al papa, vicario di Cristo, di tutte le potestà terrene, compreso l'imperatore (Dio -> papa -> imperatore). Dal canonista Alano, ai primi del '200, era passato ai grandi decretalisti, come l'Ostiense (+ 1270), poi fu stato fatto proprio dai teologi fautori della ierocrazia papale, sviluppato particolarmente da S. Bonaventura(29). In questa grandiosa concezione il papa è esaltato al grado supremo tra gli uomini, ed a lui come in causa si deve ricondurre tutte la umana società. "Ubi est reductio ad summum in genere hominum, eiusmodi est Christi vicarius, pontifex summus"(30).

III./4. La piena potestà giuridica della spada spirituale

4.1 Epistola B. Pauli ad Hebræos VII,5 - 7

("Et quidem de filiis Levi sacerdotium accipientes, mandatum habent decimas sumere a populo secundum legem, id est, a fratribus suis, quamquam et ipsi exierint de lumbis Abrahæ. [6] Cujus autem generatio non annumeratur in eis, decimas sumpsit ab Abraham, et hunc qui habebat repromissiones benedixit. [7] Sine ulla autem contradictione, quod minus est, a meliore benedicitur.")(31)

Questo principio enunciato della lettera agli Ebrei che "sine ulla contradictione, quod minus est, a meliore benedicitur" fu usato con conseguenze ierocratiche. Anche Bonifacio accenna subito alle conseguenze che derivano dalla consacrazione del sovrano da parte dell'autorità spirituale, quando parla della superiorità di quest'ultima sul primo "ex ... benedictione, et sanctificatione".(32) Anche Ugo di S. Vittore(33) usò questo brano, ma soltanto dopo la sua phrase famosa.

4.2 Ugo di S. Vittore (De sacramentis Chiristianæ fidei, lib. II)(34) e la congiunzione papale con la Prophetia Jeremiae I,10

Nel secondo libro(35) della sua opera dogmatica De sacramentis la seconda parte tratta "de unitate Ecclesiæ"(36). E qui il quarto capitolo aveva il titolo "Duas esse vitas, et secundum duas vitas duos populos; et in duobus populis duas potestates, et in utraque diversos gradus et ordines dignitatum; et unam inferiorem, alteram superiorem."(37) Prima della phrase famosa, che ci interessa a causa della citazione diretta, vi sono anche importanti accertamenti, che accennano al suo vicino contesto: "Terrena potestas caput habet regem. Spiritualis potestas habet summum pontificem. Ad potestatem regis pertinent quæ terrena sunt, et ad terrenam vitam facta omnia. Ad potestatem summi pontificis pertinent quæ spiritualia sunt, et vitæ spirituali attributa universa. Quanto autem vita spiritualis dignior est quam terrena, et spiritus quam corpus, tanto spiritualis potestas terrenam sive sæcularem potestatem honore, ac dignitate præcedit."(38)

E subito dopo comincia un nuovo capoverso: "Nam spiritualis potestas terrenam potestatem et instituere habet, ut sit, et judicare habet si bona non fuerit"(39). Era uno degli argomenti maggiori portati dai difensori della teoria ierocratica, enucleato da Ugo così a metà del sec. XII e sviluppato dai teologi del sec. XIII, sino ad essere assunto, con autorità tra gli argomenti più gravi dell'Unam sanctam: "Nam, veritate testante, spiritualis potestas terrenam potestatem instituere(40) habet, et iudicare, si bona non fuerit."

Ma da Ugo stesso il contesto conferma che lui "continua a parlare della superiorità della potestà spritiuale (prior in tempore et maior dignitate), dimostrata dalla consacrazione regale per opera della potestà spirituale. Questo infatti è il senso proprio del passo in discussione, e la institutio della potestà temporale ... non è più della consacrazione del sovrano compiuta dal sacerdote."(41) Mentre nella bolla di Bonifacio il passo sembra essere usato in un altro o nuovo contesto e perciò con un significato più forte. Secondo G. B. Ladner non dev'essere una sorpresa, che il papa pretese il diritto all'institutio delle potestà terrene dopo aver annunciato che tutte queste potestà fanno parte della Chiesa.(42)

E con questa dottrina evidentemente chiara della bolla si avvera - secondo il papa - la profezia di Geremia riguardo la Chiesa e il potere della Chiesa:

"Ecce constitui te hodie super gentes et regna, (ut evellas, et destruas, et disperdas, et dissipes, et aedifices, et plantes.)"(43) Ma d'altra parte quell' "applicare al papa le parole indiritte da Dio a Geremia fu cosa ben più antica di Bonifazio, e nella greca e nella latina Chiesa."(44)

4.3 Epistola B. Pauli ad Corinthios prima II,15

"Spiritualis homo iudicat omnia, ipse autem a nemine iudicatur."

Come da Ugo viene così subito usato questo brano per confermare - almeno nella bolla - la "gerarchia di giudicare" e che finalmente il potere spirituale supremo potrà essere giudicato solamente da Dio e non dall'uomo, come afferma l'Apostolo.

III./5. L'ordine di Dio riguardo al Romano Pontefice

5.1 Evangelium secundum Matthæum XVI,19

"Quodcunque ligaveris (super terram, erit ligatum et in coelis: et quodcunmque solveris super terram, erit solutum et in coelis.")(45)

Viene adesso usato per mostrare l'origine divina di sudetta autorità, benché conferita ad un uomo ed esercitata da un uomo. Proprio da tali parole (Mt 16) i canonisti facevano derivare un'estensione senza limiti dei poteri di Pietro, che comprendeva anche la potestà temporale.(46)

5.2 Epistola B. Pauli ad Romanos XIII,2

("Itaque qui resistit potestati, Dei ordinationi resistit. Qui autem resistunt, ipsi sibi damnationem acquirunt".)(47)

Con le parole di S. Paolo il papa desume che perciò chiunque si oppone a questo potere istituito da Dio, si oppone all'ordine di Dio.

5.3 Liber Genesis I,1

("In principio creavit Deus coelum et terram".)(48)

E per confermare (poco prima della definizione dogmatica finale), che tutto viene da un unico principio e che anche tutte le autorità logicamente vengono soltanto da un unico principio (ovviamente dal potere spirituale supremo), viene ricordata la creazione con le parole del primo libro di Mosè, che non nei principii, ma nel principio Dio creò il cielo e la terra.

5.4 L'uso di parole di S. Tommaso per la definizione dogmatica

Nell'opuscolo Contra errores Græcorum possiamo leggere: "Ostenditur etiam quod subesse Romano Pontifici sit de necessitate salutis"(49) Non manca nello stesso luogo il riferimento all' "universalem ecclesiam ..., in qua necessario salutis animarum nostrum est manere".

E nell'Unam sanctam viene definito: "Porro subesse Romano Pontifici omni humanæ creaturæ declaramus, dicimus, diffinimus et pronunciamus omnino esse de necessitate salutis."


continua..................


[Modificato da Caterina63 09/11/2010 19:51]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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IV. QUESTIONI DELL'INTERPRETAZIONE
(50)

Anche J. Collantes sottolinea inanzitutto(51) che gli autori medioevali danno al termine "Chiesa" il significato più ampio, cioè come sinonimo di "cristianità", sicché, pur distinguendo tra potere spirituale e temporale, tengono sempre presente che l'autorità civile è esercitata da principi Cristiani in una società Cristiana. "Ricordiamo che allora vigeva un regime cristiano assai vicino all'agostinismo politico."(52)

Nel corso del Concilio Ecumenico XVIII, del quinto Concilio del Laterano (19. 12. 1516) il documento stesso fu confermato da Leone X con l'altra bolla Pastor æternus(53), unitamente però ad un'altra di Clemente V del 1. 2. 1306(54), diretta a Filippo il Bello per chiarire che l'Unam sanctam non menoma in nulla il potere regale.

IV./1. Senza discussione: Il contenuto della definizione dogmatica finale(55)

L'unica verità formalmente definita è l'ultimo capoverso, cioè che ogni uomo è sottoposto alla giurisdizione papale: è la logica conseguenza della necessità di far parte della Chiesa Cattolica, e quel che si crede di questa necessità dev'essere esteso a questa soggezione - "sensus ad regimen spirituale restringendus iam adumbratur initio bullae, ubi de necessitate Ecclesiae ad salutem agitur (DS 870), praecipue vero ex opusculo S. Thomae Aqu., ex quo desumpta est".(56) Tutto il resto non sono definizioni ex cathedra, e nonostante le argomentazioni forti precedenti questa definizione finale dev'essere compresa nel senso che ogni uomo - non direttamente ogni governo(57) - dev'essere sottomesso al Romano Pontefice de necessitate salutis.

IV./2. Discussione: Unam sanctam = potestas directa vel indirecta in temporalibus?

Quanto a quest'interpretazione, le opinioni sono divergenti. L'interpretazione tradizionale(58) sembra quella di dire, si tratti di una potestas directa, ma solamente sulle cose spirituali. Perché in questo modo e soltanto così si potrebbe capire la definzione dogmatica finale e il suo significato. E sulle cose politiche i preti avrebbero soltanto una potestà di giurisdizione indiretta oppure soltanto "direttiva". Così viene "assolto" Bonifacio VIII dal rimprovero della deviazione dalla dottrina allora sana-tradizionale. Ma allo stesso tempo viene ammesso che nelle premesse della definizione finale il papa volle vedere sotto questa potestas directa puramente compresa in spiritualibus non soltanto la persona del sovrano e i suoi atti privati, ma "encore les pouvoirs publics eux-mêmes."(59) Subito dopo questa analisi viene detto, che il papa d'altra parte non volle immischiarsi stesso, perché nella bolla possiamo leggere soltanto "manu regum et militum". E quest'ultima interpretazione dell'intenzione papale verrebbe ancora chiarita dalle fonti di S. Bernardo.

Addirittura il breve Meruit di Clemente V, per cui i re di Francia furono stati esentati dall'osservanza della bolla Unam sanctam, veniva preso in questa tradizione apologetica come quasi-prova, che il papa non sarrebe andato fuori la dottrina sana-tradizionale: "Declaratio vero haec Clementis V. confirmat Bonifacii doc(t)rinam (...) Scilicet Bonifacius non ius novum condidit, sed ius antiquum et divinum authentice declaravit et idcirco Christianissimus Rex subiectus erat Romanae Sedi post Bullam Bonifacii non secus ac prius."(60)

E perciò anche secondo J. Collantes Bonifacio VIII non intendeva sostenere la potestà diretta del papa sulle cose temporali, né pretendeva annullare la sovranità dei principi. Perché ad esempio nel sinodo romano del 1302 il papa ebbe sostenuto la subordinazione di ogni cristiano, non esclusi i sovrani, "a causa del peccato". "Quanto alla fonte della giurisdizione regale, il papa non si riferisce al potere temporale in astratto, ma a quello dei principi della cristianità, che la Chiesa integra con una legittimità complementare, perchè anch'essi sono suoi sudditi che vegliano sul buon ordine della collettività dei credenti."(61) Mentre H. X. Arquillière analizza nel Dictionnaire de Droit Canonique, che si tratti di alcuni teologici moderni, che seguono Bellarmin (+ 1621), con loro interpretazione della potestà indiretta a causa delle parole importanti "ratione peccati". Arquillière domanda, dove si troverebbe una potestà diretta, se non nell'Unam sanctam. "C'est un peu jouer sur le mots"(62). Per lui le interpretazioni e domande su "directa o indirecta?" non hanno nessun senso. E perciò segue Ch. V. Langlois, che nella bolla vede la "plus absolue proclamation de la doctrine théocratique an Moyen Age"(63) Più o meno ci venne distrutto il diritto naturale concernente lo stato e assorbito dal driitto ecclesiastico.(64) E secondo la premessa di Denzinger-Schönmetzer il documento fu almeno compreso in senso della potestas directa in temporalibus.

Ma nella sua stessa premessa all'Unam sanctam si trovano anche punti per arrivare a una potestas indirecta. Perché viene citata una risposta del papa nel sudetto concistorio (24. 6. 1302). Il papa protestò - si potrebbe forse dire - contro una certa potestas directa: "Quadraginta anni sunt, quod Nos sumus experti in iure, et scimus, quod duae sunt potestates ordinatae a Deo; quis ergo debet credere vel potest, quod tanta fatuitas, tanta insipientia sit vel fuerit in capite Nostro? Dicimus quod in nullo volumus usurpare iurisdictionem regis, et sic frater noster Portuensis(65) dixit". "Non potest negare rex seu quicunque alter fidelis, quin sit nobis subiectus ratione peccati."(66) "Non è senza un profondo significato che Bonifacio VIII, di fronte all'accusa di ierocratismo, si appella espressamente ai quarant'anni di conoscenza del D i r i t t o ."(67) Nella sua risposta al Card. Acquasparta(68) poi ha anche detto: "Cum rex commisit omnia quae illi commiserunt et maiora, nos deponeremus regem ita sicut unum garcionem, licet dolore et tristitia magna."(69)

A. M. Card. Stickler offre una chiave per l'interpretazione in generale, toccando forse così anche l'Unam sanctam. Perché la dottrina del potere coattivo materiale (= spada materiale = Sacro Romano Impero) della Chiesa appare come il vero fondamento giuridico-canonico dell'Imperium nel senso ecclesiastico; essa ci permetterebbe di distinguere anche giuridicamente il Regnum, ossia l'autorità civile-secolare, dal Sacrum Imperium (Romanum) e ci darebbe così la chiave per una giusta interpretazione.(70) Ma considerando il testo e il contesto della bolla si dovrebbe esaminare, se questa chiave vale anche per la bolla.(71) Anzi, dovremmo domandarci se certe parti dell'Unam sanctam potrebbero essere classificate con un'altro esito di Card. Stickler: "risultano ... poche incrinature in senso ierocratico a causa della confusione in campo dottrinale e per l'uso della detta figura delle spade in senso politico."(72)

E inoltre, certe parole papali di 1303 potrebbero essere anche in favore di una interpretazione della bolla in senso di una chiara potestà diretta. Nel concistoro del 30. 4. 1303 per la conferma ad imperatore di Alberto d'Austria Bonifacio VIII disse nell'Allegacio: "Et sicut luna nullum lumen habet, nisi quod recipit a sole, sic nec aliqua terrena potestas aliquid habet, nisi quod recipit ab ecclesiastica potestate."(73) Anche oggi viene considerato la più rigida espressione della teoria della potestas directa. Il papa ci parlò anche dello "ius constituendi imperatorem et imperium transferendi"(74). E non si può evitare di dire che anche l'abolizione di eventuali consequenze pratiche o politiche attraverso il sudetto breve papale mostri che la bolla fu compresa nel tale senso.(75) E se veramente ci fosse un più forte influsso di Egidio Romano(76) - un dottore della potestà diretta - non sarrebbe sbagliato: "Les interprétations les plus favorables à l'omnipotence pontificale semblent donc ici les plus exactes".(77)



V. CONCLUSIONE

L'autore spera che questo lavoro scritto sia veramente uno sguardo generale alla bolla di Bonfiacio VIII, Unam sanctam, e che non abbia saltato nessuna cosa importante. Quanto alla interpretazione del contenuto prima di DS 875 possiamo capire meglio adesso perchè c'erano opinioni divergenti sull'interpretazione della potestas precisamente intenta dal papa. E l'autore non è riuscito a risolvere questo problema al 100 %, ma possiamo dire che Bonifacio VIII pretese almeno una cosidetta potestas directa in spiritualibus anche sui governi concreti e non soltanto in certi casi. E ci vorrebbe più tempo per arrivare alla certezza necessaria se si tratti infatti anche di una tale potestas directa in temporalibus.

Sembra molto interessante, che anche oggi la famosa bolla Unam sanctam non sia dimenticata. Anche il nuovo Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium con le sue fonti(78) (1995) ci ricorda al documento, almeno due volte: sotto il Can. 43 ("Ecclesiae Romanae Episcopus ...") e sotto il Can. 1058 ("Romanus Pontifex a nemine iudicatur.") Allora, non rimane soltanto la definizione dogmatica finale.



VI. APPENDICE: UNAM SANCTAM (18. 11. 1302)(79)

a) (DS 870»)(80) Unam sanctam ecclesiam catholicam et ipsam apostolicam urgente fide credere cogimur et tenere, nosque hanc firmiter credimus et simpliciter confitemur, extra quam nec salus est, nec remissio peccatorum, sponso in Canticis (cf. Cant. VI,8) proclamante: "Una est columba mea, perfecta mea. Una est matri(s) suæ, electa genetrici suæ;" quæ unum corpus mysticum repræsentat, cuius (corporis) caput Christus Christi vero Deus. In qua unus Dominus, una fides, unum baptisma.(81) Una nempe fuit diluvii tempore arca Noe, unam ecclesiam præfigurans, quæ in uno cubito consummata(82) unum, Noe videlicet, gubernatorem habuit et rectorem, extra quam omnia subsistentia super terram legimus fuisse deleta. (DS 871») Hanc autem veneramur et unicam, dicente Domino in Propheta: "Erue a framea, Deus, animam meam (cf. Psalm. XXI,21), et de manu canis unicam meam." Pro anima enim, id est pro se ipso, capite simul oravit et corpore, quod corpus unicam scilicet ecclesiam nominavit, propter sponsi, fidei, sacramentorum et caritatis ecclesiæ unitatem. Hæc est tunica illa Domini inconsutilis(83), quæ scissa non fuit, sed sorte provenit. (DS 872») Igitur ecclesiæ unius et unicæ unum corpus, unum caput, non duo capita, quasi monstrum, Christus videlicet et Christi vicarius Petrus, Petrique successor, dicente Domino ipsi Petro: "Pasce (Ioa. XXI,17) oves meas." Meas, inquit, et generaliter, non singulariter has vel illas: per quod commisisse sibi intelligitur universas.

(Traduzione italiana:)

ad a) Per imperativo della fede noi siamo costretti a credere ed a ritenere, che vi è una sola Santa Chiesa Cattolica ed Apostolica, e noi fermamente la crediamo e professiamo con semplicità, e non c'è né salvezza né remissione dei peccati fuori di lei - come lo Sposo proclama nel Cantico: "Una sola è la mia colomba, la mia perfetta; unica alla madre sua, senza pari per la sua genitrice". Essa rappresenta l'unico corpo mistico, il cui capo è Cristo, e (quello) di Cristo è Dio, e in esso c´è un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Una sola infatti fu l'arca di Noè al tempo del diluvio, che prefigurava l'unica Chiesa; ed era stata costruita da un solo braccio, ebbe un solo timoniere e un solo comandante, ossia Noè, e noi leggiamo che fuori di essa furono sterminati tutti gli esseri esistenti sulla terra. Questa (Chiesa) noi veneriamo, e questa sola, come dice il Signore per mezzo del Profeta: "Libera, o Signore, la mia anima dalla lancia e dal furore del cane, l'unica mia". Egli pregava per l'anima, cioè per Se stesso - per la testa e il corpo nello stesso tempo - il quale corpo precisamente Egli chiamava l'unica Chiesa, a causa dell'unità dello Sposo(84), della fede, dei sacramenti e della carità ecclesiale. Questa è quella veste senza cuciture del Signore, che non fu tagliata, ma data in sorte. Dunque la Chiesa sola e unica ha un solo corpo, un solo capo, non due teste come se fosse un mostro, cioè Cristo e Pietro, vicario di Cristo e il successore di Pietro, perché il Signore disse a Pietro: "Pasci le mie pecorelle". "Le mie", Egli disse, parlando in generale e non in particolare di queste o quelle, dal che si capisce, che gliele affidò tutte.

b) Sive ergo Græci sive alii se dicant Petro eiusque successoribus non esse commissos: fateantur necesse (est) se de ovibus Christi non esse, dicente Domino in Ioanne, unum (Ioa. X,16) ovile et unicum esse pastorem. (DS 873») In hac eiusque potestate duos esse gladios, spiritualem videlicet et temporalem, evangelicis dictis instruimur.(85) Nam dicentibus Apostolis: "Ecce gladii duo hic," in ecclesia scilicet, quum apostoli loquerentur, non respondit Dominus, nimis esse, sed satis. Certe qui in potestate Petri temporalem gladium esse negat, male verbum attendit Domini proferentis (Matth. XXVI,52). "Converte gladium tuum in vaginam." Uterque ergo (est) in potestate ecclesiæ, spiritualis scilicet gladius et materialis. Sed is quidem pro ecclesia, ille vero ab ecclesia exercendus. Ille sacerdotis, is manu regum et militum, sed ad nutum et patientiam sacerdotis. Oportet autem gladium esse sub gladio, et temporalem auctoritatem spirituali subiici potestati. Nam quum dicat Apostolus: "Non est potestas nisi a Deo; quæ autem (cf. Rom XIII,1) sunt, a Deo ordinata sunt," non autem ordinata essent, nisi gladius esset sub gladio, et tanquam inferior reduceretur per alium in suprema. Nam secundum B. Dionysium lex divinitatis est infima per media in suprema reduci. Non ergo secundum ordinem universi omnia æque ac immediate, sed infima per media et inferiora per superiora ad ordinem reducuntur. Spiritualem autem et dignitate et nobilitate terrenam quamlibet præcellere potestatem, oportet tanto clarius nos fateri, quanto spiritualia temporalia antecellunt. Quod etiam ex decimarum datione, et benedictione, et sanctificatione, ex ipsius potestatis acceptione, ex ipsarum rerum gubernatione claris oculis intuemur.

(Traduzione italiana)

Ad b) Se quindi i greci o altri dicono di non essere stati affidati a Pietro e ai suoi successori, devono per forza confessare di non essere tra le pecorelle di Cristo, perché il Signore dice in Giovanni che c'è un solo gregge e un (solo e) unico pastore. Proprio le parole del vangelo ci insegnano che in questa Chiesa e nella sua potestà ci sono due spade, cioè la spirituale e la temporale, perché, quando gli Apostoli dissero: "Ecco qui due spade" - che significa nella Chiesa, dato che erano gli Apostoli a parlare - il Signore non rispose che erano troppe, ma che erano sufficienti. E chi nega che la spada temporale appartenga a Pietro, ha malamente interpretato le parole del Signore, quando dice: "Rimetti la tua spada nel fodero". Quindi ambedue sono nel potere (a disposizione) della Chiesa, la spada spirituale e quella materiale. Però quest'ultima dev'essere esercitata in favore della Chiesa, l'altra direttamente dalla Chiesa; la prima dal sacerdote, l'altra dalle mani dei re e dei soldati, ma agli ordini e sotto il controllo del sacerdote. Poi é necessario che una spada sia sotto l'altra e che l'autorità temporale sia soggetta a quella spirituale. Perché quando l'Apostolo dice: "Non c'è potere che non venga da Dio e quelli (poteri) che sono, sono disposti da Dio", essi non sarebbero disposti se una spada non fosse sottoposta all'altra, e, come inferiore, non fosse dall'altra ricondotta a nobilissime imprese. Poiché secondo san Dionigi è legge da Dio, che l'inferiore sia ricondotto per l'intermedio al superiore. Dunque le cose non sono ricondotte al loro ordine alla pari e immediatamente, secondo la legge dell'universo, ma le infime attraverso le intermedie e le inferiori attraverso le superiori. Che il potere spirituale supera in dignità e nobiltà tutti quelli terreni dobbiamo proclamarlo tanto più apertamente quanto lo spirituale eccelle sul temporale. Il che, invero, noi possiamo chiaramente constatare con i nostri occhi dal versamento delle decime, dalla benedizione e santificazione, dal riconoscimento di tale potere e dall'esercitare il governo sopra le medesime,

c) Nam, veritate testante, spiritualis potestas terrenam potestatem instituere habet, et iudicare(86), si bona non fuerit. Sic de ecclesia et ecclesiastica potestate verificatur vaticinium Hieremiæ (Hier. I,10). "Ecce constitui te hodie super gentes et regna" et cetera, quæ sequuntur. Ergo, si deviat terrena potestas, iudicabitur a potestate spirituali; sed, si deviat spiritualis minor, a suo superiori; si vero suprema, a solo Deo, non ab homine poterit iudicari, testante Apostolo (I. Cor. II,15): "Spiritualis homo iudicat omnia, ipse autem a nemine iudicatur." (DS 874») Est autem hæc auctoritas, et si data sit homini, et exerceatur per hominem, non humana, sed potius divina (potestas), ore divino Petro data, sibique suisque successoribus in ipso, quem confessus fuit petra, firmata, dicente Domino ipsi Petro (Matth. XVI,19): "Quodcunque ligaveris etc." Quicunque igitur huic potestati a Deo sic ordinatæ resistit, Dei ordinatione resistit(87), nisi duo, sicut Manichæus, fingat esse principia, quod falsum et hæreticum iudicamus, quia testante Moyse (Gen. I,1), non in principiis, sed in principio coelum Deus creavit et terram. (DS 875») Porro subesse Romano Pontifici omni humanæ creaturæ declaramus, dicimus, diffinimus et pronunciamus omnino esse de necessitate salutis.(88) Dat. Laterani, XIV Kal. Dec., Pont. nostri Ao. VIII.

(Traduzione italiana)
Ad c) poiché la Verità attesta che la potestà spirituale ha il compito di istituire(89) il potere terreno e, se non si dimostrasse buono, di giudicarlo. Così si avvera la profezia di Geremia riguardo la Chiesa e il potere della Chiesa: "Ecco, oggi Io ti ho posto sopra le nazioni e sopra i regni" e le altre cose che seguono. Se dunque il potere terreno devia, sarà giudicato dall'autorità spirituale; se poi il potere spirituale inferiore degenera, sarà giudicato dal suo superiore; ma se è quello spirituale supremo, potrà essere giudicato solamente da Dio e non dall'uomo, come afferma l'Apostolo: "L'uomo spirituale giudica tutte le cose; ma egli stesso non viene giudicato da nessuno." Questa autorità infatti, benché conferita ad un uomo ed esercitata da un uomo, non è umana, ma piuttosto divina, attribuita per bocca di Dio a Pietro, e resa intangibile per lui e per i suoi successori in colui che egli, la pietra, aveva confessato, quando il Signore disse allo stesso Pietro: "Qualunque cosa tu legherai ecc." Perciò chiunque si oppone a questo potere istituito da Dio, si oppone all'ordine di Dio, a meno che non pretenda come i manichei che ci sono due princìpi, il che noi giudichiamo falso ed eretico, perché - come dice Mosè - non nei principii, ma nel principio Dio creò il cielo e la terra. Per consequenza noi dichiariamo, stabiliamo, definiamo ed affermiamo che è assolutamente necessario alla salvezza di ogni creatura umana che essa sia sottomessa al Romano Pontefice. Data in Laterano, nell'ottavo anno del Nostro Pontificato.


continua......



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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VII. SCHEMA (SECONDA PARTE DELL'UNAM SANCTAM)

 

SACERDOTIUM ET REGNUM

NELLA BOLLA "UNAM SANCTAM" DI PAPA BONIFACIO VIII

 

TITOLI DALL'AUT.

FONTI

ARGOMENTAZIONI

RISULTATI, PRETESE

ANNOT.

 

LE DUE SPADE NELL'UNICA CHIESA DI CRISTO:

* Lc 22,38;

(Goffredo di Vendôme -> S. Ber-nardo di Chiara-valle) - * Mt 26,52

1. "Ecco qui (= nella Chiesa, dato che erano gli Apostoli a parlare) due spade".

2. Il Signore non rispose che erano troppe, ma sufficienti.

3. E chi nega che la spada temporale appartenga a Pietro, ha malamente interpretato le parole del Signore: "Rimetti la tua spada nel fodero".

1. Quindi ambedue sono a disposizione della Chiesa, la spada spirituale e quella materiale.

2. Quest'ultima dev'essere esercitata in favore della Chiesa, l'altra direttamente dalla Chiesa; la prima dal sacerdote, l'altra dalle mani dei re e dei soldati, ma agli ordini e sotto il controllo del sacerdote.


 

 

LA SPADA MATE-RIALE È SOTTO L'ALTRA:

(reductio omnium ad unum/papam: prin-cipio aristotelico -> Alano -> decretalisti -> S. Bonaventura)

* Rm 13,1

* B. Dionigi


1. Poi è necessario che l'autorità temporale sia soggetta a quella spirituale.

2. Perché quando l'Apostolo dice: "Non c'è potere che non venga da Dio e quelli (poteri) che sono, sono disposti da Dio", essi non sarebbero disposti se una spada non fosse sottoposta all'altra, e, come inferiore, non fosse dall'altra ricondotta a nobilissime imprese.

3..Poiché secondo san Dionigi è legge da Dio, che l'inferiore sia ricondotto per l'intermedio al superiore.

1. Dunque le cose non sono ricondotte al loro ordine alla pari e immediatamente, secondo la legge dell'universo, ma le infime attraverso le intermedie e le inferiori attraverso le superiori.

 

2. Che il potere spirituale supera in dignità e nobiltà tutti quelli terreni dobbiamo proclamarlo tanto più apertamente quanto lo spirituale eccelle sul temporale.


 

 

LA PIENA POTES-TÀ GIURIDICA DELLA SPADA SPIRITUALE:

Ugo di S. Vittore

(Eb 7,5 - 7)

 

 

 

* Ger. 1,10

 

* 1 Cor 2,15


1. Questa eccellenza possiamo chiaramente constatare con i nostri occhi dal versamento delle decime, dalla benedizione e santificazione, dal riconoscimento di tale potere e dall'eser-citare il governo sopra le medesime.

2. Così si avvera la profezia di Geremia riguardo il potere della Chiesa: "Ecco, oggi Io ti ho posto sopra le nazioni e sopra i regni" ecc.

3. L'Apostolo afferma: "L'uomo spirituale giudica tutte le cose; ma egli stesso non viene giudicato da nessuno."

1. La Verità attesta che la potestà spirituale ha il compito di istituire il potere terreno e, se non si dimostrasse buono, di giudicarlo.

 

2. Se dunque il potere terreno devia, sarà giudicato dall'autorità spirituale; se poi il potere spirituale inferiore degenera, sarà giudicato dal suo superiore; ma se è quello spirituale supremo, potrà essere giudicato solamente da Dio.

= potestas directa in temporalibus (?)

 

= una delle fonti del Can. 1404 (CIC 83 = Can. 1058 nel CCEO 90)

 

L'ORDINE DI DIO RIGUARDO AL ROMANO PON-TEFICE:

(Rm 13,2)

 

 

* Mt 16,19

(S. Tommaso d' Aquino)

* Gen 1,1

1. Questa autorità infatti, benché conferita ad un uomo, è piuttosto divina, attribuita per bocca di Dio a Pietro, e resa intangibile per lui e per i suoi successori in colui che egli, la pietra, aveva confessato, quando il Signore disse allo stesso Pietro: "Qualunque cosa tu legherai ecc."

2. Noi giudichiamo falso ed eretico le pretese dei manichei, perché non nei principii, ma (dice Mosè) nel principio Dio creò il cielo e la terra.

1. Perciò chiunque si oppone a questo potere istituito da Dio, si oppone all'ordine di Dio.

 

2. Per consequenza noi dichiariamo, stabiliamo, definiamo ed affermiamo che è assolutamente necessario alla salvezza di ogni creatura umana che essa sia sottomessa al Romano Pontefice.

(2. =) definizione dogmatica, confermata dal Later. V (1516)

 

(= non:"ogni potestà")





continua....................

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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VIII. BIBLIOGRAFIA

VIII./1. Fonti


Biblia Sacra. Vulgatæ editionis Sixti V. et Clementis VIII Pont. Max. jussu recognita atque edita, Lyon 9/1844.

***** *****

BONIFACIO VIII, Bolla Unam sanctam:

1. in: CORP. IUR. CAN., Extravv. Comm., lib. I., tit. VIII, "De maioritate et obedientia", cap. I, ed. Friedberg. vol. II, 1245 - 1246;

2. in: LO GRASSO I. B., Ecclesia et Status. Fontes selecti, Roma 1939, nn. 432 - 438 (<= Ex Archivo Vaticano, Regesta Rom. Pontif., n. 50 [ann. VII - IX], fol. 387).

CLEMENTE V, Breve Meruit, Extravv. Comm., lib. V., tit. VII., c. 2.

***** *****

Bernardo DI CHIARAVaLLE, De consideratione libri quinque ad Eugenium tertium, lib. 2, c. 8 (PL 182,751 - 752); lib. 4, c. 3 C (PL 182,775 - 776).

Ugo di S. Vittore, De sacramentis Chiristianæ fidei, lib. II, p. II (sopratutto PL 176,415 - 418).

Tommaso d'Aquino, Contra errores Græcorum, p. 2, c. 38, in: R. BUSA (a cura di), S. Thomae Aquinatis opera omnia (3 =) Quaestiones disputatae, quaestiones quodlibetales, opuscula, Stuttgart-Bad Cannstatt 1980, 508.

***** *****

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[DHü =] Denzinger H. (DENZINGER-HÜNERMANN), Enchiridion symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum. Quod emendavit, auxit, in linguam germanicam transtulit et adiuvante Helmuto Hoping edidit Petrus Hünermann, Freiburg i. B. - Basel - Roma - Wien 37/1991.

[DS =].Denzinger-Schönmetzer, Enchiridion symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, quod primum edidit Henricus Denzinger et quod funditus retractavit auxit notulis ornavit Adolfus Schönmetzer S. I., Editio XXXVI emendata, Barcellona - Freiburg i . B. - Roma 36/1976 (= stato di 1965).

[D =] DENZINGER H. (DENZINGER-UMBERG), Enchiridion Symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum quod a Clemente Bannwart denuo compositum iteratis curis edidit Iohannes Bapt. Umberg S. J., Freiburg i. B. 21 - 23/1937.

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(2.) IDEM, art. "Boniface VIII", in: Dictionnaire d'Histoire et de Géographie ecclésiastiques (IX), Paris 1937, 904 - 909.

Art. "Bulles", in: Dictionnaire de Droit Canonique (I), Paris 1894, 256 - 261

Chenu M.-D., Dogme et théologie dans la bulle "Unam sanctam", in: IDEM, La foi dans l'intelligence (= La Parole de Dieu I), Paris 1964, 361 - 369.

(2.) IDEM, art. "Unam santam", in: Lexikon für Theologie und Kirche. Zweite, völlig neu bearbeitete Auflage (X), Freiburg i. B. 1965, 462.

Dalla Torre G., La città sul monte. Contributo ad una teoria canonistica sulle relazioni fra Chiesa e Comunità politica, Roma 1996 (= Polis 6 - collana dell'Istituto dell'Azione Cattolica Italiana per lo studio dei problemi sociali e politici "Vittorio Bachelet").

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Krebs E., art. "Unam sanctam", in: Lexikon für Theologie und Kirche. Zweite, neubearbeitete Auflage des kirchlichen Handlexikons (X), Freiburg i. B. 1938, 373 - 374.

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LE BRAS G. (ed.), Histoire du droit et des institutions de l'Église en Occident. Tome VII. L'Age Classique (1140 - 1378). Sources et théorie du droit, Paris 1965.

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Maccarrone M., Papato e Impero nella "Monarchia", in: Romana Ecclesia (Roma 1991) 1063 - 1135 (già pubbl. 1976).

(2.) IDEM, "Potestas directa" e "Potestas indirecta" nei teologi del XII e XIII secolo, in: Sacerdozio e Regno da Gregorio VII a Bonifacio VIII (= Miscellanea Historiae Pontificiae, vol. XVIII), Roma 1954, 27 - 48.

(3.) IDEM, La teoria ierocratica e il canto XVI del "Purgatorio", in: IDEM, Romana Ecclesia - Cathedra Petri. A cura di P. Zerbi - R. Volpini - A. Galuzzi, Roma 1991 (= ITALIA SACRA. Studi e documenti di storia ecclesiastica, nn. 47 e 48), 969 -1017 (già pubbl. 1950).

Moulart F. J., L'Église et l'État, ou les deux Puissances. Leur origine, leurs rapports, leurs droits et leurs limites, Louvain 21879, 209 - 217.

Ottaviani A., Institutiones iuris publici ecclesiastici. Vol. II. Ecclesia et Status. Editio quarta emendata et aucta adiuvante Prof. Iosepho Damizia, Città del Vaticano 1960, 103 - 113.

Palmieri D., Tractatus de Romano Pontifice cum prolegomeno de Ecclesia, Prato 1891, 548 - 557.

STICKLER A. M., Sacerdozio e Regno nelle nuove ricerche attorno ai secoli XII e XIII nei decretisti e decretalisti fino alle decretali di Gregorio IX, in: Sacerdozio e Regno da Gergorio VII a Bonifacio VIII (= Miscellanea Historiae Pontificiae, vol. XVIII), Roma 1954, 1 - 26.

Tosti L., Storia di Bonifazio VIII e de' suoi tempi. Vol. II, Roma 1886, 134 - 175.


--------------------------------------------------------------------------------

Cf. Aa. Vv., Sacerdozio e Regno da Gregorio VII a Bonifacio VIII. Studi presentati alla sezione storica del congresso della Pontifica Università Gregoriana. 13 - 17 ottobre 1953 (= Miscellanea Historiae Pontificiae, vol. XVIII, nn. 50 - 57), Roma 1954; cf. anche M. Maccarone, La teoria ierocratica e il canto XVI del "Purgatorio", in: Idem, Romana Ecclesia - Cathedra Petri. A cura di P. Zerbi - R. Volpini - A. Galuzzi, Roma 1991 (= Italia Sacra. Studi e documenti di storia ecclesiastica, n. 48), 974 - 975 (già pubbl. 1950).

M. Maccarone, "Potestas directa" e "Potestas indirecta" nei teologi del XII e XIII secolo, in: Sacerdozio e Regno = Miscellan. Histor. Pont. XVIII (Roma 1954) 27.

Cf. J. Collantes, La fede della Chiesa Cattolica. Le idee e gli uomini nei documenti dottrinali del Magistero, Città del Vaticano 1993 (= trad. ital. di: IDEM, La fe de la Iglesia Católica. Las ideas y los hombres en los documentos doctrinales del Magisterio, Madrid 1983), 460 - 462; cf. sopratutto Tosti L., Storia di Bonifazio VIII e de' suoi tempi. Vol. II, Roma 1886, 134 - 175; vedi anche I. B. Lo Grasso, Ecclesia et Status. Fontes selecti, Roma 1939, 181 - 190, nn. 417 - 438.

Cf. Lo Grasso (Roma 1939) 188, n. 430: "Cum rex commisit omnia quae illi commiserunt et maiora, nos deponeremus regem ita sicut unum garcionem, licet dolore et tristitia magna."

Prima di tutto sarà utile leggere il documento stesso (appendice VI./1., 17 - 19). E prima di leggere la parte III./2. - 5 potrebbe anche essere utile considerare lo schema dell'appendice (VI./2., 20).

Cf. Tosti (Roma 1886) 168. E secondo E. Krebs, art. "Unam sanctam", in: Lexikon für Theologie und Kirche. Zweite, neubearbeitete Auflage des kirchlichen Handlexikons (X), Freiburg i. B. 1938, 374, non c'è nessuna novità né dal punto di vista contenutistico né dal punto di vista storico.

Cf. Collantes (Vaticano 1993) 462, 97: "L'autenticità fu negata da P. MURY, La Bulle Unam Sanctam. Revue de Questions historiques 26 (1879) 91 - 130, e dopo di lui da V. VERLAQUE, Jean XXII, Paris 1883, 54 - 55. Ma successivamente Mury ritrattò la sua opinione: ibid. 46 (1889) 253 - 257." Vedi anche G. Le Bras (ed.), Histoire du droit et des institutions de l'Église en Occident. Tome VII. L'Age Classique (1140 - 1378). Sources et théorie du droit, Paris 1965, 154, 3: "On comprendra que cette décrétale n'ait pu faire partie d'aucune collection officielle; elle ne figurera que parmi les Extravagantes communes (l. 8 De maioritate et oboedientia, c. 1); la papauté est tournée depuis Innocent III et ses successeurs."

Vedi Lo Grasso (Roma 1939) 146 - 148, nn. 328 - 333.

Vedi ibid., 145, nn. 325 - 327

Vedi A. Ottaviani, Institutiones iuris publici ecclesiastici. Vol. II. Ecclesia et Status. Editio quarta emendata et aucta adiuvante Prof. Iosepho Damizia, Città del Vaticano 1960, 105 - 106, sopratutto la nota 19.

Vedi Lo Grasso (Roma 1939) 179 - 181, nn. 410 - 416.

Vedi ibid., 148 - 171, nn. 334 - 391, e sopratutto PL 225,622.1233 (secondo Krebs [LThK 1938] 374).

Cf. D. Palmieri, Tractatus de Romano Pontifice cum prolegomeno de Ecclesia, Prato 1891, 550, (a): "Alter (in Revue des qq. Historiques Paris, Iul. 1879.) ostendit, eam magna ex parte desumptam esse ex opere inedito Aegidii Romani, de Ecclesiastica potestate libri tres." Vedi anche Ottaviani (Vaticano 1960) 105, 15: "Aegidius Colonna, Romae natus anno 1247, supremum diem obiit anno 1316. Notum est eius opus De potestate ecclesiastica, in cuius secunda parte ... principia illimitatae potestatis Ecclesiae in temporalibus ponuntur".

Cf. Tosti (Roma 1886) 173 - 174.

Se non viene annotato niente, le citazioni sono sempre prese direttamente dalla bolla (cf. VI./1., 17 - 19).

De consideratione libri quinque ad Eugenium tertium, lib. 2, c. 8 A (PL 182,752).

Biblia Sacra. Vulgatæ editionis Sixti V. et Clementis VIII Pont. Max. jussu recognita atque edita, Lyon 9/1844.

Ibid.

Ibid.

Cf. M. Maccarrone, Papato e Impero nella "Monarchia", in: Idem (Roma 1991) 1115 (già pubbl. 1976).

Biblia Sacra (Lyon 1844).

Da qui in poi si può usare lo schema menzionato (appendice VI./2., 20).

De consideratione, lib. 4, c. 3 C (PL 182,776).

Cf. Maccarrone, Papato e Impero (Roma 1991) 1085.

Cf. Lo Grasso (Rom 1939) 180, n. 414.

Cf. anche G. B. Ladner, The concepts of "Ecclesia" and "Christianitas" and their relation to the idea of papal "Plenitudo potestatis" from Gregory VII to Boniface III, in: Sacerdozio e Regno = Miscellan. Histor. Pont. XVIII (Roma 1954) 75: "Boniface's conception ... comes very close to the inverted Carolingian tradition according to which all terrestrial power ist part and parcel of the Church: ... 'Ecce gladii duo hic', in ecclesia scilicet, quum Apostoli loquerentur".

Palmieri (Prato 1891) 550.

Cf. Maccarrone, Papato e Impero (Roma 1991) 1096.

Cf. ibid., 1097, 94: "L'argomento è sviluppato da S. Bonaventura particolarmente nel De perfectione evangelica, nel quale definisce il papa, vicario di Cristo, il summus in genere hominum ed asserisce che l'ordo universalis iustitiæ, nel quale comprendeva la giustizia naturale, civile e celeste, richiedeva che ci dovesse essere uno, il vicario di Cristo, al quale ricondurre l'universalis subiectio."

S. Bonaventura, Metaphysica fratris Rogeri, De viciis contractis in studio theologiae (ed. R. STEELE, London 1909, 193) [cit. secondo Maccarone, "Potestas directa" (Roma 1954) 42].

Biblia Sacra (Lyon 1844).

Cf. Maccarrone, Papato e Impero (Roma 1991) 1079 e 1132.

Cf. De sacramentis Chiristianæ fidei, lib. II, p. II, c. 4 D (PL 176,418).

Cf. PL 176, 418 C; cf. anche Alessandro di Hales, Summa theologica 4, q 10 m 5 a 2.

Cf. PL 176,173 - 174: "Secundus liber a principio mundi usque ad finem et consummationem omnium ordine procedit." e PL 176,571 - 572: "Incipit liber secundus de incarnatione Verbi et tempore gratiæ."

PL 176,415 - 416.

PL 176,417.

PL 176,418 B - C.

PL 176,418 C.

Vedi F. J. Moulart, L'Église et l'État, ou les deux Puissances. Leur origine, leurs rapports, leurs droits et leurs limites, Louvain 2/1879, 216, che voule considerare questo "instituere" insieme con il precitato passo della Lettera agli Ebrei e perciò ci sarebbe soltanto il significato "institue chrétiennement, en la bénissant et en la sanctifiant". Ma quest'interpretazione forse tocca più Ugo di S. Vittore stesso. Cf. anche Ladner, The concepts of "Ecclesia" and "Christianitas" (Roma 1954) 75, che pensa nella nota 89: "It is, perhaps, significant that Boniface omitted Hugh's clause ut sit".

Maccarone, "Potestas directa" (Roma 1954) 30.

Cf. Ladner, The concepts of "Ecclesia" and "Christianitas" (Roma 1954) 75.

Bibilia Sacra (Lyon 1844) per il testo mancante nella bolla.

Cf. Tosti (Roma 1886) 174 (cf. Bianchi, Della Potestà Indiretta della Chiesa, lib. 6 § VII, tom. 2.); cf. ad es. Innocenzo III, in: Lo Grasso (Rom 1939) 160 (n. 360), 172 (n. 384).

Biblia Sacra (Lyon 1844) per il testo mancante nella bolla.

Cf. Maccarone, Papato e Impero (Roma 1991) 1084.

Biblia Sacra (Lyon 1844).

Biblia Sacra (Lyon 1844).

P. 2, c. 38, in: R. BUSA (a cura di), S. Thomae Aquinatis opera omnia (3 =) Quaestiones disputatae, quaestiones quodlibetales, opuscula, Stuttgart-Bad Cannstatt 1980, 508.

Vedi anche già sopra III./4.2, 9 - 10, sul brano famoso di Ugo di S. Vittore.

Cf. Collantes (Vaticano 1993) 462, 99.

Ibid., 464, 102; cf. Ladner, The concepts of "Ecclesia" and "Christianitas" (Roma 1954) 55: "Not a few writers ... have been ... ready to hold that the politico-ecclesiological doctrine of the twelth and thirteenth centuries, as it appears in St. Bernhard and Innocent III, in Innocent IV, St. Thomas, and Boniface VIII, and in a vast body of theological and canonistic works, was still based exclusively on the conception of the 'one Ecclesia that was both Church and State'."

Cf. MaC 32,968 E.

Breve Meruit, Extravv. Comm., lib. V., tit. VII, c. 2; Lo Grasso (Rom 1939) n. 439.

Cf. Moulart (Louvain 2/1879) 210: "elle touche à des matières de foi, et le pape, parlant ex cathedra, adresse ses enseignements à l'Église universelle (...) Il n'y a, en effet, que la conclusion qui ait une autorité doctrinale vraiment absolue." Cf. anche M.-D. Chenu, Dogme et théologie dans la bulle "Unam sanctam", in: IDEM, La foi dans l'intelligence (= La Parole de Dieu I), Paris 1964, 364: "la seule clausule finale a valeur dogmatique, les autres éléments sont plus ou moins frappés par le caractère contingent des considérations historiques, politiques, philosophiques dont ils relèvent."

Premessa di DS 870 - 875 (p. 279).

Cf. forse anche Moulart (Louvain 2/1879) 210: "il y parle de la soumission que tous, princes et sujets, doivent à l'autorité que l'Église a reçu de Notre-Seigneur dans le choses de la religion et du salut."

Cf. ibid., 209 - 217!

Ibid., 212 - 213.

Palmieri (Prato 1891) 550.

Collantes (Vaticano 1993) 463; cf. anche ibid., 463, 100: "Filippo accusò il papa di aspirare a una ierocrazia universale, nella quale i principi fossero soggetti e vassalli del pontefice. Gli animi alla corte di Francia erano allora così esasperati che la bolla Ausculta fili fu strappata di mano al latore, Jacopo de´ Normanni, e bruciata pubblicamente. Ne fu poi redatta una falsificazione su richiesta di Pierre Flotte, nella quale era detto: Scire te volumus, quod in spiritualibus et temporalibus nobis subes. Cf TOLOMEO DI LUCCA, Historia Ecclesiastica, in L. A. MURATORI, Rerum Italicarum Scriptores 11, 1222."

H. X. Arquillière, art. "Boniface VIII", in: Dictionnaire de Droit Canonique (XII), Paris 1937, 945.

Ibid.

Cf. ibid., 946.

Si tratta di Matthaeus Card. Acquasparta OFM, che forse avrebbe scritto la bolla per il papa (cf. la premessa prima di DS 870 - 875 [p. 279]). Per esempio Moulart (Louvain 2/1879) 215 prende queste stesse parole del papa come prima prova della sua interpretazione potestas directa tantum in spiritualibus.

Lo Grasso (Rom 1939) 188, n. 430. (Cf. Du Puy, Histoire du différend etc. 77.)

A. M. Stickler, Sacerdozio e Regno nelle nuove ricerche attorno ai secoli XII e XIII nei decretisti e decretalisti fino alle decretali di Gregorio IX, in: Sacerdozio e Regno = Miscellan. Histor. Pont. XVIII (Roma 1954) 25.

Vedi Lo Grasso (Rom 1939) 187, n. 429.

Ibid., 188, n. 430.

Cf. Stickler, Sacerdozio e Regno nelle nuove ricerche (Roma 1954) 24 - 25.

Cf. Ladner, The concepts of "Ecclesia" and "Christianitas" (Roma 1954) 59: "From the latter part of the twelfth century onward, gladius materialis or temporalis more and more often meant political power in general not just coercive power."

Stickler, Sacerdozio e Regno nelle nuove ricerche (Roma 1954) 25; prima di queste parole aveva scritto: "mentre i Papi del detto periodo affermano in teoria e in pratica un tale potere (= potere coattivo materiale, annot. dell'autore) e per lo più sotto la figura della spada materiale e concepiscono il Sacro Romano Impero precisamente in questo senso, dimostrano nello stesso tempo di aderire al tradizionale dualismo di fronte all'autorità statale come tale".

Lo Grasso (Roma 1939) 191 - 192, n. 440; tutta l'' "Allegatio domini pape Bonifacii pro confirmando rege Romanorum Alberto" in: ibid., 191 - 193, n. 440 - 444; cf. anche Maccarrone, Papato e impero (Roma 1991) 1075, 39.

Lo Grasso (Roma 1939), 193, n. 443.

Cf. anche Ottaviani (Vaticano 1960) 109: "Imo non desunt qui dicant hanc doctrinam (= in sensum potestatis directae) a Bonifacio VIII fuisse definitam." (Cf. ad es. De Marca, De concordia sacerdotii et imperii, tom I, Neapoli 1771, II, c. 3, n. 8.)

Cf. ibid., 105, 15: "Aegidius Colonna, Romae natus anno 1247, supremum diem obiit anno 1316. Notum est eius opus De potestate ecclesiastica, in cuius secunda parte ... principia illimitatae potestatis Ecclesiae in temporalibus ponuntur".

H. Hemmer, art. "Boniface VIII", in: Dictionnaire de Thèologie Catholique contenant l'exposé des doctrines de la théologie catholique. Leurs preuve et leur histoire (XII), Paris 1905, 1001.

Pontificium Consilium de Legum Textibus Interpretandis, CCEO auctoritate Ioannis Pauli PP. II promulgatus Fontium annotatione auctus, Città del Vaticano 1995.

Tratto dal Corpus Iuris Canonici (Extravv. commun., lib. I., tit. VIII, "De maioritate et obedientia", cap. I), ed. Friedberg, vol. II, 1245 - 1246.

Le frase in nero vengono citate anche nel DS.

Cf. Eph 4,5.

Cf. Gen 6,16.

Cf. Io 19,23.

Così anche in DHü 871 (i. e. Hünermann P. in: Denzinger H., Enchiridion symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum. Quod emendavit, auxit, in linguam germanicam transtulit et adiuvante Helmuto Hoping edidit Petrus Hünermann, Freiburg i. B. - Basel - Roma - Wien 37/1991, 385.)

Provocatur ad Lc 22,38 et Mt 26,52. - La teoria delle due spade fu già enunciata da Goffredo di Vendôme ed accettata da Bernardo di Chiaravalle, De consideratione, lib. 4, c. 3 C (PL 182,776).

Cf. Ugo di S. Vittore, De sacramentis, lib. II, p. II, c. 4 C (PL 176,418); cf. anche Alessandro di Hales, Summa theologica 4, q 10 m 5 a 2.

Rom 13,2.

Cf. Tommaso d'Aquino, Ctr. errores Græcorum c. 32 (ed. Parm. t. 15,257 [a]/ed. P. Mandonnet, Opuscula omnia 3 [Pa. 1927] 325) oppure: p. 2, c. 38, in: R. BUSA (a cura di), S. Thomae Aquinatis opera omnia (3 =) Quaestiones disputatae, quaestiones quodlibetales, opuscula, Stuttgart-Bad Cannstatt 1980, 508.

Cf. Collantes (Vaticano 1993) 464, 1: "Il verbo latino instituere si potrebbe anche tradurre con 'istruire', ma questa mitigazione non si confà con le fonti e con il contesto."
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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 commento di San Tommaso all’incontro di Gesù con i primi due discepoli

Gv 1,35-42: «"Il giorno dopo Giovanni stava di nuovo là con due discepoli, e, fissando Gesù che passava, disse: Ecco l'Agnello di Dio. Due discepoli udirono queste parole e andarono dietro a Gesù. Gesù si voltò, e, visto che lo seguivano, domandò loro: Chi cercate? E quelli gli dissero: Rabbi (che tradotto vuol dire maestro), dove abiti? Egli rispose loro: Venite e vedrete. Andarono e videro dove egli abitava, e rimasero con lui per quel giorno. Era circa l'ora decima. Andrea, fratello di Simon Pietro, era uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e avevano seguito Gesù. Questi trovò dapprima suo fratello Simone, e gli disse: Abbiamo trovato il Messia (che tradotto vuol dire il Cristo). E lo condusse a Gesù. Gesù fissando bene in lui lo sguardo, disse: Tu sei Simone, il figliuolo di Giona: tu ti chiamerai Cefa, che vuol dire Pietro».

Perché Giovanni, a differenza di Cristo, predica sempre dallo stesso luogo

Il teste lo presenta con la frase: «Il giorno dopo Giovanni stava di nuovo là con due discepoli».
Col dire che «stava» mette in rilievo tre caratteristiche di Giovanni.
Intanto il suo modo d'insegnare, che era diverso da quello di Cristo e dei discepoli di lui. Infatti Cristo insegnava spostandosi qua e là, tanto che Matteo (4,23) scrive: «Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle sinagoghe...».
Così pure gli apostoli insegnavano percorrendo il mondo, attuando l'ordine ricevuto (vedi Mt 28,13): «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura». Giovanni invece insegnava stando fisso in un luogo.
Perciò nel Vangelo si legge: «Giovanni stava...», il che significa che stava fermo in un posto oltre il Giordano, e là istruiva intorno al Cristo tutti quelli che andavano da lui.
La ragione per la quale Cristo e i suoi discepoli insegnavano viaggiando è la seguente: la predicazione di Cristo muoveva alla fede mediante i miracoli.
Perciò egli e i discepoli andavano nelle varie regioni per far conoscere i miracoli e la virtù di Cristo.
Al contrario la predicazione di Giovanni non era confermata dai miracoli; infatti più oltre si dirà (Gv 10,41): «Giovanni non fece alcun miracolo». Essa era piuttosto convalidata dal suo prestigio e dalla santità della sua vita. Perciò «stava» fermo in un luogo, affinché persone da ogni parte potessero recarsi da lui ed essere indirizzate a Cristo. Inoltre, se Giovanni avesse viaggiato qua e là ad annunziare il Cristo, senza far miracoli, ciò avrebbe reso meno credibile la sua testimonianza; poiché avrebbe dato, l'impressione di far ciò in modo importuno e quasi per farsi strada.

Secondo, tale stabilità mette in risalto la costanza di Giovanni nella verità. Egli non era una canna agitata dal vento, ma restò saldo nella fede, conforme I'avvertimento dell'Apostolo (1 Cor 10,12): «Chi crede di stare in piedi stia attento a non cadere»; e nell'atteggiamento del profeta Abacuc (2,1): «Starò fermo al mio posto di vedetta».

Infine possiamo vedere nel verbo stare un significato allegorico: poiché in latino stare significa pure fermarsi, cessare. Leggiamo, per es. 2 Libro dei Re (4, 6): «... e l'olio ristette». Perciò Giovanni venne a fermarsi quando giunse il Cristo, perché quando si presenta la verità deve cessare la figura. Giovanni cessa, perché la Legge passa.

Giovanni, a differenza degli profeti, testimonia la presenza di Gesù

282 - Si passa poi a descrivere la certezza, quale modo con cui viene data la testimonianza: è una attestazione fatta di presenza; infatti il testo dice: «... fissando Gesù che passava».
A tale proposito va notato che già i Profeti avevano parlato di Cristo. Come dicono gli Atti degli apostoli (10,43), «di lui tutti i Profeti rendono testimonianza». E anche gli apostoli testimoniarono Cristo percorrendo le contrade del mondo, secondo le parole del Signore (At 1,8): «Sarete miei testimoni a Gerusalemme, e in tutta la Giudea, ecc.». Ma allora non lo testimoniarono mentre era presente, bensì in sua assenza. I Profeti quindi parlarono del Cristo venturo, gli apostoli del Cristo ormai passato.
Invece Giovanni diede testimonianza a Cristo mentre l'aveva sotto gli occhi. Perciò sta scritto: «... fissando Gesù», naturalmente e con gli occhi del corpo e con quelli della mente, secondo l'esortazione del Salmista (Sal 83,10):. «Guarda il volto del tuo Cristo,..».; e il vaticinio di Isaia. (52, 8): «Lo vedranno con gli occhi, faccia a faccia».
II testo aggiunge: «... che passava», per alludere al mistero della Incarnazione, per cui il Verbo di Dio ha assunto una natura mutevole, come leggeremo nei capitoli seguenti (cf. Gv 16,28): «Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo...».

Giovanni dice: «Ecco l'Agnello di Dio»

283 - Nel testo evangelico segue la formulazione della testimonianza: «Ecco l'Agnello di Dio». Frase che non svela soltanto la virtù di Cristo, ma esprime per essa un senso di ammirazione, secondo il detto di Isaia (9,6): «Sarà chiamato col nome di Ammirabile...».
E realmente possiede una potenza meravigliosa questo agnello, il quale una volta ucciso ha ucciso il leone, quel leone del quale sta scritto (1 Pt 5, 8): «Il vostro avversario, il diavolo, si aggira come un leone ruggente, cercando chi divorare». Per tale motivo lo stesso agnello meritò di essere chiamato leone vittorioso e glorioso. Così nell'Apocalisse (5, 5): «Ecco ha vinto il leone della tribù di Giuda».
Giovanni dà una testimonianza concisa: «Ecco l'Agnello di Dio!», sia perché i discepoli ai quali la presentava erano già istruiti abbastanza sulla realtà di Cristo da quanto avevano udito da lui; sia anche perché quelle poche parole bastavano per esprimere ciò, a cui, mirava Giovanni, e che altro non era se non condurli a Cristo.
Però non dice loro: Andate da lui; affinché non sembri che i discepoli facciano un favore a Cristo nel seguirlo ma mette in risalto la grazia che li arricchisce, in modo che essi considerino una fortuna poterlo seguire. Di qui l’esclamazione «Ecco l’Agnello di Dio!», cioè, «ecco colui che possiede la grazia e la virtù di purificare dai peccati». Difatti, come abbiamo spiegato sopra, l'agnello veniva offerto per i peccati.

Andrea e Giovanni seguono Gesù

284 - Nei versetti seguenti, a cominciare dalla frase: «I due discepoli, sentendolo parlare così... », vengono descritti i frutti di tale testimonianza.
In primo luogo, vengono presentati i frutti della testimonianza di Giovanni e dei suoi discepoli, in secondo luogo il frutto proveniente dalla predicazione di Cristo, là dove dice: «L'indomani decise di partire per la Galilea».

Riguardo al primo punto vengono descritte separatamente due cose: primo, il frutto prodotto dalla testimonianza di Giovanni. Secondo, quello derivato dalla predicazione di uno dei suoi discepoli, a cominciare dal versetto: «Andrea, fratello di Simon Pietro, era uno dei due...».
Circa gli effetti della testimonianza di Giovanni vengono esaminate due cose: primo il cominciamento di questo frutto; secondo il suo compimento operato da Cristo, là dove si dice: «Gesù si voltò...».

285 - Per il cominciamento il testo inizia con la frase: «I due discepoli», che erano con lui, «sentendolo parlare (Ecco l'Agnello di Dio!), seguirono Gesù». Letteralmente: «Andarono con lui».
Su questa pericope ci sono da fare, secondo il Crisostomo, quattro considerazioni.
Primo, si noti che qui Giovanni parla mentre Cristo tace; e per la parola di Giovanni i suoi discepoli si aggregano al Cristo. Ora questo fatto accenna a un mistero. Infatti Cristo è lo sposo della Chiesa, mentre Giovanni è l'amico e il paraninfo dello sposo. Ebbene, il compito del paraninfo è quello di consegnare la sposa allo sposo e di trasmetterne verbalmente i patti; invece il compito dello sposo è quello di tacere per un senso di riserbo, e di disporre poi della sposa a suo piacimento. Alla stessa maniera i due discepoli sono consegnati a Cristo da Giovanni quasi fossero fidanzati con lui mediante la fede. Qui Giovanni parla e Cristo tace; ma poi è il Signore che istruisce con diligenza coloro che ha accolto.
Secondo, va notato che quando Giovanni aveva proclamato la dignità del Cristo, affermando: «Egli è stato fatto prima di me...»; oppure: «... Io non sono degno di sciogliere il legaccio dei suoi sandali», nessuno si era convertito. Ora invece che parla delle umiliazioni di Cristo e del mistero dell'Incarnazione, subito alcuni discepoli si mettono al suo seguito. E questo avviene perché l'umiltà di Cristo e le sofferenze da lui sofferte per noi ci muovono maggiormente. Ed ecco perché nel Cantico dei Cantici (1,2) è detto di lui: «Il tuo nome è come olio profumato che si spande», si traduce cioè nella misericordia, con la quale hai procurato la salvezza di tutti; e continua: «per questo le fanciulle ti hanno molto amato».
Terzo, le parole della predicazione sono come un seme che cade su terreni diversi: in uno porta frutto e in un altro no. Così quando Giovanni predica non tutti i suoi discepoli si convertono a Cristo, ma due soltanto, vale a dire quelli che erano ben disposti. Gli altri, al contrario, guardano a Cristo con invidia, e vengono a porgli dei quesiti, come vediamo nel racconto di Matteo (9,14).
Quarto, si noti che i discepoli di Giovanni, una volta ascoltata la sua testimonianza sul Cristo, non si azzardarono a parlare subito all'improvviso con lui, ma cercarono di conversare con lui in un luogo appartato, privatamente e quasi guardinghi, con una certa vergogna e di nascosto. Del resto nell'Ecclesiaste (8,6) si legge: «Per ogni cosa c'è un tempo e un'occasione opportuna».

Gesù si voltò e disse: "che cosa cercate?"

284 - Nei versetti seguenti, a cominciare dalla frase: «I due discepoli, sentendolo parlare così... », vengono descritti i frutti di tale testimonianza.
In primo luogo, vengono presentati i frutti della testimonianza di Giovanni e dei suoi discepoli, in secondo luogo il frutto proveniente dalla predicazione di Cristo, là dove dice: «L'indomani decise di partire per la Galilea».

Riguardo al primo punto vengono descritte separatamente due cose: primo, il frutto prodotto dalla testimonianza di Giovanni. Secondo, quello derivato dalla predicazione di uno dei suoi discepoli, a cominciare dal versetto: «Andrea, fratello di Simon Pietro, era uno dei due...».
Circa gli effetti della testimonianza di Giovanni vengono esaminate due cose: primo il cominciamento di questo frutto; secondo il suo compimento operato da Cristo, là dove si dice: «Gesù si voltò...».

285 - Per il cominciamento il testo inizia con la frase: «I due discepoli», che erano con lui, «sentendolo parlare (Ecco l'Agnello di Dio!), seguirono Gesù». Letteralmente: «Andarono con lui».
Su questa pericope ci sono da fare, secondo il Crisostomo, quattro considerazioni.
Primo, si noti che qui Giovanni parla mentre Cristo tace; e per la parola di Giovanni i suoi discepoli si aggregano al Cristo. Ora questo fatto accenna a un mistero. Infatti Cristo è lo sposo della Chiesa, mentre Giovanni è l'amico e il paraninfo dello sposo. Ebbene, il compito del paraninfo è quello di consegnare la sposa allo sposo e di trasmetterne verbalmente i patti; invece il compito dello sposo è quello di tacere per un senso di riserbo, e di disporre poi della sposa a suo piacimento. Alla stessa maniera i due discepoli sono consegnati a Cristo da Giovanni quasi fossero fidanzati con lui mediante la fede. Qui Giovanni parla e Cristo tace; ma poi è il Signore che istruisce con diligenza coloro che ha accolto.
Secondo, va notato che quando Giovanni aveva proclamato la dignità del Cristo, affermando: «Egli è stato fatto prima di me...»; oppure: «... Io non sono degno di sciogliere il legaccio dei suoi sandali», nessuno si era convertito. Ora invece che parla delle umiliazioni di Cristo e del mistero dell'Incarnazione, subito alcuni discepoli si mettono al suo seguito. E questo avviene perché l'umiltà di Cristo e le sofferenze da lui sofferte per noi ci muovono maggiormente. Ed ecco perché nel Cantico dei Cantici (1,2) è detto di lui: «Il tuo nome è come olio profumato che si spande», si traduce cioè nella misericordia, con la quale hai procurato la salvezza di tutti; e continua: «per questo le fanciulle ti hanno molto amato».
Terzo, le parole della predicazione sono come un seme che cade su terreni diversi: in uno porta frutto e in un altro no. Così quando Giovanni predica non tutti i suoi discepoli si convertono a Cristo, ma due soltanto, vale a dire quelli che erano ben disposti. Gli altri, al contrario, guardano a Cristo con invidia, e vengono a porgli dei quesiti, come vediamo nel racconto di Matteo (9,14).
Quarto, si noti che i discepoli di Giovanni, una volta ascoltata la sua testimonianza sul Cristo, non si azzardarono a parlare subito all'improvviso con lui, ma cercarono di conversare con lui in un luogo appartato, privatamente e quasi guardinghi, con una certa vergogna e di nascosto. Del resto nell'Ecclesiaste (8,6) si legge: «Per ogni cosa c'è un tempo e un'occasione opportuna».

Maestro dove abiti?

290 - Segue la risposta dei discepoli: «E quelli dissero: Rabbi…».
Richiesti di una cosa, ne rispondono due.
Primo, dicono perché seguono Cristo: cioè per imparare; ed e per questo che lo chiamano Rabbi, ossia Maestro. Come se dicessero: Chiediamo che tu ci insegni. Infatti già presupponevano quello che si legge in Matteo (23,10): «Uno solo è il vostro Maestro: il Cristo».
Secondo, rispondono interrogando a loro volta: «Dove abiti?». In senso letterale sì può dire che cercavano realmente la dimora di Cristo. Infatti, date le cose mirabili e grandi che di lui avevano udito da Giovanni, non si contentano di interrogano sommariamente e una volta sola, ma volevano farlo spesso e a fondo; perciò ne volevano conoscere la casa, per poter accedere spesso a lui, secondo il consiglio del Savio (Sir 6,36): «Se vedi un uomo sensato, vanne in cerca di buon mattino»; e secondo la sentenza dei Proverbi (4, 34): «Beato l'uomo che mi ascolta e che veglia quotidianamente alle mie porte».
In senso allegorico la casa di Dio è il cielo, secondo l'espressione del Salmista (122,1): «A te innalzo i miei occhi, a te che dimori nei cieli». Perciò quei due chiedono a Cristo dove abiti, perché dobbiamo seguirlo per giungere al cielo, ossia alla gloria celeste.
In senso morale poi, la domanda: «Dove abiti?», esprime il desiderio di sapere quali debbano essere gli uomini, per esser degni di ricevere Cristo affinché abiti in essi. Di tale inabitazione così si parla in Ef 2,22: «Voi pure siete parte di questo edificio, che ha da essere abitacolo di Dio nello Spirito». E nel Cantico dei Cantici (1,6): «Dimmi, amore dell'anima mia, dove pascoli, dove tu riposi nel meriggio».

“Venite e vedete”: in quale modo si incontra Gesù

291 - Segue l'istruzione dei discepoli da parte di Cristo, con quelle parole: «Venite e vedete...». In proposito notiamo tre cose: primo, viene descritta tale istruzione; secondo, viene esaltata l'obbedienza dei discepoli: «Vennero e videro... »; terzo, viene precisato il tempo di tale evento: «Era quasi l'ora decima»,

292 - Per prima cosa egli dice: «Venite e vedete...» dove io abiti. Ma qui nasce un problema: come fa il Signore a dire: «Venite e vedete dove io abito», quando altrove (Mt 8,20) dichiara: «Il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo»?
Risposta: A detta del Crisostomo, quando il Signore dichiara che «il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo» vuole soltanto chiarire di non avere una abitazione propria; non già che non avesse alloggio in casa d'altri. Egli quindi nel dire: «Venite e vedete» invitava quei due a vedere questo alloggio.
In senso mistico tale invito, «Venite e vedete», serve a indicare che la dimora di Dio, sia quella della grazia, che quella della gloria, non si può conoscere se non per esperienza: perché non si può esprimere a parole. Nell'Apocalisse (2,17), vi si allude in quel passo: «A chi vince.., darò un sassolino bianco, e nel sassolino sta scritto un nome nuovo, che nessuno sa, se non chi lo riceve». Di qui l'invito: «Venite e vedete»: venite col credere e con l'operare; vedete con l'esperienza e con il contemplare.

293 - Si deve notare che a questa conoscenza si giunge in quattro modi.
Primo, mediante il compimento di opere buone ed è per questo che dice: «Venite». Già il Salmista (4,3) aveva detto: «Quando verrò e comparirò al cospetto di Dio?».
Secondo, mediante la quiete e la calma dell'anima. «Calmatevi e vedete che io sono Dio...» (Sal 45,11).
Terzo, mediante il godimento della dolcezza di Dio. «Gustate e vedete come è soave il Signore» (Sal 33,9).
Quarto, mediante l'esercizio della devozione. Geremia esortava: «Alziamo i nostri cuori insieme con le palme...» (Lam 3,41). Ecco perché il Signore risorto dirà (Lc 24, 39): «Palpate e vedete...».

Andarono e videro e rimasero con lui per tutto quel giorno

294 - Segue subito nel testo l'obbedienza dei discepoli: «Andarono e videro»; e poiché accedendo videro, e vedendo non vollero lasciarlo, si aggiunge: «E rimasero con lui per tutto quel giorno». Infatti, come il Signore dirà in seguito (Gv 6,45), «chiunque ha udito il Padre ed ha appreso viene a me». Quelli invece che si allontanano da Cristo non l'hanno ancora veduto, o conosciuto come bisogna vederlo.
Ma questi che lo videro con una fede perfetta «rimasero con lui per tutto quel giorno». Ascoltando e vedendo trascorsero un giorno felice e una notte beata, da dover esclamare con la regina di Saba: «Beati i tuoi uomini e beati i tuoi servi, che stanno sempre davanti a te» (1 Re 10,8). Perciò, come esorta sant'Agostino «edifi-chiamogli anche, noi nel nostro cuore una casa, in cui egli venga stare e a insegnare».
Usa l'espressione «per quel giorno», perché non può esserci notte, dove c'è la luce di Cristo, il sole di giustizia.

295 - Segue nel testo la determinazione dell'ora: «Era quasi l'ora decima». E l'Evangelista ha voluto rilevarla, per mettere in risalto, nel senso letterale, la virtù di Cristo e dei discepoli. Infatti l'ora decima è l'ora del tramonto: perciò la circostanza fa onore a Cristo, il quale era tanto zelante nell'insegnare, da non rifiutarsi di istruirli per l'ora così avanzata, ma si mise a istruirli alla decima ora. Proprio secondo il consiglio dell'Ecclesiaste (11,6): «Al mattino semina la tua semente, e la sera non stia oziosa la tua mano...».

296 - Ciò fa ugualmente onore alla temperanza dei due discepoli. Poiché all'ora decima in cui gli uomini sono soliti cenare, ed essere meno sobri e meno disposti ad apprendere la sapienza, essi erano così sobri e disposti all'ascolto da non essere distolti né dal cibo, né dal vino. Non c'è però da meravigliarsi, perché erano discepoli di un maestro, Giovanni, la cui bevanda era l'acqua, e le cui vivande erano le locuste e il miele selvatico.

297 - Secondo Agostino l'ora decima sta a significare la Legge, che venne promulgata nei dieci comandamenti. Perciò era l'ora decima quando questi due vennero e si trattennero con Cristo; affinché la Legge avesse in Cristo quel compimento, che non aveva ricevuto dai giudei. Ecco perché a quell'ora, nella decima ora, Cristo per la prima volta viene chiamato Rabbi, cioè Maestro.

Andrea, fratello di Simon Pietro...

298 - Nella frase seguente: «Andrea, fratello di Simon Pietro...», viene presentato il frutto prodotto da uno dei discepoli di Giovanni, convertitosi a Cristo.

E in proposito vengono precisate tre cose: primo, la descrizione di quel discepolo; secondo, il frutto che da lui ebbe inizio; terzo, si descrive la maturazione del frutto, compiuta da Gesù: «Gesù, fissando bene in lui lo sguardo, disse...».

299 - La descrizione di detto discepolo implica varie cose: primo, il nome: «Andrea, fratello di Simon Pietro...». Andrea significa virile, e richiama l'esortazione del Salmo (30, 25): «Comportatevi virilmente, e prenda coraggio il vostro cuore». Ne viene qui ricordato il nome per sottolineare i suoi privilegi: sia perché fu il primo a convertirsi perfettamente alla fede di Cristo; sia perché se ne fece predicatore. Cosicché come santo Stefano fu il primo martire dopo Cristo, così sant'Andrea fu il primo cristiano.

Secondo, la descrizione accenna alla parentela: «... fratello di Simon Pietro», e ciò perché più giovane di lui. Ma anche questo ridonda a suo onore; perché, pur essendo minore di età, divenne primo nella fede.
Terzo, accenna alla scuola da cui proveniva; poiché «egli era uno dei due che avevano udito da Giovanni». Di lui solo però si ricorda il nome, per mettere così in evidenza l'insigne privilegio di Andrea. Si tace invece il nome dell'altro discepolo: o perché quest'altro era l'Evangelista Giovanni, il quale ha l'abitudine di non nominare mai se stesso, per umiltà, nel proprio Vangelo quando si parla di lui; oppure, secondo il Crisostomo, perché costui non fu un personaggio insigne, e non fece nulla di grande; cosicché non avrebbe giovato a nulla fare il suo nome. Allo stesso modo Luca nel cap. 10 si astenne dal riferire i nomi dei settantadue discepoli, che il Signore mandò due a due davanti a sé, perché non furono persone importanti e celebri, come furono invece gli apostoli. Ovvero, come pensava Alcuino , quel discepolo era Filippo: e ciò logicamente; perché l'Evangelista subito dopo aver riferito di Andrea, parla di Filippo: «Il giorno seguente Gesti volle andare in Galilea, e trovato Filippo...».
Quarto, Andrea viene elogiato per la sua incondizionata devozione: «.,. avevano seguito Gesti». Ecco perché avrebbe potuto ripetere con Giobbe (23, 11): «Alle orme di lui s'attenne il mio piede».

Andrea ne parla a Simone, suo fratello

300 - Passa a trattare del frutto iniziato da Andrea, con le parole: «Questi trovò dapprima suo fratello Simone...». Per prima cosa viene indicato colui presso il quale fece frutto, cioè suo fratello: e ciò sottolinea la perfezione della sua conversione. Infatti, come dice san Pietro nell'Itinerarium Clementis, è segno evidente di una perfetta conversione quando il convertito, nella misura in cui è piti affezionato a qualcuno, phi s'industria di convertirlo a Cristo. Perciò Andrea, perfettamente convertito, non tenne per sé il tesoro che aveva trovato, ma si affrettò e corse subito dal fratello, per comunicargli i beni ricevuti.

Ecco perché il testo usa la frase: «Questi», ossia Andrea, «trovò dapprima suo fratello Simone», che evidentemente cercava; affinché come era suo fratello carnale, cosí diventasse suo fratello di fede. Nei Proverbi (18,19) si legge: «Un fratello aiutato da un fratello è come una città fortificata». E nell'Apocalisse (22,17): «Chi ascolta dice: Vieni».

301 - In secondo luogo si riferiscono le parole di Andrea: «Abbiamo trovato il Messia (che tradotto vuol dire il Cristo)».
Secondo il Crisostomo, Andrea risponde qui a un quesito non formulato. Se uno gli avesse chiesto su quale argomento fosse stato istruito da Cristo, la risposta sarebbe risultata evidente: era stato istruito a riconoscere, mediante le testimonianze della Scrittura, che Gesù era il Cristo. Perciò dice: «Abbiamo trovato...». La frase mostra inoltre che lo aveva cercato a lungo col desiderio, memore dell'insegnamento dei Proverbi (3,13): «Beato l'uomo che trova la sapienza...».
Il termine ebraico Messia equivale al greco Cristo, e al latino Unto, consacrato; poiché Gesù fu unto in modo speciale con l'olio invisibile che è lo Spirito Santo. Ecco perché di proposito lo chiama con questo nome, accennando alle parole del Salmo (44,8): «Ti ha unto Dio, il tuo Dio, con olio di letizia a preferenza dei tuoi uguali», ossia di tutti i santi. Infatti i santi ricevono tutti l'unzione con quest'olio; ma costui fu unto e consacrato in maniera singolare, ed è singolarmente santo. Per questo, nota il Crisostomo, qui non è chiamato semplicemente Messia, bensì «il Messia», con l'articolo determinativo.

«... lo condusse da Gesù» e Gesù svela a Pietro la propria divinità

302 - In terzo luogo viene posto il frutto che Andrea ottenne con Pietro: «... lo condusse da Gesù».
E in ciò risalta l'obbedienza di Pietro; perché accorse subito, senza ritardo.
E si noti la devozione e dedizione di Andrea: lo condusse a Gesù, non a se stesso (ben sapendo di essere una fragile creatura); quindi lo condusse a Gesù perché lui direttamente lo istruisse.
Indicava così quale debba essere l'impegno e lo sforzo dei predicatori: non devono ambire per sé i frutti della predicazione così da cercare il proprio vantaggio e il proprio prestigio, ma devono portare a Gesù, ossia a rendere a lui gloria ed onore. San Paolo di sé diceva (2 Cor 4, 5): «Noi non predichiamo noi stessi, ma Gesù Cristo...».

303 - Si passa quindi a descrivere il compimento, la maturazione di questo frutto: «Gesù fissando bene in lui lo sguardo, disse...». Cristo volendo sollevare Simone alla fede nella propria Divinità, cominciò a produrre opere che sono proprie della Divinità, svelando cose occulte.
Primo, cominciò a svelare cose occulte, ma presenti. «Fissò bene in lui il suo sguardo», vale a dire che lo scrutò con la virtù della sua Divinità e gli disse qual era il suo nome: «Tu sei Simone». Né c'è da meravigliarsi; perché, come è detto in 2 Sam 16, 7, «l'uomo guarda all'apparenza, il Signore guarda al cuore».
Inoltre questo nome si addice a Pietro per il suo significato mistico. Infatti Simone significa obbediente, e indica che l'obbedienza è indispensabile per chi si converte a Cristo mediante la fede. Negli Atti (5,32) si accenna al fatto, che «Dio dà lo Spirito Santo a coloro che gli obbediscono».

304 - Secondo, rivela cose occulte, ma passate, svelandone la paternità: «... sei figliuolo di Giovanni»; perché così era chiamato tuo padre. Oppure, secondo Matteo, «figlio di Giona», «Simone Bariona».
Entrambi i nomi offrono validi significati mistici. Perché Giovanni significa grazia, e indica che gli uomini vengono alla fede di Cristo mediante la grazia, secondo l'espressione paolina (cf. Ef 2,5): «per grazia siete stati salvati...».
Giona invece significa colomba, e indica che noi veniamo resi stabili nell'amore di Dio dallo Spirito Santo che ci è stato dato, come si legge nell'Epistola ai Romani (5, 5): «La carità di Dio si è riversata nei nostri cuori per lo Spirito Santo che ci è stato dato».

305 - Terzo, svela le cose occulte del futuro, dicendo: «Tu ti chiamerai Cefa, che vuoi dire Pietro», mentre in greco significa capo.
E tutto ciò è intonato al mistero; affinché colui che doveva essere a capo di altri e vicario di Cristo, fosse radicato nella fermezza. Di qui le parole evangeliche (Mt 16,18): «Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa».

306 - Abbiamo qui un problema di esegesi letterale. Perché Cristo impose il nome a Pietro all'inizio della sua conversione, e non volle che venisse così denominato fin dalla nascita?
Ci sono in proposito due soluzioni. Secondo il Crisostomo i nomi imposti da Dio stanno a indicare una certa eminenza di grazia spirituale. Ora, quando Dio conferisce a qualcuno una grazia speciale fin dalla nascita, gli impone fin da allora il nome che esprime tale grazia. Ciò è evidente nel caso di Giovanni Battista, che ebbe il nome da Dio prima che nascesse; perché fu santificato fin dal seno materno. Talora invece questa eminenza di grazia specialissima viene conferita nel corso degli anni; e allora tali nomi vengono imposti da Dio non alla nascita, bensì nel corso degli anni. Ciò è evidente nel caso di Abramo e di Sara, ai quali venne cambiato il nome quando ebbero la promessa che si sarebbe moltiplicata la loro stirpe. Allo stesso modo anche Pietro venne così denominato da Dio quando fu chiamato alla fede di Cristo e alla grazia dell'apostolato, e quando specialmente venne costituito principe degli apostoli di tutta la Chiesa; il che non avvenne per gli altri apostoli.
Invece secondo sant'Agostino il motivo di tale dilazione sta nel fatto che, se egli fosse stato chiamato Cefa fin dal principio, non sarebbe risultato con chiarezza il mistero. Perciò il Signore volle che ricevesse quel nome soltanto allora, affinché col mutamento del nome apparisse il mistero della Chiesa, che era fondata sulla confessione di fede dell'apostolo Pietro. Pietro infatti viene da pietra; «e la pietra era Cristo» (1 Cor 10, 4). Perciò nel nome di Pietro è figurata la Chiesa, che è edificata sopra una pietra immobile, ossia su Cristo.


Pubblicato 18.01.2012

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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[SM=g1740758] Due Papi in Vaticano: ma chi guiderà davvero la Chiesa?
Dopo due mesi a Castel Gandolfo, Ratzinger è tornato a Roma: ora abbiamo due Pontefici "vicini di casa"! Non riesco ad abituarmi alla novità...
Cordiali saluti
Don Marco, Firenze


monastero Benedetto


Risponde: Mons. Rino Fisichella, Presidente del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione
10. 5. 2013  - settimanale Oggi

In effetti stiamo assistendo a fatti straordinari che fanno storia. Non sappiamo ancora quante sorprese ci saranno riservate in futuro, ma è certo che questo 2013 sarà ricordato come l’anno della rinuncia al papato di Benedetto XVI. Non riesco ancora a comprendere se questo gesto darà inizio a una serie di altre rinunce da parte dei prossimi Papi, oppure se il fatto rimarrà isolato, come fu quello di  Celestino V nel 1294. Conta ricordare che nella Chiesa non ci sono due Papi come spesso si legge e si sente dire.

Il Papa è sempre e soltanto uno. Quando negli esempi storici che possediamo si è in presenza di più Papi, per salvaguardare l’unico Papa che aveva il diritto di esserlo gli altri sono stati chiamati «antipapi». Nel nostro caso, sappiamo che Benedetto XVI ha rinunciato liberamente e volontariamente a continuare a essere il successore di Pietro. Ciò significa che ora è tornato a essere un vescovo come tutti gli altri. Infatti il “potere” che il Papa possiede non può essere condiviso con un altro anche se lo volesse. Gesù ha scelto solo Pietro e a lui ha affidato il compito di custodire la Chiesa. Il successore di Pietro, a differenza degli altri vescovi, ha un compito unico e il suo ministero può essere esercitato solo da lui. Ciò non toglie che chieda consiglio o si lasci aiutare da chi desidera, ma ciò non intacca la sua specificità e unicità.

Il Papa è segno dell’unità della Chiesa. Tutti i credenti si riconoscono in lui come colui che è chiamato a confermare nella fede. La fede è una, come uno è il battesimo e una la speranza alla quale siamo chiamati. Comprendo il disorientamento. Ciò che importa, tuttavia, non è il vestito o la residenza, ma il ruolo svolto. Quindi è bene tenere fisso lo sguardo su chi ora il Signore ha chiamato a reggere la sua Chiesa, e questi si chiama Papa Francesco.

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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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[SM=g1740758]  Primato Petrino e la collegialità dei Vescovi

06.03.2013 09:58

 

Primato Petrino o semplice collegialità fra "pari"?

 

Cari amici, anche a causa della storica rinuncia di Benedetto XVI alla guida attiva della Chiesa, da molte parti si è riacceso un dibattito che vede in testa le schiere progressiste e moderniste nella Chiesa in quella martellante collegialità atta a scardinare il ruolo del Primato Petrino.

Da più parti si invoca, in tal senso, un Successore che possa modificare le più imponenti Dottrine della Santa Chiesa, aggiornandole dicono, alle necessità del nostro tempo. La stessa rinuncia del Pontefice sembra dar credito a questa pressione.

Ma le cose stanno veramente così?

Non ci soffermeremo sulle stravaganti e recidive affermazioni di chi vorrebbe imporre una propria immagine di Chiesa con altrettanti visionari ruoli, né vogliamo perdere il tempo a fare elenchi di nomi assai noti, piuttosto vogliamo aiutare il lettore a comprendere cosa insegna la Chiesa, come ha insegnato fino all'ultimo lo stesso Benedetto XVI anche per comprendere che la sua rinuncia non ha nulla a che vedere con certe proposte di cambiamento.

Resta illuminante un punto indiscutibile: anche i più reazionari, atei o eretici che fossero, tutti guardano alla Sede Petrina come ad un primato unico e fondamentale a tal punto che, diabolicamente, non vogliono rinnegare tale primato, ma sovvertirlo, usarlo per l'edificazione di una chiesa del mondo. Come i preti che vogliono sposarsi tanto per affermare il detto di chi vuole la botte piena e la moglie ubriaca. O come le donne che pretendono il sacerdozio, dunque non lo rinnegano affatto, ma lo vogliono come rivendicazione di una parità con il maschio.

Sembra davvero ignoto a molti (è stato fatto un piccolo sondaggio a livello parrocchiale ed è risultato che nessun sacerdote conosce questo testo) un importante Documento della CdF firmato dall'allora cardinale Ratzinger in qualità di Prefetto e, naturalmente, firmato e approvato dall'allora Pontefice Giovanni Paolo II, si tratta del testo ufficiale:

Il Primato del Successore di Pietro nel Mistero della Chiesa.

 

Ma facciamo un breve passo indietro.

"Eminenza, c'è chi dice che sia in atto un processo di "protestantizzazione" del cattolicesimo".

La risposta, come al solito, accetta in pieno la battuta: "Dipende innanzitutto da come si definisce il contenuto di " protestantesimo ". Chi oggi parla di "protestantizzazione" della Chiesa cattolica, intende in genere con questa espressione un mutamento nella concezione di fondo della Chiesa, un'altra visione del rapporto fra Chiesa e vangelo. Il pericolo di una tale trasformazione sussiste realmente; non è solo uno spauracchio agitato in qualche ambiente integrista".

(Rapporto sulla Fede - Intervista di V. Messori a J. Ratzinger cap.XI)

 

Nell' approfondire l'argomento, vi invitiamo a munirvi anche di un eccellente tascabile: "Pietro ama e unisce - la responsabilità del Papa per la Chiesa universale" .

In questo libro si affronta proprio la questione della collegialità e delle false interpretazioni che hanno scalfito (si legge proprio così) lo stesso dialogo Ecumenico rischiando, molte volte di confondere il Primato di Pietro con la Collegialità dei Vescovi.

A pag. 19, per esempio, vi è riportato un disappunto dell'allora card. Ratzinger proprio su queste false interpretazioni.

Ratzinger fa emergere e denuncia "i malintesi" sorti con un altra affermazione al tempo del grande Giubileo del 2000: per una comprensione di "comunione basterebbe accogliere il Mistero della Trinità"...... Sì, dice Ratzinger in sostanza, riconoscere la Trinità è importante, ma non è sufficiente per parlare di "comunione".

e dice: " Nella misura in cui communio divenne un facile slogan, essa fu appiattita e travisata...." e aggiunge che lo stesso "malinteso" avvenne per il concetto di "popolo di Dio" e così anche l'Eucarestia cominciò a ridursi alla problematica del rapporto fra chiesa locale e Chiesa Universale, che a sua volta ricadde sempre più nel problema della divisione di competenze fra l'una e l'altra...."

 

Così Ratzinger cercò di citare la Lettera ai Vescovi "Communions notio" del 28.5.1992 la quale insegna espressamente la precedenza ontologica e temporale della Chiesa Universale sulla Chiesa particolare....

Ratzinger nel raccontare quei momenti denuncia con profondo rammarico di come "si abbattè una grandinata di critiche da cui ben poco riuscì a salvarsi", in sostanza ci fu un "ammutinamento di molti Vescovi" contro il quale nulla poterono fare (o forse non vollero per timore di un grave scisma) Giovanni Paolo II e lo stesso Ratzinger, se non ribadire l'insegnamento della Chiesa.

Ratzinger rispose allora spiegando ragionevolmente il suo testo sulla base della Scrittura e sulla stessa Patristica e confessò di non riuscire a comprendere le obiezioni che, disse il Prefetto di allora e poi Pontefice: "potrebbero sembrare possibili solo se non si vuole e non si riesce più a vedere la grande Chiesa ideata da Dio con a capo Cefa, per rifugiarsi in una immagine empirica delle Chiese nelle loro relazioni reciproche e nelle loro conflittualità arbitrate più o meno dal collegio dei vescovi, ma questa non è la Chiesa!"

 

E ancor Ratzinger non mancò così di trarre la seguente e grave conclusione:

"Questo però significa che la Chiesa come tema teologico verrebbe cancellata. Se si può vedere la Chiesa ormai solo nella organizzazione umana e nella gestione collegiale, allora in realtà rimane soltanto desolazione. Ma allora non è abbandonata solo l'ecclesiologia dei Padri, ma anche quella del Nuovo Testamento e la stessa concezione di Israele nell'A.T...."

 

Un altra denuncia portata da Ratzinger nel chiarire i vari aspetti dell'Ecumenismo, è quella secondo la quale basterebbe la presenza di un vescovo e di una chiesa-comunità per stabilire una qualche forma di unità senza soffermarsi sull'essenza dottrinale!

Ratzinger denuncia quel relativismo secondo il quale non pochi teologi, erroneamente, si sono posti la domanda " Con quale diritto la Chiesa cattolica si presenta quale unica Chiesa di Cristo?"

La replica di Ratzinger è precisa: "la Chiesa di Cristo esiste realmente. Egli (Gesù Cristo) l'ha voluta, ha posto Pietro alla guida e lo Spirito Santo pur di fronte ad ogni fallimento umano la crea continuamente a partire dalla Pentecoste e la sostiene nella sua identità... (...) di qui è fondamentale sostenere che la Chiesa non è e non deve essere intesa come la somma di tutte le chiese o come la somma delle comunità cristiane con i loro vescovi.....la Chiesa Cattolica sussiste pertanto una e indivisa nella Chiesa ideata da Cristo con a capo Pietro..."

E quando venne eletto Pontefice, successore di questo Pietro, Cefa, Benedetto XVI disse il 23 agosto 2005 all'incontro ecumenico di Colonia:

"Non può esserci un vero dialogo a prezzo della verità; il dialogo deve svolgersi nella carità, certamente, ma soprattutto nella verità.."

Il problema Ratzinger l'aveva individuato molto bene e sta in quel:

"... rifugiarsi in una immagine empirica delle Chiese nelle loro relazioni reciproche e nelle loro conflittualità arbitrate più o meno dal collegio dei vescovi, ma questa non è la Chiesa!"

e in quella grave conseguente conclusione:

"Questo però significa che la Chiesa come tema teologico verrebbe cancellata".

Riguardo così anche ad una ecu-mania volta a smobilitare il Primato Petrino e quindi anche della stessa Chiesa Cattolica, riducendola ad una "inter-paris" con tutte le altre Comunità non cattoliche, così ammoniva il Prefetto diventato Pontefice, sempre nella Communionis Notio:

"Nelle Chiese e Comunità cristiane non cattoliche esistono infatti molti elementi della Chiesa di Cristo che permettono di riconoscere con gioia e speranza una certa comunione, sebbene non perfetta. (..) Siccome però la comunione con la Chiesa universale, rappresentata dal Successore di Pietro, non è un complemento esterno alla Chiesa particolare, ma uno dei suoi costitutivi interni, la situazione di quelle venerabili comunità cristiane implica anche una ferita nel loro essere Chiesa particolare.

La ferita è ancora molto più profonda nelle comunità ecclesiali che non hanno conservato la successione apostolica e l'Eucaristia valida. Ciò, d'altra parte, comporta pure per la Chiesa Cattolica, chiamata dal Signore a diventare per tutti  un solo gregge e un solo pastore, una ferita in quanto ostacolo alla realizzazione piena della sua universalità nella storia.

(...) In questo impegno ecumenico, hanno un'importanza prioritaria la preghiera, la penitenza, lo studio, il dialogo e la collaborazione, affinché in una rinnovata conversione al Signore diventi possibile a tutti riconoscere il permanere del Primato di Pietro nei suoi successori, i Vescovi di Roma, e vedere realizzato il ministero petrino, come è inteso dal Signore, quale universale servizio apostolico, che è presente in tutte le Chiese dall'interno di esse e che, salva la sua sostanza d'istituzione divina, può esprimersi in modi diversi, a seconda dei luoghi e dei tempi, come testimonia la storia".

 


Maggiori informazioni http://anticlericali-cattolici.webnode.it/news/primato-petrino-e-la-colleggialit%c3%a0-dei-vescovi/




[SM=g1740771]  continua.........


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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[SM=g1740758] Quindi: e che, salva la sua sostanza d'istituzione divina, può esprimersi in modi diversi, a seconda dei luoghi e dei tempi, come testimonia la storia, non significa il riconoscimento sincretista di una sorta di "inter-paris" con le altre Chiese particolari (si legga gli Ortodossi) e Comunità Cristiane (si legga i Protestanti che non sono Chiese), o l'appiattimento del ruolo Petrino, infatti leggiamo che per una piena comunione è necessaria: una rinnovata conversione al Signore diventi possibile a tutti riconoscere il permanere del Primato di Pietro nei suoi successori, i Vescovi di Roma.

Sempre attraverso alcuni interventi di Ratzinger in diverse occasioni, viene spiegato il senso corretto per interpretare questa Communions Notio, ossia questa Comunione tra il Papa e i vescovi.

Egli rammenta che il Vangelo di Matteo pone a Simone, Cefa, l'autorità apostolica superiore, collegata certamente all'istituzione degli altri undici "che agiscono in comunione con lui, ma mai senza di lui, sottolinea Ratzinger....(cfr.Mt.10,1; 18,18).

Pietro ha un primato "autorevole" che include l'insegnamento e la guida sicura, egli è istituito "per primo ed in modo singolare e specifico" (Mt.16,18 ss): senza Pietro non esisterebbe alcun ruolo di vescovo perché nessun vescovo potrebbe darsi il mandato da sé stesso, non vi sarebbe alcuna comunione, al contrario vediamo che ci sono vescovi che nella storia della Chiesa hanno creato la divisione separandosi dalla comunione con Pietro, ma essi non hanno dato origine ad altre Chiese bensì hanno dato origine alla divisione nell' unica Chiesa di Cristo che ha al suo vertice visibile Pietro e i suoi Successori in questa Sede.

Così anche il Vangelo di Marco e di Luca pongono il ruolo di Simone in una posizione unica di autorità all'interno del Sacro Collegio.

Luca nel Vangelo e negli Atti approfondisce la parola "primato" (22,31) dove appunto spetta a Simone e solo a Lui confermare gli altri in questa unica Fede. Questo compito non venne chiesto a tutti gli "Undici", ma solo a Pietro. Questo passo va letto con quello di Giovanni, rammenta Ratzinger, in Gv. 21,15-17 dove l'evangelista sottolinea il passaggio da Gesù "supremo Pastore" a Pietro, guida della comunità che è diventato pastore "in sua vece" (da qui il termine "Vicario" di Cristo)!

 

Questa singolarità, spiega Ratzinger, è unica a Pietro e non può essere dissociata quando si parla di collegialità e di comunione tra i vescovi: Pietro possiede una unicità che non è stata data ad altro!

Se infatti gli Atti presentano Pietro come il garante della Dottrina nella Tradizione Cristiana appena nata, Paolo lo riconosce come l'autorità con cui è necessario ed indispensabile concordare (1Cor.9,5) al contrario, nella giovane comunità, non è mai Pietro che scende a compromessi con i presbiteri o i nuovi vescovi appena nominati, lo stesso Paolo nell'istruire Tito e Timoteo, raccomanda ad essi di attenersi "scrupolosamente" alle istruzioni da lui ricevute, istruzioni per le quali andò fino da Cefa (Galati 1;2) per ottenere conferma della sua predicazione!

All'Udienza generale così spiegò Benedetto XVI:

7 giugno 2006, Pietro, la roccia su cui Cristo ha fondato la Chiesa:

"Le tre metafore a cui Gesù ricorre sono in se stesse molto chiare: Pietro sarà il fondamento roccioso su cui poggerà l'edificio della Chiesa; egli avrà le chiavi del Regno dei cieli per aprire o chiudere a chi gli sembrerà giusto; infine, egli potrà legare o sciogliere nel senso che potrà stabilire o proibire ciò che riterrà necessario per la vita della Chiesa, che è e resta di Cristo. E’ sempre Chiesa di Cristo e non di Pietro. E' così descritto con immagini di plastica evidenza quello che la riflessione successiva qualificherà con il termine di "primato di giurisdizione".

 

Concetti che più volte Ratzinger aveva ripreso quando da Cardinale rispondeva alle tante domande che gli venivano poste.

Nello spiegare appunto la Nota sulla Comunione dei Vescovi, egli torna a ribadire l'unicità decisionale spettante a Pietro la quale non può essere inglobata nel concetto di collegialità, ma la collegialità quanto l'esercizio petrino non si contrappongono, non possono disgiungersi, pena la divisione.

"Si deve infatti affermare che la collegialità episcopale non si contrappone all'esercizio personale del primato nè lo deve relativizzare..."

(CdF il primato del successore n.5 EV 17)

 

La collegialità, spiega Ratzinger, viene semmai confermata dalla presenza di Pietro e dalla sua professione di fede: "Così è stato consegnato ad uno solo ciò che doveva essere comunicato a tutti "

(S.Leone Magno, Discorsi, 4,3- pl 54,150,151)

La stessa Lumen Gentium (n.22) asserisce chiaramente come il Vescovo di Roma è L'UNITA' della Chiesa e i Vescovi nel loro insieme e per mezzo dell'obbedienza rappresentano "la comunione con l'unità", non dunque alla pari ma "con Pietro".

Denuncia così lo stesso Ratzinger che dopo il Concilio Vaticano II sia in casa cattolica quanto in campo ecumenico i due termini  "comunione ed unità" non siano stati  compresi distintamente come è sempre stato, ma di come siano stati gravemente confusi e relativizzati.

 




[SM=g1740771]  continua.............



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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[SM=g1740758] L'errore principale parte da un documento messo a punto a Monaco dalle frange ribelli: "Documento di Monaco, III, 4 in Enchiridion Oecumenicum 1"

il teso dice: " L'episkopè della Chiesa universale viene affidata dallo Spirito all'insieme dei vescovi locali, in reciproca comunione", Ratzinger allora sottolinea l'errore del Documento dal quale sembra così, che la comunione derivi unicamente dal riconoscimento reciproco bastante di fratellanza e buona volontà senza più alcun riferimento alla "conferma" da parte di Pietro; inoltre, sottolineava allora il card. della Dottrina della Fede che l'insieme sinodale prenderebbe in tal modo il posto del Primato Romano nella "presidenza" della Chiesa! E questo è inaccettabile, infine, tale documento, affermerebbe che tale primato risiederebbe solo nello Spirito Santo (concetto luterano) mentre come ci insegnano i Vangeli e la Tradizione esso venne affidato da Gesù a Pietro e agli altri undici uniti a Lui. E' Pietro che dà il mandato, che conferma e che riconosce la comunione tra i Vescovi, non il contrario.

La Congregazione per la Dottrina della Fede promulgherà, a condanna della Dichiarazione di Monaco e degli altri documenti analoghi, l’Istruzione sulla vocazione ecclesiale del teologo, emanata il 24 maggio 1990 dal Prefetto card. Joseph Ratzinger con l'approvazione di Giovanni Paolo II. Le Comunità di Base, per bocca di don Franco Barbero, dissero al cardinale Ratzinger di occuparsi non già dei teologi ribelli, ma piuttosto di quelli eccessivamente obbedienti. Intervenì ovviamente anche Martini e mons. Luigi Bettazzi, vescovo di Ivrea, intimò: «il magistero deve ascoltare di più il popolo di Dio».

Come vediamo i nomi sono sempre gli stessi: il lupo cambia il pelo ma non il vizio.

 

C'è anche un interessante riferimento di Ratzinger al Concilio di Calcedonia quando la Chiesa di allora rigettò il canone 28 il quale dice:

XXVIII. Voto sui Privilegi della sede di Costantinopoli.

"Seguendo in tutto le disposizioni dei santi padri, preso atto del canone [III] or ora letto, dei 150 vescovi cari a Dio, che sotto Teodosio il Grande, di pia memoria, allora imperatore si riunirono nella città imperiale di Costantinopoli, nuova Roma, stabiliamo anche noi e decretiamo le stesse cose riguardo ai privilegi della stessa santissima chiesa di Costantinopoli, nuova Roma.

Giustamente i padri concessero privilegi alla sede dell'antica Roma, perché la città era città imperiale.

Per lo stesso motivo i 150 vescovi diletti da Dio concessero alla sede della santissima nuova Roma, onorata di avere l'imperatore e il senato, e che gode di privilegi uguali a quelli dell'antica città imperiale di Roma, eguali privilegi anche nel campo ecclesiastico e che fosse seconda dopo di quella.

Di conseguenza, i soli metropoliti delle diocesi del Ponto, dell'Asia, della Tracia, ed inoltre i vescovi delle parti di queste diocesi poste in territorio barbaro saranno consacrati dalla sacratissima sede della santissima chiesa di Costantinopoli. E’ chiaro che ciascun metropolita delle diocesi sopraddette potrà, con i vescovi della sua provincia, ordinare i vescovi della sua provincia, come prescrivono i sacri canoni; e che i metropoliti delle diocesi che abbiamo sopra elencato, dovranno essere consacrati dall'arcivescovo di Costantinopoli, a condizione, naturalmente, che siano stati eletti con voti concordi, secondo l'uso, e presentati a lui".

 

La Chiesa di Roma - spiegava Ratzinger - non può ritrovarsi in questo perché la sua "maternità" è di natura Apostolica e il suo Primato è di diritto Divino di conseguenza non può scendere a patti o a compromessi equiparandola alle altre Sedi. Per questo la Chiesa insiste molto sul ruolo stesso di Maria nel Cenacolo fino a proclamarla, come lo era già da sempre: Mater Ecclesiae.

E citando sempre il canone 28 di quel Concilio, spiegava il rigetto di tale articolo che la Chiesa manifestò fin dal principio "perchè in base a questo articolo la sede di Costantinopoli poteva rivendicare poteri pari a quelli di Roma a scapito di altri Patriarcati e, dopo la caduta dell'Impero d'Oriente, cominciò infatti a ritenersi quale centro di una ecclesiologia universale verso la quale tutti dovevano sottostare", spostando così il centro della Sede Petrina da Roma a Costantinopoli. E' ovvio che Roma, la Sede Petrina mai e poi mai avrebbe potuto accettare un compromesso di questo genere senza tradire il mandato datole dal Cristo! La Chiesa non difende la "chiesa di Pietro" ma difende un primato legittimo datole dal Cristo, difende il ruolo di Pietro nella Chiesa di Cristo, l'unica Chiesa, così come Pietro, a sua volta, difende il ruolo dei Vescovi in comunione con lui confermandoli nella comune fede, inviandoli nel mondo, assegnando ad essi porzioni di popolo, il gregge di Cristo, non di Pietro o di singoli vescovi come rammenta Gesù stesso a Pietro: "Pasci le mie pecore".

 

E mai avrebbe potuto condividere teorie dette della "traslazione" del primato o come quella della Kidemonia panton secondo cui l'ortodossia doveva essere considerata "un unico organismo con a capo il Patriarca di Costantinopoli", una sorta di "Papa oriental", mentre i vescovi erano i suoi delegati, alla pari, e infatti neppure le altre chiese Ortodosse hanno accettato queste teorie, dando origine alle Chiese dette "autocefale".

Nella sua Lettera ai Vescovi del 2009, proprio per chiarire la questione della Tradizione nella Chiesa associata alla discussione alla FSSPX, il Pontefice Benedetto XVI ha detto:

"Ad alcuni di coloro che si segnalano come grandi difensori del Concilio deve essere richiamato alla memoria che il Vaticano II porta in sé l’intera storia dottrinale della Chiesa. Chi vuole essere obbediente al Concilio, deve accettare la fede professata nel  corso dei secoli e non può tagliare le radici di cui l’albero vive".

 

Nel discorso che  Papa Benedetto XVI ha tenuto l'anno prima, nel 2008 per la Pentecoste, ritroviamo ripetuti i medesimi concetti che stiamo esprimendo qui:

11 maggio 2008: Cappella Papale nella Solennità di Pentecoste...

dice il Papa :

"Societas Spiritus", società dello Spirito: così sant’Agostino chiama la Chiesa in un suo sermone (71, 19, 32: PL 38, 462). Ma già prima di lui sant’Ireneo aveva formulato una verità che mi piace qui ricordare: "Dov’è la Chiesa, là c’è lo Spirito di Dio, e dov’è lo Spirito di Dio, là c’è la Chiesa ed ogni grazia, e lo Spirito è la verità; allontanarsi dalla Chiesa è rifiutare lo Spirito" e perciò "escludersi dalla vita" (Adv. Haer. III, 24, 1)

(...) La Chiesa che nasce a Pentecoste con a capo già visibilmente Pietro che "prende la parola" non è anzitutto una Comunità particolare – la Chiesa di Gerusalemme – ma la Chiesa universale, che parla le lingue di tutti i popoli. Da essa nasceranno poi altre Comunità in ogni parte del mondo, Chiese particolari che sono tutte e sempre attuazioni della sola ed unica Chiesa di Cristo. La Chiesa cattolica non è pertanto una federazione di Chiese, ma un’unica realtà: la priorità ontologica spetta alla Chiesa universale. Una comunità che non fosse in questo senso cattolica non sarebbe nemmeno Chiesa".

 

E ancora, sull'Osservatore Romano del 4 marzo 2000 troviamo un lungo ma fondamentale articolo del Prefetto della CdF, Ratzinger: L'Ecclesiologia della costituzione «Lumen Gentium».

Partendo dalla crisi della fede e della Liturgia il Cardinale ripercorre una linea chiara atta a spiegare certi errori che partendo da una immagine di Chiesa diversa da quella che la Tradizione ci ha donato, si giunge inevitabilmente a modifiche che nulla hanno a che vedere neppure con il Concilio, ma che sono dei veri tranelli. Dopo aver spiegato l'origine della crisi liturgica, il Prefetto diventato poi Pontefice arriva a discutere sulla falsa immagine di una nuova Chiesa.

Riportiamo ampi stralci da lasciare alla vostra riflessione:

"Vorrei subito anticipare la mia tesi di fondo: il Vaticano II voleva chiaramente inserire e subordinare il discorso della Chiesa al discorso di Dio, voleva proporre una ecclesiologia nel senso propriamente teologico, ma la recezione del Concilio ha finora trascurato questa caratteristica qualificante in favore di singole affermazioni ecclesiologiche, si è gettata su singole parole di facile richiamo e così è restata indietro rispetto alle grandi prospettive dei Padri conciliari. (..)

L'ecclesiologia di comunione è fin dal suo intimo una ecclesiologia eucaristica. Essa si colloca così assai vicino all'ecclesiologia eucaristica, che teologi ortodossi hanno sviluppato in modo convincente nel nostro secolo. (..)

L'Eucaristia include il servizio sacerdotale della «repraesentatio Christi» e quindi la rete del servizio, la sintesi di unità e molteplicità, che si palesa già nella parola «Communio». (..)

Per tutti questi motivi ero grato e contento, quando il Sinodo del 1985 riportò al centro della riflessione il concetto di «communio». Ma gli anni successivi mostrarono che nessuna parola è protetta dai malintesi, neppure la migliore e la più profonda. Nella misura in cui «communio» divenne un facile slogan, essa fu appiattita e travisata.

Come per il concetto di popolo di Dio così si doveva anche qui rilevare una progressiva orizzontalizzazione, l'abbandono del concetto di Dio.

L'ecclesiologia di comunione cominciò a ridursi alla tematica della relazione fra Chiesa locale e Chiesa universale, che a sua volta ricadde sempre più nel problema della divisione di competenze fra l'una e l'altra. Naturalmente si diffuse nuovamente il motivo egualitaristico, secondo cui nella «communio» potrebbe esservi solo piena uguaglianza.

Si è così arrivati di nuovo esattamente alla discussione dei discepoli su chi fosse il più grande, che evidentemente in nessuna generazione intende placarsi. Marco ne riferisce con maggiore insistenza. Nel cammino verso Gerusalemme Gesù aveva parlato per la terza volta ai discepoli della sua prossima passione. Arrivati a Cafarnao egli chiese loro di che cosa avevano discusso fra di loro lungo la via. «Ma essi tacevano», perché avevano discusso su chi di loro fosse il più grande — una specie di discussione sul primato ( Mc 9, 33-37).

Non è così anche oggi? Mentre il Signore va verso la sua passione, mentre la Chiesa e in essa egli stesso soffre, noi ci soffermiamo sul nostro tema preferito, sulla discussione circa i nostri diritti di precedenza. E se egli venisse fra di noi e ci chiedesse di che cosa abbiamo parlato, quanto dovremmo arrossire e tacere.

(..) Vescovo non si è come singoli, ma attraverso l'appartenenza ad un corpo, ad un collegio, che a sua volta rappresenta la continuità storica del «collegium apostolorum».

In questo senso il ministero episcopale deriva dall'unica Chiesa e introduce in essa. Proprio qui diviene visibile che non esiste teologicamente alcuna contrapposizione fra Chiesa locale e Chiesa universale. Il Vescovo rappresenta nella Chiesa locale l'unica Chiesa, ed egli edifica l'unica Chiesa, mentre edifica la Chiesa locale e risveglia i suoi doni particolari per l'utilità di tutto quanto il corpo.

Il ministero del successore di Pietro è un caso particolare del ministero episcopale e connesso in modo particolare con la responsabilità per l'unità di tutta quanta la Chiesa.

Ma questo ministero di Pietro e la sua responsabilità non potrebbero neppure esistere, se non esistesse innanzitutto la Chiesa universale. Si muoverebbe infatti nel vuoto e rappresenterebbe una pretesa assurda. Senza dubbio la retta correlazione di episcopato e primato dovette essere continuamente riscoperta anche attraverso fatica e sofferenze. Ma questa ricerca è impostata in modo corretto solo quando viene considerata a partire dal primato della specifica missione della Chiesa e ad esso in ogni tempo orientata e subordinata: il compito cioè di portare Dio agli uomini, gli uomini a Dio. Lo scopo della Chiesa è il Vangelo, e attorno ad esso tutto in lei deve ruotare.

Questo non vuol dire che nella Chiesa non si debba anche discutere sul retto ordinamento e sulla assegnazione delle responsabilità. E certamente vi saranno sempre squilibri, che esigono correzioni. Naturalmente può verificarsi un centralismo romano esorbitante, che come tale deve poi essere evidenziato e purificato. Ma tali questioni non possono distrarre dal vero e proprio compito della Chiesa: la Chiesa non deve parlare primariamente di se stessa, ma di Dio, e solo perché questo avvenga in modo puro, vi sono allora anche rimproveri intraecclesiali, per i quali la correlazione del discorso su Dio e sul servizio comune deve dare la direzione..."

***

"Il Primato differisce nella propria essenza e nel proprio esercizio dagli uffici di governo vigenti nelle società umane (32): non è un ufficio di coordinamento o di presidenza, né si riduce ad un Primato d'onore, né può essere concepito come una monarchia di tipo politico.

Il Romano Pontefice è - come tutti i fedeli - sottomesso alla Parola di Dio, alla fede cattolica ed è garante dell'obbedienza della Chiesa e, in questo senso, servus servorum. Egli non decide secondo il proprio arbitrio, ma dà voce alla volontà del Signore, che parla all'uomo nella Scrittura vissuta ed interpretata dalla Tradizione; in altri termini, la episkopè del Primato ha i limiti che procedono dalla legge divina e dall'inviolabile costituzione divina della Chiesa contenuta nella Rivelazione.

Il Successore di Pietro è la roccia che, contro l'arbitrarietà e il conformismo, garantisce una rigorosa fedeltà alla Parola di Dio: ne segue anche il carattere martirologico del suo Primato. (..)

Tutti i Vescovi sono soggetti della sollicitudo omnium Ecclesiarum  in quanto membri del Collegio episcopale che succede al Collegio degli Apostoli, di cui ha fatto parte anche la straordinaria figura di San Paolo. Questa dimensione universale della loro episkopè (sorveglianza) è inseparabile dalla dimensione particolare relativa agli uffici loro affidati. Nel caso del Vescovo di Roma — Vicario di Cristo al modo proprio di Pietro come Capo del Collegio dei Vescovi —, la sollicitudo omnium Ecclesiarum acquista una forza particolare perché è accompagnata dalla piena e suprema potestà nella Chiesa: una potestà veramente episcopale, non solo suprema, piena e universale, ma anche immediata, su tutti, sia pastori che altri fedeli".

(Il Primato del Successore di Pietro nel Mistero della Chiesa.)

 

I suoi fratelli Vescovi pascolano legittimamente il gregge di Cristo solo in unione effettiva ed affettiva con la Cattedra di Pietro.

Altrimenti si ritorna all’esperienza del IV secolo, quando quasi tutti i Vescovi del mondo si piegarono al volere di un imperatore ariano.

Solo il Papa, e un manipolo di Vescovi fedeli a lui, preservarono la fede cattolica. Il Papa sta lì a ricordare che la Chiesa non è una struttura umana. Anche questo è il motivo per cui così tante culture e così tanti popoli diversi trovano in essa la loro identità diventando membra del Corpo della Chiesa, diventando appunto "cattolici", ossia universali.

Potremmo fare il paragone con una chitarra: la cassa di risonanza, la struttura, la roccia è Pietro, le corde i vescovi, le membra, senza la struttura sia le membra quanto i Vescovi non troverebbero dove accordarsi.

 

Così spiegava mons. Nicola Bux ad Agenzia Fides del 2/7/2009:

"Clemente Romano, raccontando della morte degli apostoli Pietro e Paolo, osserva che l’invidia di alcuni nella stessa comunità cristiana la facilitò.  Dopo duemila anni, il peccato è sempre presente negli uomini.

(...) C’è il tentativo di ridurre la Chiesa ad una agenzia mondiale umanitaria e l’utopia che l’unità delle nazioni possa essere realizzata dagli organismi internazionali e non da Cristo.

Il Cardinale J.H.Newman supponeva che l’apostasia del popolo di Dio, in varie epoche e luoghi, avesse sempre preceduto la venuta degli “anticristi”, tiranni come Antioco e Nerone, Giuliano l’Apostata, i leader atei della Rivoluzione francese, ciascuno un “tipo” o “presagio” dell’anticristo, che sarebbe venuto alla fine della storia, quando il mistero di iniquità avrebbe manifestato la sua insensatezza finale e terribile.

L’incapacità dei credenti di vivere la propria fede, ammoniva Newman, come nelle epoche precedenti, avrebbe condotto “al regno dell’uomo del peccato, che avrebbe negato la divinità di Cristo e innalzato se stesso al suo posto”

(Il Nemico, Cinisello Balsamo 2006, pp. 175-176).

Ma il Signore, anche se dorme sulla barca in tempesta, nel momento finale si risveglierà e placherà i flutti. Poi tornerà da noi e ci chiederà perché abbiamo avuto così poca fede. Nel frattempo portiamo la croce.

Osserviamo il tradimento. Soffriamo.

Scrive ancora Newman: “Lo scopo del diavolo, quando semina la rivoluzione nella Chiesa è gettarla in confusione, perché la sua attenzione sia distratta e le sue energie disperse. In questo modo veniamo indeboliti proprio nel momento della storia in cui avremmo bisogno di essere più forti” .

“Perché il Santo Padre non agisce? Non può imporre a questi prelati l’obbedienza?”. “Lo ha fatto ripetutamente e nel modo più cristiano.

Ma non comanda una polizia, o un esercito. Di recente è stato più fermo con i dissidenti […] La soluzione però non è l’autoritarismo, perché quello getterebbe solo benzina sul fuoco della rivolta.

Il Santo Padre opera finché c’è luce. Richiama noi tutti a Colui che ha portato la croce e che è morto su di essa. Nelle sue mani porta solo questo, una croce; parla sempre del trionfo della Croce. Quelli che non vogliono ascoltare ne risponderanno a Dio” (Ivi,p 402-403)".

***

Vogliamo concludere queste riflessioni con un poema dottrinale e di granitica fede che un Vescovo pronunciò al Concilio Vaticano I, esprimendo in tal modo come è da intendersi l'autentica collegialità.

S.E.R. Monsignor Josè Francisco Ezequiel Moreira, vescovo di Ayacucho (1826-1874)

Breve discorso tenuto al Concilio Vaticano I il 2 luglio 1870

"Eminentissimi presidenti, eminentissimi e reverendissimi padri, dopo le magnifiche orazioni dei sapientissimi vescovi, rinunzio alla mia (..)

Perdonatemi se dirò solo qualche parola in segno di lode e d'amore per la Cattedra di San Pietro, dirò qualche parola che in sè contiene la dottrina dell'Infallibilità, poichè se la fede della Chiesa romana è la fede della Chiesa cattolica, ne segue che questa cattedra di San Pietro, dove si conserva questa fede, sempre e ovunque mantiene la sua forza.

O Santa e benedetta cattedra di Pietro, fondata su Pietro! Tu sei quella cattedra che quando insegna, insegna il Vero. Quando definisci, definisci nello Spirito Santo, quando leghi, leghi con vincoli indissolubili, quando sciogli, veramente e realmente sciogli, quando anatematizzi, anatematizzi con una maledizione celeste, quando dispensi, dispensi con l'autorità ricevuta da Cristo, quando apri, apri il Paradiso e il Purgatorio.

Oh Cattedra!

Chi non ti teme, è già condannato! Chi non ti venera, è maledetto! Chi non ti obbedisce è scismatico, chi si separa da te, è eretico. La tua autorità è divina, il tuo timore santo, la tua dottrina vera, il tuo giudizio retto, il tuo decoro supremo, la tua benedizione celeste.

Non posso qui esimermi dal rendere grazie. O Santa Chiesa Romana, unica tra tutte le chiese apostoliche che non sei venuta mai meno nella fede!

E' venuta meno l'Acaia dove sedeva Andrea, l'Etiopia dove sedeva Matteo, l'India dove sedeva Tommaso, la Siria dove sedeva Filippo, la Giudea dove sedeva Giacomo, la Persia dove sedeva Simone, la Grecia dove sedeva Paolo, Tu invece, Chiesa Romana, dove sedeva Pietro, non sei mai venuta meno, nè mai avverrà che tu venga meno. Ho pregato per te affinchè la tua fede non venga meno e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli, che si affaticano ai remi.

Questa è la lode che esprimo alla Santa Chiesa Romana in ossequio e amore".

 

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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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