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Se avete desiderio di capire che cosa insegna la Bibbia che il Magistero della Santa Chiesa, con il Sommo Pontefice ci insegna, questo Gruppo fa per voi. Non siamo "esperti" del settore, ma siamo Laici impegnati nella Chiesa che qui si sono incontrati da diverse parti d'Italia per essere testimoni anche nella rete della Verità che tentiamo di vivere nel quotidiano, come lo stesso amato Giovanni Paolo II suggeriva.
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10 Febbraio un grido dalle Foibe: NON DIMENTICATECI!

Ultimo Aggiornamento: 22/02/2015 23:38
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04/02/2010 12:00
 
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Siena: Messa in suffragio per i Martiri delle Foibe.

.

Militia Templi
Christi pauperum Militum
-
Ordo Milizia del Tempio
Ordine dei poveri Cavalieri di Cristo


(Persona Giuridica secondo il Codice di Diritto Canonico ed il Codice Civile Italiano)
Non nobis, Domine, non nobis...



COMUNICATO STAMPA

Siena – Chiesa di S. Donato Santa Messa per i Martiri delle Foibe

Mercoledì 10 Febbraio alle ore 18,00 nella Chiesa di San Donato a Siena (piazza dell’Abbadia) verrà celebrata una solenne Santa Messa di requiem in rito tridentino a suffragio dei Martiri delle Foibe.

L’iniziativa, presa dall’Ordine della Milizia del Tempio e dal Comitato provinciale “10 Febbraio”, si inserisce nelle celebrazioni della “Giornata del Ricordo” soffermandosi sull’aspetto spirituale di questa grande tragedia italiana al culmine della seconda guerra mondiale: i Cavalieri del Tempio, con tutti coloro che si uniranno al ricordo dei Martiri senza spirito di vendetta e fidando nella giustizia divina, dopo le dimenticanze di quella umana, pregheranno a suffragio delle anime di queste vittime di una delle peggiori ideologie che l’umanità abbia mai subito, il comunismo, e alla quale sono da imputarsi persecuzioni, torture ed uccisioni di milioni di persone in tutto il mondo.
Caduti, almeno apparentemente, i regimi comunisti in Europa, oggi molti potranno capire meglio la coraggiosa condanna del comunismo da parte del Papa Pio XII nel 1949, aggravata dal Beato Giovanni XXIII nel 1959.

***

Mercoledì 10 Febbraio alle ore 18.00

Chiesa di San Donato
piazza dell’Abbadia
Siena

SANTA MESSA PRO DEFUNCTIS NELLA FORMA STRAORDINARIA
in suffragio dei Martiri delle Foibe





[Modificato da Caterina63 04/02/2010 12:01]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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04/02/2010 12:19
 
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Seppur chiaro che NEL NOSTRO MONASTERO NON SI FA POLITICA, è altrettanto vero e fondamentale dare almeno un cenno storico dei fatti....senza per questo entrare in politica... ma da Cattolici assumere su di noi, INCARNARE in noi, la Divina Misericordia non solo per quanti morirono in modo atroce, ma anche per GLI ESULI, costretti a scappare...ed anche ai carnefici perchè Dio li aiuti a comprendere il Male che hanno fatto...e la sofferenza che hanno seminato...

Dio è un GIUDICE GIUSTO, noi non lo siamo giusti, il nostro Cuore è animato spesso dal senso di VENDETTA mentre ora la miglior vendetta è quella di chiedere a Dio LA CONVERSIONE DI CHI COLORO CHE HANNO PROCURATO TANTO DOLORE....
Dio si prende cura degli orfani e delle vedove, ha cura della gente che viene UCCISA soprattutto quando è innocente...a Lui lasciamo l'ultima parola e l'ultimo atto su questo scenario tremendo che furono le Foibe... mentre alle Anime ivi gettate con cattiveria, crudeltà e diabolicità...vogliamo dedicare la nostra Preghiera, il nostro ricordo amorevole, il nostro Affetto, la nostra condivisione nella Memoria perpetua e nel dolore e con la certezza di saperli nella Pace sconfinata di Dio
....


Quanto segue viene dal sito:

http://www.lefoibe.it/approfondimenti/foibeferretto1.htm


Presentiamo le pagine introduttive e le conclusioni della tesi di laurea di Silvia Ferretto Clementi, Consigliere Regionale della Lombardia (www.ferretto.it), dedicata alle Foibe

Per comprendere la tragedia che ha colpito le popolazioni giuliano dalmate dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e ben oltre la conclusione delle ostilità, è indispensabile far riferimento alle cose che ognuno di noi reputa importanti, in base ad una personale scala di valori.

La famiglia, gli amici, la casa, i beni, i ricordi, le tradizioni, le proprie radici culturali legate a suoni, sapori, odori della terra in cui si è cresciuti e al legame inscindibile con i propri morti. I 350.000 italiani costretti a fuggire dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia hanno dovuto
lasciare tutto questo. 


Molti di loro hanno perso familiari, amici e conoscenti. 

Le loro case e proprietà sono state confiscate e mai indennizzate.

Accusati di essere criminali italiani nemici del popolo, migliaia di loro sono stati massacrati senza pietà, vittime di una furia omicida alimentata da un nazionalismo esasperato. Costretti a optare tra rimanere italiani e andarsene, oppure divenire jugoslavi pur di
rimanere sulla propria terra, la maggior parte di loro intraprese la via dell’esilio come una scelta di libertà e venne accolta in Patria con l’ostilità e il fastidio che si prova per gli indesiderati.

La propaganda comunista, l’indifferenza e la disinformazione li fecero apparire all’opinione pubblica come “criminali”. Insultati e tacciati di essere reazionari e fascisti, secondo l’equazione manichea che bollava senza distinzione: “esule uguale fascista”, furono lasciati soli.

Prima della guerra la popolazione del confine orientale era stata fascista né più né meno del resto degli italiani.

Sostenere che in una terra di frontiera estremamente disomogenea e pervasa, per secoli, da passioni contrastanti tra etnie diverse, gli istriani fossero tutti vocati al fascismo è evidentemente illogico e rappresenta semplicemente una delle tante menzogne raccontate su un popolo che, nonostante le profonde ingiustizie e atrocità subite, non ha mai, in alcun momento, fatto ricorso all’uso della violenza e al terrorismo.

Un esempio dal quale, anche quei popoli che rivendicano oggi il diritto di avere una propria terra, dovrebbero trarre insegnamento. 

La memoria dei martiri delle foibe è stata sepolta ed infangata per lunghi anni.

Dopo una spietata “pulizia etnica”, gli esuli hanno dovuto subire infatti anche una sistematica pulizia storiografica e la loro tragedia è stata dimenticata.

Albert Camus nel suo libro, La peste, scrisse: "La profonda sofferenza di tutti i prigionieri e di tutti gli esuli è vivere con una memoria che non serve a nulla."


Pochi italiani hanno riconosciuto che, con il loro sacrificio ed i loro beni, gli esuli hanno pagato una consistente parte del “debito di guerra” per la sconfitta dell’Italia.

La loro tragedia, sepolta per oltre cinquant’anni, con colpevoli lacune e disarmanti silenzi, è stata frutto di una epurazione tanto vergognosa quanto “necessaria” per non dover riconoscere ed ammettere anche gli innumerevoli errori compiuti in nome della Resistenza; ma, soprattutto, per non dover ammettere e riconoscere che se tutti i democratici furono antifascisti, non tutti gli antifascisti furono democratici.

Sono molte le pagine scritte che devono essere riviste, tenendo sempre ben presente che l’opera di revisione, necessaria e doverosa, deve però riguardare i fatti, le interpretazioni, gli errori compiuti, l’acquiescenza e le omissioni.

Il revisionismo non può e non deve certo riguardare i principi e i valori che portarono alla nascita della democrazia nella Repubblica italiana.

Ricordare gli italiani uccisi nelle foibe dai comunisti di Tito e far conoscere a tutti, anche ai più giovani, quali e quanti massacri sono stati compiuti all'ombra della falce e martello, non giustifica ne potrà mai modificare il giudizio di condanna, morale, politico e storico delle persecuzioni razziali, ma è un atto di giustizia dovuto, perché la mancanza di verità storica costituisce un oltraggio alla memoria delle vittime ed insieme alla nostra coscienza

Le responsabilità sono sempre personali o dei governi, non dei popoli. Confondere le responsabilità e attribuirle genericamente e indifferentemente ad un’intera popolazione o, peggio, ad un gruppo etnico, significa alimentare la spirale d’odio ed il conflitto rendendolo difficilmente sanabile. 

Le motivazioni che hanno portato all’ ”Olocausto” e alla “pulizia etnica” sono profondamente diverse così come lo sono le loro dimensioni. I nazisti eliminarono gli ebrei e gli zingari, gli omosessuali e i portatori di handicap per ragioni “razziali”, una sorta di “pulizia biologica”; i titini eliminavano gli italiani per balcanizzare il territorio e “bonificare” l’Istria, Fiume e la Dalmazia dalla presenza millenaria del ceppo latino-veneto.

La “pulizia etnica” posta in atto contro gli italiani è sempre stata considerata una tragedia minore, un fenomeno reattivo, una conseguenza dei torti subiti durante il fascismo, che costituirono sicuramente un ottimo pretesto, servito su un piatto d’argento, al nazionalismo di Tito, ma non certo la causa primaria.


Quei tragici avvenimenti furono infatti il frutto di un disegno politico scientemente preparato e cinicamente eseguito.
Nella memoria collettiva e nella storiografia ufficiale l’Olocausto è giustamente presente, e non potrebbe essere altrimenti. Trova spazio in tutti i libri di testo, nella cinematografia mondiale sia filmica che documentaristica e viene ricordato costantemente dai mezzi di informazione. Ogni studente italiano conosce bene quegli orrori. 

La tragedia istriana, giuliano dalmata, al contrario, è stata per decenni omessa da tutti i testi scolastici ed è solo da dopo il dibattito sulla faziosità dei libri di testo, che in alcune edizioni viene riportata qualche informazione a riguardo, anche se spesso, purtroppo, ancora in forma superficiale e didascalica.

La condanna politica e morale di tutti gli stati nei confronti dell’antisemitismo è unanime, e, in forma autocritica, anche molti esponenti dei governi tedeschi sono sempre stati in prima linea nell’esecrare quegli accadimenti.

Diversamente, in merito al genocidio titino, non c’è mai stata alcuna presa di posizione ufficiale di condanna da parte dei governi balcanici: la Jugoslavia prima, la Croazia e la Slovenia poi, oltre a non aver mai espresso le loro “scuse ufficiali” ai familiari delle vittime, non hanno collaborato ad aprire, agli storici di tutto il mondo, i loro archivi di stato.

Anche sul piano giudiziario, le procedure ed i risultati sono da sempre stati diversi: sebbene alcuni siano riusciti ad eludere la giustizia internazionale, molti gerarchi nazisti sono stati processati a Norimberga. Nessun criminale titino ha invece scontato un solo giorno di carcere, a cominciare proprio dal loro leader, inspiegabilmente a lungo stimato e “riverito” da molti capi di stato.

Ai criminali di guerra slavi l’Italia ha addirittura concesso e sta ancora versando la pensione INPS, che non ha mai invece riconosciuto ad alcuno degli internati nei lager titini.

CONCLUSIONI

Il 1 maggio 2004 la Slovenia è entrata a far parte dell‘Unione Europea e a Gorizia è stato abbattuto l’ultimo muro di quella “cortina di ferro“ che, per oltre mezzo secolo, ha diviso l’Europa, secondo la logica di Yalta. 

Il confine che per tanti anni ha diviso italiani e slavi, che ha a lungo rappresentato una linea di separazione ed esclusione ed è stato fonte di reciproca e profonda inimicizia, spesso sfociata in mutue accuse di nazionalismo o xenofobia, potrebbe, oggi, trovare una sua giusta e nuova connotazione in una dimensione più europea. 

Essere parte dell’Unione Europea significa infatti far parte di una comunità più ampia, sovranazionale, all’interno della quale ogni stato membro, pur conservando la propria cultura, le proprie tradizioni, il proprio sentimento nazionale patriottico, rispetta gli altri Stati e, a differenza di quanto avveniva in passato, si pone come obiettivo la condivisione, non solo della moneta, ma anche e soprattutto dei valori e dei principi.

Gli accordi economici non bastano a unire le Nazioni, occorrono sogni, idee, progetti comuni e soprattutto valori condivisi. È questa la condizione sine qua non affinché dagli orrori e dagli errori di esasperati nazionalismi si possa trarre un insegnamento, facendo sì che fra le genti possa, finalmente, prevalere il reciproco rispetto. 

Un’Europa unita non può essere costruita su odio e rancori mai sopiti. È evidente, infatti, che per ricucire uno strappo tra due popoli divisi da secoli, non bastino semplici dichiarazioni di buona volontà. È indispensabile il rispetto delle minoranze e dei diritti civili e che si arrivi quanto prima ad una memoria condivisa.

Se da un lato pretendere di rimettere in discussione i confini orientali è evidentemente improponibile, dall’altro deve essere chiaro che alcune delicate questioni in sospeso da ormai più di cinquant’anni devono essere seriamente affrontate e risolte. 

Prime fra tutte: la restituzione dei beni confiscati ai cittadini italiani al momento dell’esodo, una maggiore tutela delle nostre minoranze rimaste nell’ex Jugoslavia e l’abolizione delle molte restrizioni ancora in vigore, sia in Slovenia che in Croazia, nei confronti dei cittadini italiani e delle nostre iniziative economiche e culturali, ma, soprattutto, il sacrosanto diritto delle famiglie dei “desaparecidos” italiani di conoscere quali sia stata la sorte dei propri cari ed il luogo in cui giacciono le loro spoglie. 



                                    

[Modificato da Caterina63 04/02/2010 12:22]
Fraternamente CaterinaLD

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Invocazione per le vittime delle Foibe
di Mons. Antonio Santin Vescovo di Trieste
1959

O Dio, Signore della vita e della morte, della luce e delle tenebre, dalla
profondità di questa terra e di questo nostro dolore noi gridiamo a Te.

Ascolta, o Signore, la nostra voce.

Noi siamo venuti qui per innalzare le nostre povere preghiere e deporre i nostri fiori, ma anche per apprendere l'insegnamento che sale dal sacrificio di questi Morti. E ci rivolgiamo a Te, perché Tu hai raccolto l'ultimo loro grido, l'ultimo loro respiro.

Questo calvario, col vertice sprofondato nelle viscere della terra, costituisce una grande cattedra, che indica nella giustizia e nell'amore le vie della pace.

Ebbene, Signore, Principe della Pace, concedi a noi la Tua pace. Dona conforto alle spose, alle madri, alle sorelle, ai figli di coloro che si trovano in tutte le foibe di questa nostra triste terra, e a tutti noi che siamo vivi e sentiamo pesare ogni giorno sul cuore la pena per questi Morti, profonda come le voragini che li accolgono.

Tu sei il Vivente, o Signore, e in Te essi vivono. Che se ancora la loro purificazione non è perfetta, noi Ti offriamo, o Dio Santo e Giusto, la nostra preghiera, la nostra angoscia, i nostri sacrifici, perché giungano presto a gioire dello splendore del Tuo Volto.

E a noi dona rassegnazione e fortezza, saggezza e bontà. Tu ci hai detto: "Beati i misericordiosi perché saranno chiamati figli di Dio, beati coloro che piangono perché saranno consolati", ma anche beati quelli che hanno fame e sete di giustizia perché saranno saziati in Te, o Signore, perché è sempre apparente e transeunte il trionfo dell'iniquità.



Qui, e in altre Foibe (cavità naturali nel terreno carsico) venivano gettati VIVI legati uno all'altro con il fil di ferro e molti di loro dopo aver subito sevizie, torture, amputazioni....



così centinaia furono riportati almeno alla dignità della sepoltura e della Memoria





qui....solo le ossa irriconoscibili...


                                    


                                 NON DIMENTICHIAMOLI

Fraternamente CaterinaLD

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I 97 Finanzieri trucidati nella Foiba di Basovizza

dal
sito dell'Associazione Finanzieri

Dal 1943 al 1945, durante l'occupazione di Trieste e dell'Istria da parte del 9° Corpus jugoslavo e delle forze partigiane titoiste, furono barbaramente uccisi e gettati nelle Foibe di Basovizza circa 12 mila cittadini residenti a Trieste, nell'Istria e provenienti da varie parti d'Italia di cui circa 350 finanzieri, e un numero imprecisato di Carabinieri, Agenti di Polizia e civili di altre amministrazioni dello Stato.

All'oppressione tedesca a Trieste ne era subentrata un'altra, di segno opposto, ma altrettanto feroce. Alla Gestapo aveva dato il cambio l'Ozna. E fu l'ora degli odi scatenati, delle vendette, delle rappresaglie e delle stragi. Una realtà storica tremenda che ora, anche dalla parte su cui grava la responsabilità degli eccidi, si comincia ad ammettere, sia pure sottovoce.

Dopo l'olocausto degli ebrei nei campi di sterminio nazisti, quello delle Foibe di Basovizza è stato certamente una delle più grandi tragedie che hanno colpito l'umanità. Per le Foibe di Basovizza si è trattato di un preordinato massacro di “pulizia etnica” che mirava alla distruzione di tutto ciò che era “Italia” e “italiano” e ciò anche per favorire l'annessione alla Jugoslavia dei territori di Trieste, del Goriziano e dell'Istria.

Da allora sono trascorsi quasi 60 anni e questa terribile pagina della nostra storia è passata sotto silenzio, perchè venissero dimenticati i fatti e le gravissime colpe di uomini e di partiti politici, impedendo alla nostra collettività nazionale di prenderne coscienza e conoscenza.

Nel corso della Seconda guerra mondiale 1940- 1945 in Italia sono state commesse altre stragi che hanno colpito i nostri soldati, combattenti per la difesa della Patria e durante la guerra di liberazione, nei Balcani e sul territorio italiano, come ad esempio i gloriosi fatti d'arme di Cafalonia-Corfù (www.cefalonia.it), i dolorosi eccidi commessi alle Fosse Ardeatine e a Marzabotto, ma trattasi di episodi che sono stati portati a conoscenza della collettività italiana che ha potuto così commemorarli, erigendo monumenti e celebrando cerimonie a carattere nazionale e locale.

Ma per i martiri delle Foibe nulla è stato fatto perchè il tutto è stato ammantato da un pietoso velo di silenzio.

Lo storico Gianni Oliva nel suo libro “Le stragi degli italiani della Venezia Giulia e dell'Istria” afferma che da parte sua il PCI non ha nessun interesse a tornare sulla questione che evidenzia la contraddizione tra la sua nuova collocazione come partito nazionale, la vocazione internazionalistica e gli stretti legami con Mosca: parlare di Foibe significherebbe rivisitare le indicazioni operative inviate al PCI triestino a partire dall'autunno 1944, riproporre il tema del passaggio della Divisione Garibaldina “Natisone” alle dipendenze dell'Esercito di liberazione sloveno. Il risultato complessivo è che i fatti di settembre-ottobre 1943 e del maggio 1945 non entrano a far parte della consapevolezza storica del Paese, ma rimangono confinati nella coscienza locale giuliana.

Pertanto solo a livello locale, a Trieste, a Gorizia e nelle altre città dove vivono migliaia di famiglie che non sanno darsi pace per l'orrenda fine dei loro cari, massacrati senza alcuna colpa se non per quella di essere italiani, si sono svolte cerimonie commemorative col timore di essere boicottate da alcune forze politiche.

In questa ottica, il giorno 21 settembre 1995, ricorrendo il cinquantennale dell'eccidio nelle Foibe dei 97 finanzieri della brigata di Campo Marzio di Trieste, il Gen. D. Luciano Luciani, Ispettore per l'Italia Nord-Orientale scopriva una Lapide commemorativa, affissa al muro della nuova Caserma della Guardia di Finanza di Basovizza, recante i nomi dei 97 finanzieri.

Subito dopo il Presidente Nazionale, Gen. C.A. Pietro Di Marco, provvedeva allo scoprimento di una stele, voluta dallo stesso, con la collaborazione dell'allora Consigliere Nazionale ANFI per il Friuli Venezia Giulia, Gen. D. Emilio Giosio, e dal Presidente della Sezione di Trieste, Comm. Sergio Fachin, formata da un monoblocco di pietra carsica, eretta presso la Foiba di Basovizza, vicino alla grande Pietra Tombale che chiude la Foiba principale.

Nel corso della cerimonia prendeva la parola il Comandante della Legione di Trieste, Col. Umberto Picciafuochi, per significare alle Fiamme Gialle in congedo che il Gen. Di Marco rappresentava più degnamente la Legione di Trieste, avendo egli fatto parte, nel 1945, della Brigata di Campo Marzio di Trieste, e che attualmente, nella carica di Presidente Nazionale, meglio di lui nessuno avrebbe potuto revocare quelle tragiche giornate del maggio 1945.

Pubblichiamo il seguente discorso pronunciato dal Gen. Di Marco per l'inaugurazione della grande Stele eretta a ricordo dei Caduti delle Foibe:

<< Siamo al cospetto di questo sacro luogo, ove cinquant'anni fa si consumò la tragedia di migliaia di cittadini triestini, di soldati e di appartenenti alle forze di Polizia, fra i quali circa 350 Finanzieri che prestavano servizio a Trieste e nell'Istria, compresi i 97 Finanzieri prelevati dalla Caserma di Via Campo Marzio, il 2 maggio 1945, tutti impietosamente trucidati nelle foibe per il solo motivo, come a suo tempo precisò il Presidente della Repubblica On. Scalfaro, “che molte delle persone eliminate erano colpevoli soltanto di essere italiane”.

Oggi noi vogliamo ricordare con particolare commozione e con amore profondo questi nostri commilitoni, questi soldati in fiamme gialle che qui fecero dono della loro giovane vita per assolvere al dovere di rimanere al proprio posto di servizio, senza cercare scampo fuggendo di fronte ad una minaccia tanto grave quanto imprevedibile, che eventi drammatici, del tutto estranei ai modi di guerra lealmente combattuta, condannarono a sofferenze ed a morte atroce proprio nelle viscere di questa terra carsica che vide rifulgere l'eroismo di tanti soldati italiani nel primo conflitto mondiale.

Ed è con sentimento di intima, commossa partecipazione che avverto l'impulso irresistibile a rievocare loro e il sacrificio che ne eterna la memoria di fronte agli eventi e ai destini della Patria, in quelle circostanze ferita a morte nell'intimo della sua gente fiera di cuore e di fede nazionale.


A Trieste, in particolare, appena dopo la cacciata dei tedeschi con l'insurrezione del 27 aprile 1945, alla quale avevano partecipato efficacemente anche i finanzieri del Comitato di Liberazione Nazionale, assieme alle avanguardie dell'esercito jugoslavo che si accingevano ad occupare la città, ci fu un momento di sbandamento generale quando la maggior parte dei finanzieri rimase a presidiare gli impianti e i depositi più importanti, con l'incarico di mantenere anche l'ordine pubblico, in quanto la Guardia di Finanza era l'unico Corpo armato organicamente inquadrato rimasto a presidio della città.

Nel contempo ci furono momenti di eroismo e di grande solidarietà, come quando un pugno di finanzieri rischiò la vita per salvare i loro commilitoni rimasti isolati in alcuni reparti dell'Istria, alla mercè delle truppe jugoslave che stavano completando l'occupazione della zona.

Nel momento di quei tragici fatti mi trovavo a Trieste, reduce dalla guerra di Balcania, dove prestavo servizio d'Istituto e nel contempo avevo partecipato con il locale Comitato di liberazione per la cacciata dei tedeschi dalla città.

Successivamente, mentre le forze jugoslave del Maresciallo Tito stavano completando l'occupazione di Trieste e dell'Istria, a capo di un nucleo di finanzieri volontari mi portai con un autocarro nelle varie località dell'Istria per salvare alcuni nostri commilitoni dalla prigionia o dalla morte.

Quindi rivivo oggi i terribili momenti del calvario con l'angoscioso tormento di allora, chiedendomi come sia stato possibile che la coscienza di tanti uomini politici italiani abbia consentito che un velo di oblìo, pur supportato da contingenze del tutto particolari per mentalità opportunistiche e accomodanti, potesse far dimenticare l'eccidio di circa 12 mila infoibati nella sola zona di Basovizza.

A conclusione dell'intensa commemorazione odierna desidero, all'unisono con tutti voi e con tanti altri presenti in spirito, esprimere il pensiero e la volontà di pace e di accordo tra le genti e anche per i vicini popoli slavi, duramente provati da una lunga e sanguinosa guerra, perchè tale esigenza è oggi più che mai avvertibile nel mondo intero come irrinunciabile motivo di vita, come speranza sublime di quella più umana e civile esistenza della presente generazione e di quelle venture.

Perciò oggi, nel cinquantennale del martirio delle foibe di Basovizza, siamo qui riuniti per lo scoprimento di una Stele eretta alla cara memoria dei nostri Caduti, a poche ore di distanza dalla inaugurazione di una Lapide commemorativa nella caserma del Corpo, a Basovizza, che porta incisi i nomi dei 97 Finanzieri della caserma di Via Campo Marzio.

Sono emblemi marmorei che resteranno a perenne memoria dei nostri Caduti e quali simboli di ammonimento per tutti i popoli, affinchè nella pace ritrovata, nella comprensione e nel rispetto reciproco possa essere ripreso il cammino verso quelle mete di libertà, di giustizia e di democrazia tanto auspicate>>.


Terminato il discorso, il Gen. Di Marco, con il volto visibilmente segnato dalla grande commozione, accompagnato dal Comandante della Legione di Trieste, Col. Picciafuochi, scopriva il Cippo commemorativo, coperto da un panno tricolore, Cippo costituito da un gran masso di pietra carsica.

dal sito dell'Associazione Finanzieri

Fraternamente CaterinaLD

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La mattanza dei Carabinieri
La cattura e la barbara uccisione di 18 Carabinieri da parte del IX Corpus titino.
tratto da:
DOSSIER del QUOTIDIANO NAZIONALE
settembre 2004 "Il tricolore a Trieste"
articolo di Lorenzo Bianchi

http://www.lefoibe.it/storie.htm

Per dieci anni ha coltivato la speranza. Per dieci anni ha acceso una piccola candela sul davanzale di una finestra, il cuore in gola, il respiro accelerato. Era un filo sottile, il tentativo disperato di segnalare al marito la strada di casa. Quel minuscolo punto luminoso avrebbe potuto guidarlo nelle tenebre che lo avevano ingoiato dall'altipiano di Tarnova a Gorizia. Ernesta Stame, moglie del carabiniere Paolo Bassani è una donna ostinata e fiduciosa. Prima di sparire, la sera del 18 maggio 1945, durante i quaranta giorni di occupazione dei partigiani jugoslavi, il militare era riuscito a impietosire un carceriere e gli aveva affidato un biglietto laconico, ma rassicurante: "Ti saluto e spero tanto di poter ritornare. Non pensare a male, io sto bene. Tanti saluti e baci. Tuo marito Paolo".

Ernesta, caparbia e fiduciosa, non "ha pensato a male". Ha acceso la fiammella per illuminare il sentiero dell'improbabile ritorno. Non sapeva che Paolo giaceva sul fondo della foiba di Zavnj, a 150 metri di profondità, assieme a 17 colleghi e a tanti altri, civili inconsapevoli, partigiani cattolici sloveni, fascisti italiani, vittime di una puilizia etnica e politica feroce, sistematica, organizzata.

Nell' archivio dello storico di Pordenone Marco Pirina, fondatore del "Centro studi e ricerche storiche Silentes Loquimur", sono archiviati 5700 nomi per la sola area di Gorizia. Il destino dei diciotto carabinieri della stazione di via Barzellini, inghiottiti nel nulla a guerra persa e ampiamente finita è il paradigma della sciagura collettiva. Dopo l'8 settembre 1943 erano rimasti nel presidio, proprio di fronte al carcere, quaranta militari agli ordini del tenente Tonarelli.

Avevano ancora la scritta RR CC, Reali Carabinieri sugli elmetti.
I tedeschi li tollerano a fatica. Non li utilizzano per le operazioni delicate, come i rastrellamenti di partigiani. Delegano ai militari dell'Arma la funzione inferiore di contrastare i ladri e la borsa nera dei generi alimentari, il piccolo traffico dei contadini che vendono in nero polli, grano, carne e verdura sottratti al razionamento. La rarefazione di cibo si fa sentire. "Una catenina d'oro per un chilo di sale", esemplifica Pirina.

Il 30 aprile Gorizia è attraversata da squadracce di "cetnici", nazionalisti serbi che razziano e sparacchiano a 360 gradi nella corsa precipitosa verso Palmanova dove progettano di consegnarsi alle unità inglesi. Il primo maggio entra in città il IX corpo sloveno. Cominciano le retate sistematiche. Vengono arrestate 940 persone. Di 665 non si saprà più nulla. Restano solo le memorie dei parenti disperati e i nomi incisi sul lapidario del Parco della Rimembranza.
 
I diciotto carabinieri rimasti nella tenenza di via Barzellini finiscono nelle celle del carcere. Il diciotto maggio vengono bastonati o spinti a forza a sbattere la testa contro i muri del penitenziario e caricati su un camion. Il mezzo si dirige lentamente verso l'altipiano. Da allora solo silenzio sulla loro sorte. Un vuoto opprimente che si infrange solo nel 1994. Marco Pirina viene mobilitato da Giovanni Guarini, figlio del brigadiere Pasquale, leccese della provincia, classe 1902.

Lo storico decide di aggrapparsi all'unica, esile, memoria storica che è rimasta, il parroco di Tarnova. Il prete lo indirizza a una Gostilna, una trattoria. Una donna di 84 anni, Elena Rjavec, suggerisce di sentire un partigiano di Nenici, un certo Antonio Winkler, settanta anni. L'uomo ha abitato a Gorizia per un ventennio e parla perfettamente l'italiano. Pirina alza una cortina fumogena sul vero scopo della visita. Finge di essere interessato alla sorte di un gruppo di dispersi sloveni. Winkler abbocca."Ma lei non sa nulla dei carabinieri?", si stupisce.

Il bosco è fitto. L'ex guerrigliero ha la strada scolpita nella memoria. Indica i luoghi, il tragitto del camion, "avevano i polsi legati con filo di ferro rinserrato con le pinze", la buca nella quale è stato sepolto un finanziere che è crollato per terra a venti metri dalla bocca del pozzo naturale che ha ingoiato i condannati a morte. Pirina ha annotato il racconto del partigiano, parola per parola: "Li feci salire all'imbocco della foiba. Lì c'era la squadra che li buttava nell'abisso. Qualcuno era vivo. Ad altri sparavano prima di sospingerli nel vuoto. Sono quasi cinquanta anni che non vengo più in questo posto. A quelli che uccidevano avevano dato una bottiglia di rum a testa. Dovevano stordirsi. A noi, che avevamo fatto una faticaccia per trasportarli fin lassù, non toccò nulla, neppure un goccio". Giovanni Guarini piange quietamente.

Pirina, storico per passione dopo una lunga carriera di responsabile marketing per l'Agip, ha ricostruito un elenco incompleto. Dieci famiglie che non hanno un posto nel quale depositare un fiore, persone accomunate a migliaia di altre alle quali è negata perfino la normalità del ricordo. Scomparsi che suscitano ancora imbarazzo. La foiba di Zavnj è stata recintata con una staccionata di legno. C'è una croce che sovrasta un altare minuscolo. Su una targa è riportato un verso ecumenico e generico di una poetessa slovena: "Viandante che passi ascolta le grida di chi è stato gettato qui dentro".

Nella vecchia caserma di via Barzellini la targa dedicata ai carabinieri rastrellati è confinata in un corridoio interno che immette negli uffici. Ai familiari stretti è stata riconosciuta la pensione di guerra, quattrocentoquindicimila vecchie lire. Ai figli le provvidenze che spettano agli orfani del conflitto. Ora si aggiungono un distintivo e un certificato firmato da Ciampi. Clara Morassi, 78 anni, figlia dell'ex vicesindaco di Gorizia spiega. con velata ironia, che possono fregiarsene le famiglie degli infoibati fino alla sesta generazione. Pirina non riesce a capacitarsi del silenzio sloveno e della disparità di trattamento rispetto agli austriaci: "Loro hanno avuto un elenco di 5400 nomi. Noi nulla. Io sono convintissimo del fatto che sia giusto chiudere con il passato, riconoscendo però a tutti la dignità della memoria".

Gli scomparsi sono diventati il centro della sua seconda vita. Gli sono costati minacce telefoniche, "anche 5 o 6 al giorno", di italiani e sloveni, e un cappio lasciato sulla porta di casa. Nel 2000 gli hanno sabotato l'auto. Una mano ignota ha messo fuori uso i fili elettrici che segnalano i guasti ai freni e ha tagliato quasi completamente la cinghia del ventilatore. "Attenzioni" inutili.

Il 25 settembre il suo Centro pubblicherà un nuovo libro intitolato "Guerra civile 1945 ?1947 la Rivoluzione Rossa". Il filone è sempre quello degli svaniti nel nulla: "Dopo piazzale Loreto sono sparite 50.600 persone. I corpi ritrovati sono solo 15 mila".


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Ricordo struggente di Mafalda Codan

I brani che seguono sono tratti dal diario di Mafalda Codan che venne arrestata a Trieste, dove si era rifugiata, ai primi di maggio del 1945.
Anche il padre e gli zii della giovane donna, commercianti e possidenti, erano stati arrestati e infoibati in Istria nell'autunno del 1943. 

tratto da Foibe: 60 anni di silenzi

Il 7 maggio 1945 [...] prendo un libro e vado in giardino. Appena uscita mi trovo davanti tre partigiani comandati da Nino Stoinich con il mitra spianato. Prima di tutto si rallegrano dell'orribile morte dei miei cari e poi mi intimano di seguirli. Vestita come sono, senza poter più né entrare in casa né salutare la mamma, devo seguirli. Con un filo di ferro mi legano le mani dietro la schiena e mi fanno salire su una macchina.[...] Prima sosta, Visinada. Mi portano sulla piazza gremita di gente, partigiani, donne scalmanate, urlano, gesticolano, imprecano. S. mi presenta come italiana, nemica del popolo slavo, figlia di uno sfruttatore dei poveri, tutti cominciano a insultarmi, a sputacchiarmi, a picchiarmi con lunghi bastoni e a gridare: a morte, a morte. [...] A Santa Domenica mi portano davanti alla casa di Norma Cossetto, infoibata nel settembre del 1943, chiamano sua madre, vogliono farla assistere alle mie torture per ricordarle il martirio della sua Norma. La signora, nonostante le severe intimazioni, si rifiuta di uscire, la trascinano a forza sulla porta e, appena mi vede in quelle condizioni, cade a terra svenuta. [...]

Siamo arrivati davanti a casa mia. [...] Si raduna subito una folla scalmanata e urlante: il tribunale del popolo. Stoinich tira fuori un foglio e comincia a leggere le accuse: infondate, non vere, testimonianze false, imposte. Vedo i miei coloni e molte persone aiutate e mantenute gratis da mio padre. Non posso credere ai miei occhi, sono gli stessi che prima "veneravano" la mia famiglia e si consideravano amici, ora sono qui per condannarmi e gridare "a morte".

Sono diventati tutti un gregge di pecore, fanno ciò che è stato loro imposto di fare, ora seguono chi comanda, chi promette loro la spartizione delle terre dei padroni. Non posso stare zitta, urlo anch'io, non posso puntare il dito contro quelle bestie mostruose solamente perché ho le mani legate, li chiamo allora per nome, li accuso della morte dei miei cari, dei furti commessi, dei soprusi, dei debiti mai pagati... e da accusata divento accusatrice. [...]

Nell'ex dopolavoro mi attendono tre donne. Mi legano a una colonna in mezzo alla sala, a sinistra e a destra mi mettono due bandiere slave con la stella rossa e sopra la testa il ritratto di Tito. È un druze grande e grosso che dà il via al pestaggio. Con tutta la sua forza comincia a percuotermi con una cinghia. Mi colpisce così forte sugli occhi che non riesco più a riaprirli. Mi spiace perché ho sempre avuto il coraggio di fissare negli occhi chi mi picchiava. Le sevizie continuano, le donne mi colpiscono con grossi bastoni, con delle tenaglie cercano di levarmi le unghie ma non ci riescono perché sono troppo corte. Una scalmanata, con un cucchiaio mi gratta le palpebre gonfie, ferite e chiuse: "Apri gli occhi che te li levo" mi grida. [...] Più tardi mi fanno fare il giro del paese legata a una catena come un orso, mi segue un codazzo di bambini divertiti. [...]

Arriva un carro, mi fanno salire, fanno correre il cavallo e io devo stare in piedi. Le continue scosse mi fanno cadere e, ogni volta, un colpo di mitra mi rialza. In quelle condizioni giro diversi paesi. [...] A Parenzo mi portano nel piazzale del Castello, ora caserma, dove sono radunati gli uomini. [...] Quello che si scaglia furibondo contro di me è Ziri, un mio ex colono che ha avuto tanto bene da mio padre. Dice di essere felicissimo di vedermi in quelle condizioni e spera che tutta la famiglia sia distrutta per essere lui il padrone dei nostri campi.

[Nel castello di Pisino] Tutte le notti, un partigiano dalla faccia cupa e torva, entra nelle celle ed esce con qualcuno che non tornerà più. Quando al lume delle torce cerca sul foglio i nomi, gli occhi di tutti sono attaccati alla sua bocca e un brivido improvviso ci attraversa il corpo. Le urla di dolore di Arnaldo [il fratello diciassettenne, detenuto e torturato nel medesimo carcere] e degli altri suoi compagni di pena mi risuonano dolorosamente nella testa giorno e notte. [...] Una notte la porta si apre e subito mi assale il terrore, questa volta sul foglio c'è anche il mio nome. [...]

Io vengo legata braccio a braccio con una giovane incinta. Ci conducono sullo spiazzo del castello dove ci attendono due camion già pieni di prigionieri, con i motori accesi. Ci caricano sul secondo, chiudono le sponde e vien dato l'ordine di partire. In quell'istante arriva di corsa un ufficiale con un foglio in mano e grida: "Alt! Mafalda Codan giù". Mi sento mancare, tremo tutta […]. Il capo mi prende per un braccio, mi accompagna in una casetta di fronte al carcere, mi getta in una stanza buia e mi chiude dentro. [...] Al mattino gli aguzzini tornano felici di aver ucciso tanti nemici del popolo. Li hanno massacrati tutti. Uno entra nella mia nuova "residenza" e mi chiede: "Quanti anni aveva tuo fratello? Non voleva morire sai, anche dopo morto il suo corpo ha continuato a saltare" […].

Una mattina un druze mi accompagna al Comando. Entro in un ufficio, dietro una scrivania siedono due uomini dall'apparenza civile, sono due giudici, uno indossa l'uniforme, l'altro è in borghese. "Hai visite" mi dicono, aprono una porta ed entrano quattro donne scalmanate. "Come? E' ancora viva?" chiedono arrabbiate. "Perché non è "partita" con gli altri? ". Urlano, gridano, vogliono picchiarmi. I due capi glielo proibiscono. Mi accusano di cose inaudite e allora urlo anch'io e, anche questa volta, da accusata divento accusatrice, di cose vere però. Da una frase detta dalle forsennate, capisco che, durante le perquisizioni e i furti perpetrati a casa mia, hanno trovato il mio diario. In un quadernone ho scritto infatti il calvario della mia famiglia iniziato con l'occupazione slavo-comunista del settembre 1943. Ho annotato tutto nei minimi particolari, ore, giorno, mese, avvenimenti, parole dette, tutto [...] e completato con fotografie, documenti importanti e pezzi di giornale.

Sono testimonianze che scottano, verità che non si possono negare, che fanno paura, è per questo che vogliono la mia morte. Ora racconto ai giudici tutto quello che è stato fatto alla mia famiglia, cosa ho vissuto, faccio nomi, non riesco a tacere perché ho la coscienza a posto, so di essere innocente, non ho paura di nessuno. [...] Da quell'istante la mia vita cambia. I due capi hanno capito che non ho fatto niente di male. [...] Riacquisto subito la semilibertà, giro da sola senza la scorta di guardie armate e divento la donna di servizio della moglie di Milenko, uno dei capi. È un giovane dalmata, laureato in legge, parla abbastanza bene l'italiano e il francese ed è molto umano. [...] Mangio con loro e, alla sera, ritorno in prigione. Mi trattano umanamente, ma tra noi rimane pur sempre uri rapporto schiavo-padrone. [...] Potrei scappare ogni giorno, ma i miei principi e la parola d'onore data, mi impediscono di farlo. Per nessuna cosa al mondo tradirci la fiducia delle persone che hanno creduto in me. E intanto, pian piano, il grigio sconforto che mi aveva colmato il cuore e la mente negli ultimi mesi, comincia a dissiparsi.


CHI ERA NORMA COSSETTO


Norma Cossetto, una studentessa universitaria istriana, venne torturata, violentata e gettata in una delle tante foibe che caratterizzano il territorio della Venezia Giulia  assieme ad altri 25 sventurati nella notte tra il 4 e il 5 ottobre 1943. La sua storia è stata spesso considerata emblematica per descrivere i drammi e le sofferenze dell'Istria e della Venezia Giulia

Norma CossettoNorma Cossetto era una splendida ragazza di 24 anni di Santa Domenica di Visinada, laureanda in lettere e filosofia presso l'Università di Padova. In quel periodo girava in bicicletta per i comuni dell'Istria per preparare il materiale per la sua tesi di laurea, che aveva per titolo "L'Istria Rossa" (Terra rossa per la bauxite).

Il 25 settembre 1943 un gruppo di partigiani irruppe in casa Cossetto razziando ogni cosa. Entrarono perfino nelle camere, sparando sopra i letti per spaventare le persone. Il giorno successivo prelevarono Norma. Venne condotta prima nella ex caserma dei Carabinieri di Visignano dove i capibanda si divertirono a tormentarla, promettendole libertà e mansioni direttive, se avesse accettato di collaborare e di aggregarsi alle loro imprese. Al netto rifiuto, la rinchiusero nella ex caserma della Guardia di Finanza a Parenzo assieme ad altri parenti, conoscenti ed amici.

Dopo una sosta di un paio di giorni, vennero tutti trasferiti durante la notte e trasportati con un camion nella scuola di Antignana, dove Norma iniziò il suo vero martirio. Fissata ad un tavolo con alcune corde, venne violentata da diciassette aguzzini, quindi gettata nuda nella Foiba poco distante, sulla catasta degli altri cadaveri degli istriani. Una signora di Antignana che abitava di fronte, sentendo dal primo pomeriggio urla e lamenti, verso sera, appena buio, osò avvicinarsi alle imposte socchiuse. Vide la ragazza legata al tavolo e la udì, distintamente, invocare pietà.

Il 13 ottobre 1943 a S. Domenico ritornarono i tedeschi i quali, su richiesta di Licia, sorella di Norma, catturarono alcuni partigiani che raccontarono la sua tragica fine e quella di suo padre. Il 10 dicembre 1943 i Vigili del fuoco di Pola, al comando del maresciallo Harzarich, ricuperarono la sua salma: era caduta supina, nuda, con le braccia legate con il filo di ferro, su un cumulo di altri cadaveri aggrovigliati; aveva ambedue i seni pugnalati ed altre parti del corpo sfregiate.

Emanuele Cossetto, che identificò la nipote Norma, riconobbe sul suo corpo varie ferite di armi da taglio; altrettanto riscontrò sui cadaveri degli altri. Norma aveva le mani legate in avanti, mentre le altre vittime erano state legate dietro. Da prigionieri partigiani, presi in seguito da militari italiani istriani, si seppe che Norma, durante la prigionia venne violentata da molti.

La salma di Norma fu composta nella piccola cappella mortuaria del cimitero di Castellerier. Dei suoi diciassette torturatori, sei furono arrestati e obbligati a passare l'ultima notte della loro vita nella cappella mortuaria del locale cimitero per vegliare la salma, composta al centro, di quel corpo che essi avevano seviziato sessantasette giorni prima,nell'attesa angosciosa della morte certa. Soli, con la loro vittima, con il peso enorme dei loro rimorsi, tre impazzirono e all'alba caddero con gli altri, fucilati a colpi di mitra.


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04/02/2010 13:10
 
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Durante e dopo la seconda guerra mondiale, le foibe divennero quindi grandi fosse comuni

per esecuzioni sommarie collettive.

Gettare un uomo in foiba significa considerarlo alla stregua di un rifiuto, gettarlo là

dove da sempre la gente istriana getta ciò che non serve più (…) La vittima,

sprofondata nell’antro, viene cancellata nell’esistenza fisica, ma anche nell’identità

nel nome nella memoria. Uccidere chi è considerato nemico non basta: occorre

andare oltre, occultarne il corpo e la vita, eliminarne ogni traccia, come se non fosse

mai vissuto.

La maggior parte degli infoibamenti ebbe luogo in due periodi distinti:

8 settembre 1943 – 13 ottobre 1943

Nei quaranta giorni successivi all’armistizio firmato da Badoglio l’8 settembre 1943 la

Venezia Giulia, lasciata indifesa dai soldati italiani allo sbando e non ancora sotto il

controllo dei tedeschi, divenne facile preda dei partigiani slavi.

1 maggio 1945 – 10 giugno 1945

Nei quaranta giorni di occupazione titina (nella primavera del 1945), nella zona di Trieste e

Gorizia il fenomeno degli infoibamenti segnò il suo apice.

L’ingresso di Tito in Trieste il 1 maggio, mentre i partigiani garibaldini venivano dirottati

verso Lubiana, significò l’inizio per gli abitanti del capoluogo giuliano di un vero e proprio

periodo di terrore.

Gli ordini impartiti da Tito e dal suo ministro degli esteri Edvard Kardelj erano chiari e non si

prestavano a equivoci: Epurare subito, Punire con severità tutti i fomentatori dello

sciovinismo e dell’odio nazionale.

Fu una carneficina, che non risparmiò nemmeno gli antifascisti, membri del Comitato di

liberazione nazionale, che avevano fatto la Resistenza al fianco dei loro assassini, o

esponenti della Resistenza liberaldemocratica e del movimento autonomistico di Fiume.

Militari e civili italiani, ma anche civili sloveni

e croati, furono vittime di arresti, processi

fittizi, deportazioni, torture e fucilazioni.

A pagare non furono infatti solo i fascisti, ma chiunque si opponesse all'annessione della

Venezia Giulia alla Jugoslavia.

Iniziò una vera e propria caccia all'italiano, con esecuzioni sommarie, deportazioni,

infoibamenti.24 Rischiava la vita chiunque fosse italiano e non volesse rinunciare alla sua

italianità.

Questa tesi è stata sostenuta anche dallo storico Giovanni Berardelli

La loro principale colpa era quella di essere, per la loro nazionalità, un ostacolo da

rimuovere al programma di Tito di annessione del Friuli e della Venezia Giulia. Da cui

l'odierna accusa di genocidio o di pulizia etnica.25

ma anche dallo storico triestino Roberto Spazzali che definì le foibe

(…) il prodotto di odi diversi: etnico, nazionale e ideologico. Furono la risoluzione

brutale di un tentativo rivoluzionario di annessione territoriale. Chi non ci stava, veniva

eliminato.

La mattanza fu devastante e si protrasse per settimane, nonostante l’arrivo, a Trieste e a

Gorizia fra il 2 e il 3 maggio, della seconda divisione neozelandese del generale Bernard

Freyberg, inquadrata nell’VIII armata britannica.

A questo periodo fa riferimento un documento dello Stato firmato da due Presidenti della

Repubblica, Luigi Einaudi e Giovanni Gronchi, in cui si riconosce che Trieste(…) nuovamente sottoposta a durissima occupazione straniera, subiva con fierezza il

martirio delle stragi e delle foibe, non rinunciando a manifestare attivamente il suo

attaccamento alla Patria.26

La persecuzione degli italiani durò almeno fino al '47, soprattutto nella parte dell'Istria

vicina al confine e sottoposta all'amministrazione provvisoria jugoslava.



In questo periodo solo a Trieste furono prelevate circa OTTOMILA PERSONE delle quali solo una parte di esse ritornò a casa!

LE MODALITA’ DEGLI INFOIBAMENTI

La caratteristica comune di tutte le uccisioni fu l’assenza pressoché totale di notizie sulla

sparizione di migliaia di persone. Un mistero che alimentò notevolmente il clima di terrore

nel quale viveva la popolazione.

Una morte oscura, segno di una volontà di cancellazione totale, resa ancor più aspra

dalla negazione della pietà, visto che la scomparsa dei corpi prolungò nei congiunti

l’incertezza angosciosa sulla sorte dei loro cari e rese impossibile, in molti casi fino ai

giorni nostri, la celebrazione pacificante della sepoltura27.

Tra gli arrestati vi furono numerosi casi di vendette personali, vittime di delatori che

sfruttarono il cambiamento di bandiera per risolvere ogni divergenza con le proprie vittime.

Sulla sorte degli arrestati non trapelarono notizie, soprattutto per la ferrea osservanza del

silenzio da parte dei funzionari della polizia segreta jugoslava (O.Z.N.A.) e per la totale

mancanza di verbali d’arresto o di atti processuali che avrebbero dovuto documentare la

sorte di migliaia di disgraziati. La procedura era sempre la medesima:

sconosciuti bussavano alla porta di casa e invitavano, più o meno gentilmente, la

persona indicata a seguirli per un controllo al Comando partigiano (…). Talvolta la

scusa era quella di dover firmare un documento presso il Comando partigiano. Il tempo

passava e ai famigliari del fermato, che cercavano di portare aiuto e conforto ai propri

cari, veniva risposto di aver pazienza, che si sarebbe dovuto aspettare qualche giorno

per le indispensabili questioni procedurali.28

Gli arrestati dell'Istria vennero concentrati in tre località: nel castello Montecuccoli di Pisino,

a Pinguente e a Barbana.

I Tribunali del Popolo istituirono un gran numero di processi con procedure spicce e

particolari. Agli imputati non venne concessa alcuna grazia di tutela dei propri diritti,

non furono nominati in alcun caso avvocati difensori, né si poterono chiamare testimoni

a proprio favore per cui, dopo brevi istruttorie, gli accusati vennero portati al cospetto

dei giudici che, con qualche parvenza di legalità, emisero immediatamente le sentenze

sulla base di sentenze stereotipate. 29

Tali sentenze, quasi sempre di colpevolezza, erano senza possibilità di appello e nella

gran parte dei casi prevedevano per i malcapitati la pena capitale.30

Le modalità di uccisione e di eliminazione fisica dei condannati furono molteplici, a

seconda sia del luogo geografico che delle particolari condizioni del momento. Sovente

gli arrestati prima di morire dovettero spogliarsi di tutti i loro vestiti e delle loro calzature,

ambite dai sicari che poi le indossarono personalmente; altre volte i carnefici

scambiarono i propri abiti logori con quelli più nuovi dei deportati. (…) Molte persone

furono fucilate, o comunque uccise in modo violento, ed i loro corpi vennero sepolti nelle

fosse comuni, nelle cave e nei pozzi artesiani e minerari. Altre furono gettate in mare e

vennero ritrovate solo in pochi casi. Altre ancora furono buttate nelle foibe.

La maggior parte dei prigionieri rimasti in Istria, invece, subirono il martirio della foiba.

Dopo la sentenza di morte le vittime venivano portate sul luogo dell’esecuzione, con i polsi

legati dietro la schiena con filo di ferro.

Il trasporto avveniva a bordo di autobus con i vetri oscurati da vernice bianca. Quei mezzi

divennero tristemente famosi in Istria come le “corriere della morte”. Dove la carreggiata

finiva i prigionieri procedevano a piedi fino alla foiba. Giunti sull’orlo dell’abisso, i

carnefici davano inizio all’esecuzione sparando un colpo di pistola o di fucile alla testa della

vittima, facendola all’interno della voragine nella quale trascinava con sé il compagno

ancora vivo a cui era legata.

A qualcuno veniva promessa la libertà se fosse riuscito a saltare da una parte all’altra

dell’apertura, ma i pochi che riuscirono nell’impresa furono comunque gettati nell’orrido.

L'agonia di questi sventurati poteva durare giorni interi e le loro grida ed invocazioni di

aiuto venivano udite dagli abitanti della zona, ma la paura ed il terrore che regnava

ovunque impediva di avvicinarsi alle foibe.

Nessuno si sentiva al sicuro perché chiunque poteva accusare ed essere accusato di

essere “nemico del popolo”, con totale discrezionalità.

Un gioco al massacro diabolico, per il quale nessuno si sentiva più al sicuro nemmeno in

casa propria.

Durante l’occupazione slava la crudeltà e la barbarie degli infoibatori oltrepassò l'orrore dei

crimini e in diversi casi sconfinò nella superstizione. Al termine delle esecuzioni, nelle foibe

venivano gettati dei cani neri vivi, i quali, secondo un’antica superstizione slava, avrebbero

dovuto impedire alle anime dei morti di uscire dalle cavità per trovare, insieme ad una

cristiana sepoltura, anche la pace eterna.


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peppecaridi2.wordpress.com/2008/02/10/un-ricordo-commosso-per-le-vittime-dell...

LA TRISTE MAPPA DELLE FOIBE DOVE VENNERO GETTATE MIGLIAIA DI PERSONE ANCHE VIVE

Foiba di Basovizza e Monrupino (Trieste) - Oggi monumenti nazionali. Diverse centinaia sono gli infoibati in esse precipitati. [leggi]
Foiba di Scadaicina sulla strada di Fiume.
Foiba di Podubbo - Non è stato possibile, per difficoltà, il recupero.
Il Piccolo del 5.12.1945 riferisce che coloro che si sono calati nella profondità di 190 metri, hanno individuato cinque corpi - tra cui quello di una donna completamente nuda – non identificabili a causa della decomposizione.

Foiba di Drenchia - Secondo Diego De Castro vi sarebbero cadaveri di donne, ragazze e partigiani dell’Osoppo.
Abisso di Semich – "…Un'ispezione del 1944 accertò che i partigiani di Tito, nel settembre precedente, avevano precipitato nell'abisso di Semich (presso Lanischie), profondo 190 metri, un centinaio di sventurati: soldati italiani e civili, uomini e donne, quasi tutti prima seviziati e ancor vivi. Impossibile sapere il numero di quelli che furono gettati a guerra finita, durante l'orrendo 1945 e dopo. Questa è stata fina delle tante Foibe carsiche trovate adatte, con approvazione dei superiori, dai cosiddetti tribunali popolari, per consumare varie nefandezze.

La Foiba ingoiò indistintamente chiunque avesse sentimenti italiani, avesse sostenuto cariche o fosse semplicemente oggetto di sospetti e di rancori. Per giorni e giorni la gente aveva sentito urla strazianti provenire dall’abisso, le grida dei rimasti in vita, sia perché trattenuti dagli spuntoni di roccia, sia perché resi folli dalla disperazione. Prolungavano l’atroce agonia con sollievo dell’acqua stillante. Il prato conservò per mesi le impronte degli autocarri arrivati qua, grevi del loro carico umano, imbarcato senza ritorno…" (Testimonianza di Mons. Parentin - da La Voce Giuliana del 16.12.1980).

Foibe di Opicina, di Campagna e di Corgnale – "Vennero infoibate circa duecento persone e tra queste figurano una donna ed un bambino, rei di essere moglie e figlio di un carabiniere …"(G. Holzer 1946).
Foibe di Sesana e Orle - Nel 1946 sono stati recuperati corpi infoibati.

Foiba di Casserova sulla strada di Fiume, tra Obrovo e Golazzo. Ci sono stati precipitati tedeschi, uomini e donne italiani, sloveni, molti ancora vivi, poi, dopo aver gettato benzina e bombe a mano, l’imboccatura veniva fatta saltare. Difficilissimi i recuperi.
Abisso di Semez - Il 7 maggio 1944 vengono individuati resti umani corrispondenti a ottanta - cento persone. Nel 1945 fu ancora "usato".
Foiba di Gropada - Sono recuperate cinque salme. " Il 12 maggio 1945 furono fatte precipitare nel bosco di Gropada trentaquattro persone, previa svestizione e colpo di rivoltella "alla nuca". Tra le ultime: Dora Ciok, Rodolfo Zuliani, Alberto Marega, Angelo Bisazzi, Luigi Zerial e Domenico Mari"

Foiba di Vifia Orizi - Nel mese di maggio del 1945, gli abitanti del circondario videro lunghe file di prigionieri, alcuni dei quali recitavano il Padre Nostro, scortati da partigiani armati di mitra, essere condotte verso la voragine. Le testimonianze sono concordi nell'indicare in circa duecento i prigionieri eliminati.
Foiba di Cernovizza (Pisino) - Secondo voci degli abitanti del circondario le vittime sarebbero un centinaio. L'imboccatura della Foiba, nell'autunno del 1945, è stata fatta franare.
Foiba di Obrovo (Fiume) – È luogo di sepoltura di tanti fiumani, deportati senza ritorno.

Foiba di Raspo - Usata come luogo di genocidio di italiani sia nel 1943 che nel 1945. Imprecisato il numero delle vittime.
Foiba di Brestovizza - Così narra la vicenda di una infoibata il "Giornale di Trieste" in data 14.08.1947. "Gli assassini l'avevano brutalmente malmenata, spezzandole le braccia prima di scaraventarla viva nella Foiba. Per tre giorni, dicono i contadini, si sono sentite le urla della misera che giaceva ferita, in preda al terrore, sul fondo della grotta."

Foiba di Zavni (Foresta di Tarnova) - Luogo di martirio dei carabinieri di Gorizia [leggi] e di altre centinaia di sloveni oppositori del regime di Tito.
Foiba di Gargaro o Podgomila (Gorizia) - Vi furono gettate circa ottanta persone.

Capodistria - Le Foibe - Dichiarazioni rese da Leander Cunja, responsabile della Commissione di indagine sulle Foibe del capodistriano, nominata dal Consiglio esecutivo dell'Assemblea comunale di Capodistria: "Nel capodistriano vi sono centosedici cavità, delle ottantuno cavità con entrata verticale abbiamo verificato che diciannove contenevano resti umani. Da dieci cavità sono stati tratti cinquantacinque corpi umani che sono stati inviati all’Istituto di medicina legale di Lubiana. Nella zona si dice che sono finiti in Foiba, provenienti dalla zona di S. Servolo, circa centoventi persone di etnia italiana e slovena, tra cui il parroco di S. Servolo, Placido Sansi. I civili infoibati provenivano dalla terra di S. Dorligo della Valle. I capodistriani, infatti, venivano condotti, per essere deportati ed uccisi, nell'interno, verso Pinguente. Le Foibe del capodistriano sono state usate nel dopoguerra come discariche di varie industrie, tra le quali un salumificio della zona"

Foiba di Vines - Recuperate dal Maresciallo Harzarich dal 16.10.1943 al 25.10.1943 cinquantuno salme riconosciute. In questa Foiba, sul cui fondo scorre dell'acqua, gli assassinati dopo essere stati torturati, finirono precipitati con una pietra legata con un filo di ferro alle mani. Furono poi lanciate delle bombe a mano nell'interno. Unico superstite, Giovanni Radeticchio, ha raccontato il fatto. [leggi]
www.lefoibe.it/storie/racconto.htm

Cava di Bauxite di Gallignana - Recuperate dal 31 novembre 1943 all'8 dicembre 1943 ventitré salme di cui sei riconosciute. Don Angelo Tarticchio nato nel 1907 a Gallesano d’Istria, parroco di Villa di Rovigno. Il 16 settembre 1943 - aveva trentasei anni - fu arrestato dai partigiani comunisti, malmenato ed ingiuriato insieme ad altri trenta dei suoi parrocchiani, e, dopo orribili sevizie, fu buttato nella foiba di Gallignana. Quando fu riesumato lo trovarono completamente nudo, con una corona di spine conficcata sulla testa, i genitali tagliati e messi in bocca.

Foiba di Terli - Recuperate nel novembre del 1943 ventiquattro salme, riconosciute.
Foiba di Treghelizza - Recuperate nel novembre del 1943 due salme, riconosciute.
Foiba di Pucicchi - Recuperate nel novembre del 1943 undici salme di cui quattro riconosciute.
Foiba di Surani - Recuperate nel novembre del 1943 ventisei salme di cui ventuno riconosciute.
Foiba di Cregli - Recuperate nel dicembre del 1943 otto salme, riconosciute.
Foiba di Cernizza - Recuperate nel dicembre del 1943 due salme, riconosciute.
Foiba di Vescovado - Scoperte sei salme di cui una identificata.


Altre foibe da cui non fu possibile eseguire recupero nel periodo 1943 - 1945: Semi - Jurani - Gimino - Barbana - Abisso Bertarelli - Rozzo - Iadruichi.
Foiba di Cocevie a 70 chilometri a sud-ovest da Lubiana
Foiba di San Salvaro.
Foiba Bertarelli (Pinguente) - Qui gli abitanti vedevano ogni sera passare colonne di prigionieri ma non ne vedevano mai il ritorno.
Foiba di Gropada.
Foiba di San Lorenzo di Basovizza.
Foiba di Odolina - Vicino Bacia, stilla strada per Matteria, nel fondo dei Marenzi.
Foiba di Beca - Nei pressi di Cosina.
Foibe di Castelnuovo d'Istria – "Sono state poi riadoperate - continua il rapporto del Cln - le foibe istriane, già usate nell'ottobre del 1943".
Cava di bauxite di Lindaro
Foiba di Sepec (Rozzo)




[SM=g1740720]

[Modificato da Caterina63 04/02/2010 14:30]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Foiba di Vines - Recuperate dal Maresciallo Harzarich dal 16.10.1943 al 25.10.1943 cinquantuno salme riconosciute. In questa Foiba, sul cui fondo scorre dell'acqua, gli assassinati dopo essere stati torturati, finirono precipitati con una pietra legata con un filo di ferro alle mani. Furono poi lanciate delle bombe a mano nell'interno. Unico superstite, Giovanni Radeticchio, ha raccontato il fatto.

Riuscì a sopravvivere Giovanni Radeticchio di Sisano.

Ecco il suo racconto
: "Addì 2 maggio 1945, Giulio Premate accompagnato da altri quattro armati venne a prelevarmi a casa mia con un camioncino sul quale erano già i tre fratelli Alessandro, Francesco e Giuseppe Frezza nonché Giuseppe Benci. Giungemmo stanchi ed affamati a Pozzo Littorio dove ci aspettava una mostruosa accoglienza; piegati e con la testa all’ingiù fecero correre contro il muro Borsi, Cossi e Ferrarin. Caduti a terra dallo stordimento vennero presi a calci in tutte le parti del corpo finché rinvennero e poi ripetevano il macabro spettacolo. Chiamati dalla prigionia al comando, venivano picchiati da ragazzi armati di pezzi di legno. 

Alla sera, prima di proseguire per Fianona, dopo trenta ore di digiuno, ci diedero un piatto di minestra con pasta nera non condita. Anche questo tratto di strada a piedi e per giunta legati col filo di ferro ai polsi due a due, così stretti da farci gonfiare le mani ed urlare dai dolori. Non ci picchiavano perché era buio. 

Ad un certo momento della notte vennero a prelevarci uno ad uno per portarci nella camera della torture. Ero l'ultimo ad essere martoriato: udivo i colpi che davano ai miei compagni di sventura e le urla di strazio di questi ultimi. Venne il mio turno: mi spogliarono, rinforzarono la legatura ai polsi e poi, giù botte da orbi. Cinque manigoldi contro di me, inerme e legato, fra questi una femmina. Uno mi dava pedate, un secondo mi picchiava col filo di ferro attorcigliato, un terzo con un pezzo di legno, un quarto con pugni, la femmina mi picchiava con una cinghia di cuoio. 

Prima dell'alba mi legarono con le mani dietro la schiena ed in fila indiana, assieme a Carlo Radolovich di Marzana, Natale Mazzucca da Pinesi (Marzana), Felice Cossi da Sisano, Graziano Udovisi da Pola, Giuseppe Sabatti da Visinada, mi condussero fino all'imboccatura della Foiba. Per strada ci picchiavano col calcio e colla canna del moschetto. Arrivati al posto del supplizio ci levarono quanto loro sembrava ancora utile. A me levarono le calze (le scarpe me le avevano già prese un paio di giorni prima), il fazzoletto da naso e la cinghia dei pantaloni.

Mi appesero un grosso sasso, del peso di circa dieci chilogrammi, per mezzo di filo di ferro ai polsi già legati con altro filo di ferro e mi costrinsero ad andare da solo dietro Lidovisi, già sceso nella Foiba. Dopo qualche istante mi spararono qualche colpo di moschetto. Dio volle che colpissero il filo di ferro che fece cadere il sasso. Così caddi illeso nell'acqua della Foiba. Nuotando, con le mani legate dietro la schiena, ho potuto arenarmi. Intanto continuavano a cadere gli altri miei compagni e dietro ad ognuno sparavano colpi di mitra. Dopo l'ultima vittima, gettarono una bomba a mano per finirci tutti. Costernato dal dolore non reggevo più. 

Sono riuscito a rompere il filo di ferro che mi serrava i polsi, straziando contemporaneamente le mie carni,poiché i polsi cedettero prima del filo di ferro. Rimasi così nella Foiba per un paio di ore. Poi, col favore della notte, uscii da quella che doveva essere la mia tomba" 





Salvo per miracolo
testimonianza di Graziano Udovisi

(da: Arrigo Petacco, L'esodo. La tragedia negata degli italiani d'Istria, Dalmazia e Venezia Giulia, A. Mondatori, Milano 1999).

Mi fecero marciare sulle sterpaglie a piedi nudi, legato col filo di ferro ad un amico che dopo pochi passi svenne e così io, camminando, me lo trascinavo dietro. Poi una voce in slavo gridò: "Alt!". Abbassai lo sguardo e la vidi: una fessura profonda nel terreno, come un enorme inghiottitoio. Ero sull'orlo di una foiba. Allora tutto fu chiaro: ara arrivato il momento di morire.

Tutto è incominciato il 5 maggio 1945. La guerra è finita, depongo le armi e mi consegno prigioniero al comando slavo. Vengo deportato in un campo di concentramento vicino Pola. Prima della tragedia c'è l'umiliazione: i partigiani di Tito si divertono a farmi mangiare pezzi di carta ed ingoiare dei sassi. Poi mi sparano qualche colpo all'orecchio. Io sobbalzo impaurito, loro sghignazzano.

Insieme ad altri compagni finisco a Pozzo Vittoria, nell'ex palestra della scuola. Alcuni di noi sono costretti a lanciarsi di corsa contro il muro. Cadono a terra con la testa sanguinante. I croati li fanno rialzare a suon di calci. A me tocca in sorte un castigo diverso: una bastonata terrificante sull'orecchio sinistro. E da quel giorno non ci sento quasi più.

Eccoci a Fianona. Notte alta. Questa volta ci hanno rinchiuso in un ex caserma. Venti persone in una stanza di tre metri per quattro. Per picchiarci ci trasferiscono in una stanza più grande dove un uomo gigantesco comincia a pestarmi. "Maledetti in piedi! " strilla l'Ercole slavo. Vedo entrare due divise e in una delle due c'è una donna. Poi giro lo sguardo sui i miei compagni: hanno la schiena che sembra dipinta di rosso e invece è sangue che sgorga.
 
"Avanti il più alto", grida il gigante e mo prende per i capelli trascinandomi davanti alla donna. Lei estrae con calma la pistola e col calcio dell'arma mi spacca la mascella. Poi prende il filo di ferro e lo stringe attorno ai nostri polsi legandoci a due a due. Ci fanno uscire. Comincia la marcia verso la foiba.

Il destino era segnato ed avevo solo un modo per sfuggirgli: gettarmi nella voragine prima di essere colpito da un proiettile. Una voce urla in slavo "Morte al fascismo, libertà ai popoli!", uno slogan che ripetono ad ogni piè sospinto. Io, appena sento l crepitio dei mitra mi tuffo dentro la foiba.

Ero precipitato sopra un alberello sporgente. Non vedevo nulla, i cadaveri mi cascavano addosso. Riuscii a liberare le mani dal filo di ferro e cominciai a risalire. Non respiravo più. All'improvviso le mie dita afferrano una zolla d'erba. Guardo meglio: sono capelli! Li afferro e così riesco a trascinare in superficie anche un altro uomo. L'unico italiano, ad essere sopravvissuto alle foibe. Si chiamava Giovanni, "Ninni" per gli amici. È morto in Australia qualche anno fa.



L'esodo fu pulizia etnica perpetrata ai danni del popolo istriano anche attraverso lo strumento della persecuzione religiosa e don Bonifacio ne è un esempio emblematico.

La storia del giovane curato di Villa Gardossi, in Istria, che i titini massacrarono di botte e poi fecero sparire in una foiba.

Don Francesco, la sera dell’11 settembre 1946, tornava verso casa percorrendo un sentiero in salita. Nel pomeriggio, in una frazione della zona, aveva ordinato la legna per scaldare il focolare domestico durante i rigori dell’inverno. Più tardi era salito a Grisignana per trovare conforto nell’amicizia che lo legava a un confratello, monsignor Luigi Rocco, e per ricevere l’assoluzione.
 
Sulla via del ritorno il sacerdote venne fermato da due uomini della guardia popolare. Un contadino che era nei campi si avvicinò ai sicari e chiese loro di lasciar andare il suo prete, ma fu allontanato brutalmente e minacciato perché non dicesse nulla di ciò che aveva visto. Poco dopo le guardie sparirono nel bosco. Il sacerdote fu spogliato e deriso, ma egli, a bassa voce, cominciò a pregare. Si rivolse al Signore e chiese perdono anche per i suoi aggressori. Accecati dalla rabbia, i due cominciarono a colpirlo con pugni e calci: don Francesco si accasciò tenendo il viso tra le mani, ma non smise di mormorare le sue invocazioni.

I suoi carnefici tentarono di zittirlo scagliandogli una grossa pietra in volto, ma il curato, con un filo di voce, pregava ancora. Altre pietre lo finirono. Da allora non si seppe più nulla di lui. Il suo corpo, dopo l’atroce esecuzione, scomparve. Quasi certamente fu gettato in una foiba.

Don Francesco Bonifacio fu ucciso a trentaquattro anni, ma rimase nel cuore e nella memoria di chi ebbe la fortuna di incontrarlo.

(tratto da "Foibe: 60 anni di silenzi")

La figura di don Francesco Bonifacio, il suo martirio ad opera del Comunismo, costituiscono un simbolo importante di tutta la tragica vicenda di Foibe e di Esodo e stanno a confermare come lo strumento della persecuzione religiosa abbia svolto un ruolo rilevante nella "politica del terrore" realizzata dal regime jugoslavo.

La prima notizia della uccisione di don Francesco risale al 21 settembre 1946 ed è vergata dal Vescovo Mons. Antonio Santin: "Fino ad oggi nulla si sa di lui. Le autorità (quelle degli occupanti jugoslavi) fingono di ignorare ogni cosa. La popolazione dice che è stato ucciso". Secondo alcune testimonianze il suo corpo, mai ritrovato, sarebbe stato gettato nella foiba di Grisignana.

Era stato mons. Santin ad iniziare, ancora nel 1957, il processo di beatificazione di don Bonifacio, come martire della Fede. Sembra che finalmente, nonostante le diverse resistenze politiche, l'iter della causa stia concludendosi. Sarà un segno importante, per tutto il mondo giuliano dalmata, il riconoscimento del martirio di questo giovane sacerdote (era nato a Pirano nel 1912) che aveva dedicato tutto il suo fervore apostolico alla sua missione sacerdotale e, specialmente, al lavoro con i giovani. E che proprio per queste ragioni venne martirizzato dal comunisti jugoslavi del maresciallo Tito.

Ben venga se anche sui muri di altre città italiane comparirà il nome di "don Francesco Bonifacio, sacerdote istriano e martire per la fede". Ben venga se da qualsiasi muro di qualsiasi città italiana scomparirà il nome del responsabile del suo martirio, il maresciallo Tito, detto l'Infoibatore.

- Nasce largo Bonifacio, nel nome di un infoibato da Il Piccolo
- Don Bonifacio: un esempio di persecuzione religiosa
- Comunicato stampa del Comune di Trieste
- Le foto della manifestazione

Nel manicomio di Lubiana: la testimonianza di un reduce.

La testimonianza che segue è tratta dalla relazione di un ufficiale di Marina Italiano detenuto a lungo nell'ex manicomio di Lubiana.

(da: "Storia e Dossier", n. 116, maggio 1997).

Il 26 giugno fummo messi tutti assieme in una cella misurante 7 metri per 14. Eravamo in 126[…]

A capriccio dei secondini di servizio venivamo chiamati fuori dalla cella, a turno, alcuni di noi, e senza alcuna ragione plausibile, venivano fatti segno a colpi di mitra , pugni e schiaffi […] L'acqua, eravamo in luglio, veniva misurata; cinque o sei sorsi a testa al giorno.
Divieto assoluto per usare acqua per lavarsi.
IL cibo costituito da verdura secca bollita produsse ben presto tra di noi l'insorgere di diarrea. Negata ogni assistenza sanitaria […].

Il 23 dicembre 1945, a sera, una trentina di noi vennero stralciati dal gruppo in base ad in elenco prestabilito, legati con le mani dietro la schiena a mezzo di filo di ferro e trasportati ad ignota destinazione con dei camions. L'indomani mattina gli automezzi fecero ritorno recando indumenti che noi riconoscemmo come già appartenenti ai nostri compagni partiti la sera innanzi. Ai nostri occhi tale fatto assunse l'aspetto di un macabro indizio. Il 30 dicembre un'altra trentina di noi subiva la stessa sorte, seguiti il 6gennaio 1946 da un terzo ed ultimo scaglione di 36 persone[…]

Nel frattempo erano morti Z. e B. Successivamente anche i tre della cella vicino alla nostra cessarono di vivere uno alla volta.
 Ricordo con particolare raccapriccio il povero B ( un ragazzo triestino di 18 anni facente parte della brigata"Venezia Giulia" del corpo Volontari della Libertà) ridotto ad un pietoso relitto umano da un infezione che non gli era mai stata curata. Negli ultimi giorni della sua vita rassomigliava di più ad un vecchio decadente che ad un ragazzo della sua età. La notte in cui morì udimmo gridare a lungo invocando la mamma. Quando si fece silenzio arguimmo la sua morte perché si sentì battere violentemente alla porta della cella vicina per chiamare la guardia di servizio. Poco dopo, dal tramestio che ci era perfettamente intelleggibile in tutti i suoi particolari, sapemmo che il povero B era stato tratto fuori dalla cella e temporaneamente situato nel cesso posto di fronte ad essa.

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Fraternamente CaterinaLD

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Cinquanta sacerdoti tra le vittime delle foibe


Il racconto di Piero Tarticchio, parente di un sacerdote martire di quel periodo


ROMA, domenica, 12 febbraio 2005 (ZENIT.org).- Giovedì scorso si è celebrata in tutta Italia la “giornata del ricordo” per le vittime delle foibe.

La storia delle foibe è legata al trattato di pace firmato a Parigi il 10 Febbraio 1947, che impose all’Italia la cessione alla Jugoslavia di Zara – in Dalmazia –, dell’Istria con Fiume e di gran parte della Venezia Giulia, con Trieste costituita territorio libero tornato poi all’Italia alla fine del 1954.

Dal 1947 al 1954 le truppe jugoslave di Tito, in collaborazione con i comunisti italiani, commisero un’opera di vera e propria pulizia etnica mettendo in atto gesti di inaudita ferocia.

Sono 350.000 gli Italiani che abbandonarono l’Istria, Fiume e la Dalmazia, e più di 20.000 le persone che, prima di essere gettate nelle foibe (cavità carsiche profonde fino a 200 metri), subirono ogni sorta di tortura. Intere famiglie italiane vennero massacrate, molti venivano legati con filo spinato a cadaveri e gettati nelle voragini vivi, decine e decine di sacerdoti furono torturati e uccisi. Nella sola foiba di Basovizza sono stati ritrovati quattrocento metri cubi di cadaveri.

Per decenni questa barbarie è stata nascosta, tanto che l’agenzia di stampa “Astro 9 colonne”, nel fare un conteggio dei lanci di agenzia pubblicati dal dopoguerra ad oggi sul tema delle foibe, ha scoperto che fino al 1990 erano stati poco più di 30.

Negli anni Novanta l’attenzione per il tema è aumentata: oltre 100 fino al 1995, l’anno successivo i lanci sono stati ben 155. Negli anni recenti ogni anno ce ne sono stati addirittura più di 200.

Dopo anni di silenzio la vicenda è arrivata in Parlamento, e con la legge n. 92 del 30 marzo 2004 è stato istituito il "Giorno del Ricordo", per conservare la memoria della tragedia delle foibe.

Calcolare esattamente il numero delle vittime è difficile, ma sono stati almeno 50 i sacerdoti uccisi dalle truppe comuniste di Tito.

Interpellato da ZENIT, Piero Tarticchio, che all’epoca dei fatti aveva sette anni, ha ricordato la tanta gente che partecipò al funerale del suo parente don Angelo Tarticchio, parroco di Villa di Rovino e attivo nell’opera caritativa di assistenza ai poveri, ucciso il 19 settembre del 1943 e sepolto il 4 novembre.

Il sacerdote venne preso di notte dai partigiani jugoslavi, insultato e incarcerato nel castello dei Montecuccoli a Pisino d’Istria. Dopo averlo torturato, lo trascinarono presso Baksoti (Lindaro), dove assieme a 43 prigionieri legati con filo spinato venne ucciso con una raffica di mitragliatrice e gettato in una cava di bauxite.

Tarticchio ha raccontato a ZENIT che il 31 ottobre, quando venne riesumato il cadavere, si vide che in segno di scherno gli assassini avevano messo una corona di filo spinato in testa a don Angelo. Don Tarticchio viene oggi ricordato come il primo martire delle foibe.
 
Quando fu riesumato lo trovarono completamente nudo, con una corona di spine conficcata sulla testa, i genitali tagliati e messi in bocca.
La sua colpa?
Si era permesso di dire la santa Messa il giorno di Pasqua.


                                                   

Un’altra delle vittime fu don Francesco Bonifacio, un sacerdote istriano che per la sua bontà e generosità veniva chiamato in seminario “el santin”. Cappellano a Volla Gardossi, presso Buie, don Bonifacio era noto per la sua opera di carità e zelo evangelico. La persecuzione contro la fede delle truppe comuniste era tale che non poté sfuggire al martirio.

La sera dell’11 settembre 1946 venne preso da alcune “guardie popolari”, che lo portarono nel bosco. Da allora di Don Bonifacio non si è saputo più nulla; neanche i resti del suo cadavere sono mai stati trovati.

Il fratello, che lo cercò immediatamente, venne incarcerato con l’accusa di raccontare storie false. Per anni la vicenda è rimasta sconosciuta, finché un regista teatrale è riuscito a contattare una delle “guardie popolari” che avevano preso don Bonifacio.

Questi raccontò che il sacerdote era stato caricato su un’auto, picchiato, spogliato, colpito con un sasso sul viso e finito con due coltellate prima di essere gettato in una foiba. Per don Francesco Bonifacio il 26 maggio 1997 è stata introdotta la causa di beatificazione, per essere stato ucciso “in odium fidei”.

In “odium fidei” fu ucciso il 24 agosto del 1947 anche don Miroslav Buselic, parroco di Mompaderno e vicedirettore del seminario di Pisino.

A causa della guerra in molte parrocchie della sua zona non era stato possibile amministrare la cresima, così don Miroslav accompagnò monsignor Jacob Ukmar per amministrare le cresime in 24 chiese diverse. I comunisti, però, avevano proibito l’amministrazione.

Alla chiesa parrocchiale di Antignana i comunisti impedirono l’ingresso a monsignor Ukmae e don Miroslav. Nella chiesa parrocchiale di Pinguente una massa di facinorosi impedì la cresima per 250 ragazzi, lanciando uova marce e pomodori, tra insulti e bestemmie.

Il 24 agosto nella chiesa di Lanischie, che i comunisti chiamavano “il Vaticano” per la fedeltà alla chiesa dei parrocchiani, monsignor Ukmar e don Milo riuscirono a cresimare 237 ragazzi.

Alla fine della liturgia i due sacerdoti si chiusero in canonica insieme al parroco, ma i comunisti fecero irruzione, sgozzarono don Miroslav e picchiarono credendolo morto monsignor Ukmar, mentre don Stjepan Cek, il parroco, riuscì a nascondersi.

Alcuni testimoni hanno raccontato che prima di essere sgozzato don Miloslav avrebbe detto “Perdona loro perché non sanno quello che fanno”.

Al funerale i comunisti non permisero ai treni pieni di gente di fermarsi, nemmeno nelle stazioni vicine. Al processo i giudici accusarono monsignor Ukmar e il parroco di aver provocato gli incidenti, così il monsignore, dopo aver trascorso un mese in ospedale per le percosse ricevute, venne condannato ad un mese di prigione. Il parroco fu invece condannato a sei anni di lavori forzati.

Su don Milo, il tribunale del popolo sostenne che non era provato che “fosse stato veramente ucciso”. Poteva essersi “suicidato a scopo intimidatorio”. Le prove erano però così evidenti che l’assassino venne condannato a cinque mesi di prigione per “troppo zelo nella contestazione”.

Nel 1956, in pieno regime comunista la diocesi avviò segretamente il processo di beatificazione di don Miloslav Buselic, ed è diffusa ancora oggi la fama di santità di don Miro tra i cattolici d’Istria.


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PER QUESTI AMATI DEFUNTI.....


Libera Me

« Libera me, Domine, de morte æterna, in die illa tremenda, quando coeli movendi sunt et terra. Dum veneris iudicare sæculum per ignem. Tremens factus sum ego et timeo, dum discussio venerit atque ventura ira. Dies iræ, dies illa, calamitatis et miseriæ, dies magna et amara valde. Requiem æternam dona eis, Domine: et lux perpetua luceat eis. »


« Liberami, o Signore, dalla morte eterna, in quel giorno tremendo quando la terra e il cielo si muoveranno, quando tu verrai a giudicare il mondo con il fuoco. Sono tremante pieno di timore, in considerazione del giudizio che verrà. Quel giorno è un giorno di ira, di calamità e miseria, un giorno molto triste. Dona loro l'eterno riposo, Signore: li illumini la luce perpetua. »


« In paradisum deducant te Angeli; in tuo adventu suscipiant te martyres, et perducant te in civitatem sanctam Ierusalem. Chorus angelorum te suscipiat, et cum Lazaro quondam paupere æternam habeas requiem. »


« In paradiso ti accompagnino gli Angeli, al tuo arrivo ti accolgano i martiri e ti conducano nella santa Gerusalemme. Ti accolga il coro degli Angeli e con Lazzaro, povero in terra, tu possa godere il riposo eterno nel cielo. »


Pie Iesu

« Pie Iesu Domine, dona eis requiem. Dona eis requiem sempiternam. »
« O Gesù buono, dona loro il riposo; dona loro il riposo eterno. »





[SM=g1740733] ora ascoltiamo In Paradisum aiutandovi con il video è facile da imparare.....




[SM=g1740717] [SM=g1740720]


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10/02/2010 23:09
 
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Il dramma delle foibe: ricordare gli orrori della storia

Non si possono dimenticare le drammatiche pagine legate alle foibe e all’esodo dall’Istria e dalla Dalmazia. E’ quanto ha affermato in occasione dell’odierna Giornata del ricordo dei martiri delle foibe, il presidente della Repubblica Italiana, Giorgio Napolitano, aggiungendo che si deve “rinnovare l’impegno comune del ricordo, della vicinanza, della solidarietà contro l'oblio e anche contro forme di rimozione diplomatica che hanno pesato nel passato e che hanno causato tante sofferenze”. Ricordare gli orrori della storia è dunque un imperativo morale come sottolinea, al microfono di Luca Collodi, anche Edoardo Bernkopf, figlio di profughi fiumani ed esperto del periodo storico delle foibe:


R. – Si tratta di una tragedia che ha colpito una parte importante della nostra popolazione, nel nostro Paese. E’ importante ricordare perché i testimoni diretti di quella tragedia sono in gran parte ormai mancati. Le nuove generazioni forse non hanno particolare interesse a ricordare, ad occuparsene. Ma dato che si tratta di una problematica che forse potrà rispuntare - tende a rispuntare nella storia in varie parti del mondo dove ci sono dei contrasti etnici, religiosi e quant’altro - è bene che si approfondiscano questi problemi in modo da evitare che in futuro possano ripetersi.

D. – La storia che pagine nuove ha aggiunto al dramma delle foibe?

R. – Più che pagine nuove, sono in fondo pagine che chi ha vissuto quella tragedia conosceva già. Forse non si è sottolineato abbastanza che si è trattato di una “pulizia etnica”, parola che abbiamo imparato a conoscere solo recentemente ma che in realtà si è consumata anche nel passato e si è consumata ai danni della popolazione italiana.

D. – Che testimonianze ha ricevuto sulle foibe?

R. – La nostra gente non ha amato dare risalto alla propria tragedia. Tutto sommato, questa tragedia, che ha colpito la popolazione italiana, è stata volutamente dimenticata ma anche i nostri profughi – e questo credo vada detto a loro onore – non hanno mandato messaggi di odio e di revanscismo relativamente alla propria tragedia, ma si sono semplicemente rimboccati le maniche ed hanno ripreso la loro vita, senza coltivare rancori, odi o desideri di rivincita magari violenta, come va di moda in varie parti del mondo, certe volte anche con il plauso di alcuni.

D. – Ci sono degli episodi che le sono stati raccontati di cui ha un ricordo particolare?

R. – Il ricordo più vivo è relativo anche ad un mio familiare, il quale aveva come unica colpa quella di aver servito l’esercito nazionale. Questi episodi di violenza ufficialmente si rivolgevano ai fascisti, ma di fatto si rivolgevano contro tutto quello che era italiano ed il fatto di aver portato una divisa o anche di aver ricoperto una carica pubblica, un incarico talvolta banale – come quello di maestro elementare – era talvolta sufficiente per essere considerato genericamente un fascista e quindi essere destinato alla fucilazione o all’infoibamento.

D. – Anche la Chiesa è stata colpita da questo periodo delle foibe…

R. – La Chiesa aveva una componente religiosa che era vista come nemica da parte di una milizia che aveva invece nella propria ideologia un solido ateismo. Sono molti i preti che sono finiti nelle foibe, anche eroicamente e magari dopo aver aiutato la popolazione – anche di etnia slava - ma a volte l’ideologia è cieca anche di fronte a questi comportamenti specchiati.

(Montaggio a cura di Maria Brigini)

Radio Vaticana

[Modificato da Caterina63 11/02/2011 19:52]
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«La mia gente sparita nel nulla»

di Antonio Giuliano
10-02-2011





«Si chiamava don Angelo Tarticchio, era un mio parente. La polizia comunista di Tito lo prelevò dalla canonica di Villa di Rovigno, nell’Istria, il 16 settembre del 1943. Aveva 36 anni. Fu mutilato, lapidato ancora vivo e gettato in una foiba con una corona di filo spinato in testa. La sua salma fu recuperata solo due mesi dopo. Ricordo come fosse ieri il suo funerale. In chiesa una folla immensa che piangeva. Mio padre mi teneva la mano. Non immaginava che un anno e mezzo dopo avrebbe fatto la stessa fine…».

Piero Tarticchio da Gallesano (Istria), classe 1936, scrittore e pittore, è un testimone come pochi del doppio dramma delle foibe. Non solo perché suo padre e altri parenti finirono tra le 5 mila persone (quasi tutti italiani) che la Jugoslavia comunista di Tito fece sparire nelle spaventose cavità carsiche (foibe) durante la seconda guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra. Ma anche perché fu tra quei 300 mila che lasciarono l’Istria e la Dalmazia quando queste regioni furono assegnate alla Jugoslavia con il trattato di Parigi del 10 febbraio 1947.


«Tutto cominciò – racconta Tarticchio - dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, quando nell’italiana Istria arrivarono gli emissari di Tito per conquistarla. Volevano l’Istria e non gli italiani. Così cominciarono a sparire circa 700-800 conterranei, tra cui funzionari statali e sacerdoti. 243 salme furono ritrovate solo due mesi più tardi: erano stati infoibati. Una pratica mai usata prima che consentiva di eliminare le persone senza lasciare traccia: venivano gettati in queste cavità carsiche usate dai contadini come discariche per animali morti o sterpaglia». Ma l’ondata persecutoria più massiccia ci fu al termine della guerra. «Mentre in Italia si festeggiava la Liberazione, noi cadevamo in un incubo. Ci fu una vera caccia a noi italiani considerati fascisti sfruttatori. Anche i sacerdoti finirono nel mirino. Il comunismo di Tito basato sul marxismo-leninismo chiuse le chiese dell'Istria, abolì il culto religioso… Non si poteva nemmeno morire con il conforto di un prete. Tra i religiosi martirizzati, oltre a don Angelo cugino di mio padre, ci fu anche il beato don Francesco Bonifacio».

E la furia della polizia jugoslava non risparmiò proprio nessuno: «Gli antifascisti furono i primi a essere gettati nelle foibe, perché il regime jugoslavo non voleva interlocutori. Molti partigiani italiani caddero nel tranello di Tito che li mandò a combattere sui monti al centro della Jugoslavia per annettersi senza intralci l’Istria. E anche sulla tragedia di Porzus, con l’eccidio fratricida tra i partigiani cattolici della Brigata Osoppo e quelli rossi della Brigata Garibaldi c’è la responsabilità di Togliatti che considerava fratelli i partigiani di Tito…». Di sicuro i comunisti jugoslavi non si fecero alcuno scrupolo: «In Istria la gente spariva di notte – dice Tarticchio -. Ho conosciuto persone che non hanno dormito due notti di seguito nello stesso letto. Sapevano di essere scritti nel registro della famigerata polizia segreta dell’Ozna. La psicosi era tale per cui si andava a dormire, ma l’indomani mattina non si era sicuri di svegliarsi nello stesso letto».

E i ricordi di Tarticchio, raccolti anche in un prezioso libro di Marco Girardo Sopravvissuti e dimenticati (Paoline), vanno sempre a quella notte del 3 maggio 1945: «Non avevo ancora 9 anni. Quattro uomini fecero irruzione a casa nostra alle 2 di notte. Mi svegliai e mi rifugiai subito tra le braccia di mia madre. Andarono da mio padre col mitra spianato intimandogli di seguirlo al comando. Gli legarono i polsi con il filo di ferro e lo spinsero col calcio del fucile fuori dalla porta. Mia madre piangeva e continuava a chiedere perché. L’unico dei quattro senza mitra che parlava italiano disse: “Non gridate o sparano”». I giorni seguenti furono pieni di angoscia: «Con mia madre andavamo tutti i giorni a portare biancheria e viveri a mio padre nel carcere di Pisino, una fortezza a strapiombo su una foiba. Ma non c’era possibilità di contatto con lui. Lo vedevamo solo attraverso le grate dalla strada. Lì l’ho visto l’ultima volta. Dopo 10 giorni, una mattina ci dissero che nella prigione non c’era più nessuno: nella notte i camion avevano portato via 800-850 persone».

Non poteva finire così. «Mia madre non si rassegnò all’idea di perdere suo marito. E con un coraggio che ancora adesso non mi spiego, si inoltrò in Jugoslavia per avere notizie. Ci avevano detto che lo avrebbero portato a Fiume per processarlo insieme con tutti i prigionieri. Ma solo dopo tanto tempo ho saputo che lì non arrivò nessuno: furono tutti infoibati». Ed era solo l’inizio di un’odissea senza fine: «Quando mia madre tornò dalla Jugoslavia un funzionario l’avvertì: “Guarda che sei nelle liste della polizia segreta, fai troppe domande, è probabile che ti arrestino e ti mandano nei campi di lavoro forzato della Jugoslavia e il bambino lo mandano in un collegio di rieducazione comunista nel nord della Slovenia”. Così scappammo di notte e attraversammo la linea di confine per sentieri di campagna passando sotto i reticolati. Prima ci rifugiammo a Pola, poi andammo via anche da lì di notte col piroscafo per Trieste insieme con il 98% della popolazione».

È l’inizio di quel triste esodo degli istriani di cui parla anche lo scrittore Diego Zandel in un bel libro uscito da poco I testimoni muti (Mursia). Una partenza sofferta ma senza alcuna alternativa: «Sei mesi prima che venisse firmato il trattato di Parigi – spiega Tarticchio - a Pola un atto terroristico di chiara matrice slava fece 110 vittime. Era l’ennesimo segnale che Tito ci costringeva ad andarcene. Partimmo il 20 gennaio 1947. Peraltro il trattato ci avrebbe comunque obbligato a scegliere: rimanere italiani e andarcene via. Oppure rimanere jugoslavi e restare sulla nostra terra». Prima a Taranto da una sorella, poi a Milano. Ma l’accoglienza dei nostri connazionali non fu delle migliori. Anzi. «Non ci fu quella solidarietà fraterna che ci aspettavamo. Eravamo un corpo estraneo in una società che non ci voleva. La gente all’indomani della guerra chiedeva pane e lavoro e noi eravamo un ulteriore peso. Poi siamo stati invisi dai comunisti italiani sin dall’inizio, ci consideravano fascisti e reazionari per aver voltato le spalle al “paradiso” comunista di Tito».

Un’ostilità che ha pesato
anche sulla storiografia: «I politici di ogni schieramento tacquero. Lo stesso Andreotti ammise che i democristiani non volevano incrinare l'arco costituzionale con i comunisti. Ma la cultura di sinistra ha negato per anni le foibe e quando ha dovuto prenderne atto le ha “giustificate” come la conseguenza delle malefatte del Fascismo aggressore della Jugoslavia. Ho fatto una ricerca: su 31 libri di storia per le scuole medie e superiori, soltanto 2 trattano le Foibe con onestà intellettuale. La maggior parte dei testi non ne parla neppure. Va bene il Giorno del ricordo: ma come si può ricordare qualcosa che non si conosce?».



http://www.labussolaquotidiana.it/ita/articoli-la-mia-gente-sparita-nel-nulla-898.htm



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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09/02/2014 00:54
 
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foibe


 


La domanda che torna, nel Giorno del ricordo delle vittime delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata, è in fondo sempre la stessa: com’è stato possibile? Perché ci è voluto oltre mezzo secolo perché l’Italia si decidesse a ricordare i propri morti, così crudelmente massacrati? D’accordo le divisioni e le divergenze ma le vittime, almeno quelle, non meriterebbero lo stesso rispetto, specialmente se innocenti? Tanto più che buona parte dei crimini commessi da Tito e dai suoi erano arcinoti da decenni: il Grido dell’Istria del 28 marzo 1946, per esempio, ne riferiva in prima pagina. Per non parlare degli italiani portati via con la famigerata corriera della morte e poi ritrovati nelle foibe: su Il Piccolo di Triesteera raccontato tutto per filo e per segno già il 15 ottobre 1943. Eppure delle foibe per tanto, troppo tempo è proibito parlare e lo rimane tutt’ora come dimostrano l’isolamento culturale ai danni dello scrittore Carlo Sgorlon (1930-2009), reo di parlarne nei suoi romanzi, alle contestazioni a Simone Cristicchi, colpevole, nello spettacolo “Magazzino 18”, di rievocare l’esodo istriano del ‘47.


 


Una simile, sistematica censura, a mio avviso, ha almeno tre spiegazioni. La prima riguarda la capacità storicamente fenomenale della sinistra italiana di alternare il ritornello dei “compagni che sbagliano” alla negazione di ogni responsabilità. Gli esempi clamorosi, a questo proposito, si sprecano: da Giangiacomo Feltrinelli (1926-1972) – morto mentre stava piazzando esplosivo e per sette anni dalla morte santificato come vittima delle “stragi di Stato” – a Giorgio Bocca (1920-2011), che nel 1975 sosteneva che l’esistenza delle Brigate Rosse fosse una favola e che in realtà fossero nere; dall’orribile rogo di Primavalle – che Lotta Continua descrisse come messinscena («La provocazione fascista oltre ogni limite arriva al punto di uccidere i suoi stessi figli») – al rapimento del giudice Mario Sossi ad opera dei brigatisti, che dei giornali spacciarono per un’operazione dei servizi segreti per propagandare in senso antidivorzista al campagna referendaria allora in corso.


 


Il livello, per capirci, era questo. Non c’è quindi da stupirsi dell’imbarazzo che tutt’ora serpeggia in non pochi ambienti di sinistra allorquando si parla di foibe. La seconda spiegazione del prolungato silenzio sulle vittime che oggi ricordiamo si riassume in una data: 28 giugno 1948. In quel giorno, infatti, il maresciallo Tito ruppe con Stalin guadagnandosi non poche simpatie anche nel mondo atlantico e la Dc, uscita vittoriosa dalle elezioni del 18 aprile, non si prese troppo a cuore la memoria degli infoibati. C’è poi da dire – come ricorda Vespa – che «il governo iugoslavo, giocando d’anticipo, aveva chiesto l’estradizione per crimini di guerra di parecchi ufficiali dell’esercito italiano», richieste che «non furono mai prese in considerazione, ma in cambio si rinunciò alla resa dei conti sulle foibe. Fu un prezzo altissimo» (Storia d’Italia, Mondadori 2007, pp. 159-160).


 


Inoltre si aggiunga – come terza ragione dell’odiosa censura sulle foibe – l’incapacità culturale della destra italiana di incidere, di anteporre il bisogno di comunicazione alla permanenza nei propri circoli. Va però detto che detta incapacità è stata ed è anche l’esito di una ghettizzazione per molti versi imposta, come dimostra il fatto che il solo voler commemorare le vittime dei crimini di Tito, ancora oggi, attiri il sospetto di essere nostalgici del Ventennio. Quando finalmente riusciremo, come Paese, ad andare oltre; quando capiremo che i morti innocenti non sono né di destra né sinistra, ma appartengono alla comune civiltà calpestata dalla barbarie, probabilmente la ricorrenza del Giorno del ricordo sarà meno decisiva di quanto non sia oggi. Ma fino a quel giorno servirà avere il coraggio di unirsi e pregare perché mai più si ripetano simili orrori. E che mai più, soprattutto, si ripeta la vergogna – per certi versi ancora peggiore – di un silenzio omertoso e colpevole. Il silenzio di chi ha paura di parlare, e di chi ha paura della verità.



di Giuliano Guzzo: Foibe il ricordo negato


Giorno del ricordo per le vittime delle foibe. Una pagina storica cancellata per 60 anni



A dieci anni dalla sua istituzione in Italia si celebra lunedì 10 febbraio, la solennità del Giorno del ricordo delle vittime delle foibe e dell'esodo giuliano dalmata, provocate tra il 1943 e il 1945 dalla furia dei partigiani comunisti jugoslavi di Tito. Una pagina storica cancellata per sessant’anni e ancora poco conosciuta. Almeno diecimila gli infoibati accertati, trecentocinquantamila gli esuli italiani. Secondo i parenti delle vittime oggi il rischio è che dal negazionismo si passi al riduzionismo, ovvero alla svalutazione della reale portata di questa tragedia. Paolo Ondarza:RealAudioMP3 

Sono gli anni a cavallo del 1945, l’Italia lentamente prova a rialzarsi dopo la fine della seconda guerra mondiale, ma a Trieste è l’inizio di un incubo. Nella città e nell’Istria controllata dai partigiani comunisti jugoslavi di Tito i cittadini subiscono torture, deportazioni o vengono uccise. Sono innocenti, colpevoli solo di essere italiani o anticomunisti. Moltissimi di loro vengono gettati vivi dentro le foibe, voragini naturali disseminate sull'altipiano del Carso. In massa fuggono dalle terre di Istria e Dalmazia cacciati dalla furia comunista. Una tragedia italiana ancora poco conosciuta e per sessant’anni cancellata dai libri di storia. Solo dal 2004, in memoria delle vittime della foibe, dell’esodo giuliano-dalmata e delle vicende del confine orientale, l’Italia istituisce ogni 10 febbraio la solennità nazionale e civile del 'Giorno del Ricordo'. Carla Isabella Elena Cace, esule di terza generazione, autrice del libro “Foibe ed Esodo. L’Italia negata. La tragedia giuliano-dalmata a dieci anni dall’istituzione del “Giorno del Ricordo” edito da Pagine, membro dell’“Associazione Nazionale Dalmata” e del “Comitato 10 febbraio”:


R. – Sono esule di terza generazione, nipote di Manlio Cace, un patriota che visse primo e secondo esodo. Mio nonno ha raccolto diverso materiale fotografico dei campi di concentramento titini, dove erano detenuti tantissimi italiani.

D. – Ci aiuta a ricostruire, anche attraverso la testimonianza di suo nonno, l’orrore di quegli anni?

R. – Io faccio sempre un paragone: è come se nel Lazio di colpo si dicesse a tutti i “guardate, voi d’ora in poi siete tedeschi! Dovete parlare tedesco. Cambiamo le scritte di tutti i negozi. Se voi non fate questo o verrete uccisi oppure vivrete nel terrore”. Questo è avvenuto in una regione che, a tutti gli effetti, era una regione d’Italia. Le fasi degli “infoibamenti” sono due: ’43 e ’45. Quelli del ’43 ancora con la guerra in corso e quelli del ’45 a guerra finita. In quest’ultimo caso si parla, quindi, di crimini contro l’umanità e non crimini di guerra. Tutte le persone rappresentative, tutti coloro che rappresentavano lo Stato italiano - sindaci, dipendenti comunali, parroci, intellettuali, medici e quant’altro - erano i primi ad essere ricercati e perseguitati, perché svolgevano un ruolo di collante della collettività. Senza processi o con processi farsa del cosiddetto Tribunale del Popolo, venivano presi, torturati molto spesso e poi gettati in queste cavità carsiche, caverne verticali, precipizi - le foibe - affinché sparisse proprio tutto di loro. Venivano distrutti anche i loro documenti.

D. – E colpisce anche il sadismo con cui venivano gettati nelle foibe...

R. – Solitamente, per risparmiare le pallottole, venivano legati a gruppi di dieci con fili di ferro, gli uni agli altri, sempre nudi, perché gli si toglieva tutto - gli abiti e la dignità – e si sparava al primo: questo col peso morto praticamente trascinava nella foiba le persone vive, che magari morivano anche dopo due o tre giorni. Nel libro ho anche pubblicato l’unico documento di una perizia medico-legale, condotta su una serie di corpi recuperati dalle foibe. Si capisce che queste persone sono morte anche dopo due o tre giorni con le ossa rotte, nudi, di dolore, dentro questi abissi.

D. – Anche in ragione della profondità di queste cavità, è stato difficile poi quantificare il numero delle vittime...

R. – Assolutamente. Consideriamo intanto che un’analisi è stata fatta solo sulle foibe sul territorio italiano, che sono comunque una piccola percentuale rispetto a tutte quelle che sono disseminate sul territorio croato e sloveno e sulle quali ancora non è stato condotto – e penso mai lo sarà – alcun tipo di indagine. 

D. – Quest’anno ricorrono i 10 anni dalla istituzione, nel 2004, del giorno del ricordo...

R. – Certamente l’istituzionalizzazione di un giorno per ricordare queste vittime ha squarciato tanti veli. E’ chiaro, però, che in 10 anni non si può compensare il silenzio di 60 anni. E poi recentemente si avverte una minore attenzione. Basti pensare anche ai tagli del sindaco Marino a Roma ai “viaggi del ricordo” alla foiba di Basovizza, che è stato un segno, secondo me, molto negativo, considerando che ci troviamo nell’anno di celebrazione del decennale della legge e che siamo la capitale d’Italia e quindi abbiamo anche un dovere simbolico, di traino. Il rischio è quello di passare dal negazionismo al riduzionismo del fenomeno.

D. – 60 anni di silenzio, perché?

R. – Perché noi abbiamo perso la guerra, la situazione era difficile e sicuramente la Jugoslavia di Tito era una realtà strategica, che faceva da cuscinetto tra Occidente ed Urss. Diciamo quindi che si è sacrificata, per gli interessi internazionali, la dignità dei nostri morti. C’era poi anche il discorso ideologico, comunque, del partito comunista, che non ha mai voluto accettare questi eccidi, perché la liberazione non poteva portare ad aberrazioni. E invece i partigiani comunisti di Tito hanno compiuto l’eccidio più grande della storia della nazione, dopo l’unità d’Italia.




Testo proveniente dalla pagina http://it.radiovaticana.va/news/2014/02/08/giorno_del_ricordo_per_le_vittime_delle_foibe._una_pagina_storica/it1-771513 
del sito Radio Vaticana 




[Modificato da Caterina63 10/02/2014 09:55]
Fraternamente CaterinaLD

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Il Giorno del Ricordo riguarda il nostro passato e il nostro futuro


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Alla Foiba di Basovizza, il Vescovo Monsignor Crepaldi ha piamente commemorato il Giorno del Ricordo, che “riguarda certamente il nostro passato, ma soprattutto il nostro presente e il nostro futuro”.




DIOCESI DI TRIESTE


GIORNO DEL RICORDO


10 febbraio 2015


+Giampaolo Crepaldi


 Distinte autorità, cari amici, fratelli e sorelle,


Siamo qui riuniti presso la Foiba di Basovizza per fare memoria dei tragici eventi che coinvolsero migliaia di nostri fratelli e sorelle in umanità, vittime innocenti delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata. Un ricordo che opportunamente ha ricevuto, anche se tardivamente, un suo profilo istituzionale che lo ha reso una giornata nazionale con una legge dello Stato nel 2004.

Siamo qui soprattutto per pregare e ricordare quei fratelli e quelle sorelle in umanità che furono oggetto di violenze inaudite e di un odio sconsiderato da parte di chi coltivava ideologie etniche e di classe, scrivendo così un capitolo tenebroso nella storia di queste nostre terre. Un capitolo di storia che ci parla di ferite ancora aperte e dolorosissime. Un capitolo di storia che ci rende avvertiti nell’esercizio morale della vigilanza affinché simili tragedie non si ripetano mai più.

Il Giorno del Ricordo, infatti, riguarda certamente il nostro passato, ma riguarda soprattutto il nostro presente e il nostro futuro che vogliamo tutti siano all’insegna del bene, della riscoperta della comune e fraterna appartenenza all’umanità, di pace e di giustizia. Se siamo qui è per dire un No deciso all’odio e al terrore come motori della storia e per dire Si alla fraternità come orizzonte autentico per ogni convivenza umana, civile e giuridica.

Cari amici, da questo luogo emblematico il nostro sguardo si allarga all’oggi che stiamo vivendo, un oggi segnato, in maniera vasta e pervasiva, da fenomeni di odio – penso alle persecuzioni contro i cristiani – di guerra e di terrorismo giunto fino al punto di provocare recentemente una serie terribile di stragi con motivazioni religiose. Vogliamo qui, nel contesto di questa santa Messa e di questo Giorno del Ricordo, formulare, con tutte le nostre forze, una condanna ferma dell’odio etnico e religioso e della violenza terroristica che non sono altro che il frutto velenoso di una visione disumana della storia e della civiltà.

Nel valutare questi fatti tremendi, affidiamoci agli illuminanti insegnamenti della fede cristiana. Essa ci dice che ogni uomo e ogni donna sono creati ad immagine e somiglianza di Dio ed esigono il massimo del rispetto; ci dice che Dio è Padre e che ogni uomo e ogni donna sono un fratello e una sorella in umanità; ci dice che non si può mai usare la violenza per imporre la propria verità; ci dice che il vero martire non è quello che uccide in nome di Dio, ma quello che si lascia uccidere piuttosto che rinnegare la sua fede in Dio. Preghiamo, carissimi, affinché il continente europeo – ancora pervaso dalla follia della guerra – ritrovi la forza di partire da queste elementari verità per recuperare le sue radici cristiane sulle quali, lungo i secoli e nonostante tantissimi errori, ha costruito una straordinaria e luminosa civiltà. Preghiamo anche affinché nel mondo – in tutto il mondo – si diffonda la comprensione tra i popoli e la fraternità. La fraternità è vita, la guerra è morte; la fraternità è il bene, l’odio etnico e razzista è il male; la fraternità unisce, la violenza disgrega e distrugge; la fraternità apre per tutti i cieli del Dio dell’amore e della misericordia, il terrorismo li chiude sempre e per tutti. Affidiamo questo significativo Giorno del Ricordo alla Vergine Maria che invochiamo come Regina dei popoli e della pace.







Fraternamente CaterinaLD

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