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Piccola guida sulle ESPRESSIONI usate dalla Chiesa e dalla Bibbia e nel mondo

Ultimo Aggiornamento: 12/05/2016 22:22
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Sesso: Femminile
09/02/2010 16:28
 
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Amici....tante volte sentiamo pronunciare dei termini di cui ignoriamo il significato, spesso sono in latino, in greco o anche in italiano ma usate in contesti che non comprendiamo e poi magari ci vergognamo anche di chiedere il significato o il perchè di certi usi...

Ecco qui vogliamo offrirvi, senza pretese, una piccola raccolta che arricchiremo di volta in volta, per aiutarvi nella comprensione del LINGUAGGIO ECCLESIALE
... Cominciamo dalla prima ora, da quel biblico  In Principio, con l'immagine del Male e del demone, il serpente....

  ECCO PERCHÉ NEL LIBRO DELLA GENESI IL DIAVOLO, PADRE DELLA MENZOGNA, È ASSOCIATO AL SERPENTE

Ecco perché nel libro della Genesi il diavolo, padre della menzogna, è associato al serpente

di Gelsomino Del Guercio

 

Perché nella Bibbia il diavolo è rappresentato con le sembianze di un serpente? E’ un’associazione casuale o mirata? André Wénin in “Dio, il diavolo e gli idoli” (Edizioni Dehoniane Bologna) spiega che il nesso ha significati tutt’altro che casuali.

 

LE FONTI BIBLICHE

L’associazione diavolo-serpente inizia con il Giardino dell’Eden nella Genesi, dove il serpente tenta Eva:

Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio. Egli disse alla donna: «È vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?». 2 Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, 3 ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete». 4 Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! 5 Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male» (Gen 3,1-4)

E termina nell’Apocalisse di Giovanni. La conclusione dell’Apocalisse chiama «il drago, il serpente antico che è Diavolo e il Satana» (Ap 20,2). Questi termini rimandano chiaramente il lettore al serpente dell’inizio della Genesi (Gen 3). Tanto più che, in Ap 12,9 – in cui questa titolatura compare per la prima volta – il narratore precisa che questo serpente è ingannatore, seduce e svia il mondo intero.

 

“CATTIVO INFINITO”

Wenin rilegge la figura del serpente in virtù delle considerazioni del filosofo francese Paul Ricœur nel secondo volume di “Finitudine e colpa“. Ricœur si interroga sul significato del serpente partendo da ciò che fa. Nelle sue parole riconosce l’azione del «“cattivo infinito” che perverte il senso del limite da cui la libertà era orientata».

 

TRE SIGNIFICATI

Quindi, il filosofo arriva a tre conclusioni in relazione alla figura del serpente:

1) la struttura di una libertà finita fa sì che il desiderio umano sia tentato dal cattivo infinito che induce a considerare il limite un divieto ostile. Il serpente sarebbe quindi «una parte di noi stessi che noi non riconosciamo» e che è legata alla cupidigia.

2) La figura del serpente sottolinea anche l’esperienza concreta dell’anteriorità del male nell’esistenza di ognuno. Come il serpente nel giardino, il male è già lì e non è l’essere tentato a inaugurarlo. Quest’ultimo si limita piuttosto ad acconsentirvi.

3) Spingendosi ancora oltre, si può riconoscere, sotto il simbolo dell’animale rampante, una sorta di «struttura cosmica del male», nel senso che il mondo ha qualcosa di un caos indifferente all’esigenza etica che sollecita ogni essere umano. In questa linea, il mondo può essere considerato un invito a disperare del bene e a rassegnarsi all’assurdo.

 

TRA GLI UOMINI E DIO

Il serpente, con le sue poche parole, viene quindi a insinuarsi fra gli umani e Dio, distorcendo una parola destinata ad aprirli l’uno all’altro e seminando così la confusione, instillando la diffidenza, separando coloro che questa parola avrebbe potuto unire.

Ma occorre notare che la tentazione si innesta nel punto della mancanza, e pertanto del desiderio frustrato nella sua propensione alla totalità. Perciò nella tentazione si tratta fondamentalmente del modo in cui l’essere umano vivrà il suo desiderio quando quest’ultimo incontrerà il suo limite.

 

FURBO MANIPOLATORE

Il serpente è un abile manipolatore, furbo, scaltro che attraverso stratagemmi si “insinua” nelle mente umana. Non a caso abbindola immediatamente la donna che gli annuncia il divieto di toccare l’albero con il pomo nel Giardino dell’Eden. E lo fa rovesciando il divieto imposto da Dio.

Il serpente si spaccia come buono. Implicitamente, si presenta come alleato degli umani, preoccupato della loro felicità, al contrario di Dio che, senza dirlo, si comporta come un rivale geloso di un privilegio che non vuole cedere (il divieto di toccare quell’albero).

 

SIMBOLO DI CUPIDIGIA E INVIDIA

Allora quell’animale non è altro che l’immagine di invidia, avidità, o cupidigia – e la sua sorella gemella, la gelosia – ossia il desiderio che prende una brutta piega quando non può accettare il limite che lo struttura. La cupidigia infatti incentra lo sguardo su ciò a cui questo limite impone di rinunciare, al punto da far dimenticare tutto ciò che è stato donato.

Peggio, con essa, ciò che si è ricevuto non viene più riconosciuto come dono, ma appare come un diritto acquisito. Inoltre, l’invidia gioca sulle apparenze del bene e del male per lasciar credere che, imboccando la sua strada – prendere e mangiare il pomo – si sfuggirà alle frustrazioni che impone il limite per raggiungere infine una felicità senza ombre.

 

ROTTURA CON IL CREATORE

In breve, secondo la conclusione del racconto mitico, la cupidigia, incarnata dal serpente-Satana, rovina ogni possibilità di alleanza fra gli umani e il creatore, scalza le relazioni fondatrici dell’umano, compromette la buona intesa con la natura. Non tarderà a seminare la morte dopo aver trasformato un uomo in nemico giurato del proprio fratello.

 

IL DIAVOLO E LA MENZOGNA

Il diavolo, essenzialmente cerca la morte. Più esattamente, il suo desiderio – la sua cupidigia – lo spinge a volere la morte degli umani e a burlarsi della verità per condurli alla morte attraverso la menzogna. Perciò la strategia diabolica congiunge strettamente menzogna e morte; a essa Gesù contrapporrà l’opera del Padre che fa sua: la verità e la vita (Gv14,6). Anche nel seguito del racconto evangelico, Satana sarà l’ultimo avversario di Gesù.

da IlTimone



Un grazie principalmente al sito di Melania per l'idea e per il contributo ricchissimo che seguirà ora.


Parola di Dio: la parola della chiesa sul Cristo (di A.L.)
- Scritto da Redazione de Gliscritti: 22 Aprile 08 - 15:07
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Quattro volte l’espressione “parola di Dio” ricorre nei 9 versetti di At 13, 44-52. Con essa viene indicata la predicazione di Paolo e Barnaba, cioè la vivente parola della chiesa. Dopo il Verbum Dei vivente che è il Cristo e prima della Sacra Scrittura che è la Locutio Dei ecco la parola della chiesa su Cristo, che è Verbum Dei anch’essa (cfr. ovviamente la Dei Verbum):

Il sabato seguente quasi tutta la città si radunò per ascoltare la parola di Dio. Quando videro quella moltitudine, i Giudei furono pieni di gelosia e contraddicevano le affermazioni di Paolo, bestemmiando. Allora Paolo e Barnaba con franchezza dichiararono: "Era necessario che fosse annunziata a voi per primi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco noi ci rivolgiamo ai pagani. Così infatti ci ha ordinato il Signore: Io ti ho posto come luce per le genti, perché tu porti la salvezza sino all'estremità della terra". Nell'udir ciò, i pagani si rallegravano e glorificavano la parola di Dio e abbracciarono la fede tutti quelli che erano destinati alla vita eterna. La parola di Dio si diffondeva per tutta la regione. Ma i Giudei sobillarono le donne pie di alto rango e i notabili della città e suscitarono una persecuzione contro Paolo e Barnaba e li scacciarono dal loro territorio. Allora essi, scossa contro di loro la polvere dei piedi, andarono a Icònio, mentre i discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo.

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Kerygma, Parenesi, Didaskalia (L.d.Q.)
- Scritto da Redazione de Gliscritti: 29 Marzo 07 - 19:00
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Durante un incontro:
Il kerygma è l’annuncio di Cristo morto e risorto, è centrale nel cristianesimo.
La parenesi, l’esortazione alla vita secondo lo Spirito, non può mai essere dimenticata.
Ma se ci limitassimo ad essi, mancherebbe qualcosa di molto importante. La didaskalia è quell’atteggiamento per cui io aiuto a comprendere i motivi, il perché, di ciò che annunzio. Ti conduco pian piano, perché tu, con le tue capacità di ragionamento e di contemplazione amorosa, comprenda e gusti in pienezza il cristianesimo.
Se si ascolta una persona parlare della fede cristiana, si vede subito se è didaskalos, maestro, che insegna e spiega, facendo gustare.


La catechesi si inserisce sul fondamento del Kerigma, non si può catechizzare una persona che prima non abbia ricevuto il Kerigma, quindi una cosa completa l'altra, è complementare.

Se ci rendiamo conto che è mancante allora è bene costruire prima le fondamenta e poi il resto della casa.

Katechein: insegnare.

L'etimologia di questa parola ha in sé il significato dell'eco.

È il risuonare, nella nostra vita, degli insegnamenti di Dio.

Obbiettivo: crescere in Cristo, avere vita in abbondanza.

C'è una progressione, perché nel Kerigma l'obbiettivo è di avere una vita nuova, invece nella catechesi si dice: avere una vita nuova, averne in abbondanza, in modo stabile, in modo di continua crescita.

 "Bisogna proteggere ciò che abbiamo ricevuto", quindi la catechesi è l'opera di protezione, d'accrescimento, d'incremento, di tutto ciò che abbiamo ricevuto.

Il Kerigma è ricevere.

La catechesi è purificare, raffinare, proteggere, rivalutare, accrescere ecc

Contenuto: dottrina della fede trasmessa dalla Chiesa.

Mentre prima l'annuncio era che Gesù morto, resuscitato ecc., il contenuto della catechesi è la dottrina della fede, cioè gli insegnamenti di come vivere questo annuncio e di come renderlo vivo nella sotra vita, vivo come testimonianza, vivo come evangelizzazione agli altri.


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Cosa vuol dire “partecipare”? (di G.M.)
- Scritto da Redazione de Gliscritti: 10 Marzo 07 - 21:44
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Ci sono momenti nei quali si sente che un’ora non è passata invano. Questo può assumere la forma, talvolta, della scoperta di un libro, dell’ascolto di un brano di Mozart, di una parola significativa ascoltata, di un’omelia che ha guidato la mente ed il cuore, del silenzio della preghiera e del pensiero. E’ l’esperienza della partecipazione. Uno degli errori pedagogici più gravi è ritenere che “partecipare” voglia dire semplicemente dire la propria.

C’è una apparente passività che è, in realtà. ben più attiva dell’apparente attività!
E’ uno dei temi educativi più importanti dell’oggi: la trasmissione dello stupore, della meraviglia, del rispetto, dello spirito di contemplazione, dell’arrestarsi dinanzi a ciò che è più grande di noi, per parteciparvi realmente e non banalizzarlo.

Così l’allora cardinal J.Ratzinger scriveva:

Una delle parole-guida della riforma liturgica conciliare è stata a ragione la "partecipatio actuosa", la fattiva partecipazione alla liturgia di tutto il "popolo di Dio".
 
Questo concetto ha tuttavia subito dopo il Concilio una fatale restrizione. Sorse l'impressione che si avesse una partecipazione fattiva soltanto dove ci fosse un'attività esteriore verificabile: discorsi, canti, prediche, assistenza liturgica. Gli articoli 28 e 30 della Costituzione Liturgica, che definiscono la partecipazione fattiva, possono aver prestato il fianco a siffatte restrizioni, basando la partecipazione stessa, in larga misura, su azioni esteriori.
 
Comunque, anche il silenzio è ricordato come "partecipatio actuosa". Riallacciandosi a questo ci si deve chiedere: come mai dev'essere solo il discorrere e non anche l'ascoltare, il percepire con i sensi e con lo spirito, una compartecipazione spirituale attiva? Non v'è nulla di attivo nel percepire, nel captare, nel commuoversi? Non c'è qui oltre tutto un impicciolimento dell'uomo, che viene ridotto alla pura espressione orale, benché noi oggi tutti sappiamo che quanto v'è in noi di razionalmente cosciente ed emerge alla superficie è soltanto l'estremità di un iceberg nei confronti di ciò che l'uomo è nel suo complesso?

Saremo ancora più concreti: ci sono ormai non pochi uomini che riescono a cantare più "col cuore" che "con la bocca", ma ai quali il canto di coloro cui è dato cantare anche con la bocca può veramente far cantare il cuore, in modo che essi cantano per così dire anche in quelli stessi e l'ascolto riconoscente come l'esecuzione dei cantori diventano insieme un'unica lode a Dio. Si deve necessariamente costringere alcuni a cantare là dove essi non possono e zittire così a loro e agli altri il cuore? Ciò non dice proprio nulla contro il canto di tutto il popolo credente, che ha nella chiesa una sua funzione inalterata, ma dice tutto contro un'esclusività che non può essere giustificata né dalla tradizione né dalle circostanze.
(da Jospeh Ratzinger, La festa della fede, Jaca Book, Milano, 1990, pagg.98-99)
 





[Modificato da Caterina63 09/05/2016 12:39]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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