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Il Risorgimento? Una pagina da ristudiare..... La Chiesa vera artefice dell'Unità

Ultimo Aggiornamento: 11/06/2012 11:43
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24 Marzo 2010
IDEE da Avvenire

1861, la storia da ripensare

Anzitutto, una premessa. Non mi pare si possa eludere la questione di un ripensamento serio sul cosiddetto "Risorgimento" (che cosa mai sarebbe "ri-sorto", in particolare?) e sul processo di unità nazionale. Al riguardo parlare di istanze "revisionistiche" o addirittura "temporalistiche" o cose del genere mi sembra del tutto fuori luogo. La storia si deve ripensare di continuo. Oggi, a distanza di 150 anni dalla fondazione del regno d’Italia, è evidente che molte prospettive sono andate mutando e che su di esse hanno senza dubbio lavorato gli specialisti, ma sono mancati sia (almeno in parte) un vero e proprio aggiornamento nelle scuole, sia un dibattito mediatico fruibile da parte del "grande pubblico", vale a dire di quella porzione della società civile italiana che non ha ancora rinunziato a esser tale.

Quello che in sintesi mi pare si possa dire, è che il processo di unità nazionale fu mandato avanti da alcune élites peraltro non concordi fra loro, ma che la maggioranza delle popolazioni che costituivano la futura Italia unita ne restarono estranee. Si potrebbe obiettare che molti eventi storici sono stati caratterizzati da un processo dinamico analogo, vale a dire che solo ristrette élites ne sono state protagoniste. Niente di scandaloso. Però vanno sottolineate due cose. Prima: la formula dello Stato unitario accentrato che alla fine prevalse era coerente con gli interessi espansionistici dei Savoia e forse di alcuni imprenditori e finanzieri, era gradita all’ideologismo neogiacobino di garibaldini e mazziniani, ma non congrua con la storia e temo nemmeno le strutture e le istituzioni dei vari Stati italiani precedenti; la storia d’Italia è eminentemente policentrica e municipalistica, per cui una soluzione di tipo "federale", analoga mutatis mutandis a quella che gli Hohenzollern e il principe di Bismarck dettero al problema unitario tedesco, sarebbe stata più adatta e opportuna di quella che, fra l’altro, generò la colonizzazione e lo sfruttamento del Sud da parte del Nord (con fenomeni collaterali quali il brigantaggio e la sua tanto orribile quanto in parte vana repressione) e la meridionalizzazione di buona parte delle strutture pubbliche del giovane regno.

Secondo: il carattere élitario del "movimento risorgimentale" nei suoi esiti ultimi ebbe come effetto obiettivo un notevole ritardo nella "nazionalizzazione delle masse", nonostante i due strumenti della scuola e della leva obbligatoria; da questo punto di vista mi sembra che vedessero giusto gli interventisti, "democratici" o "rivoluzionari" che fossero, i quali ritenevano che il bagno di sangue avrebbe cementato l’edificio della patria e che gli italiani, che fatta l’Italia non erano stati fatti, si sarebbero forgiati nel ferro e nel fuoco della trincea. Ma ciò - attenzione! - porterebbe a concludere che la visione della prima guerra mondiale come "quarta guerra d’Indipendenza" e compimento del processo di unità nazionale, la visione di Gioacchino Volpe (e alfine anche di Mussolini) era corretta. Attenzione: non sto dicendo che la dittatura fascista fosse a questo punto l’esito necessario del movimento del ’59-61 (e del’70). Mi limito a dire che anzitutto non fu affatto "l’invasione degli Hyksos" come sosteneva Benedetto Croce.

Ne consegue, a mio avviso, che esito migliore avrebbe potuto avere in Italia un movimento di edificazione dell’unità nazionale che scegliesse la via federalista, indicata da Gioberti ma - soprattutto - da Cattaneo: anche salvando, ebbene sì, un potere temporale pontificio, magari ridotto alla città di Roma e qualche pertinenza. Quella via non avrebbe creato la rovinosa "questione meridionale", non avrebbe determinato decenni di crisi morale resa inevitabile dal contrasto tra Stato e Chiesa con tutto quel che ciò aveva significato per il Paese (anche in termini morali e culturali: un piccolo ridicolo Kulturkampf il regno l’ha fatto eccome); probabilmente avrebbe evitato la rovinosa politica di opposizione preconcetta all’Austria (vorrei ricordare che Cattaneo auspicava che il "Commonwealth" austriaco restasse in piedi), non si sarebbe appoggiata alla Prussia nella guerra del ’66 contribuendo in tal modo, forse, a evitare la guerra franco-prussiana del 1870 ch’è stata la lontana ma primaria fonte dei guai di tutto il continente per i tre quarti di secolo a venire.

Sarebbe bastato appoggiare seriamente il progetto di Napoleone III (in verità, piuttosto dell’imperatrice Eugenia) di una Lega franco-ispano-italo-bavaro-austro-ungherese delle potenze cattoliche euromeridionali, con annesso il progetto di favorire l’indipendenza polacca (l’Austria ci sarebbe stata, alla faccia di Germania e Russia) e di gestire oculatamente la crisi e la decadenza dell’impero ottomano, il che sarebbe stato meglio per tutto il Vicino Oriente (mentre invece lo abbiamo fatto gestire dal ’18 al ’48, rovinosamente, da Francia e Inghilterra). Fra l’altro, l’alleanza sognata da Eugenia sarebbe stato un ottimo contributo alla futura unione europea.

E lo stesso sia detto per il nostro mondo imprenditoriale: un’Europa meridionale e un Mediterraneo egemonizzato dalle potenze navali francese, austriaca e italiana avrebbe impresso tutto un altro trend alla nostra economia. Pensiamo solo alle implicazioni di un’integrazione linee ferroviarie-linee marittime, con la possibilità di avviare sul serio una politica di penetrazione orientale dai Balcani e da Istanbul fino all’Iran e all’Asia centrale. Un mondo senza le due guerre del ’66 e del ’70 avrebbe potuto sul serio attuare in tempi rapidi una linea ferroviaria Vienna-Isfahan e collegare l’Europa continentale al great game russo-inglese, magari nel contempo impedendo alla Russia di avvelenare i Balcani con la droga del nazionalismo irredentista, causa della prima guerra mondiale.

Ma l’Italia si è fatta in un altro modo. Ha perduto l’autobus dell’unione federalista. E dopo il fascismo, la guerra, il progressivo sfascismo postbellico, oggi siamo pervenuti a un Paese che sta tentando di attuare di nuovo un progetto federale. Non so se è corretto come quello che sarebbe stato opportuno intraprendere un secolo e mezzo fa. So che alla luce delle nostre scelte di oggi non si può non concludere che quella del regno unitario fu una "falsa partenza". Per cui c’è molto da discutere e da studiare. Ma c’è poco da celebrare.

Franco Cardini
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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DOSSIER DA AVVENIRE

3 Marzo 2010

1 - ANDREA RICCARDI

I credenti che fecero l’impresa

I cattolici e l’Unità d’Italia/1: Come il processo di unificazione è stato influenzato dalla Chiesa, e viceversa.
«Per il centenario dell’Unità d’Italia del 1961, mio padre mi portò a Torino: ricordo i musei, l’esaltazione del Risorgimento, la monorotaia che attraversava lo spazio espositivo. Ma ricordo soprattutto il clima di un Paese che guardava al futuro. E futuro in quegli anni significava sviluppo e lavoro per tutti. Cinquant’anni dopo, ho la sensazione che l’Italia abbia un po’ perso l’attitudine a guardare lontano». Andrea Riccardi, professore di Storia contemporanea alla terza università di Roma e fondatore della Comunità di Sant’Egidio, ritiene che le celebrazioni per il 150° anniversario della nascita dello Stato italiano dovrebbero costituire l’occasione per una riflessione «con categorie nuove non solo sul passato, ma sull’oggi e sul domani» del nostro Paese.

Professor Riccardi, c’è chi ritiene che i mali italiani siano tutti legati a nodi irrisolti lasciati dal Risorgimento e dall’Italia post-unitaria. Lei che ne pensa?
«Io non concordo con la tesi di chi spiega tutto individuando una sorta di peccato d’origine. Sarebbe troppo facile, la storia è più complessa. Non bisogna dimenticare che il nostro Paese che ha avuto sempre una cultura unitaria italiana – anche se a livello di <+corsivo>élites<+tondo> – molto prima del processo d’unità. I 150 anni di storia italiana non riguardano solo il Risorgimento. Ci sono state due guerre mondiali, il fascismo, la ricostruzione. E l’ultimo mezzo secolo è la stagione del boom economico, della Repubblica, sono, se vogliamo, gli anni democristiani. È facile discutere di Garibaldi, Pio IX, Mazzini e Cavour. Più difficile, ma sicuramente più fruttuoso per capire l’Italia di oggi, affrontare una serie di buchi neri della nostra storia più recente: dal fascismo fino alla stagione di Tangentopoli e oltre. Una stagione complessa, discussa e discutibile, ma anche una storia ricca di dignità».

Uno dei capitoli irrisolti del Risorgimento fu la questione cattolica.
«Ludovico Montini, il fratello di Paolo VI, mi raccontò l’amara esperienza dei giovani cattolici durante la Grande Guerra: ora, dicevano, ci hanno visto combattere e non potranno più dire che non siamo italiani. In quella frase si intuiva la condizione di divorzio fra il movimento cattolico e la Nazione, dovuto all’irrisolto problema dell’indipendenza del Papa, alla breccia di Porta Pia, eccetera. Nonostante la politica anticlericale dei governi unitari, con il passare degli anni la maggior parte dei cattolici italiani non contestò l’Italia unita, ma chiese semmai il riconoscimento dei diritti e dello spazio del papa. Molta acqua è passata sotto i ponti: basti pensare che nel 1919 don Luigi Sturzo fondava un partito nazionale d’ispirazione cristiana. In anni più recenti, non posso dimenticare che il cardinale Giovanni Battista Montini, in occasione del centenario dell’Italia unita, disse che era stata la Provvidenza a far finire la fase del potere temporale. Mentre Giovanni Paolo II lanciò, nel marzo 1994, in un momento in cui sembrarono prevalere spinte secessioniste, la "Grande preghiera per l’Italia"».

Si può sostenere che l’unità d’Italia abbia favorito la nascita di un cattolicesimo nazionale?
«Le diocesi italiane prima dell’unità erano dei mondi a parte. Basti pensare al Regno borbonico, dove – come notò Gabriele De Rosa – ci fu una sorta di barriera nei confronti del Concilio di Trento. O al mondo toscano o a quello piemontese, permeato di elementi di gallicanesimo. L’unificazione nazionale diventa un momento di unità anche per la Chiesa: si formano l’Opera dei Congressi, l’Azione cattolica; i salesiani dal Piemonte si diffondono nel Mezzogiorno; i rogazionisti fanno il cammino inverso. La stessa Conferenza episcopale italiana, voluta da Pio XII e rafforzata da Paolo VI, nasce dall’idea, maturata negli anni post-unitari, di una Chiesa italiana. E, dopo quasi sessant’anni dalla sua fondazione, la Cei sta ad attestare non solo la nascita e l’affermazione di un cattolicesimo italiano, ma anche di un episcopato che vuole vivere nella nazione, condividendone la storia complessa e i momenti difficili».

La questione meridionale sembra però essere un problema che ci trasciniamo dai tempi di Cavour a oggi…
«Il dibattito sul meridione è stato caratterizzato da due teorie opposte: da una parte si parlò di annessione del Sud, dall’altra ci fu la polemica sulla crescente meridionalizzazione delle classi dirigenti. C’era del vero in entrambi le affermazioni, ma complessivamente credo si possa dire che oggi, nonostante la presenza di leghe settentrionali e movimenti meridionali, il Paese sia più unito di qualche decennio fa. Riproporre pertanto nel Duemila l’antica categoria della contrapposizione Nord-Sud, credo sia un errore di prospettiva. Non perché non vi siano divari, ma perché la carta geografica, così come la si vedeva mezzo secolo fa, va aggiornata. Intanto, non esiste un Mezzogiorno, ma diversi Mezzogiorni: non sfugge a nessuno che la situazione sociale e culturale in Sicilia sia diversa da quella della Puglia o della Campania. Poi le grandi città stanno via via perdendo una caratterizzazione regionale netta e, infine, l’Italia da terra di emigrazione è diventata terra di accoglienza».

C’è l’annosa questione della scarsa propensione al senso civico, rispetto agli altri europei, dei nostro connazionali. Gli italiani sono ancora da fare?
«Sono note le polemiche sul familismo italiano, la scarsa attitudine al senso dello Stato, la presenza del cattolicesimo che, a differenza dei Paesi protestanti, avrebbe educato poco all’etica della responsabilità. Sono discorsi complessi. Credo che, in estrema sintesi, si possa dire questo: per una serie di fattori, gli italiani non saranno mai, in quanto a senso dello Stato, come i popoli scandinavi. Ma in Italia si è sviluppata una rete comunitaria, locale e familiare che ha supplito alle carenze pubbliche in nome di una solidarietà concreta: pensiamo solo alla diffusione del volontariato. C’è stata a questo riguardo la polemica, che mi ha un po’ infastidito, sui "bamboccioni", ovvero sui ragazzi che in Italia compiono gli studi universitari continuando ad abitare nella casa dei genitori. Ma dove sta scritto che sia meglio che questi ragazzi usufruiscano dei servizi dello Stato piuttosto che della propria famiglia?».

Giovanni Grasso


[Modificato da Caterina63 28/03/2010 21:27]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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6 Marzo 2010

2 - ANGELA PELICCIARI

«1861, Chiesa nel mirino»

«L’attacco al papato non fu un effetto collaterale del Risorgimento, ma il suo fine».
«Tutte le fonti dell’800, sia di parte cattolica che di pare massonica, dicono la stessa cosa: che la fine del potere temporale del papato era l’obiettivo di forze internazionali legate al protestantesimo e alla massoneria per distruggere la Chiesa». Angela Pellicciari, la studiosa che ha riportato alla luce negli ultimi anni una mole di documenti e fatti sulla violenza dell’utopia risorgimentale – da Risorgimento da riscrivere (Ares 1998) a I panni sporchi dei Mille (Liberal 2003) a Risorgimento anticattolico (Piemme 2004) – si dice sconcertata all’idea che ci sia ancora chi, anche nel mondo cattolico, neghi od occulti queste cose.

Non fu dunque, quello contro la Chiesa, un conflitto collaterale all’obiettivo dell’unità d’Italia?
«Pio IX lo disse in decine di interventi e così Leone XIII: la fine del potere temporale era strumentale al crollo del potere spirituale. Liberali e massoni erano convinti che togliendo al Papato le sue ricchezze questo sarebbe crollato anche spiritualmente. Perché proiettavano sulla Chiesa le loro categorie».

Fu anticattolicesimo o piuttosto anticlericalismo, contro l’invadenza della Chiesa in ambito secolare?
«Non si è trattato di anticlericalismo, ma di anticattolicesimo, che è cosa molta diversa. Una circolare del Grande Oriente del 1888 dice proprio questo ai fratelli: guardatevi bene dal non usare la parola anticattolicesimo, ma di usare la parola anticlericalismo, perché noi non siamo ufficialmente contro Cristo e la Chiesa, siamo solo contro i clericali che la snaturano».

Anche lo Statuto Albertino, infatti, riconosceva, all’articolo 1 quella cattolica come la sola religione di Stato...
«Nell’800 la grande maggioranza degli italiani era alla ricerca di una qualche forma di Stato unitario o federale. Pio IX era favorevole e insieme a lui tutta la Chiesa. Quando di questo progetto si appropriano in modo anti-cattolico i Savoia e i liberali di tutto il mondo – liberali di tutto il mondo unitevi è il vero slogan dell’800, che precede quello marxista – in un tale contesto il papa e i cattolici, ovviamente, si tirano indietro. Ora, qual era la motivazione ufficiale per cui competeva ai Savoia liberare l’Italia? Era che loro erano moralmente migliori degli altri sovrani, perché favorevoli a una monarchia costituzionale in uno Stato cosiddetto liberale. Arriviamo al punto. Nel 1848 è approvato lo Statuto Albertino e nel 1848 il parlamento sabaudo discute di come sopprimere i gesuiti. Ma i gesuiti non sono un ordine della Chiesa cattolica, unica religione di Stato? Fatto sta che i beni della Compagnia di Gesù vengono espropriati mentre i gesuiti sono sottoposti a domicilio coatto perché rei del nome. Sottolineo: uno Stato liberale che mette al domicilio coatto delle persone… perché ree del nome! Nel ’55 allungano il passo e sopprimono gli ordini mendicanti e le monache di clausura: 35 ordini religiosi. Alla fine del Risorgimento, nel ’73, vengono estese a Roma le leggi eversive, ovvero i 57mila membri di tutti gli ordini religiosi (ribadisco: della Chiesa di Stato…) sono messi sulla strada e i loro beni vengono espropriati. Beni donati dal popolo italiano nell’arco di secoli, che finiscono ad arricchire i liberali: migliaia di edifici bellissimi, circa due milioni di ettari di terra, dipinti, sculture, oggetti d’argento, pietre preziose, archivi, biblioteche… Questa operazione la vogliamo chiamare rispettosa della Costituzione? Per non parlare delle 24mila opere pie che operavano in tutta Italia: soppresse. È grazie a provvedimenti di questo tipo che l’Italia si è trasformata – per la prima volta nella sua storia millenaria – in una nazione di emigranti. Il Risorgimento è riuscito nell’impresa di trasformarci in una nazione da nulla: l’Italietta».

Si sono accaniti meno sul clero secolare, tuttavia. Come mai?
«Perché i religiosi non vivevano come i parroci in mezzo alla gente e i liberali volevano evitare una sollevazione di massa. Questo era chiarissimo già dal ’48, nei dibattiti del Parlamento subalpino. Non di meno, il codice penale approvato nel ’59, agli articoli 268, 269 e 270, imponeva al clero di obbedire a tutte le leggi dello Stato e puniva con il carcere di due anni e duemila lire di multa tutti coloro che disobbedivano con "parole, opere e omissioni". In sostanza, i preti che si azzardavano in chiesa a ricordare che il governo liberale era scomunicato incorrevano in questo reato di "parole"… Un prete, ovviamente, non poteva sposare o celebrare il funerale di un liberale scomunicato: qui scattava la disobbedienza per "omissione". Questo era il rispetto della "sola religione di Stato". Il Risorgimento ha attuato gli stessi provvedimenti anticattolici messi in atto tre secoli prima dalle nazioni protestanti: l’unica differenza è stata che, mentre Lutero, Calvino ed Enrico VIII, agivano in odio dichiarato alla Chiesa cattolica, i liberali italiani erano vincolati al rispetto formale della Costituzione e si professavano più cattolici del papa. Una menzogna radicale che invano Pio IX ha denunciato in decine di encicliche, oggi del tutto dimenticate».

Una "liberazione" più o meno brutale del Kulturkampf in Germania, per esempio?
«Certamente più violenta del Kulturkampf, che è stato fermato dall’azione del Zentrum, il partito cattolico di centro. Qui sono andati ben oltre e non li ha fermati nessuno. Si sono arrestati, ad un certo punto, solo per la paura dell’ondata socialista».

Si cita spesso, per ridimensionare la portata di quegli avvenimenti, la frase di Paolo VI sulla «Provvidenza che tolse al papato le cure del potere temporale perché meglio potesse adempiere la sua missione spirituale nel mondo».
«Una frase strumentalizzata. Intanto dire che è finito il potere temporale, come fanno in molti, è dire un’inesattezza. Il potere temporale è ridotto a un territorio simbolico, ma c’è e questo salva la libertà della Chiesa nella libertà del papa dal non essere suddito/cittadino di nessun altro Stato. Il papa è sovrano in Vaticano. Secondo, Dio è capace di estrarre da un male un bene maggiore. Ma questo è, per l’appunto, opera della sua provvidente onnipotenza. Fosse stato per i liberali, la Chiesa cattolica avrebbe semplicemente cessato di esistere».

Andrea Galli

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9 Marzo 2010

3 - FRANCO DELLA PERUTA

Risorgimento senza popolo

«Né colonizzazione né anticlericalismo. Ma le masse rimasero estranee»
Colonizzazione del Mezzogiorno? «Forzature, il Sud versava già in uno stato di profonda arretratezza». Risorgimento anticattolico? «Ma no: solo che i cattolici non furono, generalmente, tra gli elementi trainanti del movimento nazionale». Imperialismo sabaudo? «Cavour ebbe il grande merito di riuscire a convogliare il consenso della diplomazia internazionale verso l’indipendenza italiana». Con il buonsenso e lo sguardo d’insieme propri dello storico di vasta esperienza, Franco Della Peruta riporta in poche battute alle giuste proporzioni tante delle note polemiche che si sono levate negli ultimi tempi intorno – e contro – il processo di unificazione del nostro Paese.

Romano, contemporaneista di formazione marxista e docente di Storia del Risorgimento alla Statale di Milano, inquadra il cosiddetto "anticattolicesimo" del movimento nazionale nel contesto dell’Italia ottocentesca: «Nel Risorgimento si sono fronteggiate sostanzialmente tre forze: quelle democratiche di Mazzini, quelle conservatrici del cattolicesimo non liberale, e quelle liberali moderate di Cavour, che poi sarebbero risultate vincitrici. I cattolici, cioè, non sono stati nel loro complesso una forza propulsiva del processo verso l’Unità, ma anzi in generale un momento di resistenza. Poi certo, c’erano anche i cattolici liberali, i Manzoni, i Rosmini, i Gioberti: ma erano in minoranza».

Perché?
«La Chiesa, dai vertici a buona parte del clero (ma non tutto), è stata logicamente ostile al Risorgimento, perché metteva in discussione l’esistenza stessa dello Stato pontificio. Diverso, invece, l’atteggiamento del cattolicesimo liberale, che accolse i valori del movimento risorgimentale: quelli nazionali prima di tutto – considerare l’Italia come una nazione che doveva realizzare la propria essenza –, ma anche quelli liberali in senso ampio, che quei cattolici seppero cogliere nella loro portata innovativa».

Le cose sono cambiate dopo l’Unità?
«Ovviamente la condanna dell’unificazione e dell’eliminazione dello Stato pontificio rimase. Tuttavia, pian piano la Chiesa si rese conto dell’irreversibilità del processo nazionale e che tornare indietro non era possibile. I cattolici si inserirono quindi nella vita politica italiana, e lo fecero con capacità e senso della misura: per esempio, non utilizzarono mai la presa sulle coscienze, che un clero diffuso come quello italiano poteva avere, per spingere i ceti popolari su posizioni di resistenza allo Stato unitario».

E la supposta "colonizzazione" del Mezzogiorno?
«Il Sud non ha subito nulla: partiva già in condizioni di grave diseguaglianza rispetto al Nord. Economicamente, l’elemento caratteristico di quei decenni era la diffusione del capitalismo: ebbene, il capitalismo nel Mezzogiorno non attecchì. L’economia del Sud era prevalentemente agricola, eppure si basava esclusivamente sull’impiego di manodopera a basso costo. Al contrario, al Nord c’era un’agricoltura irrigua con forte concentrazione di capitali, tanto che il patrimonio zootecnico bovino – essenziale in agricoltura – era quasi tutto in Val Padana. Allo stesso modo, quel poco di industria che si andava formando in Italia era tutto settentrionale: la gelsicoltura con l’industria della seta, l’industria cotoniera... Solo in Piemonte, Lombardia e Veneto c’erano moderni opifici di grandi dimensioni, con centinaia di operai; al Sud solo presenze marginali e sporadiche – qualche gelso in Calabria, cotonifici nel Salernitano – che deperirono rapidamente».

Si parla anche di "colonizzazione" culturale, con un’unificazione che gli italiani del Sud non avrebbero voluto...
«È vero che l’apporto popolare al movimento nazionale al Nord fu maggiore, con le Cinque giornate di Milano, le Dieci giornate di Brescia o la difesa di Venezia; ma in generale nel Risorgimento – questo va detto con forza – la partecipazione popolare fu scarsa».

Dal punto di vista politico, c’erano alternative all’unificazione "dall’alto", guidata dal regno sabaudo?
«C’era l’alternativa democratica. Il mazzinianesimo fu un fermento essenziale, senza il quale l’Unità si sarebbe fatta molto più tardi o non si sarebbe fatta. Però non riuscì mai ad avere una capacità di egemonia tale da guidare il processo, come invece seppe fare Cavour avviando una soluzione diplomatico-statuale. Il primo ministro piemontese riuscì a far convergere sul suo progetto di indipendenza nazionale la Francia di Napoleone III, e questo è stato il suo grande merito. Napoleone non voleva naturalmente l’Unità, ma fu costretto ad accettarla quando le cose si furono messe in movimento. Garibaldi invece non gode di buona fama come politico – né ambiva a esserlo –, ma in realtà era un capace politico intuitivo, che sapeva rendersi conto delle circostanze. La sua azione, dai Cacciatori delle Alpi ai Mille alle successive spedizioni, fu decisiva nel trascinare il Paese all’Unità. Senza dimenticare che i Mille alla battaglia del Volturno erano diventati quarantamila, tutti volontari, laddove un esercito regolare come quello del Piemonte aveva settantamila uomini in tutto».

Un trascinatore, anche nel Mezzogiorno?
«Della piccola borghesia meridionale, sì; delle masse popolari, in realtà no – tranne i soliti osanna quando arrivò a Napoli».

Edoardo Castagna
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12 Marzo 2010

4 - FRANCESCO TRANIELLO

Ma l’Italia non nacque «contro» la Chiesa

«Credo innanzitutto che dobbiamo operare una distinzione importante tra il processo che ha portato all’Unità d’Italia a cui diamo nome di Risorgimento, e il periodo successivo, ovvero i primi passi dello Stato nazionale italiano: altrimenti c’è il rischio di qualche confusione a livello storico». Francesco Traniello, ordinario di Storia contemporanea a Torino e uno dei maggiori storici di area cattolica, mette in guardia su ricostruzioni, «peraltro legittime», sul Risorgimento, ma il cui fine «sembra essere in prevalenza quello della polemica politica da spendere nell’attualità».

Professor Traniello, lei non è d’accordo con chi dice che l’Unità d’Italia è stato fatto senza o contro i cattolici italiani?
«Non vorrei sembrare paradossale, ma ho una certa difficoltà a individuare una categoria che possa definire, con caratteri sicuri e omogenei, la galassia dei “cattolici” italiani prima del 1870. Esistono il papato, la Chiesa ufficiale e il clero, sparso nel territorio della Penisola ma che presenta caratteri molto diversi, come notava già acutamente Salvemini all’inizio del XX secolo. Possiamo conoscere il pensiero ufficiale della Chiesa, leggendo i documenti del Magistero. Ma sulla storia religiosa dell’Ottocento – ovvero quale fosse il vissuto, la coscienza, l’impatto del cattolicesimo sulla popolazione – sappiamo poco . Schematizzando, vorrei quasi dire che la “questione cattolica” nasce con la Breccia di Porta Pia, nel 1870. Quando, con un atto di forza, finisce il Risorgimento e si completa la formazione dello Stato italiano, riconosciuto in quanto tale a livello internazionale. Ma anche qui: Manzoni che, non curandosi della scomunica, votò a favore di Roma capitale, era meno cattolico di altri? E Cavour, che pure non può essere definito un cattolico in senso stretto, non volle morire con il conforto dei sacramenti? Ho qualche remora a individuare con precisione un disegno esplicito di esclusione dei cattolici dal processo risorgimentale. Senza nulla togliere all’impegno e al sacrificio dei patrioti, non vorrei che si dimenticasse la circostanza che all’unità italiana si è giunti anche grazie all’intervento armato della Francia, cioè in una situazione di determinati rapporti di forza internazionali, che ne hanno condizionato pure lo sviluppo successivo».

Non si può negare che lo Stato unitario, almeno in una certa fase, abbia preso di mira le istituzioni cattoliche: basti pensare Crispi o a Antonio di Rudinì…
«Certamente: ma si tratta, appunto, della vita dello Stato italiano, nelle sue diverse fasi. Ci sono state fasi in cui una classe politica fortemente condizionata dalla massoneria ha attuato misure repressive, fino almeno all’avvento di Giolitti. Ma anche personaggi radicalmente anticlericali a livello locale intrattenevano buone relazioni con i vescovi e il clero: penso al caso di Zanardelli a Brescia. Un gran numero dei ministri dei governi post-unitari si professavano cattolici: erano tutti degli imbroglioni? E così i cattolici liberali o i cattolici transigenti: avevano valutazioni molto difformi rispetto alle indicazioni vaticane, ma non credo si possa mettere oggi in discussione l’autenticità della loro fede. Sturzo rimase sempre obbediente, ma era contrario al Non expedit. Poi si oppose alla sua parziale attenuazione che portava non alla creazione di un partito di programma, ma ai blocchi clerico-moderati. E, alla fine, riconobbe al Non expedit il merito di aver consentito ai cattolici democratici di organizzarsi e di recuperare il distacco culturale con le altre forze in campo. La storia, insomma, va letta come un processo in cui contrapposizioni e conflitti alla fine tendono a smussarsi e a ricomporsi e i ruoli, qualche volta, persino a rovesciarsi».

Quindi anche il dissidio tra Chiesa e Stato va letto in questa chiave?
«Nei primi anni del Novecento, il quadro italiano è profondamente mutato. Giolitti (personalmente molto attaccato alla tradizione cattolica) non è Crispi, c’è una forte presenza socialista, si introduce il suffragio universale maschile, le masse popolari rivendicano la loro partecipazione a pieno titolo nella vita politica. La Chiesa, da parte sua, capisce benissimo che non può rimanere perennemente ancorata alle parole d’ordine di Pio IX e comincia a fare i conti con la realtà. La diversità dei pontificati di Pio IX, Leone XIII, Pio X e Benedetto XV attesta proprio, dal punto di vista politico, questa attitudine al cambiamento, che del resto riguarda tutti gli attori storici. E il Ppi di Sturzo e, anni dopo, la Dc di De Gasperi non nascono per caso, ma sono il frutto, travagliato quanto si vuole, dell’evoluzione di questo processo. Del resto, la creazione dello Stato italiano ha fatto nascere, seppur lentamente, una Chiesa italiana – anche se, proprio per la presenza del Vaticano, non sarà mai equiparabile all’esperienza delle Chiese nazionali europee – e ha consentito, d’altra parte, al papato di accentuare l’universalismo».

Un’altra accusa che si fa al Risorgimento è di essere stato un fatto elitario, che ha lasciato fuori le masse popolari.
«È sicuramente vero. Però non neanche trascurata la circostanza che – almeno in Europa – la formazione degli Stati nazionali è avvenuta prevalentemente attraverso una spinta dall’alto: la monarchia, nel caso più antico della Francia, o le istituzioni non proprio democratiche della Prussia nel caso della Germania».

Lei accennava all’inizio a ricostruzioni parziali e in certo senso pregiudiziali della storia del Risorgimento: a cosa si riferiva?
«Noto oggi una sorta di alleanza implicita nel demolire il significato del Risorgimento e della unificazione nazionale tra personaggi di area leghista, che ritengono che il processo unitario così come si è compiuto abbia danneggiato il Nord, e personaggi di area cattolica che riprendono molti schemi della polemica intransigente contro lo Stato unitario, come la teoria del complotto massonico-protestante, eccetera. Sono due tendenze che arrivano ad analoghe conclusioni partendo da posizioni molto diverse: etno-localistica l’una, incentrata sul ruolo “nazionale” del papato e della religione cattolica, l’altra. Sono curioso di vedere come andrà a finire».

Giovanni Grasso

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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16 Marzo 2010

5 - FRANCESCO MARIO AGNOLI

«Però l’Italia è nata storta»

«Fare la guerra alla preponderanza cattolica nel mondo, per tutto, con tutti i mezzi. Questa la nostra politica avvenire. Noi vediamo che questo cattolicesimo è uno strumento di dissidio, di sventura e dobbiamo distruggerlo». A ricordare queste parole pronunciate nel luglio 1862 da Ferdinando Petrucelli della Gattina, fra gli applausi dei deputati del Parlamento italiano, è Francesco Mario Agnoli, presidente aggiunto della Corte di Cassazione, già componente del Consiglio superiore della magistratura, studioso delle insorgenze anti-giacobine in Italia e autore di saggi come Mazzini e Dossier brigantaggio. La citazione si trova riproposta in termini analoghi, in quegli anni, nel "Bollettino del Grande Oriente" e nel giornale "Il diritto", che era un organo semi-ufficiale di Depretis. Non si trattava certo di cose isolate.

Il papa re, odiato dai liberali, lo era anche dai suoi sudditi?
«Bisogna distinguere fra le varie zone. Nel nucleo dello Stato pontificio, Roma, il Lazio, l’Umbria e anche le Marche, la figura del papa re era largamente benvoluta e lo dimostra anche il fatto che Garibaldi, Mazzini e i Savoia cercarono sempre di suscitare delle sollevazioni popolari senza riuscirci. La situazione era diversa nelle Legazioni pontificie, come la Romagna; Bologna, ad esempio, aveva sempre aspirato all’indipendenza. In Romagna, poi, al tempo dell’invasione francese (1796-1799), gli abitanti si dimostrarono tra i più fedeli al papa e ai più attaccati alla religione cattolica, insorgendo più volte con le armi (basti ricordare le sollevazioni di Lugo e di Tavoleto). Dopo la Restaurazione la situazione invece cambiò e si ebbe una progressiva e intensa diffusione delle idee repubblicane prima e di quelle socialiste poi».

Come mai tante terre una volta pontificie le ritroviamo oggi nelle cosiddette "regioni rosse"?
«È vero, esiste una corrispondenza. Ma è interessante osservare come queste terre siano anche quelle in cui è sempre stata molto forte l’avversione per i governi liberali. Si passò da una una militanza di tipo cattolico a una militanza dapprima repubblicano-rivoluzionaria, poi "rossa". Se si va fondo, ci si accorge di trovarsi di fronte a realtà anti-liberali che sono rimaste tali con una continuità rocciosa. Semplicemente, a un certo punto dell’800 le popolazioni romagnole hanno cambiato cavallo, sedotte dal socialismo, giudicato più deciso nell’opposizione alla borghesia liberale e al suo governo».

Risorgimento: parola luminosa. Ma quanto intrisa di violenza?
«Molto. Tanto che verrebbe voglia di attribuire non piccola parte di quella pretesa luminosità alle fiamme che per ordine del generale Enrico Cialdini distrussero, assieme a gran parte degli abitanti, i villaggi benevantani di Pontelandolfo e di Casalduni. La testimonianza più significativa è di un bersagliere valtellinese: "Entrammo nel paese. Subito abbiamo cominciato a fucilare preti e uomini, quanti capitava, indi i soldati saccheggiavano e infine abbiamo dato l’incendio al paese, abitato da circa 4.500 persone... Quale desolazione! Non si poteva stare d’intorno per il gran calore, e quale rumore facevano quei poveri diavoli, che la sorte era di morire chi abbrustoliti, e chi sotto le rovine delle case". È vero; qualche giorno prima una banda di "briganti" nei pressi dei due paesi avevano attaccato e un reparto di quarantadue bersaglieri, ma, dopo tutto, i sabaudi erano entrati nel Regno delle Due Sicilie, uno Stato amico, senza alcuna giustificazione e senza nemmeno una dichiarazione di guerra. Del resto i militari sabaudi si sentivano impegnati in una guerra di tipo coloniale. Farini scrisse in una lettera a Cavour: "Questa è Africa! I beduini a riscontro di questi cafoni sono fior di virtù civile". Comunque, la testimonianza migliore è dello stesso Giuseppe Garibaldi, che in una lettera del 1868 confessò: "Gli oltraggi subiti dalla popolazioni meridionali sono incommensurabili. Ho la coscienza di non aver fatto del male, nonostante ciò non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio". Sulla violenza dei conquistatori s’incentra anche il giudizio di Antonio Gramsci: "Lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi contadini poveri, che scrittori salariati tentarono di infamare col marchio di briganti"».

Ha ancora un senso un dibattito pubblico sul Risorgimento o si tratta di temi che è ormai ora di lasciare agli storici?
«Senza dubbio, purché lo si svolga in termini corretti. Ho letto su "Avvenire" l’opinione del professor Riccardi, il quale ritiene che sia più difficile, ma sicuramente più fruttuoso per capire l’Italia di oggi, affrontare una serie di buchi neri della nostra storia più recente: dal fascismo fino a Tangentopoli e oltre. Non sono del tutto d’accordo. Per correggere quello che è stato fatto male bisogna conoscere gli errori compiuti. E oggi gli errori del fascismo, quelli di Tangentopoli sono noti, anche al grande pubblico. Mentre gli errori del processo risorgimentale sono stati pervicacemente nascosti, ricoperti da una pesante retorica e da luoghi comuni storiografici. Prima di accantonarli, sarebbe bene almeno che venissero conosciuti».

Come sarebbe più opportuno ricordare i centocinquant’anni dell’Unità d’Italia?
«Ritengo si debba capire perché questo Paese è nato male (anche per capire perché continua a vivere male) e che si debbano, quindi, evidenziare gli errori del processo unitario per cercare più efficacemente delle correzioni. Correzioni non agli errori in sé di centocinquant’anni fa, ovviamente, ma alle loro conseguenze attuali. Condivido la posizione espressa da Massimo Cacciari, secondo il quale non c’è da celebrare nulla, semmai ci sono da rivisitare molti dati storici. In tal caso l’anniversario sarà un’occasione utile, altrimenti, se si tratta semplicemente di riproporre il mito del Risorgimento, come purtroppo sembra chiedere il presidente Napolitano, le iniziative rischiano di essere uno spreco di soldi e, forse, anche una fonte di ulteriori divisioni».

Andrea Galli
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18 Marzo 2010

6 - SERGIO ROMANO

Risorgimento: unità o frattura?

«No, i Cavour e i Garibaldi non possono essere accusati di pregiudizi anticattolici. Si opponevano al potere temporale della Chiesa, naturalmente, ma è un’altra cosa». Nel dibattito sui rapporti tra Risorgimento e cattolicesimo, Sergio Romano – storico, diplomatico e autore di numerosi saggi sull’età contemporanea italiana ed europea – si concentra sul piano più propriamente storico-politico, lasciando da parte le polemiche ideologiche sorte negli ultimi tempi.

Nessun Risorgimento anticattolico, quindi?
«Nell’analizzare i rapporti tra il movimento nazionale e la Chiesa, non bisogna dimenticare l’evoluzione del pontificato di Pio IX. Quando fu eletto, il papa aveva dato la sensazione di essere molto aperto alle istanze che venivano dal Paese e perfino di poterne prendere la guida: una delle tante ipotesi sul tappeto era quella di una federazione degli Stati italiani presieduta dal papa».

Possiamo immaginare che cosa sarebbe successo se Pio IX avesse continuato su quella strada?
«Forse era una strada non percorribile, perché prima o dopo si sarebbe scontrata con le esigenze di una Chiesa che in quel momento doveva affrontare anche le sfide della modernità. Per comprendere dobbiamo fare uno sforzo e ricollocare la Chiesa cattolica nell’epoca dell’industrializzazione, dell’urbanizzazione, della nascita dei movimenti socialisti e anarchici... Tutto era percepito come un pericolo. In questo quadro, la mia impressione è che Pio IX agli inizi abbia cercato di pilotare il movimento, ma poi abbia dovuto prendere una posizione diversa. Ed è solo a quel punto che si può parlare, nel contesto della grande società risorgimentale, di sentimenti anti-ecclesiastici, con Mazzini e la Repubblica romana. Ma non con Cavour o gli altri piemontesi: liberali in economia, erano quasi indignati dalla massa dei beni ecclesiastici, sostanzialmente improduttivi, che a loro giudizio andava inserita nel ciclo di un’economia che grazie all’Unità avrebbe dovuto crescere – come infatti accadde, almeno entro certi limiti. E poi non bisogna dimenticare che c’erano anche uomini come Ricasoli, profondamente cattolico e anzi convinto che l’Unità del Paese avrebbe giovato alla riforma della quale la Chiesa aveva bisogno».

Una tesi, questa, condivisa anche da Manzoni, da Rosmini, dai cattolici più aperti all’idea di unificazione nazionale?
«…Più aperti all’idea di unificazione nazionale, e più fortemente convinti che la Chiesa andasse riformata. Esemplare il caso di Manzoni, fervente cattolico che pure non mise mai piede a Roma. È un particolare molto indicativo del loro stato d’animo: sì alla Chiesa, sì alla fede, sì alla grande tradizione del cristianesimo latino, ma no alla Curia romana, con le sue burocrazie e le sue miopie».

Nel decennio 1860-1870, tra l’Unità e la presa di Roma, quale ruolo assunse il cattolicesimo nell’Italia appena nata?
«Quello fu il momento della grande frattura. Allora Roma era la centrale della resistenza anti-unitaria: il Borbone spodestato si era insediato a Palazzo Farnese, lì riceveva gli esuli scontenti lì e da lì partivano gli aiuti al brigantaggio – un movimento complesso, somma di tante cose. Fu certamente una <+corsivo>jacquerie<+tondo> di popolo, come il Meridione ne aveva viste altre volte, ma fu anche una reazione dei legittimisti, non solo italiani, convinti che lì si giocasse la partita decisiva – sbagliando, perché quando si trovarono di fronte alle formazioni dei briganti capirono subito che non si potevano comandare né organizzare in funzione del loro ideale. A quel punto, comunque, era chiaro che da un lato c’era la Chiesa, che non voleva l’Unità, e dall’altro lato quelli che l’Unità bene o male l’avevano fatta e che cercavano di impedire che il processo fallisse. Il contesto internazionale era difficile, l’Unità non era stata riconosciuta da numerosi Stati europei: non dalla Spagna, non dalla Russia, ovviamente non dall’Austria, e la stessa Francia di Napoleone III l’avrebbe fatto soltanto un anno dopo la morte di Cavour. Fu allora che gli animi si irrigidirono, fino alla presa di Roma nel 1870».

Un altro punto caldo delle polemiche sul Risorgimento è quello che descrive il Meridione come oggetto di una sorta di colonizzazione...
«Sì, è una tendenza abbastanza visibile, e non solo al Sud: ne esiste una analoga, sia pure con caratteristiche diverse, anche nel Veneto e nel Friuli, dove si dipinge l’epoca austro-ungarica come un’età dell’oro, soprattutto per la competenza amministrativa. Non ho mai trovato queste tesi convincenti, parlano di un Sud che non è mai esistito, e che certo non conoscevano quei grandi meridionali italiani che, da Giustino Fortunato a Benedetto Croce, erano perfettamente consapevoli di quanto quelle regioni fossero tragicamente e spaventosamente arretrate. C’è poi anche chi enfatizza piccole cose in modo abbastanza puerile, come il fatto che i Borboni costruirono la prima ferrovia italiana da Napoli a Portici. Ma quello era soltanto uno sfizio di corte, che consentiva al principe di dimostrare la sua nobiltà e la sua larghezza di vedute, dando nel frattempo un contentino al popolo. Non era certo così che il Sud si sarebbe sviluppato. Queste nostalgie sono dovute più alla debolezza dello Stato italiano di oggi che non a ragioni storiche obiettive».

Ci manca un po’ d’orgoglio?
«Senza dubbio. Chi ricorda le celebrazioni del 1961 può cogliere la differenza netta. Per esempio nel 1959, centesimo anniversario della battaglia di Solferino e San Martino, venne a Milano De Gaulle, che allora non godeva della simpatia dell’opinione pubblica, in Italia – soprattutto a sinistra si diffidava del generale, visto come il possibile apripista di una deriva autoritaria in Francia e in tutta Europa. Eppure fu accolto con entusiasmo, perché gli italiani nati nei primi decenni del secolo avevano assorbito dalla pedagogia fascista il sentimento della grandezza dell’Italia – anche senza per questo essere fascisti. C’era, tangibile, un nazionalismo italiano. Ma quella generazione ormai se n’è andata, e quelle successive hanno fatto un’altra scuola: quella del Sessantotto. Il Sessantotto fu una rivolta generazionale, una rivoluzione contro i padri e contro i loro valori: e se i padri erano stati patriottici, allora il patriottismo andava seppellito con loro».

Edoardo Castagna
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20 Marzo 2010

7 - ANGELO SINDONI

Sud: meno male che c’erano i Savoia...

«L’unità d’Italia è stata un fattore di modernizzazione delle strutture civili, istituzionali, amministrative ed ecclesiastiche del nostro Paese, che presentava ancora in molte zone tratti di feudalesimo. Come ogni processo storico complesso non è stato né semplice, né lineare e presenta alcune ombre. Ma non per questo dobbiamo gettare il bambino con l’acqua sporca». Angelo Sindoni, storico moderno e prorettore dell’Università di Messina, profondo conoscitore del Mezzogiorno, ammonisce: «Certe polemiche odierne sul Risorgimento mi sembrano un po’ campate in aria. La storia non si ferma, né può tornare indietro».

Uno dei capi di accusa è che il Risorgimento è stato fatto senza o contro i cattolici.
«Non è esatto. I cattolici ci sono, eccome. Basti pensare alla consistenza del movimento neoguelfo ispirato da cattolici come Gioberti (e, con accenti diversi, Rosmini o Gioacchino Ventura) che pensano all’Italia come a una federazione di Stati posti sotto la leadership del Papato. Nel 1848 questo ideale si rivela impossibile: potevano le truppe pontificie combattere a fianco dei piemontesi contro un impero cattolicissimo come quello austriaco? Questo costituisce un problema per la maggioranza dei cattolici; per altri, non molti sul piano numerico ma di elevatissimo livello culturale ed etico, l’ideale dell’unità d’Italia non tramonta. Pensiamo a Manzoni, che è uno dei padri della Patria, a Cesare Balbo o a Cesare Cantù. O a un personaggio dimenticato come Vito D’Ondes Reggio, che da posizioni cattolico-liberali diverrà "intransigente" e fonderà l’Opera dei Congressi, creando di fatto il movimento cattolico. Queste personalità contribuiranno a pieno titolo al progetto di Stato italiano e che, poi, nei periodi di massima crisi tra Stato e Chiesa, si muoveranno con intelligenza per favorire la conciliazione. Del resto anche all’interno degli ordini religiosi ci fu una netta spaccatura: c’erano gli anti-unitari radicali, come i Redentoristi (che simpatizzarono con la monarchia borbonica) e i gesuiti, con l’eccezione importante di Luigi Taparelli D’Azeglio. Mentre altri ordini come gli Oratoriani di san Filippo Neri (di cui massimo esponente fu il cardinale Capecelatro), i Teatini, gli Scolopi e, a livello più popolare, una parte dei Francescani: ordini che, senza rompere con la Chiesa, erano a favore dell’unità di Italia».

I problemi, secondo alcuni, cominciano dopo il 1848, ovvero quando i piemontesi si mettono alla guida del processo unitario.
«Il processo di "piemontizzazione" dell’Italia è sicuramente uno degli aspetti negativi: l’idea dello Stato centralizzato, seguendo un modello di tipo francese, prevalse su quella autonomista di Minghetti e Cattaneo. Ma, guardando al panorama dell’Italia di quel periodo, chi altri poteva guidare l’unificazione? Il convincimento che sotto i Borboni si stava meglio è assolutamente ingenuo e privo di storicità: solo per dirne una, esistevano ancora residui di proprietà feudale ed ecclesiastica che era indivisibile e ostacolava la nascita di una moderna borghesia. Per non parlare delle istituzioni e dei codici, tipici di una monarchia dell’ancien régime. Senza contare che, a parte Napoli che grazie al suo status di capitale godeva indubbiamente di attenzioni particolari, in tutto il regno fin dal 1820 erano presenti forti sentimenti anti-borbonici, specie in Sicilia. Il Piemonte era uno dei pochi Stati italiani che presentava spiccati tratti di modernità. Non si può dimenticare che dopo il 1848 fu l’unico a conservare lo Statuto. E anche un antimonarchico come Francesco Crispi dovrà ammettere che la corona rappresentava un forte fattore di unità, mentre la repubblica avrebbe diviso».

Veniamo al Sud. C’è chi dice che i suoi guai cominciano con l’Unità d’Italia.
«Il modello centralista unitario imposto dall’Italia sabauda certo non giovò al Mezzogiorno. E vanno ricordate le sanguinose repressioni che l’esercito italiano fece contro le sacche legittimiste o i cosiddetti briganti. Però va anche detto che l’attenzione alla questione meridionale, ovvero al divario tra il Sud e il resto del Paese, nasce proprio all’interno dello Stato italiano, con le famose inchieste di Sonnino e Franchetti e le Lettere meridionali di Pasquale Villari. E che molti statisti, basti pensare a Giolitti, cercarono di affrontarla. Non ci riuscirono, sicuramente. Ma non ci riuscì nemmeno il fascismo e nella Repubblica il problema ancora esiste. Ma i Borboni la questione non se l’erano neanche posta».

Dove vanno ricercate, a suo giudizio, le radici della questione meridionale?
«Il brigantaggio creò molti problemi a uno sviluppo economico e civile ordinato. E quello che è successo dopo con i fenomeni mafiosi. L’altro aspetto riguarda l’industrializzazione. Nei Paesi di prima industrializzazione, come l’Inghilterra o la Francia, il modello si è andato sviluppando attraverso il capitalismo privato. Nei Paesi di seconda industrializzazione, come la Germania, l’Italia o la Russia, il processo è andato avanti per tappe forzate, guidato direttamente dallo Stato. È stata una specie di camicia di forza imposta dall’alto, che non ha rispettato le specificità territoriali e non ha creato, come denunciava Sturzo, una classe imprenditoriale degna di questo nome. Pensiamo oggi a Termini Imerese: è giusto lottare per l’occupazione, ma i fenomeni economici di globalizzazione imporranno alla fine la dolorosissima chiusura dello stabilimento Fiat. Bisogna perciò guardare al futuro e a nuovi modelli di sviluppo, evitando le dispendiose cattedrali nel deserto. Ci vorrebbe una classe politica con un’idea di nazione forte e innovativa. C’è invece ancora chi si illude di risolvere i problemi rinchiudendosi nel piccolo recinto del localismo. Al Nord, come al Sud».

Giovanni Grasso
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28/03/2010 21:43
 
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23 Marzo 2010

8 - MASSIMO INTROVIGNE

Risorgimento esoterico

Del lato esoterico degli avvenimenti dell’800 italiano, Massimo Introvigne, direttore del Cesnur, si è occupato a lungo nei suoi studi da sociologo delle religioni. E, in quanto torinese, con un occhio speciale sul lato occulto di una città che ha avuto un ruolo di primo piano nella lotta contro il papato.

Siamo figli di un Risorgimento esoterico?
«Bisogna distinguere tra Unità d’Italia e Risorgimento: il progetto dell’Unità non è stato esclusivamente esoterico o massonico o laicista, perché c’erano ovviamente anche grandi cattolici – pensiamo al beato Francesco Faà di Bruno o a Rosmini – che sposavano questa causa e la giudicavano cruciale per lo sviluppo dell’Italia, in un mondo in cui andavano affermandosi i grandi Stati nazionali. Il Risorgimento è stato invece una modalità di realizzare l’Unità segnata da forze che, approfittando del fatto che si sarebbe costruito uno Stato nuovo, volevano plasmarlo secondo i propri ideali massonici o pre-massonici. Uno Stato simile alla città che avevano già sognato i Rosacroce del ’600: totalmente svincolata da una tradizione religiosa specifica e in particolare, giacché si trattava dell’Italia, dalla tradizione cattolica. Uno Stato frutto di ingegneria sociale, caratterizzato dal relativismo delle idee e delle religioni».

Garibaldi e Mazzini sono i nomi che vengono subito in mente.
«Infatti, quest’ideologia viene perseguita in modo particolarmente consequenziale da chi aveva frequentato la massoneria internazionale. In un personaggio come Garibaldi è facile trovare riferimenti a tal proposito, con una buona dose di violenza nei confronti della tradizione cattolica e con elementi estremi, per esempio l’idea di sostituire il cattolicesimo con lo spiritismo, che Garibaldi coltivò molto seriamente, diventando primo presidente della Società spiritica italiana, oltre che gran maestro della massoneria. Lo stesso vale per Mazzini, che aveva frequentato altri ambienti, magari non direttamente massonici, ma con forti interessi esoterici. In lui troviamo un’utopia più ispirata alla sostituzione del cristianesimo con spiritualità orientali, con l’idea di reincarnazione, ecc.».

Come giudicare l’atteggiamento dei "cattolici" Savoia?
«Il progetto risorgimentale non è pensato inizialmente dai Savoia, ma da altri che poi trovano in casa Savoia uno strumento. Casa Savoia è interessante perché da quando decide di diventare una dinastia di respiro europeo, nel ’500, si presenta come un impasto singolare di cattolicesimo e di esoterismo. I Savoia rinascimentali, in cui sono presenti figure che hanno aspirazioni di santità e favoriscono la Chiesa, sono gli stessi che costruiscono un mito per accreditarsi fra le case reali europee: quella della loro discendenza dai faraoni egizi, che nel clima rinascimentale di riscoperta di spiritualità pagane e precristiane funzionava molto bene. Il museo egizio verrà molto dopo, con Napoleone, però che Bonaparte scelga Torino per creare questa istituzione non è casuale. Nella corrispondenza di fine ’600 tra il beato Sebastiano Valfré e Vittorio Amedeo II di Savoia, di cui il Valfré era confessore, si nota tutta l’ambivalenza del nobile sabaudo. Che da una parte manifesta un anelito cattolico, dall’altra riempie la corte di maghi e astrologhi. Un’ambivalenza che ha quindi radici molto antiche e che si manifesta clamorosamente nell’800».

Carlo Alberto "re tentenna" anche per quanto riguarda il rapporto con la Chiesa?
«In Carlo Alberto resta viva, direi, una cattolicità di fondo. All’inizio sembra assecondare i progetti – pensiamo all’espulsione dei gesuiti – di forze che si possono definire proto-massoniche, perché in realtà la massoneria nel Regno di Sardegna, vietata da Vittorio Emanuele I nel 1814, si ricostituisce con la sua regolarità formale solo nel 1859, anche se era già esistita nel ’700 e diversi nobili mantenevano rapporti con logge francesi e di altre parti d’Europa. Poi, quando vede che ne vogliono fare uno strumento di una politica anti-cattolica a senso unico, Carlo Alberto saluta e se ne va. Ci sono lettere in cui scrive: "Il mestiere di Re mette in pericolo la salvezza della mia anima"».

Vittorio Emanuele II appare molto meno ambiguo…
«In lui la vocazione esoterica di casa Savoia, di cercare la propria grandezza in un disegno alternativo al cristianesimo, in un’ingegneria sociale che ha una forte matrice massonica, prevale. Ciò non impedisce che nella famiglia il filone cattolico continui, pensiamo a figure come Maria Cristina o Maria Clotilde. Del resto, i casi di famiglie reali che annoverano gran massoni e grandi cattolici non sono isolati. Prendiamo per esempio il libro di Jean Van Win su Leopoldo I del Belgio come "re massone". Poi si arriva a Baldovino, di cui sembra si voglia aprire una causa di beatificazione. Lo stesso discorso si può fare per la famiglia reale brasiliana. Diciamo che Casa Savoia ha sempre tenuto un piede nella santità e uno nella scomunica».

Il ruolo dominante dei "piemontesi" nell’Unità – che tanto è stato discusso sotto il profilo economico e politico – che ricadute ha avuto negli equilibri massonici del nuovo Stato?
«Occorre sempre distinguere fra la massoneria come istituzione formale con le sue logge e la mentalità massonica, che è relativista, laicista, antidogmatica e portatrice in Italia di un’idea di nazione astratta che cerca fondamenta alternative rispetto alle radici cristiane e al rapporto strettissimo con la Chiesa cattolica che invece ha sempre caratterizzato il nostro Paese. Se parliamo di logge massoniche in senso stretto, il Piemonte è alle origini della ricostituzione della massoneria che, dopo la caduta di Napoleone e la restaurazione, era stata vietata in quasi tutti gli Stati pre-unitari. Il processo va dalla creazione della Loggia Ausonia a Torino nel 1859 alla fondazione subito dopo, sempre a Torino, del Grande oriente italiano che ha come primo gran maestro il piemontese Costantino Nigra, strettissimo collaboratore di Cavour. Se ampliamo il discorso alla mentalità massonica, questa è al cuore del Risorgimento – distinto, appunto, dall’unità – così come lo interpreta e lo promuove la cultura piemontese dominante, con effetti che si fanno sentire ancora oggi».

Andrea Galli
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25 Marzo 2010

9 - ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA

Risorgimento capro espiatorio

Quest’anniversario dell’Unità cade nel momento di massima distanza affettiva tra gli italiani e il Risorgimento. Da qualche decennio, con un’impennata negli ultimi anni, l’epopea ottocentesca che ha dato origine al nostro Paese è finita sul banco degli accusati, additata come colpevole di gran parte dei malanni nazionali. Per lo storico Ernesto Galli della Loggia, docente di Storia contemporanea presso l’Istituto italiano di Scienze umane di Firenze, «una responsabilità non secondaria tocca alla scuola, così come si è evoluta negli ultimi trent’anni. La disaffezione non è solo nei confronti del Risorgimento, ma della dimensione nazionale in genere: anche la letteratura italiana è sempre meno studiata».

Ma in altri Paesi europei sono concepibili critiche ai fondamenti stessi dell’unità nazionale, come quelle cui si assiste in Italia?
«No, nemmeno in quelli più vicini a noi come la Francia. Certo, sulla storia nazionale ci si divide – per esempio sulla Rivoluzione francese –, ma nessuno mette in discussione la Francia in sé, salvo qualche movimento nazionalista del tutto marginale come quelli bretone o corso. Solo in Italia si ripetono luoghi comuni di gran lunga più critici che favorevoli all’Unità. Ed è appunto qui che c’è il difetto della scuola, che ha mancato gravemente nell’insegnamento della storia e ha consentito che insegnanti e libri di testo sposassero le tesi più cervellotiche e infondate».

Come quella di un presunto depauperamento del Sud dopo l’Unità?
«Questa è un’autentica corbelleria. Gli studi dimostrano in maniera inoppugnabile che al punto di partenza, nel 1860, il divario economico tra Nord e Sud era già fortissimo. Sotto tutti i punti di vista: dall’estensione delle strade all’alfabetizzazione, dallo sviluppo dei commerci a quello dell’agricoltura».

Eppure non è raro sentir citare esempi di eccellenza meridionale: la Napoli-Portici, per esempio, fu nel 1839 la prima ferrovia italiana...
«La sempre evocata ferrovia Napoli-Portici non era altro che il giocattolo del re, mentre invece la Torino-Genova o le ferrovie costruite dagli austriaci in Lombardia servivano concretamente allo sviluppo economico. Portici è un sobborgo di Napoli, dove non c’era niente se non qualche villa… Quei sette chilometri di binari la dicono lunga sulla ratio delle scelte "economiche" dei Borboni. Intanto, in tutto il Regno delle Due Sicilie non c’era una strada degna di questo nome: a dirlo non sono le descrizioni fatte dai prefetti sabaudi, ma quelle degli alti funzionari dell’amministrazione borbonica negli anni Quaranta-Cinquanta».

Nessuna attività produttiva, quindi?
«Prendiamo la Sicilia: era come il Cile. Il Cile produceva rame e guano, poi arrivavano i bastimenti inglesi e nordamericani, li prelevavano e li portavano in patria affinché fossero lavorati. Così la Sicilia: produceva zolfo e arance, poi arrivavano i bastimenti e li caricavano. Era un’economia coloniale, che forniva soltanto un po’ di materia prima – peraltro rapidamente diventata inutile grazie alla produzione industriale chimica dell’acido solforico. Ma si può immaginare uno sviluppo economico fondato sulle arance?».

A essere contestato è anche il centralismo adottato dal neonato Stato italiano...
«Un’altra contestazione... Il processo risorgimentale trova solo difensori istituzionali, mentre nello spirito pubblico domina la contestazione. Non è però vero che l’Italia adottò subito e per principio una linea centralistica, tutt’altro: nella primavera del 1861, a immediato ridosso dell’unificazione, il ministro degli Interni Minghetti presentò un progetto di legge che prevedeva un largo decentramento ai comuni. Solo che cominciarono ad arrivare le notizie della rivolta nelle province meridionali e si diffuse la consapevolezza, immediatamente trasmessa dai prefetti, che il decentramento avrebbe restituito il potere al notabilato borbonico. Fu per questo che Minghetti ritirò il suo progetto, che fu sostituito da quello centralistico».

Ci fu un’ispirazione anticattolica, all’interno del processo risorgimentale?
«Anche su questo punto si tende a esagerare. Sicuramente ci fu una componente laicista, più o meno massonica – anche se va ricordato che la prima loggia massonica in Italia fu fondata soltanto nel 1859 –, ma il fatto è che nell’Europa dell’Ottocento il liberalismo era generalmente contiguo allo spirito massonico. A unirli era la lotta contro la Chiesa, la quale a sua volta non era certo una vittima e combatteva accanitamente contro il liberalismo. La Rivoluzione francese aveva prodotto una divaricazione tra la libertà politica e la Chiesa, tanto che l’affermazione delle istituzioni liberali – il parlamento, la costituzione – passava necessariamente attraverso il conflitto con il papato. C’è stato un momento drammatico, nella storia della Chiesa: non aver capito che lo spirito illuministico, con il suo materialismo e la sua secolarizzazione, non era la stessa cosa delle istituzioni liberali e delle istanze anti-assolutistiche».

Quale spazio rimaneva, allora, ai cattolici liberali?
«Si trovarono in un vero e proprio dramma storico: un Manzoni non poteva essere a favore del parlamento o della fine del dominio austriaco su Milano, senza essere scomunicato. E poi: vorrà dire pure qualcosa il fatto che lo stesso Cavour abbia voluto morire assistito dai conforti religiosi, no? Lo statista si era infuriato enormemente, tanto da arrivare a un accesso di anticlericalismo, quando al suo amico morente Santarosa furono rifiutati i sacramenti – gettando nella costernazione la sua famiglia, profondamente cattolica – perché da ministro aveva appoggiato la politica liberale del Piemonte. D’altra parte, dobbiamo sforzarci di comprendere anche la gravità del problema che si trovava davanti il papa: gli si chiedeva di rinunciare a quello Stato della Chiesa che gli era stato trasmesso da oltre un millennio di predecessori. Era una responsabilità politica e religiosa non da poco, e si può ben capire la resistenza di Pio IX. Nelle file del liberalismo italiano c’erano molti cattolici, così come c’era sicuramente anche un gruppetto di tenaci anticlericali, anche se assolutamente minoritario. Il problema era politico: nel momento in cui si tentava di fare l’Unità, diventavano tutti anticlericali, perché era l’unico modo per farla».

Edoardo Castagna
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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28/03/2010 21:46
 
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27 Marzo 2010

10 - GUIDO FORMIGONI

Risorgimento, figlio d'Europa

«Dobbiamo uscire dalle secche di un dibattito un po’ schematico e provinciale, pro o contro. Il Risorgimento fu un fenomeno complesso che, per essere compreso fino in fondo, dev’essere inquadrato in un contesto europeo». Guido Formigoni, ordinario di Storia contemporanea alla Iulm di Milano, spiega: «Il processo di unificazione d’Italia, complicato e farraginoso quanto si vuole, non è un caso a sé. Accanto ad alcune specificità nazionali, presenta dei tratti tipici comuni con il resto d’Europa».

A cosa si riferisce?
«Per esempio alla questione della forma di Stato. Nel Risorgimento c’era un forte nucleo di ispirazione confederale o federale. Ma è vero anche che l’idea federalista risultò assolutamente soccombente nella stagione dell’affermazione delle nazioni e dell’industrializzazione: il rafforzamento del controllo dello Stato fu carattere dell’epoca. Basti pensare alla Svizzera dopo la guerra del 1845-47 contro i cantoni cattolici ribelli; o alla Germania, che Bismarck volle federale solo per ancorarsi alla tradizione, ma che in realtà era sottomessa al nucleo forte prussiano; o alla Guerra di secessione americana del 1861-65, che mise le basi del primato dello Stato federale sui governi locali. L’Italia accentratrice, insomma, da questo punto di vista rappresentò una regola, non un’eccezione».

Un’altra accusa ricorrente al processo risorgimentale è quella di essere stato un fatto elitario, senza la partecipazione delle masse popolari.
«È vero: ma in Europa la musica non era diversissima. Tutti gli Stati nazionali si formarono (o trasformarono) in quel periodo per impulso di élite intellettuali e sociali e quasi senza la partecipazione popolare (se non in chiave subalterna e derivata). Il suffragio universale era l’eccezione: in Francia arrivò di fatto con la Terza repubblica (dopo il 1870), mentre in Germania il Reichstag dal 1871 era eletto a suffragio universale, ma aveva poteri ridotti, visto che il cancelliere non era responsabile nei suoi confronti. La questione della partecipazione delle masse alla vita sociale e politica nazionale si porrà, insomma, in maniera drammatica, in un momento successivo a quello della formazione dello Stato, a cavallo tra Otto e Novecento».

La questione cattolica, per via anche della presenza del papato, non è un fatto peculiare italiano?
«Anche qui bisogna fare delle precisazioni. A livello generale nell’intera Europa (qui il caso americano è diverso) si pose il problema della laicizzazione della vita pubblica, civile e individuale; ovvero della distinzione del piano religioso da quello del potere e del controllo della vita quotidiana, che trovava una diversa legittimazione da quella divina. Una distinzione che è stata possibile proprio all’interno dell’orizzonte cristiano, ma che creò problemi e tensioni fortissime ovunque, non solo in Italia, in quanto rompeva con una tradizione consolidata. Basti pensare al Kulturkampf di Bismarck o allo scontro sulla separazione Stato-Chiesa in Francia. E, comunque, in Italia non si può ridurre tutto a una guerra tra guelfi e ghibellini».

In che senso?
«Laici e cattolici non erano due blocchi monolitici. Nella classe dirigente risorgimentale c’era chi mirava a regolare i rapporti Stato-Chiesa nella libertà in uno Stato neutrale dal punto di vista religioso, togliendo i privilegi ecclesiastici e riducendo la Chiesa al diritto comune: il modello di Cavour con la formula "libera Chiesa in libero Stato". Altri ingaggiarono una lotta per ridurre l’influenza della Chiesa nella società, in nome di una visione anticattolica o anticristiana, mirante a creare una nuova religione civile sostitutiva, della patria o della ragione. Stesso discorso si può fare per il campo cattolico: ci furono i reazionari, i filo-borbonici, gli intransigenti, i cattolici liberali, i conciliatoristi e così via. E bisogna dire che anche tra i cattolici intransigenti esisteva una forte idea di unità nazionale: il processo unitario, per loro, avrebbe dovuto avere un cammino diverso, ma non veniva messo in discussione in quanto tale. La polemica anti-statale, pensiamo ai giovani della democrazia cristiana di Murri e Sturzo, verrà poi recuperata in una chiave riformista, non certo nostalgica».

Specifica, però, era la presenza del papato nel territorio italiano…
«Certamente. Ma vorrei far presente che la Questione romana, così come era interpretata da Pio IX, non era soltanto la legittima pretesa a una più o meno simbolica sovranità temporale che permettesse al papa il libero esercizio della missione religiosa e spirituale. Ma riguardava in profondità anche il delicato rapporto tra potere civile e autorità religiosa, che presupponeva, da parte del Vaticano di quell’epoca, il totale rifiuto di uno Stato laico, che comportasse ad esempio la libertà religiosa, l’emancipazione degli ebrei e dei protestanti, e via dicendo. Messe così le cose, in quella stagione il conflitto era inevitabile ed ebbe costi immensi su tutt’e due i fronti. Ma da subito alcuni non credenti e alcuni cattolici si misero al lavoro per cercare di smussarlo, rimuoverlo, ridurne gli effetti negativi».

Facciamo un salto in avanti nel tempo: lei è d’accordo con chi vedeva nella Prima guerra mondiale il compimento del Risorgimento?
«È una tesi fascinosa, ma molto retorica. Ci fu in Italia una minoranza di interventisti democratici (tra cui i giovani democratici cristiani), che vedevano nella guerra l’occasione per stabilire un nuovo ordine internazionale fondato sulla cooperazione tra libere nazioni. E ci furono sinceri irredentisti. Ma in realtà la guerra fu decisa e condotta dai governi italiani in una prospettiva prevalentemente imperialista, quanto velleitaria. E la stessa ottica prevalse alle trattative di pace, che crearono i presupposti per le successive tragedie in Italia, nell’Europa e nel mondo».

(10, fine. Le precedenti puntate sono state pubblicate nei giorni 3, 6, 9, 12, 16, 18, 20, 23 e 25 marzo)

da Avvenire
Giovanni Grasso
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30/03/2010 18:01
 
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Il Risorgimento

La liberazione dallo "straniero" austriaco era la cosa che interessava meno alla casta liberal-massonica che teneva Carlo Alberto praticamente in pugno. La Massoneria, a quel tempo fanaticamente anticattolica (ricordiamo che era stata trapiantata in Italia dai rivoluzionari francesi) teneva soprattutto a distruggere l'Austria "papista". Nel Sudamerica, con la complicità interessata degli Usa, aveva promosso una serie di guerre d'"indipendenza" che avevano tolto tutto alla Spagna e al Portogallo e gettato quel continente, un tempo prospero, in braccio allo sfruttamento americano e inglese. Nell'Ecuador, per esempio, il presidente Garcìa Moreno, cattolico, aveva consacrato la Costituzione al Sacro Cuore, ma aveva anche dimezzato le tasse e triplicato i salari, arrivando a concedere il voto anche agli indios. L'Ecuador fu l'unico stato a mandare un modesto aiuto economico al papa Pio IX, dopo l'invasione di Roma da parte dei piemontesi. Garcìa Moreno venne assassinato mentre usciva di chiesa.

Alla Prima Guerra d'Indipendenza italiana, com'è noto, parteciparono tutti gli stati della penisola, anche i borbonici e perfino un contingente pontificio. Ma quando si accorsero che non si trattava di unire l'Italia in una confederazione secondo i progetti di Gioberti e Cattaneo, ma di star prestando man forte all'espansione del Piemonte, tutti si ritirarono. Carlo Alberto, resosi conto di essere stato di fatto il burattino di un progetto massonico internazionale, cambiò idea e da quel momento venne beffeggiato come "il re tentenna".

Suo figlio Vittorio Emanuele, invece, stette al gioco dei massoni Palmerston e Napoleone III. Pura propaganda era l'idea di "'unità d'Italia", tant'è che l'italiana Corsica fu lasciata fuori, e Nizza e la Savoia tranquillamente barattate. Con le leggi Siccardi il Piemonte carbonaro gettò la maschera e cominciò un'aggressione anticattolica senza precedenti. Gli ordini religiosi furono espulsi, i vescovi incarcerati, i beni ecclesiastici confiscati, i conventi divennero prigioni e caserme. Le processioni vennero vietate e si procedette a un'epurazione degli impiegati statali "papisti". L'assassinio di Pellegrino Rossi e poi l'effimera Repubblica Romana inaugurarono l'era dei cortei massonici con gli stendardi neri raffiguranti Satana che schiacciava la testa all'arcangelo Michele.

Le chiese assaltate, le tipografie cattoliche devastate, i gendarmi che intervenivano per arrestare i "provocatori" cattolici. Con i soldi inglesi e le truppe francesi Cavour e compagni scatenarono una serie di guerre tutte regolarmente perse (la Seconda Guerra d'Indipendenza fu di fatto vinta dagli zuavi francesi). Le sole campagne vittoriose furono quelle contro altri italiani: il Papa e il Sud.

La Terza Guerra d'Indipendenza finì col disastro di Custoza e Lissa, malgrado l'Austria avesse offerto gratis il Veneto e il Trentino purché l'Italia si ritirasse dall'alleanza con la Prussia. I "plebisciti" sancirono l'annessione forzata di tutti gli ex stati italiani. La gente doveva votare all'aperto, mettendo le schede in due urne: su una stava scritto "sì", sull'altra "no". A Napoli si dovette votare passando tra due ali di garibaldini armati. Malgrado ciò i voti sommati risultarono pure molto superiori all'effettivo numero dei cittadini (segno che ogni "liberatore" aveva votato più volte). La spedizione dei Mille venne finanziata dagli Inglesi e dai protestanti americani e tedeschi. Ai Mille man mano si aggiunsero soldati piemontesi travestiti Molti alti ufficiali borbonici, massoni, cedettero senza combattere (alcuni finirono linciati dalle loro stesse truppe). Quando i borbonici poterono combattere davvero, al Volturno, Garibaldi a stento riuscì a salvare la pelle. A Gaeta Cialdini continuò a cannoneggiare per ore (anche l'ospedale) dopo che era stata issata la bandiera bianca. Lo stesso farà Cadorna alla breccia di Porta Pia. Diversi ufficiali piemontesi, cattolici, preferirono dimettersi.

Il floridissimo Regno delle Due Sicilie in brevissimo tempo fu portato al tracollo finanziario, e i meridionali per la prima volta nella loro storia furono costretti a emigrare all'estero per poter mangiare. Il Sud dovette pagare le guerre del Piemonte, anche quella combattuta contro i meridionali stessi.

Arrivarono tasse anche sul macinato, sulle porte e le finestre (le case cominciarono così ad avere un sola apertura, con conseguenti epidemie di tubercolosi, il male del secolo), arrivò la leva obbligatoria che durava anni e toglieva braccia a popolazioni prevalentemente agricole. Per dieci anni il Sud fu trattato come una colonia da sfruttare; sorse per reazione il cosiddetto "brigantaggio" (i partigiani dell'ex Regno, come al solito, vennero definiti banditi). Metà dell'esercito piemontese era di permanenza nel Sud, con uno stato di emergenza continuo: fucilazioni di massa, rappresaglie, stermini, incendi. Nacque così il problema del "mezzogiorno", da allora mai più risolto. Nel nuovo regime burocratico e accentrato i meridionali, privati delle industrie e delle terre ecclesiastiche e statali su cui lavorare, presero il vizio di far carriera nella pubblica amministrazione.

Lo scrittore Ippolito Nievo, cassiere dei Mille, morì in un misterioso naufragio mentre tornava al nord con le ricevute delle somme erogate. Cominciarono gli scandali: l'appalto dei tabacchi, quello delle ferrovie, lo scandalo della Banca Romana. Cominciarono i cadaveri "eccellenti" e le "insabbiature" di cui non si sarebbe mai saputa la verità.

Alla breccia di Porta Pia, dopo i bersaglieri, il primo ad entrare fu un carretto di Bibbie protestanti, tirato da un cane chiamato "Pio Nono". Tra i patti che Cavour aveva fatto con gli inglesi, "padrini" dell'espansione piemontese, c'era anche l'appoggio alla divulgazione protestante contro l'odiato "papismo".

Garibaldi si ritirò a Caprera con un sacco di grano (secondo la leggenda) e con una cassa di Bibbie protestanti (secondo la storia vera). Anche i soldati italiani in Crimea vennero inondati di Bibbie protestanti. Quando Pio IX morì il suo corteo funebre venne assaltato da fanatici massoni che cercarono di gettare nel Tevere la bara. Ogni venerdì santo le logge organizzavano giganteschi banchetti all'aperto in Roma, a base di carne di maiale. Il sindaco di Roma, duca di Torlonia, che aveva osato fare gli auguri a Leone XIII, venne destituito. Il sindaco più ricordato del tempo è il massone Ernesto Nathan, figlio dell'amante inglese di Mazzini, il quale poté fare il sindaco della capitale d'Italia pur essendo cittadino inglese. Del resto solo meno del 2% della popolazione aveva diritto al voto.

Gli inglesi avevano appoggiato l'invasione del Sud anche con le loro navi. Il Regno delle due Sicilie deteneva il monopolio dello zolfo, essenziale per i battelli a vapore, e l'Inghilterra voleva metterci sopra le mani. In più gli industriali piemontesi avevano tutto l'interesse nella distruzione delle industrie borboniche, molto quotate internazionalmente e fortemente competitive. Quando i siciliani che avevano appoggiato i Mille, credendo che i "liberatori" avrebbero provveduto a una redistribuzione di terre, si appropriarono di alcuni appezzamenti a Bronte e a Villalba, Bixio ricevette l'ordine di procedere a una spietata repressione. Quelle terre appartenevano a Inglesi. Una, in particolare, al padre delle scrittrici Charlotte ed Emily, appunto, Bronte.

Ultima stranezza (ma non troppo): Garibaldi, Mazzini, De Amicis e molti dei "padri della patria" erano spiritisti. A chiarire che si trattava esattamente di un'espansione piemontese il nuovo Re d'Italia, Vittorio Emanuele, non fu "primo", ma rimase "secondo". Vittorio Emanuele II, Re (adesso anche) d'Italia.
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20/09/2010 10:53
 
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Venti Settembre: non lasciamolo ai massoni


Centoquarant'anni fa l'ingresso dei bersaglieri a Porta Pia pose fine al millenario dominio temporale dei Papi sullo Stato Pontificio, le cui origini si fanno risalire per convenzione alla cosiddetta Donazione di Sutri dell'VIII secolo. Il violento esproprio dei domini papali da parte del neonato Stato unitario, dopo il fallimento di tutte le trattative volte a trovare un componimento consensuale al problema, originò un periodo di fortissime contrapposizioni e di accanito anticlericalismo: da un lato il Papa prigioniero in Vaticano, dall'altro lo Stato italiano su posizioni apertamente laicarde, anche perché il non expedit alla partecipazione dei cattolici alla vita politica lasciò campo libero all'élite anticlericale e massonica.

La "questione romana" fu risolta come noto nel 1929 con i Patti Lateranensi. Che furono un'ottima soluzione, di mutua soddisfazione per Chiesa e Stato: tanto vero che sopravvissero al mutamento del regime che li aveva sottoscritti. La Santa Sede riebbe un proprio, seppur poco più che simbolico, potere temporale; sufficiente a riacquistare lo status di stato sovrano al precipuo fine di poter garantire la "piena e visibile indipendenza" del romano pontefice. Tra l'altro, l'utilità di questa guarentigia si è potuta apprezzare proprio in questi giorni del viaggio in Gran Bretagna, allorché ha frustrato i laicisti che, rimestando la questione pedofilia, sbraitavano per ottenere l'arresto del Papa da parte di qualche giudice (nelle cui fila, anche, si possono trovare degli spostati). Inoltre la dignità sovrana del Pontefice ha consentito che il viaggio avesse le più solenni forme della visita di Stato e che una parte del costo relativo fosse assunta dal governo di Sua Maestà.

Al tempo stesso, l'esiguità del territorio (è lo stato più piccolo del mondo) ha dispensato la Chiesa dal doversi impegnare in tutti quei compiti in temporalibus che possono contrastare l'esercizio delle prerogative spirituali: pensiamo all'imbarazzo di doversi occupare su vasta scala dell'amministrazione della giustizia criminale, dell'imposizione di tasse, della promozione del commercio, ecc. Tutti compiti, tra l'altro, che il vecchio Stato Pontificio aveva mostrato di svolgere assai male: è opinione comune che nell'Ottocento esso fosse lo stato peggio amministrato della Penisola.

Un'altro dato di fatto incontestato è che la perdita dei domini temporali, che prima impastavano la diplomazia pontificia in vincoli di interesse molto terreni, ha reso il Papato più rispettato e influente sulla scena internazionale: non avendo più un territorio e interessi nazionali propri, la Santa Sede ha acquisito la forza dell'imparzialità e del disinteresse.

Di fronte a questi dati, il Venti Settembre non è certamente una data infausta per la Chiesa; anzi... Per provvidenziale eterogenesi dei fini, da un gesto oggettivamente usurpatore (sia pure nell'interesse, in sé lodevole, dell'unificazione della nostra cara Patria) è derivato un bene, come più volte ribadito dagli stessi pontefici dal 1929 in poi: questa consapevolezza non è, dunque, una novità conciliare.

E' per questo che è inopportuno, e in fin dei conti autolesionista, prendere il lutto nella ricorrenza odierna. I massoni, che ad ogni anno festeggiano questa data, non sperano altro. Per guastar loro la festa, nulla di più efficace di un approccio sereno alla commemorazione della fine di quel tipo di potere temporale. Per il quale, tra parentesi, nessuna persona sensata potrebbe provare nostalgia: conosciamo ormai assai bene i vescovi, in merito all'applicazione 'generosa' del motu proprio; li vorreste vedere anche nel ruolo sostanziale di Prefetti e Governatori, a decidere su appalti e pensioni, su giustizia e trasporti?

E' vero che in alcuni ambienti tradizionalisti c'è ancora una qualche forma di attaccamento al pathos di fine Ottocento. Per carità: onorare Pio IX (che tra l'altro è Beato) e i suoi zuavi, non è criticabile. Ma lo diviene se la cosa esprime intenzioni politiche neppure recondite; allora si finisce come certe frange tradizionaliste francesi, con le loro Messe per Luigi XVI e Maria Antonietta, per l'Algeria e per Vichy. Tutte cose di fronte alle quali i progressisti si fregano le mani, ben lieti di trovare qualcosa da rinfacciare loro di fronte all'opinione pubblica.

A questi casi si riferiva evidentemente il Papa, nella
lettera di accompagnamento al motu proprio, scrivendo: "È vero che non mancano esagerazioni e qualche volta aspetti sociali indebitamente vincolati all’attitudine di fedeli legati all’antica tradizione liturgica latina".

Cerchiamo dunque, noi tradizionalisti, di superare questi 'indebiti' aspetti socio-politici, che sono un concreto ostacolo all'apostolato 'tridentino' verso la gran massa di fedeli i quali, ovviamente, giudicherebbero sospetto e poco equilibrato un nostalgismo reazionario per assetti politici di due secoli fa. Siamo in guerra contro il modernismo, dottrinale e liturgico. Fornire armi di propaganda al nemico è qualcosa che non dobbiamo e non possiamo permetterci. Non possumus, diceva appunto il Beato Pio IX...


Enrico
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20/09/2010 19:51
 
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l cardinale Tarcisio Bertone alla commemorazione svoltasi alla breccia di Porta Pia

Roma capitale d'Italia e centro della Chiesa


Pubblichiamo le parole pronunciate dal cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato, durante la commemorazione per i 140 anni di Roma capitale svoltasi, alla presenza del capo dello Stato italiano, Giorgio Napolitano, presso  la  breccia  di  Porta  Pia  nella  mattina  di  lunedì 20 settembre.

In questa città di Roma - capitale d'Italia e sede del Pastore della Chiesa universale, Vescovo di quest'alma Urbe - siamo raccolti in un luogo altamente simbolico per compiere un atto di omaggio verso coloro che qui caddero e per raccogliere il messaggio che ci ha lasciato la "Breccia di Porta Pia".

Dal loro sacrificio e dal crogiuolo di tribolazioni, di tensione spirituale e morale, che quell'evento suscitò, è sorta però una prospettiva nuova, grazie alla quale ormai da vari decenni Roma è l'indiscussa capitale dello Stato italiano, il cui prestigio e la cui capacità di attrarre sono mirabilmente accresciuti dall'essere altresì il centro al quale guarda tutta la Chiesa cattolica; anzi, tutta la famiglia dei popoli.

Alla vigilia del 150° dell'Unità d'Italia, possiamo riconoscere che, nel reciproco rispetto della loro natura e delle loro funzioni, la comunità civile e quella ecclesiale desiderano praticare in questo Paese una vasta collaborazione a vantaggio della persona umana ed a beneficio dell'intera società.
In questo luogo e in quest'ora carichi di memorie e di significati, il nostro sguardo interiore si eleva dalle concrete vicende terrene, oggi ricordate, alla dimensione dell'eternità, e la nostra parola si trasforma in preghiera.

Dio onnipotente ed eterno,
a Te salga la lode ed il ringraziamento
perché sempre guidi gli eventi della storia degli uomini
verso traguardi di salvezza e di pace.
Noi contempliamo l'opera della Tua Provvidenza
che si è dispiegata mirabilmente
anche in questa Città e in questa terra d'Italia
per ridonare concordia di intenti
dove aveva prevalso il contrasto.
In quest'Urbe, dove per Tua disposizione predicò e morì l'Apostolo Pietro,
il suo Successore possa continuare a svolgere
in piena libertà la sua missione universale.
Tu che hai dato agli abitanti d'Italia il grande dono della fede in Cristo Gesù,
conserva e accresci questa preziosa eredità per le generazioni future.
Riecheggia nei nostri cuori l'invocazione del Beato Pontefice Pio IX: 
"Gran Dio, benedite l'Italia!": 
Sì, Signore, benedici oggi e sempre questa Nazione;
assisti ed illumina i suoi Governanti
affinché operino instancabilmente per il bene comune.
Dona l'eterna pace a quanti qui caddero
e a tutti coloro che, nei secoli, hanno sacrificato la vita
per il bene della Patria e dell'umanità.
Questa Città, questa Nazione e il mondo intero
godano sempre della Tua protezione e del Tuo aiuto,
affinché il corso della storia si realizzi in conformità ai Tuoi voleri, sotto la guida dello Spirito, fino alla pienezza dei tempi annunciata da Cristo Signore.
Amen.


(©L'Osservatore Romano - 20-21 settembre 2010)
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30/09/2010 23:57
 
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La Civiltà Cattolica" sul 20 settembre

Quel piccolo territorio che rese liberi il Papa e l'Italia


Anticipiamo ampi stralci dell'editoriale del numero in uscita della rivista dei gesuiti italiani "La Civiltà Cattolica" (Quaderno 3.847).

La presenza del cardinale segretario di Stato, Tarcisio Bertone, alla manifestazione dell'anniversario del 20 settembre, dice che per i cattolici quella data non è più un segno di divisione tra le due Italie (quella legale e quella reale), come lo era stato in passato, quando tale commemorazione, voluta e monopolizzata dalla massoneria, aveva un significato apertamente anticattolico e antipapale.

Qual è il valore storico della data del 20 settembre nella storia d'Italia? Se oggi, come si è detto, essa non ha più un significato anticattolico, almeno fino alla stipulazione dei Patti Lateranensi lo ebbe. Capire il significato di quelle vicende è tuttora molto importante, anche perché ci dà il senso e la misura di quell'annosa controversia, passata alla storia come "questione romana", che lacerò la coscienza di uomini sinceramente credenti e sostenitori del bene della Chiesa e dello Stato.

Benedetto xv desiderava che si giungesse a un'equa soluzione della questione romana attraverso trattative bilaterali e pubbliche con il Governo italiano. Finita la guerra, nel 1918 il Papa cambiò idea su questo punto; infatti si era reso conto che la mancanza di una reale indipendenza e libertà di azione, che soltanto la sovranità su un territorio gli avrebbe potuto garantire, aveva molto nuociuto durante la guerra al suo magistero di pace e di aiuto alle parti belligeranti.

Ma soprattutto va sottolineato il fatto che la sua missione a favore della pace tra le nazioni fu pregiudicata dalla mancanza di una reale libertà di azione e di intervento. Il Papa dovette trasferire in Svizzera le ambasciate presso la Santa Sede degli Stati in lotta con l'Italia e spesso la corrispondenza della Santa Sede fu intercettata e le sue "valigie diplomatiche" aperte. Il Governo italiano inoltre, attraverso il ministro degli Esteri, Giorgio Sidney Sonnino, fece di tutto per limitare e vanificare gli sforzi della diplomazia vaticana in favore della pace:  esso temeva che il prestigio che ne sarebbe derivato alla Santa Sede avrebbe indirizzato in un modo non desiderato e sfavorevole per l'Italia la soluzione della questione romana.

Come è noto, durante il Congresso di pace egli si adoperò per tenere lontana la Santa Sede dalla tavola delle trattative (articolo 15 del Trattato di Londra). Insomma dopo questi eventi, in Vaticano, e non soltanto, ci si rese conto che non era possibile risolvere la "questione romana" senza riconoscere al Papa una vera sovranità territoriale, seppure piccola, in modo che fosse "visibile" a tutti la libertà del Romano Pontefice. Per quanto piccolo il territorio vaticano non ha soltanto protetto il Papa, ma in periodi difficili, come quello della seconda guerra mondiale, ha consentito di ospitare numerosi profughi e perseguitati politici.

Come è noto a questo si giunse, dopo lunghe e difficili trattative nel 1929, con la stipula dei cosiddetti Patti Lateranensi tra lo Stato Italiano e la Santa Sede. Nessuno però dei successori di Leone XIII rimpianse la scomparsa del potere temporale come fatto politico, cioè come governo temporale del Pontefice di un grande Stato.

A tale proposito Paolo VI, dopo la chiusura del concilio Vaticano ii, durante la sua storica visita in Campidoglio del 16 aprile 1966, nella quale il Papa ringraziò il sindaco di Roma per la cordiale accoglienza riservata dalla città ai padri conciliari, disse parole inequivocabili. "Noi - disse il Pontefice - non abbiamo più alcuna sovranità temporale da affermare quassù. Conserviamo di essa il ricordo storico, come quello di una secolare, legittima e, per molti versi, provvida istituzione dei tempi passati; ma oggi non abbiamo per essa alcun rimpianto, né alcuna nostalgia, né tanto meno alcuna segreta velleità rivendicatrice".

Paolo vi anche in altre occasioni ebbe a ripetere lo stesso concetto, come fecero ininterrottamente fino ai nostri giorni i suoi Successori. Oggi possiamo dire che l'esistenza di un piccolo Stato, quello della Città del Vaticano, che garantisca la libertà e l'indipendenza piena del Papa, ha contribuito sia a rendere la Santa Sede più libera e aperta al mondo e ad eliminare ogni sospetto di parzialità in riferimento al suo ministero apostolico universale, sia, alla lunga, a rendere lo Stato italiano più sanamente "laico" e più libero (da condizionamenti vari che provenivano da una recente storia di scontri e di ostilità reciproche) nel suo incontro-confronto con la Chiesa e con la sua millenaria tradizione di cultura e di civiltà.


(©L'Osservatore Romano - 1 ottobre 2010)



si legga anche qui:

Dagli Archivi Vaticani Pio IX e la Breccia di Porta Pia (importante documento)

L'Italia come laboratorio nei rapporti tra Stato e Chiesa: Cavour e la Chiesa

LA PROVVIDENZA E IL CONCORDATO

Come nasce la Città dello Stato Vaticano?

10.2.1939 "70 anni fa Pio XI" Il Papa della dignità Ecclesiale

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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18/10/2010 19:05
 
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La Chiesa e la questione risorgimentale italiana
 di Antonio Socci

La «rivoluzione italiana» del «risorgimento» fu un’«impresa coloniale» sabauda condotta da una élite liberale avversa alla Chiesa e al Papa. Antonio Socci fa l’elenco degli orrori e dei danni le cui conseguenze ancor oggi patiamo.

[Da AA.VV., Processi alla Chiesa. Mistificazione e apologia, Piemme, Casale Monferrato 1994, pp. 409-434]

    La leggenda nera che vuole la Chiesa Cattolica come una potenza oscurantista, reazionaria e nemica della libertà degli uomini e dei popoli ha un capitolo tutto italiano: si tratta del cosiddetto Risorgimento e della posizione della Santa Sede nelle vicende dell’unificazione italiana del secolo scorso.
    L’argomento ha fatto scorrere fiumi d’inchiostro: noi — in queste pagine — ci limiteremo solo ad enunciare alcuni dei fatti storici trascurati.

In principio fu il federalismo

    Nel secolo scorso, il più lucido fra i pensatori degli anni Trenta e Quaranta e senz’altro Carlo Cattaneo, storico, economista, politico. Cattaneo, che è la mente del Politecnico, non immaginava davvero, né avrebbe mai voluto, Milano come prefettura di Torino. Scrive Antonio Gramsci: «Il federalismo di Ferrari-Cattaneo fu l’impostazione politico-storica delle contraddizioni esistenti tra il Piemonte e la Lombardia. La Lombardia non voleva essere annessa, come una provincia, al Piemonte: era più progredita, intellettualmente, politicamente, economicamente, del Piemonte. Aveva fatto, con forze e mezzi propri, la sua rivoluzione democratica con le Cinque giornate: era, forse, più italiana del Piemonte, nel senso che rappresentava l’Italia meglio del Piemonte […]. Perché» si chiede dunque Gramsci «accusare il federalismo di aver ritardato il moto nazionale e unitario?» (1).
    Non solo Cattaneo fu il più lucido e affascinante sostenitore della via federalista per l’Italia, ma, nel 1848, giunse addirittura a delineare gli Stati Uniti d’Europa con un anticipo sui tempi della storia che avrebbe evitato, di per sé, due guerre mondiali nel vecchio continente e varie tragedie connesse.
    Se la confederazione europea poteva essere, allora, un sogno, per l’Italia invece il federalismo sembrava la via più naturale e incruenta dell’unificazione. Un’Italia divisa fino ad allora in diversi stati. Si erano già fatti i primi passi: nel novembre 1847 era stato stipulato un accordo doganale fra Piemonte, Toscana e Stato Pontificio che faceva concretamente intravedere ai diversi popoli della penisola una prospettiva federale. Qualcosa di analogo allo Zollverein delle regioni germaniche, ma, se vogliamo, anche al mercato comune europeo attuale. Come oggi sarebbe impensabile una Europa politicamente unita attraverso una guerra di conquista di uno dei suoi stati a danno degli altri, conquistati ed annessi con la forza, così — fino al 1848 — nessuno avrebbe mai potuto gabellare una conquista piemontese della penisola come l’unità d’Italia. Ma è quello che avvenne.
    «La lega doganale» osserva Gramsci «promossa da Cesare Balbo e stretta a Torino il 3 novembre 1847 dai tre rappresentanti del Piemonte, della Toscana e dello Stato pontificio, doveva preludere alla costituzione della Confederazione politica che poi fu disdetta dallo stesso Balbo, facendo abortire anche la lega doganale. La Confederazione era desiderata dagli stati italiani, i reazionari piemontesi (fra cui il Balbo) credendo ormai assicurata l’espansione territoriale del Piemonte, non volevano pregiudicarla con legami che l’avrebbero ostacolata» (2).
    Ma come la Chiesa, il papa e lo Stato pontificio si trovarono a vivere gli avvenimenti di quegli anni?
    Il 16 giugno 1846 il cardinale Giovanni Maria Mastai Ferretti viene eletto papa e prende il nome di Pio IX. Ha fama di liberale e sostenitore della causa nazionale italiana. Appena eletto concede un’amnistia che scatena gli entusiasmi di tutti. Fra l’altro riconosce anche la libertà di stampa, precedendo Leopoldo II di Toscana e Carlo Alberto di Savoia.
    Massimo D’Azeglio e Marco Minghetti, nella loro cosiddetta Epistula ad Romanos proclamano: «Un tale uomo ha fatto più per l’Italia in due mesi, che non hanno fatto in venti anni tutti gli Italiani insieme». Pio IX chiama inoltre al governo dello Stato Pontificio un tecnico di fama europea, un politico liberale, Pellegrino Rossi (in passato perfino coinvolto in cospirazioni democratiche).
    Papa Mastai, come sovrano temporale, lavora assiduamente attorno al progetto di unità federale. Suo delegato alle trattative è Corboli-Bussi, ma egli conta soprattutto sul delegato piemontese, Antonio Rosmini, che aveva in animo di creare cardinale e — nel caso fosse stata realizzata la federazione — di chiamare ad alte cariche presso la Santa Sede. Intanto però a Torino cade il ministero Casati-Gioia-Ricci ed il nuovo governo non rinnova le credenziali a Rosmini. Già nel 1845 fra Carlo Alberto e Massimo D’Azeglio aveva cominciato a prender forma un progetto espansionistico che, in via preliminare, esigeva il naufragio dell’unica realistica via per l’unificazione d’Italia, quella federalista. A Roma gli eventi precipitano. Pellegrino Rossi viene assassinato da radicali estremisti, scoppia la rivoluzione, il papa deve fuggire.
    In pochi mesi si passa dalle acclamazioni per il papa «liberale» e sostenitore della causa italiana alla fuga dello stesso Pio IX da Roma. Com’è possibile? «La situazione precipita e si svolge in quattro tappe fatali: 10 febbraio Motu proprio “Benedite, Gran Dio, l’Italia”; 29 aprile Allocuzione Non semel contro la guerra all’Austria; 15 novembre uccisione di Pellegrino Rossi; 24 novembre fuga a Gaeta» (3).
    Già prima, i gruppi repubblicani e settari si erano inseriti nell’euforia popolare per il papa e avevano preso ad esaltarlo ipocritamente cercando di usarne l’immagine per i loro scopi e soprattutto cercando di trascinare la Santa Sede in una guerra contro l’Austria (4) che mai il papa avrebbe potuto fare (peraltro l’Austria aveva già minacciato uno scisma se si fosse trovata in guerra contro un esercito mandato dal papa). Il papa manifestava a Carlo Alberto la sua netta volontà di sottrarsi a questa strumentalizzazione politica: «Qui dagli esaltati si vuole assolutamente che io pronunci la parola — guerra — cosa che non debbo fare. […] Dico che il papa non fa la guerra a nessuno, ma nel tempo stesso non può impedire che il desiderio ardente della nazionalità italiana non spinga oltre i confini le truppe comandate dal general Durando. Dico infine che rinuncio francamente ai progetti seduttori dei repubblicani che vorrebbero fare dell’Italia una Repubblica sola con il papa alla testa. Dico di rinunciarvi perché dannosi immensamente all’Italia e perché la S. Sede non ha intenzione e non l’ebbe mai di dilatare i suoi temporali domini, ma quelli bensì del Regno di Gesù Cristo» (5).
    In questo documento Pio IX si spinge fino al limite estremo in cui era possibile spingersi ad un Successore di Pietro: la disponibilità a chiudere un occhio su ciò che le truppe dello Stato pontificio avessero eventualmente deciso autonomamente. Eppure si accusò Pio IX di tradimento, accollando a Roma il peso della sconfitta. Secondo Gramsci la responsabilità fu piuttosto del governo piemontese: «Essi furono di un’astuzia meschina, essi furono la causa del ritirarsi degli eserciti degli altri Stati italiani, napoletani e romani, per aver troppo presto mostrato di volere l’espansione piemontese e non una confederazione italiana» (6).
    Da questo momento in poi nasce la leggenda nera su Pio IX. Non solo la leggenda nera della storiografia liberale...
    «Più strano ancora, per me» osserva padre Guido Sommavilla sj «è che interpretino ormai in questo quadro l’Ottocento anche storici cattolici, monsignori e gesuiti oltre che laici (Jemolo, Jedin, Martina, Aubert), occupandosi di papi [...] e soprattutto di Pio IX (ritenuto) “papa santo, ma pessimo politico”».
    Il papa, dunque, avrebbe sbagliato a non cedere subito e su tutto «ai liberali che si comportavano a quel modo, pronti ad uccidere i migliori politici suoi amici (Pellegrino Rossi, Moreno, Leu) e saltargli addosso se non si arrendeva a discrezione (Repubblica romana) e a porre sotto sequestro i beni e le proprietà della Chiesa ovunque arrivavano al potere, ignominiosamente poi mercanteggiandoli?».
    E perché avrebbe dovuto cedere? «Proprio perché Pio IX era intelligente, capiva bene che in tutti quei sequestri (o regali eventualmente) erano i poveri a perderci: i poveri contadini... e i poveri semplicemente, ai quali, allora, soltanto la Chiesa pensava, anche con i redditi di quei benefici. Magari intuiva pure che quelle terre incamerate e vendute ci avrebbero rimesso in senso perfino ecologico, con l’insensato sfruttamento che Stato e borghesi ne avrebbero fatto, a cominciare dal patrimonio boschivo» (7). Nel marzo 1929 La Civiltà cattolica così rievoca le posizioni: «Cominciando da Pio IX, fino al più semplice prete di contado, l’unità italiana non era avversata da nessuno. Si potrebbe anche dimostrare perentoriamente che all’invito di Pio IX, nel 1848, per una lega italiana e per l’unione politica dell’Italia, chi si oppose fu il solo ministero piemontese. Il clero italiano, e ciò è da porsi fuori da ogni dubbio per chi non voglia negare la luce meridiana, non s’oppose all’unità, ma la voleva in modo diverso in quanto all’esecuzione. Questa era l’idea di Pio IX, dell’alta gerarchia, dei cardinali e dello stesso antico partito conservatore piemontese (Solaro della Margherita, nda)». 

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continua da sopra..........

Guerra di conquista

    Accade infatti che in Piemonte il potere passa dal gruppo del Solaro ai liberali di D’Azeglio, Cavour e Rattazzi. I Savoia chiamando al governo questa nuova classe dirigente intendono sfruttare l’aspirazione nazionale all’unità come foglia di fico di un progetto semplicemente espansionistico della corona. Poco importa se — come ha osservato Denis Mack Smith — «l’elastica maggioranza di Cavour includeva... diverse posizioni politiche», se Ricasoli e Spaventa erano «centralizzatori» e «decentralizzatori» erano invece Farini e Minghetti, se si opponevano «liberal conservatori, come D’Azeglio e Minghetti» e radicali di sinistra come Rattazzi. Nei fatti ciascuno collabora suo modo, al progetto della conquista. Anche se certo fu il Cavour la sua più coerente espressione politica.
    Ma chi è Camillo Benso conte di Cavour, che di lì a poco si rivelerà il grande architetto di tale «conquista piemontese»? Un talento politico senz’altro. Ma c’è chi aggiunge: «un radicale che nel suo nichilismo si arrestava soltanto alla proprietà terriera borghese» (8). Per Disraeli, Lord Cowley e Lord Acton — e si sa quanto l’Inghilterra abbia contato nella vita e nella politica del conte Camillo che non scese mai sotto Bologna — era «un politico totalmente privo di scrupoli». Antonio Gramsci dà un giudizio semplicemente politico: «I liberali di Cavour concepiscono l’unità come allargamento dello Stato piemontese e del patrimonio della dinastia, non come movimento nazionale dal basso, ma come conquista regia» (9).
    Fra le tante cose che sono normalmente passate sotto silenzio, nella manualistica scolastica sul Risorgimento, vi sono le fasi preliminari che rendono possibile questa strategia di conquista regia. Che lasciano interdetti. Per esempio: «Nessun cattolico, fedele alla Chiesa» scrive Ambrogio Eszer «riuscirà a capacitarsi perché il Regno di Sardegna abbia voluto iniziare la sua opera di unificazione nazionale con la soppressione dei monasteri contemplativi» (10).
    E nei confronti della Chiesa non si contentarono di queste prime soppressioni, né della sua spoliazione, della rapina di monasteri e abbazie, ne della conquista dei territori dello Stato Pontificio. È la stessa presenza del Santo Padre a Roma ad essere ideologicamente e militarmente attaccata da una dinastia che parlava francese e che a Roma mai aveva messo piede.
    Così il Regno sabaudo, poi Regno d’Italia, rifiutò pervicacemente ogni possibile accordo, ogni garanzia giuridica sulla libertà del papa. Un riconoscimento minimo di salvaguardia della sua libertà sarebbe bastato probabilmente al Santo Padre per acconsentire anche a rinunciare allo Stato Pontificio (11).
È pur vero che la storia non si fa con i «se». Tuttavia Pio IX aveva ampiamente dimostrato di esser disposto quasi a tutto per l’Italia. Ebbe a dire il segretario di Stato cardinal Antonelli all’ambasciatore austriaco Bach: «Se a Torino non avessero perseguito la Chiesa così appassionatamente, se non avessero ferito Pio IX nella sua coscienza di capo della Chiesa, Dio sa quanto non avrebbe concesso e dove oggi non ci troveremmo» (12). C’è un altro aneddoto che illustra bene l’amore all’Italia di questo pontefice. Un conte tedesco viene ricevuto in udienza dal papa ed esprime a Sua Santità il suo dispiacere per i movimenti politici che stavano attaccando lo Stato Pontificio e la Chiesa. Finita l’udienza, Pio IX sbotta a mezza voce, con i suoi collaboratori: «Questo bestione tedesco non capisce la grandezza e la bellezza dell’idea nazionale italiana» (13).
    Il 19 giugno 1871, quando già tutto è perduto, così Pio IX ricorda i primi gesti del suo pontificato: «Ma io benedissi allora l’Italia, come di nuovo la benedico adesso, la benedissi, e la benedirò» (14).
    Forse però una qualche risposta all’inquietante interrogativo di Eszer sul perché di questa persecuzione esiste. Per procedere all’impresa politico-militare che è stata immaginata a Torino, non basta concentrare gran parte del bilancio statale sulle spese militari, sarebbe necessario poter disporre di entrate equivalenti quasi a quelle di un altro Stato. Si comincia così a pensare di mettere le mani sull’immenso patrimonio (fondiario, immobiliare, finanziario) della Chiesa: un’operazione drammatica che oggi la storiografia ha completamente rimosso e che, secondo i cattolici, ha i caratteri di una vera e propria rapina di Stato assai simile a quanto realizzeranno, nel nostro secolo, i regimi totalitari.
    Lo Statuto, agli articoli 24 e 68, già crea le condizioni per una legislazione di attacco alla Chiesa in materia giudiziaria, civile ed economica. L’8 aprile 1850 si varano le leggi Siccardi che tolgono alla Chiesa unilateralmente diritti e prerogative. Per le sue proteste e la sua opposizione il vescovo di Torino, monsignor Giovanni Fransoni, viene arrestato. Poi vengono sequestrati i suoi beni e infine viene bandito dallo Stato (morirà in esilio a Lione). Egualmente arrestato e deportato, nel 1850, l’arcivescovo di Cagliari, monsignor Marangiu-Nurra. Il direttore del giornale cattolico L’Armonia per aver anch’egli criticato le nuove leggi subisce l’arresto e la condanna a quindici giorni di carcere. Ma tutto questo, come aveva immaginato Pio IX, era solo il preannuncio della tempesta. Sul finire del ‘52 al D’Azeglio succede il Cavour. Si vara il grande attacco alla Chiesa: la legge per la soppressione degli Ordini religiosi e l’incameramento dei loro beni (dalla cui vendita si mira a lucrare cinque milioni l’anno).
    «Si ebbero confische massicce di beni ecclesiastici, giacche Cavour era convinto che la “lebbra del monacismo” fosse un importante fattore di arretratezza economica» (15). Ovvero un limite alla proprietà borghese. Per il vecchio Solaro «questa legge sanziona un sacrilego latrocinio». Per il Cavour è l’autentica applicazione del motto «libera Chiesa in libero Stato». Il «latrocinio» era giustificato dal conte con le difficoltà economiche dello Stato che però, contemporaneamente, spendeva capitali (e vite di contadini) in una guerra — quella di Crimea — in cui gli italiani non c’entravano nulla. Il 29 maggio 1855, dunque, il re firma il decreto che sopprime agostiniani, certosini, benedettini cassinesi, cistercensi, olivetani, minimi, minori conventuali, osservanti, riformati cappuccini, oblati di Santa Maria, passionisti, domenicani, mercedarii, servi di Maria, padri dell’Oratorio, filippini, clarisse, cappuccine, canonichesse lateranensi, crocifisse benedettine, carmelitane, domenicane, francescane, battistine, celestine e turchine. Soppresse 331. case (4.540 religiosi cacciati fuori dalle loro case) e incamerate rendite per oltre due milioni dell’epoca. Un po’ meno del bottino sperato. Ma per quel che si era salvato era solo questione di tempo. Roma decretò la «scomunica maggiore» per tutti «gli autori, i fautori, gli esecutori della legge».
    C’è ovviamente un nesso fra «colpire i beni ecclesiastici e la necessità di far fronte a spese crescenti e ad eserciti più perfezionati» (16). E ciononostante al 1857 lo Stato sabaudo è gravato da debiti per 800 milioni. Il problema delle spese militari nei bilanci dello Stato sabaudo è un capitolo della storia del Risorgimento che, per quanto sottovalutato, risulta determinante e rivelatore: lo è nel determinare la decisione di uno scontro frontale contro la Chiesa, lo è nella scelta di trasformare il Regno delle Due Sicilie in una colonia da conquistare e saccheggiare, lo è per le condizioni sociali che sono costrette a subire le plebi contadine e operaie. Nelle discussioni al Senato sulle condizioni sanitarie del Paese (era la prima volta che ci si occupava del problema!), il 12 marzo 1873 il medico Carlo Maggiorani delineava questo quadro: «La tisi, la scrofola, la rachitide, tengono il campo più di prima; la pellagra va estendendo i suoi confini; la malaria co’ soi tristi effetti ammorba gran parte della penisola […]. La sifilide serpeggia indisciplinata fra i cittadini ed in ispecie fra le milizie». Per le malattie epidemiche «i contagi esotici (colera) han facile adito e attecchiscono facilmente: il vaiuolo rialza il capo; a difterite si allarga ogni giorno di più».
    Mentre le élites risorgimentali nel Palazzo mettono a punto i loro piani di conquista regia, dilapidando le pubbliche finanze nelle loro imprese militari, l’Italia perlopiù contadina e cattolica vive in condizioni subumane. Nel periodo 1861-1870 muoiono nel primo anno di vita 227 bambini per mille nati vivi. Il 45 per cento delle morti totali è di bambini inferiori a cinque anni, dovute spesso a infezioni prodotte dalle condizioni di vita e di lavoro delle madri. Lo Stato liberale che dilapida la metà delle finanze pubbliche nelle sue guerre (dette «d’indipendenza»), non si è mai occupato delle condizioni tragiche del popolo, che nelle campagne ha una speranza di vita media che si aggira sui quarant’anni.
    Il raffronto fra il bilancio della Difesa e quello per le spese sociali (sanità, occupazione, igiene e cultura) è spaventoso. «Dal 1830 al 1845 la quota delle spese militari non fu mai inferiore al 40 per cento della spesa statale complessiva. Con la prima guerra d’indipendenza l’incidenza delle spese militari su quelle totali raggiunse nel 1848 e nel 1849 rispettivamente il 59,4 per cento e il 50,8 per cento. Nei cinque anni successivi tale voce di spesa non superò mai il 27 per cento e solo in relazione alla spedizione d’Oriente nel 1855 e 1856 raggiunse rispettivamente il 36 per cento e il 38,6 per cento. Con la guerra del 1850 e 1860 l’incidenza delle spese militari raggiunse rispettivamente il 55,5 per cento e il 61,6 per cento. A fronte di spese militari di tale rilevanza (finanziate soprattutto con gli espropri ecclesiastici, nda) le spese per gli affari economici e le opere pubbliche ebbero la massima incidenza nel 1847 col 30,9 per cento e la minima nel 1831 col 2,9 per cento, mentre per l’assistenza sociale, l’igiene e la sanità, la pubblica istruzione e le belle arti, raramente nell’insieme si destinò annualmente più del 2 per cento della spesa totale» (17).
    Ma torniamo dunque al 1857. È anno di elezioni. Vota un’infima minoranza della popolazione, attorno all’1 per cento. Eppure i deputati cattolici raddoppiano di numero (da 30 a 60): quelli che avevano sostenuto le leggi contro la Chiesa in molti casi vengono sonoramente sconfitti. Così il Governo, con una curiosa concezione della democrazia, annulla molte elezioni con il pretesto che il clero si era immischiato nel voto. Nel 1860 lo Stato sabaudo cede alla Francia Nizza e la Savoia (una decisione mostruosa: Nizza era la città di Garibaldi). Un mercimonio di terre e popoli per convincere Napoleone III a dare il suo placet all’annessione che di lì a poco il Piemonte avrebbe fatto delle terre dello Stato Pontificio dove nessuno lo aveva chiamato. La guerra di conquista del Piemonte si allarga poi al Regno del Sud, un regno più antico, più prospero e più italiano di quello savoiardo: prima con la spedizione dei Mille, finanziata da potenze straniere e riuscita più che per eroismo come si è creduto a lungo, grazie a una torbida trama di corruzioni, imbrogli e violenze in cui inglesi e piemontesi fecero a gara. Quindi con l’instaurazione di un regime dittatoriale al Sud.
    Vale la pena soffermarsi su un aspetto non secondario. Armando Corona, Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, dichiarava a un importante convegno storico: «Garibaldi ebbe sempre un nume tutelare: la Gran Bretagna. Più esattamente, la Massoneria inglese» (18).
    Quel feeling si sostanziò anche, come ha rivelato di recente Giulio Di Vita, grazie a sue ricerche in archivi di Edimburgo, in un «versamento» a Garibaldi di una cifra enorme per la conquista del Regno delle Due Sicilie: «tre milioni di franchi francesi, in piastre d’oro turche» che equivale a «molti milioni di dollari di oggi». L’esistenza di una cassa segreta della Spedizione è dunque confermata. In quali tasche finirono questi miliardi è cosa rimasta misteriosa in quanto i libri contabili e il contabile della spedizione finirono in fondo al Tirreno con il piroscafo Ercole, affondato, a quanto pare, secondo le più recenti ricerche, a causa di un misterioso sabotaggio.
    Una parte dei soldi, tuttavia, finì senz’altro nelle tasche dei traditori di Francesco. «È incontrovertibile che la marcia davvero trionfale delle legioni garibaldine, dalla Conca di Palermo al Vesuvio, venne immensamente agevolata dalla conversione subitanea di potenti dignitari borbonici dal Sanfedismo alla democrazia liberale. Non è assurdo pensare che questa vera illuminazione pentecostale sia stata, almeno in parte, catalizzata dall’oro» (19). Scopriamo così che l’Italia (risorgimentale) nacque e fu fatta sulla «mazzetta». Per la verità i più obbiettivi fra gli storici avevano già da tempo avanzato dubbi su quel migliaio di uomini, male armati e spesso un po’ goliardici, di fronte ai quali era crollato un regno di centomila chilometri quadrati con un esercito di centomila uomini. È stato osservato che mille volontari non bastano nemmeno per presidiare una provincia, come potevano tenere sotto controllo tutto quel Regno? Adesso Di Vita, fonte indiscutibile, ci tiene a confermare: che la presunta marcia trionfale di Garibaldi aveva dietro i maneggi della prima potenza imperiale del mondo, con il suo enorme peso finanziario, militare e spionistico.
    È davvero curioso osservare che l’episodio più celebrato del Risorgimento, l’unico che aveva potuto rivendicare i caratteri di epopea popolare, risulta, alla prova dei fatti storici, poco più che un paravento per un atto di arbitrio e di violenza del tutto contrario ai principi basilari del diritto internazionale: un colpo di stato sabaudo-inglese al sud Italia che abbatte re Francesco, il re legittimo, e insedia una monarchia straniera. Le motivazioni che spinsero l’Inghilterra in questa avventura sono ben sintetizzate da Di Vita: «La prima, colpire il Papato nel suo centro temporale, cioè l’Italia, agevolando la formazione di uno Stato laico. La seconda, creare, con un nuovo Stato unitario dalle Alpi alla Sicilia, una forte Opposizione alla Francia, che non avrebbe così potuto impedire l’aprirsi dei piani imperiali britannici sul’Africa e sul Medio Oriente, il Mediterraneo e la via alle Indie» (20). In buona sostanza è la conferma dell’acuta osservazione del filosofo Augusto Del Noce per il quale «il Risorgimento italiano non è stato in realtà che un capitolo della storia dell’imperialismo britannico» (21).
    Questo spiega perché, fin dall’inizio, il popolo meridionale non acclamò affatto i «liberatori». Quella non fu solo una conquista coloniale, si risolse anche in un genocidio. Mentre la borghesia e l’aristocrazia del Gattopardo stava velocemente salendo su carro del vincitore, il sud contadino si ribellò ai conquistatori e proseguì la sua lotta malamente armato anche dopo la capitolazione del suo re nel 1860.
    L’esercito piemontese che si riteneva l’esercito «liberatore» dovette schierare nel Meridione centoventimila uomini. È una storia sanguinaria troppo velocemente rimossa. Il genocidio del sud, da solo, fece più vittime di tutte le cosiddette «guerre d’indipendenza» assommate, ed era tutto sangue di ita1iani: «Vi furono battaglie, stragi, assedi, ma soprattutto si fucilò, a torto o a ragione, per mille cause diverse, senza null’altro che un sospetto vago, uomini, donne, vecchi, bambini persino» (22).
    In tutto 5.212 partigiani dell’indipendenza, quelli che gli invasori — sui loro libri di storia — chiamarono «briganti», furono fucilati o ammazzati in combattimento, altri cinquemila furono arrestati. In totale si contarono ventimila vittime di quella «liberazione», o secondo altri, di quel genocidio che umiliò e calpesto la dignità e l’identità di quel popolo. E lo affamò: da allora comincia il triste dissanguamento dell’emigrazione (centoventitremila persone l’anno, quattordici milioni di esuli dal 1876 al 191) che produce sottosviluppo nelle terre abbandonate.
    Scrisse lo storico filoborbonico Giacinto De Sivo: «Ell’è una trista ironia lo appellar risorgimento questo subissamento del bel paese. Briganti noi combattenti in casa nostra, difendendo i tetti paterni; e galantuomini voi venuti qui a depredar l’altrui?» (23). Fu una guerra civile feroce i cui effetti si fanno sentire ancora ai giorni nostri, se è vero com’è vero che il Meridione non si è più risollevato dalla sua condizione di arretratezza e subordinazione e da piaghe come la mafia. E se è vero che il fenomeno politico di questo scorcio di secolo, in Italia, si è coagulato proprio attorno alla critica allo Stato centralista e ad un progetto di stato federale che si richiama esplicitamente a Cattaneo (24). Si trattô insomma di una forzatura. Come scrisse Gramsci «un’Italia come quella che si è formata nel 1870 non era mai esistita e non poteva esistere».
    Il pugno di ferro imposto al Sud inoltre vide spesso esecutori con qualche tendenza criminale che mai furono messi sotto accusa o sotto inchiesta. Solo il grido della Chiesa si alzò a denunciare quelle violenze. Già nel 1861, il 30 settembre, Pio IX nell’allocuzione al Concistoro segreto afferma: «Inorridisce davvero e rifugge l’animo per il dolore, né può senza fremito rammentarsi molti villaggi del Regno di Napoli incendiati e spianati al suolo e innumerevoli sacerdoti, e religiosi, e cittadini d’ogni condizione, età e sesso e finanche gli stessi infermi, indegnamente oltraggiati e, senza neppur dirne la ragione, incarcerati e, nel più barbaro dei modi, uccisi. Queste cose si fanno da coloro che non arrossiscono di asserire con estrema impudenza... voler essi restituire il senso morale all’Italia».
    Ma non andò forse, il nuovo Regno, a portare la buona amministrazione subalpina in plaghe desolate e pessimamente amministrate, come vuole la manualistica corrente?

Paese illegale e Paese reale

    Mentre il Regno dei Savoia, come abbiamo visto, concentra la sua politica perlopiù nelle spese per armamenti, in modo da essere la Prussia della penisola, il Regno di Napoli, prima col re Ferdinando, poi col giovane Francesco — malgrado le infamie interessate diffuse in tutta Europa dagli agenti inglesi — appare molto meglio amministrato. Troviamo qui le tasse più lievi d’Europa, le bellissime scogliere meridionali sono protette dalla prima flotta italiana. Il Regno ha un debito pubblico che è un quarto di quello piemontese: appena cinquecento milioni per nove milioni di abitanti contro i mille milioni del Piemonte per quattro milioni di abitanti.
    Lo Stato piemontese, che rischia di passare per il vero stato «borbonico» (25), specialmente per la sua elefantiaca burocrazia ereditata dal sistema francese, secondo gli storici di parte meridionale — ben poco letti — saccheggerà le casse e le ricchezze del meridione per far pagare a questa sua colonia i suoi propri debiti. Ne faranno le spese soprattutto le plebi contadine: «La condizione dei contadini meridionali era stata, nel periodo precedente l’unità» osserva lo studioso marxista Nicola Zitara «migliore e non peggiore che dopo» (26).
    Napoli del resto era un’autentica capitale europea. Per uomini d’ingegno come Leopardi e per i «viaggiatori intellettuali» dell’Ottocento Napoli è una tappa obbligata Mentre nessuno si sarebbe mai sognato di «pellegrinare» a Torino (con l’eccezione di Nietzsche che con la sua latente follia se ne innamorò). Ma di colpo questa «capitale europea» diventa una prefettura di Torino: comincia la sua decadenza. In pratica un parlamento — quello sabaudo — eletto da una ristretta minoranza di ottimati, poco più di centomila persone (e con gravi vizi di regolarità come si è visto nel 1857) decretava l’annessione di una penisola di ventiquattro milioni di abitanti, perlopiù contadini e cattolici, senza voce e senza diritti (i plebisciti che furono organizzati per salvare la faccia non furono precisamente un esempio di legalità).
    Il giovane re Francesco, assediato a Gaeta, scriveva un amaro addio al suo popolo: «In luogo delle libere istituzioni che vi avevo date e che desideravo sviluppare, avete avuto la dittatura più sfrenata e la legge marziale sostituisce ora la costituzione. Sotto i colpi dei vostri dominatori sparisce l’antica monarchia di Ruggero e di Carlo III, e le Due Sicilie sono state dichiarate province d’un Regno lontano. Napoli e Palermo saranno governate da prefetti venuti da Tonino» (27). Proprio durante gli ultimi combattimenti con l’esercito di Francesco II i generali sabaudi si macchiarono di crimini vergognosi. Don Giuseppe Buttà, storico borbonico, per esempio, riconosce a Garibaldi una dignità morale che altri non ebbero. Solo Garibaldi volle andarsene da Capua per non assistere ed esser complice dell’indegno bombardamento del Cialdini mirante non a danneggiare l’esercito nemico, che infatti non ne risentì, ma a fare strage fra la popolazione civile: «Bisogna pur dirlo, Garibaldi non scese mai a simili triviali ricordi» (28).
    Mentre il Cavour — come c’informa uno storico di parte sabauda — «approvò ed elogiò l’opera del Cialdini» (29), Il mirabile esempio di eroismo del Cialdini consisteva nel massacro di vecchi, donne e bambini perpetrato in risposta alla richiesta di Francesco II di intavolare trattative («il cannone non guasta mai gli affari» aveva risposto questo «liberatore»).
    Il 27 gennaio 1861 furono programmate in tutto il neonato Regno d’Italia le elezioni che avrebbero dovuto sanzionare il fatto compiuto. Elezioni riservate a pochissimi e con una pesante interferenza dello Stato a favore dei governativi. La democrazia era ancora di là da venire. Del resto i cattolici erano già rimasti scottati da ciò che era avvenuto nel ‘57: decisero di essere «né eletti, né elettori». Obiezione di coscienza. Gli aventi diritto al voto erano appena 418.850 (una infima minoranza) eppure anche fra costoro la campagna astensionistica dei cattolici ebbe gran successo: votò solo i 57,2 per cento, in tutto 239.853 elettori. L’illegalità sostanziale del sistema liberale sta tutto in una cifra: gli aventi diritto: al voto al tempo dell’Unità, erano appena l’1,29 per cento della popolazione. Nel 1874 erano «cresciuti» fino al 2,1 per cento. Ogni commento è superfluo.
    Nel febbraio ‘61 furono assunte dal governo una serie di decisioni contro la Chiesa. Fra l’altro fu estesa a tutto il territorio italiano la legge sarda del 29 maggio 1855 sulla soppressione degli ordini religiosi. Ventimila fra monaci e monache furono colpiti dalla legge, al Sud furono confiscati i beni di 1.100 conventi. L’economia locale ne fu duramente provata, anche per questo si scatenò una reazione popolare imprevista. Puntualmente repressa nel sangue.
    L’amministrazione piemontese, sull’orlo della bancarotta (nel ‘61 il 40 per cento del debito pubblico è dovuto ancora agli armamenti) si abbatte sul Meridione come un flagello. Tasse da strozzinaggio, ruberie, espropri dei terreni civici ed ecclesiastici, salveranno il Piemonte, ma condanneranno per sempre il Sud. Secondo il Nitti una cifra assai superiore a 600 milioni del tempo venne alienata per riacquistare le terre del demanio ecclesiastico e statale espropriate. Un dissanguamento finanziario che — con l’unificazione del mercato — lascerà il Sud totalmente a secco di capitali. Una rapina colossale. Che porta alla violenta proletarizzazione dei contadini (30).
    Basterà un solo esempio della vergognosa ripartizione della spesa per opere pubbliche per dimostrare lo statuto «coloniale» che fu imposto al meridione: dal 1862 al 1897 lo Stato spenderà 458 milioni per bonifiche idrauliche. Al Nord e al Centro andranno 455 milioni, 3 al Sud.
    Il sistema produttivo meridionale è demolito. Per esempio, subito dopo la conquista, dalle casse del Regno delle Due Sicilie 80 milioni prendono il volo per Torino: ne torneranno solo 39. «Prima del 1860» scriveva il Nitti «era (al Sud) la più grande ricchezza che in quasi tutte le regioni del Nord» (31).
Intanto, dall’autunno del ‘60 proseguono gli arresti e le deportazioni di vescovi e cardinali macchiatisi semplicemente di reati di opinione. Dal ‘60 al ‘64 nove cardinali sono arrestati e processati: il cardinale Corsi, arcivescovo di Pisa, il cardinal Baluffi, il cardinale De Angelis di Fermo, Carafa di Benevento, Riario-Sforza di Napoli, Vannicelli, Antonucci, Luigi Monichini di Jesi e Gioacchino Pecci di Perugia (il futuro Leone XIII).
    Nella primavera del 1861 sono quarantanove le diocesi rimaste senza vescovo. Seminari e monasteri chiusi, beni espropriati: la Chiesa è allo stremo. In questa situazione, il potere ieri e oggi gli storici rimproverano a Pio IX di non aver voluto cedere sua sponte Roma ai piemontesi quasi aggrappandosi con tutte le forze al potere temporale. In sostanza si sarebbe dovuto fidare della parola del governo sabaudo che s’impegnava a garantire la libertà e l’indipendenza della sua persona e del suo magistero. Ma l’obiezione che arriva dai documenti vaticani è grave. Un governo che non aveva esitato a stracciare patti, ad aggredire, violentare, rapinare in ogni modo, chiudere conventi, seminari, arrestare e deportare cardinali e vescovi, poteva pretendere la fiducia cieca del papa?
    Non era forse gravissimo che uno stato incarcerasse decine di vescovi e cardinali? E poi per motivi che hanno dell’incredibile. Bastava che un vescovo si rifiutasse di cantare il Te Deum in Chiesa per il governo (è il caso del cardinal Corsi).
    Qual è la risposta di parte governativa? «Quello» ha commentato anni fa il laico Vittorio Gorresio «fu l’esempio più notevole che si trovi nella nostra storia del tentativo di far prevalere la concezione della sovranità dello Stato laico contro la ben radicata tradizione confessionale» (32). Dunque la pura e dura ragion di stato, la forza per la forza.
    Le sedi episcopali, inoltre, rimasero a lungo vacanti perché il governo pretendeva di aver parte nella scelta dei vescovi. Sarebbe questa l’illustrazione del tanto declamato principio «libera Chiesa in libero Stato»? Certo, i cattolici erano ancora la stragrande maggioranza della popolazione. Lo Stato temeva il suo stesso popolo, su cui regnava e che non rappresentava in nessun modo. I cattolici organizzarono forme di difesa dei loro diritti civili. Ci provarono. Nel 1865, per esempio, fondarono l’Associazione per la libertà della Chiesa, ma verrà chiusa di forza appena un anno dopo: «La legge dei sospetti» riferisce Spadolini «la colpiva alle radici, disperdendo capi e seguaci, distruggendo sezioni e affiliazioni, obbligandola a dissimularsi e a scomparire» (33). Innumerevoli sono, in questi anni, le violenze, i soprusi, le censure, le persecuzioni. I rapporti giuridici che il nuovo Stato italiano volle stabilire con la Chiesa furono definiti (e lo rimasero fino al 1929) dal Codice di diritto civile (2 aprile 1865), dalla legge Ferraris, «per la soppressione di enti ecclesiastici e la liquidazione dell’asse ecclesiastico» del 15 agosto 1867 e dalla legge delle Guarentigie del 1871.

Il sacco di Roma

    La legge Ferraris toglieva personalità giuridica agli ordini religiosi sopravvissuti e incamerava un terzo dell’asse ecclesiastico immobiliare (attorno ai seicento milioni del tempo). La legge andò a colpire e sopprimere circa venticinquemila enti ecclesiastici. Migliaia di religiosi si trovarono da un giorno all’altro strappati ala loro vita e ai loro conventi. Questo nuovo «esproprio» era destinato a finanziare la guerra intrapresa nel 1866 contro l’Austria. Nel triennio 1866-1868, grazie anche alle avventure belliche, il disavanzo dello Stato tocca i seicentotrenta milioni. Il Governo lo affronta appunto con la tassa straordinaria sull’asse ecclesiastico e con la famigerata tassa sul macinato.
    Le masse popolari insorgono nelle piazze contro questi provvedimenti al grido di «Viva il Papa» e «Viva la Repubblica» (34). Ma la drammatica protesta delle plebi, indice di condizioni sociali tremende, è accolta dal Governo con le forze armate: più di 250 morti e un migliaio di feriti dicono l’assoluta insensibilità dei «liberatori» d’Italia di fronte alle tremende condizioni di vita del popolo.
    Proprio dal ‘69 — la tassa sul macinato entrava in vigore il 10 gennaio 1869 — la Destra storica prende saldamente in mano il Governo con l’obiettivo prioritario del pareggio di bilancio e dell’organizzazione amministrativa dello Stato unitario. Tanto è stato decantato il rigore finanziario di questi Grandi Borghesi, non dicendo tuttavia di che lacrime grondi e di che sangue... È curioso, peraltro, che si sia voluto caricare di tanti significati il conseguimento del pareggio di bilancio da parte della Destra storica quando lo Stato Pontificio — su cui tante infamie sono state propalate — raggiunse il pareggio nel 1859 (vent’anni prima dei Grandi Borghesi) e senza affamare così il popolo, né lasciare sulle strade centinaia di morti ammazzati o espropriare chicchessia dei suoi beni (gli storici più seri, fra l’altro, oggi stanno riscoprendo il buongoverno che caratterizzò lo Stato pontificio fino alla sua violenta soppressione. Eccone qualche elemento contemporaneo al raggiunto pareggio di bilancio: la costruzione di linee telegrafiche, della ferrovia Roma-Frascati nel ‘56, il basso numero di detenuti, il traffico fluviale sul Tevere, la laicizzazione dell’amministrazione, una città fra le più «verdi» d’Europa di cui sarà fatto scempio poi con l’arrivo dei piemontesi. Pio IX volle che fosse proclamata perfino la libertà dell’associazionismo operaio).
    Ma torniamo al nuovo stato italiano. Proprio mentre venivano varati i due provvedimenti suddetti, nell’estate del 1868, il governo decretò pure la privatizzazione nel settore della fabbricazione dei tabacchi: un affare colossale, che «rafforzô i legami fra lo Stato italiano e i capitalismo bancario e affaristico proprio nel momento in cui si faceva più pesante la pressione fiscale dello Stato sulle masse popolari». Che giudizio dare dunque di questa classe dirigente? Eugenio Scalfari l’ha definita «il partito degli onesti e dei lungimiranti». Una formula che fa a pugni con la congerie di scandali, traffici e rapine in cui subito la nuova classe dirigente si trovò impantanata. «La Destra storica italiana» aggiunge Scalfari «quella dei Minghetti, degli Spaventa e dei Ricasoli, creò lo Stato unitario con uno sforzo politico e morale che durô vent’anni». Più realistico il giudizio di Gramsci: «quella banda di avventurieri senza coscienza e senza pudore, che, dopo aver fatto l’Italia, l’hanno divorata» (36) Ma il 1870 è soprattutto l’anno della questione romana. La situazione internazionale favorevole scattò nell’estate del 1870. Il 20 settembre i piemontesi entravano in Roma dalla celebre breccia di Porta Pia. Il Papa ordinando di non resistere volle evitare inutili spargimenti di sangue. Ai primi di ottobre l’ennesimo plebiscito doveva sancire l’approvazione del fatto compiuto da parte dei romani. Invece vi fu un altissimo astensionismo, ad esprimere ben altro stato d’animo dei romani. Ma, naturalmente, nei giornali del tempo e nei libri di storia di oggi non se ne fece e non se ne fa menzione.
    La conquista di Roma, nei mesi successivi si risolse in una continua violenta cagnara di squadracce. Più o meno con la connivenza o la passività del governo. Minacce, aggressioni per strada a preti e frati (vi furono degli uccisi), spettacoli propagandistici blasfemi, profanazioni, saccheggi. E poi intimidazioni e pugno di ferro contro le associazioni e i sodalizi cattolici. «La violenza, l’ingiustizia, la forza» ebbe a dichiarare Pio IX il 16 febbraio 1871 ai parroci, dal suo domicilio coatto «rotte le mura, penetrarono nel Luogo Santo, e si fecero precedere da una nube fosca, nera ed orrenda di sicarii, di assassini, d’uomini irreligiosi, spudorati e sozzi. Tutto fu qui da pochi mesi cambiato!». Una volta presa Roma, il governo vara la cosiddetta legge «delle Guarentigie» (13 maggio 1871, n. 214). Formalmente con ciò si diceva di voler dare alcune garanzie di libertà al papa.
    In realtà la legge intendeva costringere il Santo Padre a riconoscere il fatto compiuto e soprattutto imponeva l’exequatur per la destinazione dei beni della Chiesa e dei benefici. Cosa significava? «Lo Stato conserva il diritto di nomina degli ordinari delle numerose sedi vescovili» (quelle sotto il patrocinio dei sovrani) e «ha facoltà di impedire a tutti i vescovi di prendere possesso delle provviste beneficiarie delle loro sedi fino all’approvazione regia della loro nomina». (37). Il Papa reagisce con una dura opposizione: «Rifiuta la dotazione assegnatagli e si affida all’obolo di san Pietro, costituito dalle offerte volontarie dei cattolici di tutto il mondo» (38).
    D’altronde, a svelare quali sono le autentiche intenzioni del Governo basta il provvedimento del gennaio 1873 che sopprime le facoltà di teologia di tutte le università e pone i seminari sotto il controllo dello Stato. Non si tratta di provvedimenti episodici dettati da mero anticlericalismo.
    Pasquale Stanislao Mancini, una delle menti giuridiche del nuovo regime, formula esplicitamente la filosofia del nuovo potere: «Nello Stato non può esistere che un unico potere, quello della nazionale sovranità, e quindi una sola legge ed una sola universale illimitata giurisdizione» (39).
Nel Sillabo — il documento di Pio IX, allegato all’enciclica Quanta cura, molto diffamato e assai poco conosciuto — la proposizione 39 condanna proprio «lo Stato in quanto origine e fonte di tutti i diritti, che gode di un diritto non circoscritto da alcun limite». Pio IX denuncia questa aberrazione giuridica non solo contro la dottrina dello «Stato etico» elaborata dagli ideologi dello stato risorgimentale, ma probabilmente vedendo profilarsi all’orizzonte anche i micidiali mostri totalitari del Novecento, quando lo Stato eserciterà questo totale diritto di arbitrio sulle persone (e non a caso Giovanni Gentile teorizzerà il fascismo come il perfetto compimento della filosofia dello Stato etico elaborato da Bertrando e Silvio Spaventa e da tutta la filosofia politica del Risorgimento).
    Monsignor Luigi Giussani scrive ai giorni nostri: «Al nostro fianco vivono generazioni mute, che non possono dire se stesse: è questo l’esito del’azione omologante e pianificante del Potere, di un Potere che si concepisce senza confini. “Lo Stato in quanto origine e fonte di tutti i diritti, gode del privilegio di un diritto senza confini”. Questa proposizione (XXXIX) condannata dal Sillabo — il “famigerato” documento della Chiesa, famigerato per la cultura dominante — è la definizione dello Stato moderno: di tutti gli stati moderni, di qualunque specie. È questo l’esito dell’illuminismo, cioè dell’uomo che diviene “misura delle cose”. La condanna del Sillabo non è formulata per demonizzare lo stato in sé — il potere in sé non è una cosa cattiva — ma per smascherare e accusare la pretesa dello Stato moderno. Perché se “lo Stato gode di un diritto senza confini” avrà anche il diritto di determinare quanti figli devo avere e come debbano essere; e potrà anche stabilire fino a quando io posso vivere e che cosa significa essere felici» (40).
    Insomma, di fronte alle ombre tremende del XX secolo quel pronunciamento di Pio IX appare profetico. Così «Pio IX» nota propriamente Emile Poulat «che era in ritardo sul suo tempo, diventa un profeta per i nostro» (41). Tornando a quel doloroso frangente della vita della Chiesa, attorno al 1864 circa 43 erano i vescovi esiliati, 16 gli espulsi, una ventina processati e incarcerati mentre — secondo i cattolici — circa 16 pare siano morti per le conseguenze delle persecuzioni. Centinaia sono i preti che hanno avuto problemi con la giustizia, 64 sono i sacerdoti fucilati e 22 i frati (perlopiù al Meridione).
    Dodicimila i religiosi dispersi per le note leggi. Dopo la presa di Roma, 89 sono le sedi episcopali vacanti. I pastori nominati dal papa non hanno possibilità di prender possesso delle loro chiese perché lo stato non ho permette: esige la più umiliante sottomissione della Chiesa.
    Molte delle speranze di Pio IX sono riposte nel genio politico di un grande santo di questi anni: don Giovanni Bosco. È lui che tenta, a costo di immense fatiche, di umilianti trattative e di tradimenti, di raggiungere un ragionevole compromesso con il Governo. In questo frangente, in cui la Chiesa sembra dividersi fra i traditori, corsi sul carro del vincitore a dare man forte al Governo, e gli intransigenti che oppongono ala dura realtà una sterile e dottrinaria intangibilità dei principi, mettendosi così nelle condizioni di far perdere tutto alla Chiesa, don Bosco rappresenta il meglio del realismo cattolico. Don Bosco si rifiuta di vendere l’anima al nemico, ma anche di rassegnarsi a capitolare senz’altro poter fare che lamentarsi. Don Giovanni Bosco di fronte alle difficoltà della presenza pubblica dei cattolici al tempo dei governi liberal-massonici postunitari, stanco dei troppi piagnistei cattolici, dice nel 1877: «Nessuno è che non veda le cattive condizioni in cui versa la Chiesa e la religione in questi tempi. Io credo che da san Pietro sino a noi non ci siano mai stati tempi così difficili. L’arte è raffinata e i mezzi sono immensi. Nemmeno le persecuzioni di Giuliano l’Apostata erano così ipocrite e dannose. E con questo? E con questo noi cercheremo in tutte le cose la legalità. Se ci vengono imposte taglie, le pagheremo; se non si ammettono più le proprietà collettive, noi le terremo individuali; se richiedono esami, questi si subiscano; se patenti o diplomi, si farà il possibile per ottenerli; e così s’andrà avanti . Bisogna avere pazienza, saper sopportare e invece di riempirci l’aria di lamenti piagnucolosi, lavorare perché le cose procedano avanti bene».
    Nel 1873 la politica di appropriazione dei beni della Chiesa è estesa anche a Roma. Ancora una volta il governo straccia tranquillamente gli impegni precedentemente assunti. Appena il 12 settembre 1870, una settimana prima dell’invasione di Roma, il ministro della Giustizia Reali, con una circolare inviata all’episcopato italiano, a nome dello Stato si impegnava a non toccare gli ordini religiosi presenti a Roma. Identici impegni erano stati assunti con gli stati cattolici. Ma quello Stato e quel governo «degli onesti e dei lungimiranti» avevano già ampiamente dimostrato in che considerazione tenessero la parola data, gli accordi ufficiali sottoscritti, le più elementari norme del diritto.
Il provvedimento legislativo, accompagnato da violente manifestazioni anticattoliche e da una pesante campagna di stampa non comporta solo l’estensione a Roma, da parte del governo Lanza, della legge per la soppressione degli ordini religiosi. A Roma infatti ha un effetto ancor più dirompente perché in questa città si trovano le case generalizie di tutti gli Ordini religiosi presenti sulla terra.
    Per il solito Mancini gli ordini religiosi sono «inconciliabili con gli ordini liberi, coi bisogni civili ed economici del paese, con ho spirito della società moderna». Vengono dunque confiscati i beni delle corporazioni religiose. Quella borghesia, che era la base sociale del «partito degli onesti e dei lungimiranti», può adesso scatenare una speculazione di dimensioni eccezionali. In barba alla Chiesa che commina la scomunica a chiunque speculasse sui beni ad essa rapinati, vi è una vera corsa all’accaparramento di questo tesoro. Centinaia di poveri preti, frati e suore, nonostante le loro flebili proteste, nel giro di un mese vengono cacciati dalle loro case e dalle loro proprietà. E queste vengono date in pasto agli speculatori.
     «È meglio per noi il morire che vedere lo sterminio delle cose sante» scriverà il Santo Padre il 21 novembre 1873. Ma nemmeno la morte, nel 1878, placô l’odio forsennato contro Pio IX dal momento che i suoi funerali, quel 12 luglio, nonostante il dolore e la preghiera di centomila fedeli, furono funestati dall’aggressione, dalle urla, dalle sassate, dalle bastonature e gli insulti di squadracce che volevano impossessarsi della salma per gettarla nel Tevere e non facevano mistero delle loro intenzioni, gridando: «Le carogne nella chiavica!».
     Ma torniamo agli espropri romani. Lo scandalo — anche internazionale — per questi provvedimenti che minano lo stesso diritto all’esistenza della Chiesa cattolica è tale che il 12 novembre 1873 il ministro Sella informa la Santa Sede che, in base alla legge delle Guarentigie, sarebbero stati accreditati ala stessa tre milioni e duecentoventicinquemila lire. Pio IX perô non accetta mai questo (peraltro assai esiguo) indennizzo, ritenendolo il prezzo di un vergognoso e ben più cospicuo ladrocinio.


continua............

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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18/10/2010 19:06
 
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Un bilancio

    Dunque una Chiesa impaurita dalla modernità, reazionaria, refrattaria alla democrazia è quella che ci si presenta davanti in questi decenni? Sfogliare La Civiltà Cattolica di quegli anni può riservare tante sorprese. Nel 1879 (X, 385) l’autorevole rivista, ad esempio, esce con una sorprendente difesa del Manifesto lanciato da Garibaldi per una democrazia effettiva. Insomma i cattolici si trovano accanto proprio ai radical socialisti nel rivendicare il diritto al suffragio universale, la più rivoluzionaria delle frontiere politiche di quel tempo.
     Si fa un’analisi della situazione al 1876: su circa 30 di abitanti hanno diritto al voto solo 605.007 italiani. «Questi privilegiati« scrive La Civiltà Cattolica «erano 2,18 per cento italiani dei due sessi.
     Può darsi prova più evidente che gli elettori inscritti la rappresentano fra noi una minoranza al tutto minima?» Considerando poi i votanti effettivi (368.750) si arriva a fatica allo 0,94 per cento. Se si pensa che circa centomila di costoro «sono pagati dal governo e da lui in qualche modo dipendenti» (la classe politica del tempo esercitava un controllo ferreo su di loro) è venuto il momento, per la casta al potere di fare i conti «di buon grado o di malavoglia» osserva la rivista cattolica «cola potenza della democrazia».
     Nel 1881 dunque i cattolici, in prima linea nella battaglia per il suffragio universale e il riconoscimento dei diritti civili per «milioni di italiani poveri o analfabeti». Sidney Sonnino, davanti al Parlamento, il 30 marzo 1882, ammise. «La grandissima maggioranza della popolazione, più del 90 per cento di essa, si sente estranea affatto alle nostre istituzioni; si vede soggetta silo Stato e costretta a servirlo col sangue e coi denari, ma non sente di costituirne una parte viva ed e non prende interesse alcuno alla sua esistenza ed al suo svolgimento».
     A consuntivo di quella impresa chiamata «risorgimento» si può ricordare quanto Ferdinando Martini confessava in una lettera al Carducci il 16 ottobre 1894: «Abbiam voluto distruggere, e non abbiamo saputo nulla edificare» (42). Che non è davvero un gran bilancio per chi ostentava virtù muratorie» (43).

(1) Antonio Gramsci, Il Risorgimento, Einaudi, Torino 1954, p. 108.
(2) Gramsci, op. cit., pp. 108-109.
(3) Alberto Polverari, Vita di Pio IX, «Studi piani» (4), Roma 1986, p. 185.
(4) Lo stesso Mazzini, ad esempio, coglie l’occasione «per eccitare gli animi contro l’Austria e per alienarli dal potere temporale», in Giacomo Martina, Pio IX (1845-1850), Miscellanea historiae pontificiae, vol. 38, Roma 1974, p. 108.
(5) Cit. in Polverari, op. cit., pp. 195-196.
(6) Gramsci, op. cit., p. 90.
(7) Guido Sommavilla, La Compagnia di Gesù, Rizzoli, Milano 1984, p. 191.
(8) Francesco Cognasso, I Savoia, Dall’Oglio, Varese 1981, pp. 627-628.
(9) Gramsci, op. cit., pp. 45-46.
(10) Ambrogio Eszer, Pio IX dal 1851 al 1866, in «Studi cattolici», (marzo 1986) p. 208.
(11) Scrive Rober Aubert: «Infatti bisogna constatare che ai liberali di allora, persino ai moderati tra essi, l’incondizionata rinunzia a qualsiasi forma di potere temporale appariva come dogma assolutamente intangibile, ed una soluzione del tipo dei Patti Lateranensi del 1929, per loro, non sarebbe stata accettabile» (in Eszer, op. cit., p. 212).
(12) Vedi Giacomo Martina, Pio IX (1851-1866), Miscellanea historiae pontificiae, vol. 51, Roma 1986, p. 146 e n. 93.
(13) Vedi Eszer, op. cit., 208.
(14) Vedi Polverari, op. cit., p. 188.
(15) Denis Mack Smith, Cavour, Bompiani, Milano 1988, p. 273.
(16) Alberto Caracciolo, Stato e società civile (Problemi dell’unificazione italiana), Einaudi, Torino 1960, p. 19.
(17) In Anteo D’Angiò, La situazione finanziaria dal 1796 al 1870, in Storia d’Italia, De Agostini, Torino 1973, vol. VI, p. 241.
(18) A.A.VV., La liberazione d’Italia nell’opera della massoneria (Atti del convegno di Torino 24-25 settembre 1988, a cura di Aldo A. Mola), Bastogi, Foggia 1990, p. 307. Cfr. anche Rosario Romeo, Dal Piemonte sabaudo all’Italia liberale, Einaudi, Torino 1964, pp. 225-247.
(19) AA.Vv., La liberazione..., pp. 379-381.
(20) Ibid, p. 380.
(21) «Il Sabato», 19.6.1993.
(22) Carlo Alianello, La Conquista del Sud, Rusconi, Milano 1972, p. 133.
(23) Giacinto de Sivio, I Napolitani al cospetto delle nazioni civili, ed. Forni, Bologna 1965.
(24) Questi i due capisaldi positivi della Lega. Che, però, spesso si traducono in una deteriore ostilità verso il Meridione (e gli stranieri in genere).
(25) Cfr. Gramsci, op. cit., p. 171.
(26) L’unità d’Italia, Nascita di una colonia, Jaca Book, Milano 1976, p. 21.
(27) Cit. in Alianello, op. cit., pp. 98-101.
(28) Giuseppe Buttà, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta, Bompiani, Milano 1985.
(29) Cit. in Alianello, op. cit., p. 103.
(30) C’è chi lega proprio a questo fenomeno la nascita del fenomeno mafioso, che si impone come controstato nel momento in cui lo stato si presenta con un volto particolarmente odioso: il piombo della conquista coloniale. Cfr. G.C. Marina, Il Meridionalismo della Destra Storica e l’inchiesta parlamentare del 1867 su Palermo, Palermo 1971.
(31) Francesco S. Nitti, Scritti sulla questione meridionale, Laterza, Bari 1958, p. 7.
(32) Vittorio Gorresio, Risorgimento scomunicato, Bompiani, Milano 1977, p. 110.
(33) Giovanni Spadolini, L’opposizione cattolica (Da Porta Pia al ‘98), Vallecchi, Firenze 1961, p. 56.
(34) Giorgio Candeloro, Storia dell’Italia moderna (1860-1871), Feltrinelli, Milano 1978, vol. V, p. 351.
(35) Cfr. Candeloro, op. cit., p. 355.
(36) Gramsci, op. cit., p. 158.
(37) Lorenzo Frigiuele, La Sinistra e i cattolici (Pasquale Stanislao Mancini giurisdizionalista anticlericale), ed. Vita e Pensiero, Milano 1985, p. 11.
(38) Frigiuele, op. cit., pp. 111-112.
(39) Frigiuele, op. cit., p. 98.
(40) Luigi Giussani, Un avvenimento di vita, cioè una storia, ed. Il Sabato 1993, pp. 425 -426.
(41) Emile Poulat, Chiesa contro borghesia, Marietti, Casale Monferrato 1984, p. 76.
(42) Ferdinando Martini, Lettere, Roma 1934, p. 291.
(43) Per uno sguardo d’insieme sui cattolici e il risorgimento vedi anche Antonio Socci, La società dell’allegria. Il partito piemontese contro la Chiesa di don Bosco, Sugarco, Milano 1989.

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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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21/10/2010 23:43
 
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«In soli nove mesi, cifre ufficiali
(quindi false per difetto, visto quel che vanno rivelando i documenti dimenticati),
quasi novemila fucilati, poco meno di undicimila feriti, oltre seimila incarcerati,
quasi duecento preti, frati, donne e bambini uccisi. (…)

 L’ultimo “brigante” oppositore fu ucciso dodici anni dopo, in Calabria.
Intere popolazioni meridionali vennero sottoposte
a una spietata repressione militare, di cui si è persa ogni traccia,
perché la documentazione relativa è stata scientificamente distrutta,
ma che provocò –secondo calcoli attendibili- almeno centomila morti (…).

E’ stato stimato che a opporsi in armi furono dagli ottantamila ai centotrentacinquemila (…) e avevano l’appoggio palese della popolazione».

Cfr. Pino Aprile, Terroni. Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero Meridionali (Piemme, pp. 68-69).

(da Antidoti di Rino Cammilleri)
 



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25/10/2010 10:51
 
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IO NON CI STO, VOGLIO RACCONTARE TUTTI I MISFATTI DEL RISORGIMENTO


(23/10/2010) - Qualche giorno fa il presidente della repubblica Giorgio Napolitano, come gli capita spesso in questi mesi, fa discorsi con riferimenti espliciti al Risorgimento, non mancando di incensarlo in continuazione. Mi ha colpito una sua frase, dobbiamo liberare l'unità d'Italia dal revisionismo. Napolitano non poteva essere così esplicito e preciso. Mi sembra come quei cani da guardia che definiscono la 'storia patria' vigilano pronti a stroncare ogni tentativo 'revisionista'.

In questi mesi di preparazione ai festeggiamenti dei 150 anni dell'unità d'Italia mi sembra che anche in certi ambienti di centrodestra si raccomanda di non calcare troppo la mano contro i cosiddetti padri della patria vedi Cavour, Vittorio Emanuele, Garibaldi, Mazzini e soprattutto ci dicono che mettendo in discussione tutto il periodo risorgimentale si rischia di sfasciare tutto e di remare a favore delle contrapposizioni qualunquistiche, di un certo meridionalismo becero e rivendicazionista, e soprattutto di favorire la politica del secessionismo di matrice leghista.

Allora oggi noi che cosa possiamo fare dopo 150 anni? Cancellare l'unità d'Italia? Certamente no. E' stata fatta, ce la teniamo, detto questo però vogliamo raccontare la Verità: il come è stata fatta e soprattutto contro chi è stata fatta.

E' paradossale che proprio ora dopo la caduta del Muro di Berlino, e finalmente liberi da quegli schemi ideologici che ci hanno tenuti legati almeno per tutto il periodo della guerra fredda, proprio ora che il muro della leggenda risorgimentale comincia a presentare vistose crepe, anche se ancora permane purtroppo nei testi scolastici, ora che è possibile finalmente raccontare la Vera Storia del cosiddetto risorgimento, mi devo stare zitto o almeno soprassedere su quegli aspetti violenti che potrebbero cancellare l'oleografia creata ad arte dai cosiddetti storici di professione e che naturalmente ora non vogliono che si metta in discussione.

Ecco io a questo gioco non ci sto, quando posso cercherò sempre in tutti i modi di raccontare quello che so, che ho studiato, che mi hanno raccontato. La mia conoscenza dell'altra storia è iniziata negli anni della mia adolescenza, leggendo il bellissimo libro di Carlo Alianello, La Conquista del Sud, edito dalla coraggiosa casa editrice Rusconi di Milano. Dalla lettura di questo libro e poi di tanti altri, soprattutto quello di Patrick Keyes O' Clery, La Rivoluzione Italiana, edito in Italia per la prima volta da Ares di Milano, un corposo scritto di ben 780 pagine, l'autore irlandese l'ha scritto in due tempi nel 1875 e nel 1892. Una lettura utile obiettiva, che non riduce la Storia a un complotto, e se condanna il modo di unificazione dell'Italia da parte di una ristretta èlite liberale, lo fa sempre presentando le fonti risorgimentali, liberali. Come fa del resto anche la storica Angela Pellicciari, in particolare nel libro Risorgimento da riscrivere.

Ma oltre ai libri, non posso non ricordare la grande influenza che ha avuto su di me l'opera catechizzante di Alleanza Cattolica che oltre a essere un'agenzia volta a far conoscere il magistero sociale della Chiesa, lavora per fare un'opera di controstoria, soprattutto degli ultimi duecento anni.

Leggendo e ascoltando insigni storici ho scoperto con grande sorpresa che quello che mi avevano raccontato fin dalla scuola elementare spesso erano favole da refezione scolastica, come ha ben scritto Giovanni Cantoni nella prefazione al libro Rivoluzione e Controrivoluzione. Nessuno mi aveva mai raccontato la Verità sui fatti: che l'unità d'Italia è stata fatta per cancellare l'identità cattolica del popolo italiano, della Chiesa Cattolica. Che il Piemonte era uno strumento in mano alle lobby massoniche che lottavano per “unire”, “fare” gli italiani secondo i principi liberali e massonici.

Per fare questa unità culturale prima occorreva conquistare e annientare tutti i regni italiani, a cominciare da quello del Regno delle due Sicilie, uno stato millenario, che Vittorio Emanuele II, definito re 'galantuomo' ha aggredito senza nessuna giustificazione uno Stato sovrano, per giunta cercando di giustificarsi con la falsa teoria che i popoli meridionali hanno chiesto aiuto, il famigerato grido di dolore , tra l'altro mai levatosi. Gli inglesi approntarono una campagna diffamatoria, basata su calunnie diffuse in tutta Europa a danno dei Borboni e delle Due Sicilie, dipingendo gli uni come tiranni spietati e i loro sudditi come popoli semibarbari. Bisognava fare terra bruciata attorno al nemico.

Più avanti lo stesso Gladstone, primo ministro inglese, confessò di essersi inventato tutto. “Si doveva far passare il piano eversivo di pochi uomini senza scrupoli, prezzolati dallo straniero, quale spontanea rivolta popolare. Far passare per epiche battaglie delle pallide scaramucce che consentirono a una masnada male assortita di banditi, ladri ed ex galeotti, di impadronirsi di un magnifico regno quasi senza far uso delle armi se non nella fase finale della conquista. Tra l'altro tutto questo, sarebbe stato vano se i fedelissimi soldati delle Due Sicilie avessero avuto la possibilità di battersi contro questa ciurmaglia di miserabili scalzacani. In pratica la fantasmagorica passeggiata (di Garibaldi & Co) da Marsala a Napoli non sarebbe mai avvenuta”. (Bruno Lima, Due Sicilie 1860, l'invasione. Fede & Cultura).

Ecco io dovrei tacere tutte queste cose? Dovrei tacere che l'esercito piemontese, 120 mila uomini, hanno messo a ferro e a fuoco tutto il territorio meridionale, facendo rastrellamenti molto simile a quelli operati dai nazisti nel 43-45 in Italia, massacrando migliaia di italiani, definiti briganti. In pratica i popoli delle Due Sicilie vennero privati della loro libertà e soggiogati da un esercito straniero, derubati dei loro beni privati e pubblici. Conseguenza di tutto questo per sottrarsi a un destino senza speranza milioni di meridionali non ebbero altra scelta che abbandonare per sempre il loro paese.

Inoltre l'immenso tesoro del Regno che ammontava a 443,2 milioni di lire del tempo fu sperperato per sanare il devastante debito pubblico piemontese. L'accanimento nel saccheggio del Mezzogiorno - continua don Bruno - e lo sfruttamento incontrollato dei suoi abitanti produsse uno stato di miseria riconducibile storicamente solo alle depredazioni barbariche e a quelle dei pirati berberi. Ecco si dovrebbero tacere tutte queste cose. Impossibile, la verità tutta o niente, è l'unica carità concessa alla storia, scriveva uno scrittore francese. E’ vero: la “liberazione” del Sud è stata, né più né meno, una conquista.

E pure spietata. Scrive Pellicciari, soltanto che oggi il problema non è quello di contrapporre il Nord contro il Sud. Partire solo da questo costituisce, a mio modo di vedere, un’operazione riduttiva e miope. Non si può contrapporre, come fa Bernardo Bruno Guerri, tra i briganti (i meridionali) e gli italiani civili (i settentrionali). Piuttosto “la contrapposizione vera però non è tanto fra Nord e Sud, quanto fra illuminati (liberali sia settentrionali che meridionali) e cattolici (il 99% degli italiani). I liberali hanno tentato, in nome della libertà e della costituzione, di imporre agli italiani un cambiamento di identità. Hanno voluto che rinunciassimo alla nostra religione, alla nostra cultura, alla nostra arte e alla nostra organizzazione socio-economica”. (Angela Pellicciari, Povera Unità, 19.10.2010 Il Tempo).

La Pelliciari insiste l’unità d’Italia fatta contro la chiesa e cioè, conviene ripeterlo, contro gli italiani, è un dramma che a distanza di 150 anni non riesce a passare. E non passa perché lo si nega. Ora viene alla luce la realtà della conquista del Sud. Nessuno ricorda la violenza anticattolica ai danni di tutta l’Italia, di cui la violenza antimeridionale è diretta conseguenza.


DOMENICO BONVEGNA
domenicobonvegna@alice.it




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Breve riflessione mia.....


 Napolitano (attenzione non in qualità di Presidente della Repubblica) in quanto UOMO pensante e militante di una certa sinistra molto rossa....seppur ha abbandonato un certo fondamentalismo comunista, e a dar ragione al lupo che perde il pelo ma non il vizio, non può fare a meno che difendere il Risorgimento ROSSO-Garibaldino, altrimenti dopo la revisione dei carriarmati contro Praga....da lui applauditi, ed oggi revisionati appunto, gli verrebbe a mancare l'ultimo filo che lo mantiene in vita in quel suo ATEISMO che oggi, da Presidente della Repubblica, deve gioco forza mascherare...

Che il Risorgimento fu CONTRO  il Cattolicesimo e contro la Chiesa è lampante, basti pensare a questo:

se si insegna che il RISORGIMENTO VINSE, va da se che combattè contro UN NEMICO, ergo, chi era quel NEMICO? LA CHIESA CATTOLICA !!

Se a 150 anni si vuole ancora dimostrare la potenza di un Risorgimento VINCITORE, va da se che avanti a loro i giovani di oggi devono trovarvi UN NEMICO abbattutto dal Risorgimento...


Evitare di farsi la domanda: ma su cosa VINSE il Risorgimento?

significa solo voler continuare a trattare la Chiesa come NEMICA STORICA....mascherata oggi dal falso perbenismo del volemose bene, purchè se magna...in nome del CONFORMISMO e della politica corretta...in nome dell'ugulianza delle religioni e del sincretismo religioso....

come a dire, forse, ma non credo di essere lontana da questo, che senza il Risorgimento non ci sarebbe stata alcuna Italia....nascondendo e mistificando miseramente sulla storia che vedeva già nell'Italia del '300 una fioritura in Tosacana, Emilia Romagna, Triveneto, Sicilia, Campania, Basilicata, di una ITALIANITA' AUTENTICA senza per questo negare i tanti problemi legati alle storie del proprio ptempo...

Per "festeggiare" degnamente e lealmente il Risorgimento, caro Napolitano, occorre CONDANNARE CON REALISMO E SINCERITA' che da esso si sparsero i veleni contro la Chiesa Cattolica....

diversamente saremo all'ennesima pagliacciata tutta italiana con le sue maschere che già legavano la cultura popolare italiana:

- Arlecchino parlava veneziano ma non era nato a Venezia, aveva una maschera antica e lo conoscevano già i Latini e in Francia.

- Brighella , maschera tipica della città di Bergamo. Il suo lavoro è fare il servo; è furbo, intrigante e un attaccabrighe.

- Pantalone cittadino di Venezia e la cosa che ama di più è brontolare.

- Colombina che non sa esprimersi bene in italiano, ma parla bene il dialetto veneziano.
Lavora a Venezia con Rosaura e Pantalone che le ha fatto da padre e che la ha cresciuta come le sue colombette: da qui il nome Colombina.
Il suo innamorato è Arlecchino che le ha promesso di sposarla, ma ancora non lo ha fatto.

- Gianduia è la più importante maschera piemontese, nata nel 1798.
Gianduia è un galantuomo allegro, con buon senso e coraggio, che ama il buon vino e la buona tavola.

- Stenterello, maschera che è stata inventata da Luigi del Buono, un grande attore fiorentino. Da allora è divenuto famoso nei teatri, nei teatrini e nelle baracche di burattini di tutta la Toscana.

- Pulcinella...una maschera originaria di Napoli e di professione fa il servitore. Il suo nemo deriva da „polece“ (pulce); è un personaggio essenzialmente popolare.
Il suo carattere è impertinente, pazzerello, chiacchierone, furbo ed è la personificazione del dolce far niente. Pulcinella ha sempre fame e sete, il suo piatto preferito sono i maccheroni al sugo.

- Balanzone,  è la maschera tipica di Bologna. Balanzone parla latino, volgare, francese, spagnolo, tedesco, polacco, turco o abissino. Ha frequentato l‘università a Bologna, la sua città. Il dottor Balanzone ha sempre la bocca aperta.
Si chiama Balanzone per via della „balanza“, cioè la bilancia, che è il simbolo della giustizia che regna e trionfa nei tribunali.





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02/12/2010 20:06
 
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Il cardinale presidente della Conferenza episcopale italiana al decimo forum del Progetto culturale

I cattolici
soci fondatori dell'Italia


Dal 2 al 4 dicembre si svolge a Roma il decimo forum del Progetto culturale promosso dalla Chiesa italiana sul tema "Nei 150 dell'Unità d'Italia. Tradizione e progetto". L'incontro è stato aperto dal cardinale arcivescovo di Genova, presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei), con l'intervento che pubblichiamo integralmente.


di Angelo Bagnasco

Sono lieto di prendere parte al forum del Progetto culturale della Chiesa italiana, giunto ormai alla sua decima edizione. Dal 1997 a oggi si è così prodotta una cospicua riflessione che ha preso in esame i nodi culturali e le sfide emergenti nel nostro Paese, cercando ogni volta di proporne un'originale rilettura a partire dalla fede cristiana.

Il mio saluto cordiale e grato va a ciascuno di voi, anzitutto al Comitato nazionale per il progetto culturale e al cardinale Camillo Ruini che ne è l'appassionato presidente.

Il tema di questo forum - "Nei 150 anni dell'unità d'Italia. Tradizione e progetto" - costituisce un invito a fare di questo importante anniversario non una circostanza retorica, ma l'occasione per un ripensamento sereno della nostra vicenda nazionale, così da ritrovare in essa una memoria condivisa e una prospettiva futura in grado di suscitare un "nuovo innamoramento dell'essere italiani, in una Europa saggiamente unita e in un mondo equilibratamente globale" (Prolusione all'assemblea generale della Cei, 24 maggio 2010). La ricorrenza vede la Chiesa unita a tutto il Paese nel festeggiare l'evento fondativo dello Stato unitario, e già questa constatazione è sufficiente per misurare la distanza che ci separa dalla "breccia di Porta Pia", l'importanza del cammino comune percorso e la parzialità di talune letture che enfatizzano contrapposizioni ormai remote.

Il contributo dei cattolici all'unità del Paese è - del resto - ben noto e non si limita al periodo pre-unitario, ma si allarga anche alla fase successiva del suo sviluppo, come è stato di recente autorevolmente sottolineato dal presidente della Repubblica, nel telegramma a me inviato lo scorso 3 maggio:  "Anche dopo la formazione dello Stato unitario l'intero mondo cattolico, sia pure non senza momenti di attrito e di difficile confronto, è stato protagonista di rilievo della vita pubblica, fino a influenzare profondamente il processo di formazione e approvazione della costituzione repubblicana" (Giorgio Napolitano).

Vorrei dunque rileggere il contributo dei cattolici che, a giusto titolo, si sentono "soci fondatori" di questo Paese, alla luce delle sfide che siamo chiamati ad affrontare, per consentire a ciascuno di sentirsi parte di un "noi" capace in ogni tempo di superare interessi particolaristici, e di sprigionare energie insospettate e slanci di generosità.

Cogliere il contributo cristiano rispetto al destino del nostro Paese richiede una lettura della storia scevra da pregiudizi e seriamente documentata, lontana dunque tanto da conformismi quanto da revisionismi. In effetti, ben prima del 1861 la nostra realtà italiana, per quanto frammentata in mille rivoli feudali, poi comunali, quindi statali, aveva conosciuto una profonda sintonia in virtù dell'eredità cristiana. Ne è prova assai significativa la persona di san Francesco d'Assisi, cui si lega il ripetuto uso del termine Italia, ancora poco corrente nel medioevo.

Proprio in relazione a san Francesco, all'irradiazione della sua presenza, invece comincia ad avere sostanza quella che pure per lunghi secoli resterà soltanto un'espressione geografica, viva però di una corposissima identità culturale, spirituale e soprattutto religiosa. Accanto a san Francesco sono innumerevoli le figure - anche femminili, come santa Caterina da Siena - a dare un incisivo contributo alla crescita religiosa e allo sviluppo sociale e perfino economico della nostra penisola.

Da qui si ricava la constatazione che l'unico sentimento che accomunava gli italiani, a qualsiasi ceto sociale appartenessero e in qualunque degli Stati preunitari vivessero, era quello religioso e cattolico. Affermare questa origine dell'Italia non significa ingenuamente rimarcare diritti di primogenitura, ma solo cogliere la segreta attrazione tra l'identità profonda di un popolo e quella che sarebbe diventata la sua forma storica unitaria, per altro non senza gravi turbamenti di coscienza e, per lungo tempo, irrisolti conflitti istituzionali. È qui sufficiente accennare che al fondo di tali vicende vi era anche la principale preoccupazione della Chiesa di garantire la piena libertà e l'indipendenza del Pontefice, necessarie per l'esercizio del suo supremo ministero apostolico, e più in generale di scongiurare un "assoggettamento" della Chiesa allo Stato.

L'anniversario che ci apprestiamo a celebrare è, dunque, rilevante non tanto "perché l'Italia sia un'invenzione di quel momento, ossia del 1861, ma perché in quel momento, per una serie di combinazioni, veniva a compiersi anche politicamente una nazione che da un punto di vista geografico, linguistico, religioso, culturale e artistico era già da secoli in cammino" (cfr. Prolusione all'assemblea generale della Cei, 24 maggio 2010). In altre parole, veniva generato un popolo. È di tutta evidenza che lo Stato in sé ha bisogno di un popolo, ma il popolo non è tale in forza dello Stato, lo precede in quanto non è una somma d'individui ma una comunità di persone, e una comunità vera  e affidabile è sempre d'ordine spirituale ed etica, ha un'anima. Ed è questa la sua spina dorsale.

Ma se l'anima si corrompe, allora diventa fragile l'unità del popolo, e lo Stato s'indebolisce e si sfigura. Quando ciò può accadere? Quando si oscura la coscienza dei valori comuni, della propria identità culturale. Parlare d'identità culturale non significa ripiegarsi o rinchiudersi, ma si tratta di non sfigurare il proprio volto:  senza volto infatti non ci s'incontra, non si riesce a conoscersi, a stimarsi, a correggersi, a camminare insieme, a lavorare per gli stessi obiettivi, a essere "popolo". Lo Stato non può creare questa unità che è pre-istituzionale e pre-politica, ma nello stesso tempo deve essere attento e preservarla e a non danneggiarla. Sarebbe miope e irresponsabile attentare a ciò che unisce in nome di qualsivoglia prospettiva.

A questo livello dunque - quello più profondo - si pone in primo luogo la presenza dinamica dei cattolici di ieri e di oggi. L'humus popolare nasce sul territorio e nella società civile, è il frutto delle relazioni delle varie famiglie spirituali di cui la società si compone. La religione in genere, e in Italia le comunità cristiane in particolare, sono state e sono fermento nella pasta, accanto alla gente; sono prossimità di condivisione e di speranza evangelica, sorgente generatrice del senso ultimo della vita, memoria permanente di valori morali. Sono patrimonio che ispira un sentire comune diffuso che identifica senza escludere, che fa riconoscere, avvicina, sollecita il senso di cordiale appartenenza e di generosa partecipazione alla comunità ecclesiale, alla vita del borgo e del paese, delle città e delle regioni, dello Stato.

Non è forse vero che quanto più l'uomo si ripiega su se stesso, egocentrico o pauroso, tanto più il tessuto sociale si sfarina, e ognuno tende a estraniarsi dalla cosa pubblica, sente lo Stato lontano? Ma - in forma speculare - è anche vero che quanto più lo Stato diventa autoreferenziale, chiuso nel palazzo, tanto più rischia di ritrovarsi vuoto e solo, estraneo al suo popolo. Si tratta di una circolarità da non perdere mai di vista, da fiutare nei suoi movimenti profondi non per rincorrere le inclinazioni del momento in modo demagogico e inutile, ma perché non si indebolisca quella unità di fondo che non è fare tutti le stesse cose, ma è un sentire comune circa le cose più importanti del vivere e del morire. È a questo livello di base - potremmo dire non ideologico ma ontologico - che si crea, resiste e cresce un popolo come anima dinamica dello Stato.

Vorrei, a titolo esemplificativo, richiamare sommessamente quanto le comunità cristiane d'ogni epoca esprimono nel variegato tessuto sociale, iniziative religiose, culturali, caritative e formative nei vari ambiti. E così ricordare con gratitudine la vasta rete di associazioni e aggregazioni cooperative sia a livello religioso che laicale. La fede certamente non può essere mai ridotta a "religione civile", ma è innegabile la sua ricaduta nella vita personale e pubblica.

La religione però non è valorizzabile nella società civile solo per le sue attività assistenziali - orizzontalmente - ma anche proprio in quanto religione, verticalmente. L'esperienza universale, infatti, per un verso documenta che l'apertura verso la trascendenza non è né sovrastruttura né questione esclusivamente individuale e privata, e d'altro verso attesta che l'approccio al mistero di Dio dà origine a cultura e civiltà. L'autocoscienza di una società - che si esprime anche nei suoi ordinamenti giuridici e statuali - è conseguenza dell'autocoscienza dell'uomo, cioè di come l'uomo si concepisce nel suo essere e nei suoi significati, e senza la prospettiva di una vita oltre la morte, la vita politica tenderà a farsi semplicemente organizzazione delle cose materiali, equilibrio d'interessi, freno di appetiti individuali o corporativi, amministrazione e burocrazia.
 
A nessuno sfugge come la visione dell'uomo e della vita assuma, nella luce della fede cattolica, prospettive e criteri che creano uno specifico ethos del vivere:  il Vangelo invita l'uomo a guardare al Cielo per poter meglio guardare alla terra, invita a rivolgersi a Dio per scoprire che gli altri non sono solamente dei simili ma anche dei fratelli, ricorda che il pane è necessario, ma che non di solo pane l'uomo vive. Infine, la dignità della persona, che oggi le Carte internazionali riconoscono come un dato che precede la legislazione positiva, trova la sua incondizionatezza solo nella trascendenza, cioè oltre l'individuo e ogni autorità umana. È questo riferimento creatore e ordinatore che origina, fonda e garantisce il valore dell'uomo e il suo agire morale. Ed è il rispetto e la promozione di questa dignità che costituisce il nucleo dinamico e orientativo del "bene comune", scopo di ogni vero Stato. E alla definizione teorica, nonché alla realizzazione pratica del bene comune, il contributo dei cattolici non è stato certamente modesto.

Com'è noto, il concilio Vaticano ii definisce il bene comune come "l'insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono ai gruppi, come ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente" (Gaudium et spes, 26). Ma che cos'è la perfezione dei diversi soggetti, perfezione alla quale sono ordinate le condizioni della vita sociale? È "il vivere retto" sia dei cittadini che dei loro rappresentanti. È la comunione nel vivere bene, cioè rettamente. Benedetto XVI è stato esplicito a questo proposito:  "Lo sviluppo non sarà mai garantito compiutamente da forze in qualche misura automatiche e impersonali, (...) Lo sviluppo è impossibile senza uomini retti, senza operatori economici e uomini politici che vivano fortemente nelle loro coscienze l'appello del bene comune. Sono necessarie sia la preparazione professionale sia la coerenza morale" (Caritas in veritate, 71).

Non sono le strutture in quanto tali né il semplice proceduralismo delle leggi a garantire ipso facto il "retto vivere", ma la vita di persone rette che intendono lasciarsi plasmare dalla giustizia:  giustizia che già san Tommaso (Summa Theologiae, ii-ii, q. 58, aa. 5-6) definiva una "virtù generale" in quanto ha di mira l'attitudine sociale della persona, la quale non può essere circoscritta dai suoi bisogni e dalle sue esigenze particolari, ma è chiamata a farsi carico responsabilmente dell'insieme.
Nella sollecitudine per il bene comune rientra l'impegno a favore dell'unità nazionale, che resta una conquista preziosa e un ancoraggio irrinunciabile. In tale impegno, come sottolinea il presidente Napolitano, "nessuna ombra pesa sull'unità d'Italia che venga dai rapporti tra laici e cattolici, tra istituzioni dello Stato repubblicano e istituzioni della Chiesa cattolica, venendone piuttosto conforto e sostegno".

È nel terreno fertile dello "stare insieme" che si impianta anche un federalismo veramente solidale:  uno stare insieme positivo che non è il trovarsi accanto selezionando gli uni o gli altri in modo interessato, ma che è fatto di stima e rispetto, di simpatia, di giustizia, d'attenzione operosa e solidale verso tutti, in particolare verso chi è più povero, debole e indifeso. Attenzione d'amore di cui Cristo, il grande samaritano dell'umanità, è modello, maestro e sorgente. Lo sguardo fisso al Crocifisso, ovunque si trovi, richiama al senso della gratuità:  il dono della sua vita, infatti, è la continua testimonianza del dono senza pretese. Quando in una società si mantiene la gioia diffusa dell'aiutarsi senza calcoli utilitaristici, allora lo Stato percepisce se stesso in modo non mercantile, e si costruisce aperto nel segno della solidarietà e della sussidiarietà. E da questo humus di base, che innerva i rapporti nei mondi vitali - famiglia, lavoro, tempo libero, fragilità, cittadinanza - che nasce quella realtà di volontariato cattolico e laico che fa respirare in grande e che è condizione di ogni sforzo comune, e di operosa speranza.

Di questo modo di pensare, accanto alla famiglia - incomparabile matrice dell'umano - la società intera è frutto, cattedra e palestra. E in questa gigantesca ed entusiasmante opera educativa la Chiesa non farà mai mancare il suo contributo in continuità con la sua storia millenaria, consapevole di partecipare - oggi come allora - alla costruzione del bene comune.

A questo proposito, gli "Orientamenti pastorali", recentemente pubblicati dalla nostra Conferenza episcopale, rappresentano una opportunità per mantenere o ricostituire il patrimonio spirituale e morale indispensabile anche all'uomo post-moderno. L'annuncio integrale del Vangelo di Gesù Cristo, è ciò che di più caro e prezioso la Chiesa ha da offrire perché non si smarrisca l'identità personale e sociale, e anche il miglior antidoto a certo individualismo che mette a dura prova la coesistenza e il raggiungimento del bene comune. "Educare alla vita buona del Vangelo" s'inserisce peraltro nel cammino della Chiesa italiana che continua nel tempo la sua opera che è sempre un intreccio fecondo d'evangelizzazione e di cultura. La Chiesa del resto educa sempre e inseparabilmente ai valori umani e cristiani, e oggi rappresenta, nel concreto delle nostre città e dei nostri centri, un riferimento affidabile soprattutto per i ragazzi e i giovani.

A questi soprattutto il mondo degli adulti deve poter offrire un esempio e una risposta credibili, contrastando quella "cultura del nulla" che è l'anticamera di una diffusa "tristezza". Ma non dobbiamo dimenticare che la cultura non è una entità astratta, in qualche misura dipende da ciascuno di noi, singoli e gruppi. Possiamo dire che la cultura siamo noi:  se gli stili di vita, gli orientamenti complessivi, le leggi hanno un notevole influsso sulla formazione dei giovani - ma anche degli adulti! - sia in bene che in male, è anche vero che se ogni persona di buona volontà pone in essere comportamenti virtuosi, e questi si allargano grazie a reti positive che si sostengono e si propongono, l'ambiente in generale può migliorare.

All'interno di questa stagione di rinnovato impegno educativo, si colloca pure quello che mi ero permesso di confidare come "un sogno", di quelli che si fanno a occhi aperti. Infatti, senza voler affatto disconoscere quanto di positivo c'è già e anzi con la cooperazione scaturente dalle esperienze già presenti sul campo, formulavo l'auspicio che possa sorgere una generazione nuova d'italiani e di cattolici che sentono la cosa pubblica come fatto importante e decisivo, che credono fermamente nella politica come forma di carità autentica perché volta a segnare il destino di tutti (cfr. Prolusione al Consiglio permanente, 25 gennaio 2010). Alla luce di quanto determinante sia stato il contributo dei cattolici nella storia del nostro Paese torno a sottolineare questa necessità.

Puntuali e come sempre illuminanti risuonano le parole di Benedetto XVI nell'accommiatarsi dal presidente della Repubblica durante l'ultima visita compiuta dal Pontefice il 4 ottobre 2008 al Palazzo del Quirinale:  "Mi auguro (...) che l'apporto della comunità cattolica venga da tutti accolto con lo stesso spirito di disponibilità con il quale viene offerto. Non vi è ragione di temere una prevaricazione ai danni della libertà da parte della Chiesa e dei suoi membri, i quali peraltro si attendono che venga loro riconosciuta la libertà di non tradire la propria coscienza illuminata dal Vangelo. Ciò sarà ancor più agevole se mai verrà dimenticato che tutte le componenti della società devono impegnarsi, con rispetto reciproco, a conseguire nella comunità quel vero bene dell'uomo di cui i cuori e le menti della gente italiana, nutriti da venti secoli di cultura impregnata di cristianesimo, sono ben consapevoli".


(©L'Osservatore Romano - 3 dicembre 2010)
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La cultura come coscienza e identità di un popolo

Don Bosco l'italiano


di Francesco Motto

Nelle librerie sono ormai sempre più numerosi i volumi sui 150 anni dell'Unità d'Italia. A breve, altri due illustreranno il contributo dato da don Giovanni Bosco, dai salesiani e dalle Figlie di Maria Ausiliatrice a "fare gli Italiani," dopo che l'Italia era stata fatta in un modo certamente non condiviso dal santo di Torino. Sul suo apporto personale all'identità italiana non esiste, tuttavia, dubbio alcuno. Gli si riconosce di aver portato alla ribalta nazionale la "questione giovanile" e lo si colloca nella collana "L'identità italiana" volta a presentare "la nostra storia:  gli uomini, le donne, i luoghi, le idee, le cose che ci hanno fatti quello che siamo".

Che la nostra identità abbia radici nel passato e che, prima ancora del carattere politico assunto con il Regno d'Italia nel 1861, da secoli abbia un suo carattere nazionale linguistico, religioso, letterario, artistico è indubitabile.

Può essere allora interessante e anche inedito vedere l'apporto di don Bosco a tale italianità già nel quindicennio precedente l'Italia unita. Del resto nel 1846 indicava alla massima autorità di Torino che egli intendeva insegnare ai suoi ragazzi quattro "valori":  l'amore al lavoro, la frequenza dei santi sacramenti, il rispetto a ogni superiorità e la fuga dai cattivi compagni. Li avrebbe successivamente sintetizzati nella celebre espressione "onesto cittadino e buon cristiano"

Nel 1845 pubblica dunque un volume di 400 paginette:  la Storia ecclesiastica ad uso delle scuole, utile ad ogni ceto di persone. In evidenza sono subito due dimensioni:  quella religiosa e quella di taglio giovanile e popolare. Gli ecclesiastici, gli studiosi, le persone colte, gli allievi delle (poche) scuole superiori avevano già a loro disposizione grossi volumi; non così sempre i ragazzi delle scuole inferiori, dei collegi, dei piccoli seminari; non così i giovanotti semianalfabeti che frequentavano le scuole festive e serali; non così la gran massa della popolazione semianalfabeta dell'epoca. Quella di don Bosco non ha nulla a che vedere con le storie dotte e con quelle pure similari di Antoine-Henri de Bérault-Bercastel, di Réné F. Rohrbacher, di Johann J. I. von Döllinger. L'obiettivo che si propone è educativo, apologetico, catechistico:  formare religiosamente i lettori, soprattutto i giovani studenti, con una bella storia, dando spazio ai "fatti più luminosi che direttamente alla Chiesa riguardano", soprattutto ai papi e ai santi, tralasciando o appena accennando i "fatti del tutto profani e civili aridi o meno interessanti, oppure posti in questione".
 
L'Educatore. Giornale di educazione e di istruzione primaria lo recensiva positivamente, sottolineandone il principio educativo sotteso ("illuminare la mente per rendere buono il cuore") e apprezzandone il periodare "schietto e facile", "la lingua abbastanza pura"e "la sparsa unzione, che dolcemente ti commuove e alletta al bene", Il volume ebbe 25 edizioni-ristampe fino al 1913.

Non passano due anni che don Bosco dà alle stampe un'opera analoga, ossia La storia sacra per uso delle scuole, utile ad ogni stato di persone, arricchita di analoghe incisioni. Come sempre, onde "giovare alla gioventù", l'autore si prone la "facilità della dicitura e popolarità dello stile", anche se con ciò non può garantire "un lavoro elegante". I modelli ancora una volta sono libriccini esistenti sul mercato. Il volume è ben accolto dalla critica.

Sul citato periodico di pedagogia torinese un maestro scrive che apprezza tanto l'opera al punto da adottarla e da consigliarla ai suoi colleghi:  "I miei scolari vanno a ruba per averla nelle mani, e la leggono con ansietà e non rifiniscono di presentarla agli altri e di parlarne, chiaro segno che la capiscono". Tale comprensione è dovuta, a giudizio del maestro, alla "forma di dialogo" e alla dicitura "popolare, ma pura ed italiana".
Potrebbe essere stato questo apprezzamento uno dei motivi per cui don Bosco, sul finire del 1849, avanza richiesta alle autorità scolastiche del regno di adottare come testo scolastico un suo Corso di Storia Sacra dell'Antico e del Nuovo Testamento che intende "pubblicare, adorno anche di stampe, in modo acconcio per l'ammaestramento delle scuole elementari".

La domanda in un primo momento parve poter venire accolta favorevolmente, stante "l'assoluta mancanza di un libro migliore". Nel corso della seduta del consiglio superiore della Pubblica istruzione del 16 dicembre 1849 si esprimono sì delle riserve "dal lato dello stile e della esposizione", ma esse vengono compensate dalle "opportunissime considerazioni morali" e dalla "necessaria chiarezza" che fa "emergere assai bene dai fatti i dogmi fondamentali della religione".

L'intervento critico e autorevole del relatore don Giuseppe Ghiringhello fa però mutare opinione allo stesso consiglio per i "molti errori grammaticali e ortografici", che rendono "meno utile quel lavoro per altro verso assai commendevole". Evidentemente le esigenze del teologo Ghiringhello docente di Sacra Scrittura nella facoltà teologica della città non erano quelle dei maestri di scuole elementari (e di don Bosco), quotidianamente alle prese con fanciulli appena alfabetizzati, che normalmente si esprimevano in dialetto. La "fortuna" dell'opera è comunque notevole se alla morte di don Bosco (1888) le edizioni-ristampe sono arrivate a 19, e tante altre sarebbero state immesse sul mercato editoriale e scolastico fino al 1964.

Alla trilogia mancava ancora una storia, quella d'Italia che peraltro era richiesta dall'aria che si respirava. Ed ecco don Bosco darla alle stampe nel 1855:  La storia d'Italia raccontata alla gioventù da' suoi primi abitatori sino ai nostri giorni, corredata da una carta geografica d'Italia. Questa volta la narrazione, che attinge come sempre ai compendi e manualetti dell'epoca, è più limpida del passato, dal momento che l'autore è ormai allenato da un decennio a scrivere. Sono però sempre pagine di uno scrittore che si adegua all'intelligenza dei suoi lettori, di un sacerdote che vuole presentare fatti fecondi di ammaestramenti spirituali, di un educatore di giovani "poveri ed abbandonati" che non fanno storia, ma la subiscono dalla prepotenza dei grandi.
 
Non se ne rese conto Benedetto Croce 60 anni dopo quando - nonostante il rispettabile successo di ben 31 edizioni fino al 1907 - per la presenza di certe pagine lo definisce un "povero libro reazionario e clericale", mentre il coevo ministro cavouriano Giovanni Lanza lo encomia. Niccolò Tommaseo ne tesse gli elogi, pur notando che "non tutti i giudizi di lui sopra i fatti a me paiono indubitabili né i fatti tutti esattamente narrati", ma senza tacere che "non pochi de' moderni (...) nella storia (...) propongono a se un assunto da dover dimostrare e quello perseguono dal principio alla fine; e a quello piegano e torcono i fatti e gli affetti".

Alla triplice storia si può accostare il fascicolo Il sistema metrico decimale ridotto a semplicità, preceduto dalle quattro prime operazioni dell'aritmetica, ad uso degli artigiani e della gente di campagna, rieditato nel dicembre 1849 alla vigilia del definitivo mutamento dei sistemi di misura in Piemonte (1° gennaio 1850). L'intento è sempre quello di insegnare in prospettiva educativa e moralistico, ma ciò che più interessa è il fatto che esso è pure rappresentato come commedia brillante in tre atti.
Se ne conservano i dialoghi, ma non la sceneggiatura, anche se sappiamo che "variava sempre l'aspetto delle scene, ora rappresentando una bottega, ora un'officina, ora un'osteria, ora un'aperta campagna o la casa di un fattore. Erano recati in vista, e adoperati i nuovi e vecchi pesi, le vecchie e le nuove misure; primeggiava eziandio in mezzo il globo terracqueo (...) Talora il palco aveva l'aspetto di scuola co' suoi cartelloni, il pallottoliere e la lavagna (...) Coloro che rappresentavano gli scolari erano vestiti chi da contadino, chi da brentatore, chi da cuoco, chi da signorotto di campagna e altri in altre fogge. Un mugnaio era tutto bianco per la farina, un fabbro tutto nero per la polvere e il fumo del carbone. Gli spettatori godevano un mondo di queste scene e ancor più i giovanetti".

Fu un successo, stante anche il clima di comprensibile ansietà di un'opinione pubblica scarsamente istruita che dava al lavoro una cornice di straordinaria attualità e attesa. Nel lasciare la sala dello spettacolo il celebre abate Ferrante Aporti avrebbe commentato:  "Bosco non poteva immaginare un mezzo più efficace per rendere popolare il sistema metrico decimale; qui lo si impara ridendo". "Ragazzi di strada", pressoché analfabeti, che diventano attori e docenti di una materia nuova e ostica, mezzi scenografici estremamente semplici che costituiscono il supporto per conferire all'apprendimento scolastico solidità e concretezza e allo spettacolo la naturale drammatizzazione:  ce ne è a sufficienza per definire il "teatrino di don Bosco" come una scuola viva, coinvolgente, antesignana di una futura didattica partecipata e di nuovi mezzi espressivi.

Dunque ancor prima del 1861 don Bosco investe sulla massa dei giovani, perché il domani della società italiana sta nelle loro mani; per la loro formazione investe sulla storia d'Italia, perché la casa comune italiana ha radici ben più antiche dello Stato unitario; investe sulla fede cattolica perché è convinto che essa sia l'anima profonda del Paese; investe sull'italiano semplice, popolare, perché non c'è cultura nazionale senza lingua che tutti possano capire; investe sull'arte, anche se poverissima di mezzi, messa a servizio dell'educazione e del gusto estetico dei giovani di cui nessuno o quasi si interessa.



(©L'Osservatore Romano - 30 gennaio 2011)

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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01/02/2011 00:36
 
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I meriti della scuola, dei giornali e anche della Chiesa

Dopo 150 anni in Italia si parla italiano


LUCA SERIANNI

"Centocinquant'anni di lingua italiana" è il titolo della lectio magistralis che viene tenuta nel pomeriggio del 31 gennaio all'università di Roma La Sapienza. Il relatore ha anticipato al nostro giornale una sintesi della sua prolusione.

C'è un dato di fatto che è impossibile negare: la quasi totalità dei cittadini italiani oggi parla la stessa lingua. Anche coloro (purtroppo numerosi) che guardano con indifferenza o addirittura con ostilità all'imminente anniversario dell'Unità parlano un italiano perfetto, con la piena padronanza e spontaneità propria dei parlanti nativi. Il più noto teorico del separatismo, Gilberto Oneto, non scrive in uno dei tanti dialetti settentrionali (quale?), ma in un italiano impeccabile, con occasionali regionalismi che contribuiscono a uno stile vivace e giornalisticamente efficace: "senza perdersi in "balossate"", "il partito è guidato da un uomo malato circondato da pessimi consiglieri e da qualche "trusone"" (da un articolo in "Libero" del 2006).

Su quattro possibili voci di un bilancio linguistico relativo ai centocinquant'anni postunitari, solo una, la terza, è di segno negativo.
La prima tocca il rapporto dialetto-lingua, un rapporto ineludibile nel caso dell'Italia in cui i dialetti hanno segnato per secoli l'interfaccia linguistica del pluricentrismo politico e più latamente storico.

È notissima la valutazione di Tullio De Mauro, il quale nel 1963 calcolò che appena il 2,5 per cento dei parlanti potevano considerarsi italofoni. La percentuale è stata discussa, ma è vero che i termini del problema non cambierebbero anche se quella quota dovesse essere moltiplicata di due o tre volte. Se nel 1861 erano pochi i cittadini in grado di parlare l'italiano, non è però sostenibile un eventuale corollario, secondo il quale sarebbe esistito solo l'italiano scritto della tradizione letteraria, chiuso in una specie di teca museale.

Il linguista ticinese Sandro Bianconi ha dimostrato nel 1991, esplorando i ricchissimi carteggi dei cardinali Borromeo (circa 60.000 lettere), che l'italiano già nel secondo Cinquecento era diventato anche nei centri minori "la lingua della comunicazione scritta ai diversi livelli della società"; Francesco Bruni ha accertato la circolazione di un italiano ampiamente usato nel Levante dal XVI al XIX secolo in funzione di lingua veicolare diplomatica. E non va sottovalutata, per la circolazione di un modello scritto o comunque italianizzato presso le masse, l'azione della Chiesa e l'abituale ricorso all'italiano, non al dialetto, nella predicazione: un canale a cui era esposta regolarmente la quasi totalità della popolazione dialettofona.

Dall'ultimo sondaggio disponibile (Istat, 2006) ricaviamo un'evidente regressione della dialettofonia esclusiva: solo il 16 per cento parla abitualmente dialetto in famiglia, ossia in una situazione di massima informalità, rispetto al 32 per cento di vent'anni prima; nei giovani (6-24 anni) la quota si riduce ulteriormente (8,1 per cento), in forte contrasto con la popolazione con più di 65 anni in cui il dialetto è usato abitualmente in famiglia dal 32,2 per cento.
Tra le ragioni che hanno favorito l'espansione dell'italofonia, ha un'importanza particolare la scuola, alla quale è giusto dedicare la seconda riflessione. Nel 2007-2008 una giovane studiosa, Paola Chiesa, lavorando presso gli archivi del Comando Militare Esercito Lombardia per diversi mesi, ha trascritto una consistente mole di lettere di soldati dell'Oltrepò pavese impegnati al fronte o internati nei campi di prigionia durante la seconda guerra mondiale.

La massima parte dei soldati ? muratori, calzolai, contadini ? è alfabetizzata: moltissimi sono arrivati alla licenza elementare, tutti hanno frequentato almeno le prime classi. L'impressione complessiva è che la scuola del tempo sia stata in grado di fornire un dominio grafico e linguistico discreto. Un solo esempio, quello del muratore Mario Rebasti. Alcuni passaggi di una singola lettera bastano per apprezzare la tenuta testuale, la capacità di dominare gli alterati (anche con neologismi scherzosi: "Rebastino") e di ricorrere al registro alto con consapevole funzione affettiva ("rude rampollo" detto del nipotino); e pazienza se "po'" è scritto senza apostrofo e si confondono "gli" e "le": "La vostra 10-8. è stata un po lumacona nel camminare ma veramente la strada è un po lunghina e noi che l'abbiamo fatta su una interminabile tradotta ne sappiamo qualche cosa (...).

Vorrei vedere il rude rampollo nelle sue prime passeggiatine e le auguro di venire un camminatore istancabile come il suo zio soldato permanente (...) Questa fortuna io non la auguro al mio piccolo Rebastino". Oggi la situazione non è certo peggiore del 1940, nonostante certo diffuso catastrofismo. Non ci sono solo aspetti critici (doverosamente additati, ma anche amplificati, dai giornali); gli insegnanti italiani in genere sanno fare il loro mestiere e la lamentata "fuga dei cervelli" è insieme una denuncia dell'università italiana, che offre pochi sbocchi ai migliori, e un riconoscimento indiretto alla formazione che si può tutt'oggi ricevere in un buon liceo.

Terzo punto: la lingua italiana ha oggi una sua capitale? La risposta, in questo caso, è negativa. Roma, talora discussa addirittura come capitale politica, non ha potuto o voluto essere il crogiolo in cui si fondesse la varietà parlata di prestigio, a cui potessero guardare le mille città della Penisola.
La varietà alta dell'italiano parlato a Roma ebbe la sua grande occasione per affermarsi in società negli anni dell'unificazione. Gli ultimi episodi significativi di amore settentrionale per la Roma linguistica sono molto più recenti e si devono a due scrittori illustri, Pasolini e Gadda, che ancora negli anni Cinquanta scommettevano sulla varietà romanesca come esempio di parlato italiano medio. Ma la scommessa è stata persa. A Roma non è bastato essere centro del potere politico; godere tuttora di una posizione egemone nella produzione televisiva; veicolare, attraverso fortunati attori comici, modelli cinematografici cari al largo pubblico.

Eventuali ambizioni sovramunicipali sono state troncate dalla stessa, inattesa e imprevedibile, vitalità del dialetto plebeo: l'incapacità "della capitale politica di essere anche una credibile capitale linguistica, nella cui voce possa riconoscersi la maggioranza dei parlanti - ha scritto recentemente Pietro Trifone - rappresenta un ulteriore elemento di fragilità della coesione nazionale".

Concludiamo col rapporto tra lingua e letteratura. Per secoli la letteratura ha fatto testo anche nelle cose di lingua: in fondo anche la decisiva svolta verso la modernizzazione si deve proprio a uno scrittore come Alessandro Manzoni. Attualmente la letteratura non svolge, e soprattutto non vuole svolgere nessuna funzione direttiva in termini di norma linguistica: come ha scritto Giuseppe Antonelli nel 2006, "oggi la sfida (disperata) è basata soprattutto sull'emulazione dei nuovi media informatici e interattivi, e consiste nel tentare di riprodurne i tempi forsennati, la non linearità, l'intrinseca plurivocità". Sono semmai i giornali, a torto spesso criticati per presunti abusi linguistici, a fornire esempi di una lingua lessicalmente ricca e ammiccante alla tradizione letteraria, magari usufruita per la possibilità di fornire facili controcanti ironici.

Se riflettiamo a mente libera, un dato del genere non dovrebbe "fare notizia". Il giornale offre un ventaglio straordinariamente ampio di argomenti, trattati da giornalisti professionisti o da esperti di diversa formazione. È solo il secolare condizionamento letterario che ci fa pensare, per una sorta di riflesso condizionato, che la lingua più ricercata debba trovarsi nelle pagine della letteratura creativa. Ma i romanzi non sono serbatoi di belle parole, o almeno non è questa la loro funzione primaria. Il fatto che la letteratura sia stata in certo modo restituita a sé stessa, abbia cessato di essere, come è avvenuto per secoli, la principale fonte di lingua, è un dato fisiologico. Potremmo dire che, almeno per la lingua, siamo finalmente diventati un Paese normale.



(©L'Osservatore Romano - 31 gennaio 01 febbraio 2011)
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23/02/2011 18:26
 
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Politica e religione in Italia da Costantino a oggi

Un Tevere
ancora più largone


Centocinquant'anni dell'Unità d'Italia visti dalle due rive del Tevere: è questo il tema dell'incontro "Il cuore, la spada, la croce" che si svolgerà nel pomeriggio di giovedì 24 febbraio al Palazzo della Cancelleria. Interverranno - moderati da Piero Schiavazzi - Bruno Vespa e il direttore del nostro giornale, autori rispettivamente dei volumi Il cuore e la spada (di cui sotto diamo notizia) e La donazione di Costantino (Bologna, il Mulino, 2010, pagine 256, euro 12). Di quest'ultimo libro, uscito in prima edizione nel 2004, pubblichiamo la postfazione.

In questo libro ho cercato, quasi sette anni fa, di ricostruire la vicenda di un testo famoso e intrigante: quello che per secoli è stato presentato e creduto, negato o discusso, irriso e aborrito come il documento che attestava la donazione di Costantino a Papa Silvestro. Un falso, certo, realizzato con tratti anche piuttosto grossolani, ma elaborato su una leggenda antichissima e popolare; tanto improbabile e ricca di sfumature quanto reale nel suo nucleo, perché storicamente fondata sull'innegabile benevolenza esercitata dal primo imperatore cristiano nei confronti della religione fino a poco prima perseguitata, e sulla quale il sovrano scommise con un azzardo decisivo.

Dietro la ricostruzione di questa vicenda appassionante vi era però un'intenzione evidente e più ambiziosa, che giustifica la presenza del libro nella collana "L'identità italiana", e ora la sua nuova edizione: illuminare, sia pure di scorcio, il rapporto tra politica e religione, così come si è venuto configurando soprattutto in Italia per la presenza del Papa - ingombrante e preziosa al tempo stesso - nel cuore della penisola, una presenza che come potere temporale si è andata consolidando sin dall'alto medioevo. Nel racconto ho esteso lo sguardo oltre la vicenda della donazione costantiniana, sino agli ultimi anni del pontificato di Giovanni Paolo II e, all'estremo cronologico opposto, ho incluso qualche cenno necessario sulle indispensabili e fondamentali premesse costituite dalle Scritture ebraiche e poi soprattutto da quelle cristiane.

Ne è venuta fuori una storia di lunghissimo periodo, che comprende idealmente più di due millenni, e sulla quale può sembrare che poco possa aggiungere la manciata di anni trascorsi dalla stesura di questa narrazione. Eppure, il continuo mutare delle vicende umane, tra le quali una nuova successione sulla sede romana, permette di aggiungere qualche riflessione. Innanzitutto, in generale, su quello che è stato definito il ritorno di Dio in una contemporaneità - almeno quella occidentale - che sembrava avviata sempre più a prescinderne, come esito di una secolarizzazione risalente almeno agli inizi dell'età moderna. In secondo luogo, proprio sul nuovo pontificato e sul suo rapporto con la dimensione politica.

Piuttosto che di un ritorno di Dio - espressione evidentemente imprecisa, ma pure efficace, e coniata per descrivere soprattutto la nuova stagione di cui appare prepotentemente protagonista il mondo islamico, attraversato da fondamentalismi radicali e violenti - altri preferiscono parlare, su un piano più fenomenologico, di ritorno a Dio.
Si intende in questo modo descrivere la nuova visibilità della dimensione religiosa, in particolare nelle società occidentali ormai largamente scristianizzate e nelle quali si vanno insediando crescenti minoranze, in parte anche musulmane.

Ma c'è davvero questo ritorno di Dio? Con un'altra formula immediata si potrebbe tranquillamente rispondere che da gran parte del mondo Dio non se n'è mai andato. Si pensi alla realtà statunitense, modello culturale controverso ma influente (e sotto questo aspetto piuttosto diverso dall'Europa occidentale) oppure al cattolicesimo latinoamericano, radicato e vivace ma sfidato dalla secolarizzazione e da un proselitismo protestante popolare e spregiudicato, o alla vitalità dell'ebraismo. O, ancora, si tengano presenti realtà meno conosciute, ma non meno rilevanti: le società tradizionali africane e il cristianesimo del continente; il mondo religioso dell'India, che oscilla tra una fascinazione esercitata anche sull'occidente e nuovi pericolosi fondamentalismi; la Cina, dove nonostante la pesante incidenza del sessantennio comunista e l'impetuosa crescita economica le tradizioni religiose non sono certo scomparse. Infine, nell'Europa centrale e orientale, di fronte alle rovine lasciate dal comunismo reale che si combinano a un aggressivo materialismo pratico, la nuova stagione delle Chiese ortodosse.

In questo quadro molto variegato, e qui di necessità solo accennato, tra le religioni si moltiplicano violenze e intolleranze ma anche confronti positivi, nuove vicinanze e convivenze antiche. E tuttavia, per l'aspetto qui preso in esame, mi sembra confermato un fatto: nelle società occidentali la distinzione tra l'ambito politico e quello religioso è molto più netta che altrove.
Insomma, tornando alla metafora lanciata nel 1958 da Giovanni Spadolini del Tevere più largo - che indicava appunto "una più netta ed insieme più cordiale distinzione fra le due sfere, fra la Roma laica e la Roma ecclesiastica, fra la Roma sacra e la Roma profana, per dirla col linguaggio dei cattolici liberali di una volta" - anche oggi nessun altro fiume nel mondo è altrettanto largo.

A questa larghezza ha certo contribuito in modo decisivo la tradizione cristiana. Anzi, storicamente bisogna riconoscere e riflettere su un dato inoppugnabile: soltanto all'interno di culture nate di fatto dal cristianesimo ha potuto maturare la secolarizzazione, e questo proprio perché alle stesse origini cristiane risale la distinzione tra Cesare e Dio. Nel succedersi delle vicende storiche, poi, questa distinzione fondamentale non ha preso la forma di una separazione netta, benché non siano mancati momenti e periodi di contrapposizione aspra, ma si è piuttosto configurata come una dialettica, non di rado fruttuosa. "Il cristiano non è nemico di nessuno, tanto meno dell'imperatore" si legge in un'operetta di Tertulliano indirizzata agli inizi del III secolo a un proconsole persecutore, con un'affermazione emblematica di un lealismo cristiano presente già nelle lettere di Paolo.

Oggi, il nuovo protagonismo dell'islam e fenomeni imponenti come le migrazioni e la globalizzazione, ora più avvertita in seguito alla crisi finanziaria ed economica, accentuano il confronto tra culture e religioni diverse, ponendo interrogativi crescenti sulla presenza del fatto religioso, troppo in fretta liquidato come un residuo del passato. Significativa in proposito, anche se controversa, è da tempo l'evoluzione del concetto di laicità in un Paese come la Francia. In questo contesto il relativismo culturale e la nuova aggressività che si stanno manifestando soprattutto nell'occidente europeo nei confronti delle religioni - soprattutto verso il cristianesimo e, in particolare, verso la Chiesa cattolica - rendono più difficili la comprensione e la convivenza reciproche, proprio a causa della chiusura, se non addirittura dell'ostilità, nei confronti di una dimensione che in molte culture è invece fondamentale.

Chiusura e ostilità che preoccupano, provocano reazioni contrarie e non aiutano certo la diffusione in altri contesti culturali di quella distinzione tra sfera religiosa e ambito politico che proprio la tradizione cristiana ha favorito. Dopo il pontificato (1978-2005) di Giovanni Paolo II, la scelta in meno di ventiquattro ore di Joseph Ratzinger, il 19 aprile 2005, è stata un fatto nuovo, e per molti inatteso: al Papa polacco è succeduto un Pontefice tedesco, quasi a chiudere con una scelta fortemente simbolica la schiacciante eredità della seconda guerra mondiale, come ha voluto sottolineare lo stesso Benedetto XVI un mese dopo la sua elezione. Sono state così spazzate via dai fatti bizzarre riflessioni geopolitiche che teorizzavano l'esclusione dal papato di una o di un'altra nazionalità, con ragionamenti elaborati forse per giustificare il monopolio italiano sulla sede romana, che durava da quasi mezzo millennio, nonostante il deciso impulso all'internazionalizzazione del collegio cardinalizio impresso a metà del secolo scorso da Pio XII e progressivamente continuato dai suoi successori.

E soltanto due volte nella storia - nel cuore del Trecento, durante il papato avignonese, e tra il VII e l'VIII secolo, al tempo dei pontefici d'origine greca - si sono avuti periodi così lunghi in cui i successori di Pietro non sono stati italiani. Un fatto, questo, che nella situazione italiana, soprattutto dopo il dissolvimento della cosiddetta unità politica dei cattolici durante il pontificato di Giovanni Paolo II, ha sicuramente contribuito all'allargamento del Tevere.
Anche Benedetto XVI, come i suoi predecessori a partire da Paolo VI (il Papa che l'ha creato cardinale nel 1977), non ha mai usato la tiara, segno per eccellenza del potere papale, abbandonata nel 1964 da Papa Montini ma che rimane, con le chiavi decussate, simbolo della Santa Sede.

Con Papa Ratzinger la tiara è scomparsa anche dallo stemma ufficiale del Pontefice, sormontato da una semplice mitra episcopale e da cui pende invece il pallio, l'insegna liturgica che Papa Ratzinger ha lungamente spiegato come immagine del "giogo di Cristo" nell'omelia durante la messa inaugurale del pontificato. Questo appare caratterizzato da un'amichevole apertura ad extra (Chiese e confessioni cristiane, ebraismo, islam, altre religioni e culture) - grazie anche al continuo richiamo della ragione, che permette su questa base comune il confronto e la collaborazione con le culture laiche - più che ripiegato sul passato. E non perché sia trascurata o messa tra parentesi la tradizione cristiana, di cui il Pontefice invece sottolinea in ogni modo la continuità: al contrario, fondandosi sul suo approfondimento e sulla sua spiegazione, Benedetto XVI persegue quanto più gli sta a cuore, e cioè l'annuncio di quel Dio che ha parlato sul Sinai ed è morto e risorto per l'umanità, soprattutto là dove la fede rischia di spegnersi, e cioè in molte regioni di antica cristianità.

Proprio con Ratzinger il Tevere è insomma più largo, e così sono più larghi e sicuri i ponti che l'attraversano, grazie al rafforzamento costante delle relazioni con l'Italia, come del resto con altre nazioni. Questa eccellenza di rapporti è espressa visibilmente dai frequenti incontri e contatti con i presidenti della Repubblica (Carlo Azeglio Ciampi e, soprattutto, Giorgio Napolitano, con il quale è forte la relazione personale) e dalle reciproche visite in Vaticano e al Quirinale. Nel 2008, recandosi ufficialmente per la seconda volta nell'antica residenza papale (che già aveva visitato nel 2006), Benedetto XVI ha definito il colle che fronteggia quello vaticano "segno di contraddizione".
Nel discorso di Papa Ratzinger, l'espressione evangelica indicava ovviamente la questione romana - "causa di sofferenza per coloro che sinceramente amavano e la Patria e la Chiesa" - che fu superata dai Patti lateranensi, quando le onde del Tevere trascinarono nel Tirreno i flutti del passato e finalmente riunirono i due colli.

La suggestiva immagine citata dal pontefice tedesco era stata evocata nel decennale della Conciliazione da un suo predecessore, Pio XII, quando nel 1939, per la prima volta dopo la presa di Roma, un Papa tornò al Quirinale.
Alla dimensione politica e al suo rapporto con quella religiosa Joseph Ratzinger è attento, con una sensibilità maturata sin dalla giovinezza, grazie a uno studio approfondito e continuato della tradizione cristiana: anche su questo punto, in particolare, soprattutto di Agostino, l'autore prediletto. Da qui deriva la diffidenza, anzi l'opposizione, nei confronti di ogni assolutizzazione politica del cristianesimo. Ogni costruzione umana, anche politica, è infatti relativa proprio in quanto umana, e ben diversa è l'aspirazione cristiana: rendere presente in questo mondo la nuova forza rivoluzionaria della fede, come concludeva nel 1971 il giovane teologo un piccolo libro sull'unità delle nazioni (Die Einheit der Nationen, dove erano esposte riflessioni maturate da oltre un decennio). Specificando che si tratta di una forza - la cui dimensione comunitaria, e dunque pubblica, è sempre stata sottolineata da Ratzinger teologo e ora da Benedetto XVI - "che relativizza tutte le realtà immanenti al mondo, indicando e rinviando all'unico Dio".



(©L'Osservatore Romano - 24 febbraio 2011)

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Pietro Bembo e il mondo artistico del suo tempo

Ci insegnò a parlare
e a guardare


L'Accademia Galileiana di Padova ospita, dal 24 al 26 febbraio, il seminario internazionale "Pietro Bembo e le arti". Uno degli organizzatori dell'incontro, che è anche tra i relatori, ha scritto per il nostro giornale questo articolo introduttivo alla conoscenza del cardinale che fu scrittore e grande umanista.

di GUIDO BELTRAMINI
Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza

Sembra fosse di corporatura minuta. Due grandi pittori ne ritraggono lo sguardo penetrante e il naso aquilino, da rapace. Giovanni Bellini ci mostra Pietro Bembo intorno ai trent'anni, vestito di nero, con i lunghi capelli biondi, un giovane intellettuale che guarda assorto il paesaggio del Veneto che canterà negli Asolani.

Tiziano lo dipinge quarant'anni più tardi, severo nella sontuosa veste di cardinale, con una folta barba bianca, principe della Chiesa e autorevole arbitro della cultura italiana. Nei due dipinti è tracciata la parabola della vita di Pietro Bembo, che dagli studi letterari giunge alla porpora, tra il Veneto e Roma. Nato a Venezia nel 1470, sul finire del secolo Pietro, con Aldo Manuzio, rivoluziona il concetto di libro, curando volumi di classici di piccolo formato privi di commento, da leggere al di fuori delle aule universitarie.

Nei suoi Asolani, stampati presso Manuzio nel 1505, diede per primo spazio letterario ai moti dell'animo. Fu Storiografo e Bibliotecario della Repubblica Veneta e a sessantanove anni fu nominato cardinale da Paolo III, si trasferì a Roma, dove si spense nel gennaio del 1547.
 
È a Bembo che si deve l'italiano che usiamo ancora oggi.

Nel 1525 pubblica la Prose della volgar lingua, dove codifica l'italiano come lingua nazionale, fondata sugli scritti di Petrarca e Boccaccio
.

Il successo è enorme, e il suo influsso è normativo per la cultura letteraria del tempo.

Ma nei dieci anni precedenti, a Roma in qualità di segretario di Papa Leone X, Bembo aveva assistito all'affermarsi di un'altra rivoluzione, con Michelangelo e Raffaello creatori di un'arte nuova, ma basata sulla eccellenza di quella romana antica: la perfezione senza tempo, e senza inflessioni regionali, di opere che sono i fondamenti di quello che oggi chiamiamo l'arte del rinascimento. I tre si conoscevano bene. Raffaello aveva ritratto Bembo quando erano giovani alla corte di Urbino, e Pietro, in una lettera del 1516, riferisce di una gita insieme a Tivoli sulle rovine di villa Adriana.

Con Michelangelo Bembo condivise amicizie, e attraverso Vittoria Colonna, nell'ultimo decennio di vita, anche afflati spirituali. Nel terzo libro delle Prose della volgar lingua Bembo indica in Michelangelo e Raffaello i protagonisti della nuova arte rinascimentale, quasi fossero i modelli di una lingua italiana "per figure".

Il problema storiografico dei rapporti fra Bembo, le arti e gli artisti è affrontato a Padova in un grande convegno internazionale, con specialisti di Europa e Stati Uniti, invitati dal Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio e dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo. "Bembo e le arti" è nodo complesso, da dipanare seguendo diversi fili. Certamente le frequentazioni personali di Bembo con gli artisti, dato che abbiamo notizia di rapporti diretti anche con Bellini, Jacopo Sansovino, Benvenuto Cellini, Sebastiano del Piombo, Valerio Belli.

Un altro filo è quello delle committenze dirette di Pietro, come il ritratto di Navagero e Beazzano ottenuto da Raffaello, la medaglia ritratto di Valerio Belli o la splendida testa di Cristo in marmo del misterioso Pirgotele, oggi al museo del Bargello. Una ulteriore linea d'indagine sono le collaborazioni di Bembo a progetti artistici, come la stesura dei testi per le iscrizioni monumentali sulla facciata villa Imperiale a Pesaro o per le iscrizioni sulle tombe di Castiglione e Raffaello, o ancora i consigli per la decorazione pittorica nella sala dei Giganti a Padova. La trama che regge l'intreccio è la celebre collezione che Bembo riunì nella propria residenza padovana ottenuta nel 1532, un vero e proprio museo di oggetti d'arte, di storia, di scienza.

I dipinti, provenienti anche dalla collezione del padre Bernardo, erano di Raffaello, Giovanni Bellini, Mantegna, Tiziano, Memling. Le statue erano alcuni fra i pezzi antichi più belli noti del rinascimento, come la testa di Antinoo oggi nelle collezioni Farnese di Napoli, accanto a sculture moderne di Pietro Lombardo, a bronzetti e ad argenti cesellati da Benvenuto Cellini. Vi erano gemme antiche incise, che erano appartenute a Lorenzo il Magnifico, antiche monete e medaglie contemporanee di Valerio Belli. Non mancavano pezzi insoliti, come la Mensa Isiaca, una grande lastra da altare in bronzo e argento con geroglifici egizi incisi, il primo oggetto del genere mai comparso in una collezione rinascimentale. E ancora vi erano codici antichissimi, come il Virgilio Vaticano (IV-V secolo dell'era cristiana) o Le Commedie di Terenzio, accanto a manoscritti miniati della grande scuola padovana di Bartolomeo Sanvito.

L'unicità del Museo Bembo consisteva nel non essere solo frutto del gusto del proprietario, ma piuttosto, essere in larga parte, il suo strumento di indagine sul mondo. Bembo è uno studioso, e nel compulsare gli autori antichi, come già fece Petrarca, utilizza le testimonianze materiali del mondo romano per approfondire la sua conoscenza dei testi. In questo senso, iscrizioni contengono preziose indicazioni sul diritto romano, monete possono suggerire la corretta scrittura di un termine, mirabilia naturali possono aiutare a comprendere Plinio il vecchio. La stessa casa padovana di Bembo, dove era conservata la collezione, evocava le residenze degli antichi romani, con ampi giardini, statue, padiglioni, piante rare.

Nel Cinquecento il prestigio di Pietro Bembo era enorme, e la fama del Museo Bembo lo rendeva un luogo di pellegrinaggio per intellettuali e artisti, un baricentro culturale tanto che - come scrisse nel 1549 Pietro Aretino - "pare che la stessa Roma si sia trasferita in Padova". Ci pensarono gli eredi di Bembo a disperdere rapidamente la collezione dopo la morte del cardinale. Con il convegno padovano ha inizio un progetto di ricerca per costituire la base di conoscenza di mostra prevista per il 2013, che punta a riportare a Padova i capolavori presenti nella collezione di Bembo, che nei secoli successivi sono diventati parte delle collezioni dei grandi musei internazionali.



(©L'Osservatore Romano - 25 febbraio 2011)


segnialiamo anche:

Con lo sciopero della messa i preti del Sud sfidano Cavour (Ajello)

Clicca qui per leggere l'articolo segnalatoci da Eufemia.
[Modificato da Caterina63 14/03/2011 18:26]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Nel centocinquantesimo anniversario

Costituzione e unità d'Italia


La Carta vede al centro del sistema non lo Stato ma la persona

Pubblichiamo ampi stralci di una conferenza tenuta all'università telematica internazionale Uninettuno dal presidente emerito della Corte Costituzionale italiana.

di GIOVANNI MARIA FLICK

Il 17 marzo 1861 Vittorio Emanuele II, re di Sardegna, diventava - per grazia divina e per volontà della nazione - re d'Italia, dando inizio così al lungo percorso dell'Unità d'Italia. Da allora sono passati centocinquanta anni e ci stiamo preparando a celebrarne l'anniversario: quale è il modo migliore per ricordare adeguatamente un evento tanto importante per la storia del nostro Paese?

Innanzitutto, credo che l'anniversario debba essere celebrato cercando di evitare la retorica di solito, purtroppo, consueta in queste occasioni; ma cercando anche di evitare l'approssimazione o l'estremismo secondo cui quello che è capitato in questi centocinquanta anni è tutto bello e positivo (ignorandone gli errori e le ambiguità) o, al contrario, è tutto sbagliato e da rifiutare (ignorandone i successi e le conquiste). Riflettendo con spirito critico sulla situazione attuale, qualcuno si domanda addirittura se abbia ancora senso parlare di Unità d'Italia, e se sia ancora possibile e utile guardare al passato, al fine di trarne qualche insegnamento per il presente e per il futuro, secondo la scritta che sta sull'ingresso del campo di concentramento di Dachau: "Chi ignora il passato è condannato a ripeterlo".

Per rispondere a questi interrogativi, vale la pena di dare uno sguardo retrospettivo ai centocinquanta anni trascorsi: una parabola che ha come momento centrale quella Costituzione che oggi è alla base del nostro modo di vivere insieme. Essa è stata preceduta da una unificazione che si è snodata attraverso quattro guerre di indipendenza; tre l'avevano costruita, mentre la quarta (la guerra del 1915-1918) l'aveva consolidata, completando il primo Risorgimento. Ma in quella stessa parabola si collocano anche il fascismo, la seconda guerra mondiale, la sconfitta, la perdita dell'unità nazionale, quando il Paese tornò a dividersi tra il Regno del Sud e la Repubblica Sociale al Nord. Infine, nella parabola si collocano la Resistenza, la guerra civile, il secondo Risorgimento, per giungere alla scelta repubblicana e alla Costituzione, che rappresenta - anche cronologicamente - il momento centrale e attuale della nostra esperienza e della nostra vita unitaria.

Soprattutto alla Costituzione - alla sua origine, alla sua scrittura, alla sua attuazione (certamente incompleta) - bisogna quindi volgere lo sguardo, per celebrare questi centocinquanta anni; e vorrei provare a farlo con le parole - quanto mai attuali - di due miei autorevolissimi predecessori.
 
Il primo di essi, Enrico De Nicola, era un liberale monarchico, che divenne capo provvisorio dello Stato e poi primo presidente della Corte Costituzionale. Alla prima udienza di quest'ultima, nel 1956, disse: "La Costituzione è poco conosciuta anche da chi ne parla con saccenza. Deve essere divulgata senza indugio prima che sia troppo tardi". Il secondo, Leopoldo Elia, anch'egli presidente della Corte, nel 2008, in occasione del sessantesimo anniversario della Costituzione, ricordava che "essa è profondamente attuale, ha saputo comprendere fenomeni nuovi, non previsti quando venne scritta".

Si riferiva a temi come l'ambiente, la privacy, il mercato e la concorrenza, la dimensione europea; temi che la Costituzione ha certamente saputo cogliere, consentendone lo sviluppo, l'attuazione e la tutela, pur senza averli previsti esplicitamente. A queste due affermazioni - significative, in tempi nei quali si dibatte sulla Costituzione domandandosi se sia ormai superata e se, quindi, vada cambiata - vorrei aggiungerne una terza. Oggi, la Costituzione non solo è conosciuta poco, anche dagli addetti ai lavori; non solo è attuale, a sessant'anni dalla sua nascita; ma è anche la chiave per comprendere il significato dell'unità d'Italia e la sua continuità su basi nuove e attuali, attraverso la prosecuzione e l'evoluzione del patriottismo, nel passaggio dal primo al secondo Risorgimento.

È una costruzione, quella proposta dalla Costituzione, che vede al centro del nostro sistema non più lo Stato come durante il fascismo, ma la persona. Essa si snoda nella definizione di una serie di rapporti civili, sociali, economici e politici, in cui la Costituzione sviluppa i diritti e i doveri che sono tra loro strettamente legati. Credo che i valori, contenuti nei principi fondamentali con cui si apre la nostra Costituzione, possano essere efficacemente riassunti nel principio di pari dignità sociale e nel principio di laicità.
Il primo è un valore di contenuto, di cui parla l'articolo 3 della Costituzione, sottolineando il rapporto tra l'eguaglianza formale di tutti di fronte alla legge e la eguaglianza sostanziale, cui è necessario arrivare eliminando le disparità di fatto che impediscono la piena partecipazione di tutti (non solo i cittadini) alla vita pubblica e sociale. La pari dignità sociale rappresenta la chiave di collegamento tra l'eguaglianza e la diversità (il pluralismo), che è un altro dei valori fondamentali della nostra Costituzione, attraverso la solidarietà.

Accanto al valore della dignità, di contenuto, si colloca il valore della laicità; un valore di metodo (il metodo democratico), non menzionato esplicitamente nella Costituzione, ma che la Corte Costituzionale ha desunto da essa con una sentenza del 1989, dopo la modifica del Concordato con la Chiesa Cattolica nel 1984. La laicità va intesa non soltanto con riferimento al rapporto tra Stato e Chiesa e alla dimensione religiosa; ma altresì con riferimento al rispetto reciproco - nella consapevolezza dei propri valori e allo stesso tempo nel rispetto dei valori dell'altro - e al dialogo, in antitesi alla sopraffazione. È, insomma, quello che Bobbio definiva "accettare l'altro per quello che è". È un valore che nasce dall'eguaglianza e dalla libertà religiosa, dal rifiuto del laicismo, ma anche da quello del radicalismo, del fanatismo e dell'intolleranza; è la prospettiva del dialogo nel rispetto reciproco.

Nel primo Risorgimento la nazione si è fatta Stato attraverso il riferimento a una serie di valori come la storia, la cultura, la lingua, il territorio; anche se, in un secondo momento, questo senso di appartenenza alla nazione è stato turbato dal centralismo, dalla burocrazia, da quella che venne definita la "piemontesizzazione" del Sud, dalle carenze dello Stato, fino ad arrivare al rischio dello scollamento tra nazione e Stato. Nel secondo Risorgimento, il tema della patria si è espresso attraverso il riferimento a valori comuni e condivisi, di appartenenza alla comunità: un patriottismo costituzionale che è fondato su valori nuovi, più attuali di quelli su cui si è giocato il primo patriottismo, capaci perciò di gestire la nostra convivenza nel futuro e di fronte ai problemi della globalizzazione.

I valori del primo Risorgimento costituiscono un patrimonio elitario - affidato soprattutto agli intellettuali, attraverso la cultura, la storia, le tradizioni, la lingua - al quale rimase per lo più estraneo o indifferente il popolo, salvo qualche esperienza isolata: la partecipazione popolare alla Spedizione dei Mille, alle Cinque Giornate di Milano, ai moti insurrezionali. Il secondo Risorgimento ci propone, invece, un'altra serie di valori: l'eguaglianza formale e sostanziale; la solidarietà; la democrazia; la sovranità popolare; il pluralismo; il pacifismo; l'unità e l'indivisibilità dell'Italia e nello stesso tempo l'autonomia.

La Costituzione nasce con il secondo Risorgimento, dopo la dittatura, la sconfitta e la divisione creatasi nuovamente nel 1943 in Italia tra il Regno del Sud, in cui continuava a esistere lo Stato grazie alla presenza alleata, e la Repubblica sociale al Nord; quella che venne definita la morte della patria, ma che in realtà è stata all'origine della sua rinascita.

Uno dei fenomeni sui quali ritengo sia doveroso riflettere di più, per capire meglio la situazione attuale, è rappresentato dalla Resistenza: un fenomeno globale, caratterizzato dalla lotta armata partigiana; dalla fedeltà e dalla testimonianza dei militari (si pensi a coloro che morirono a Cefalonia e a coloro che rifiutarono di giurare nei campi di concentramento) e dalla partecipazione della popolazione civile. Non si possono certamente ignorare gli scontri, le violenze, i torti reciproci che hanno caratterizzato la Resistenza. Qualcuno dubita dell'utilità - se non della possibilità - di avere una memoria condivisa. Io credo che occorra almeno raggiungere la consapevolezza della pluralità e della contrapposizione fra le memorie, ferma restando la consapevolezza di quale doveva essere la parte "giusta" con cui schierarsi, in nome della libertà e contro la dittatura e la sopraffazione. Ma occorre altresì cercare di giungere non tanto alla condivisione, quanto piuttosto alla comprensione per chi ha sbagliato in buona fede.

Dopo la Resistenza, seguirono altri eventi determinanti. In primo luogo, vi fu la scelta del 2 giugno 1946, con il referendum e il passaggio dalla Monarchia alla Repubblica; momenti caratterizzati da tensioni, da accuse di brogli e dal rinnovato contrasto tra il Nord repubblicano e il Sud monarchico, che fecero nuovamente temere (così De Gasperi) per l'unità morale e territoriale del Paese. Il referendum fu una forma di rispetto della volontà popolare, demandando al popolo la scelta tra Repubblica e Monarchia. Al referendum seguì l'Assemblea Costituente, che rappresentò la prima occasione di suffragio universale e di voto alle donne, e giunse a scrivere e ad approvare - con una larghissima maggioranza - la Costituzione in vigore dal 1? gennaio 1948: una costituzione frutto di un compromesso "alto" tra la componente liberale ed elitaria, la componente cattolica, la componente social-comunista.

Una Costituzione che pone al centro la persona, nel suo valore individuale e nella sua proiezione sociale; e che ebbe un duplice, importantissimo significato. Da un lato, rappresenta il rifiuto del passato, della dittatura, del fascismo e dei suoi valori di riferimento (il corporativismo, il bellicismo, l'autarchia, il razzismo); dall'altro lato, rappresenta il rinnovamento attraverso un patto per il futuro, in cui si sperava di raggiungere un nuovo clima che consentisse la convivenza del nostro popolo.

Dopo l'entrata in vigore della Costituzione, i partiti che avevano svolto un ruolo fondamentale nel collegare la società civile a uno Stato da rivitalizzare, hanno finito poi con l'occupare lo Stato e le istituzioni; al tempo stesso sono ritornati alla carica il centralismo e il burocraticismo, che erano già stati uno dei vizi del primo Stato unitario. La Costituzione, in parte non è stata attuata, in parte è stata attuata con molto ritardo, tanto che qualcuno ha parlato di Costituzione tradita. Quei difetti, quelle ambiguità, quei vizi che avevano segnato il primo Risorgimento, hanno segnato anche il secondo.



(©L'Osservatore Romano 14-15 marzo 2011)

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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16/03/2011 17:49
 
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A colloquio con Ernesto Galli della Loggia sull'identità italiana

E i cattolici diventarono
i difensori dell'unità


di SILVIA GUIDI

"Se l'espressione non ricordasse sgradevolmente altre ridicole e millantate progeniture (è chiaro a quali altri celebri "figli" della storia italiana del Novecento sto pensando) io e quelli della mia generazione potremmo davvero dirci "figli della Repubblica"". Nella postfazione a L'identità italiana - ripubblicato insieme a Cavour di Luciano Cafagna La donazione di Costantino del nostro direttore alla vigilia delle celebrazioni per i 150 anni dell'unità nazionale (per festeggiare l'anniversario la casa editrice Il Mulino presenta anche i primi trenta titoli della collana "L'identità italiana" in versione digitale) - Ernesto Galli della Loggia rischia la prima persona singolare, inconsueta in uno storico; il titolo del capitolo aggiunto all'ultima ristampa L'identità di un italiano, indica esplicitamente che in questo caso il campione statistico esaminato coincide con l'autore stesso. All'analisi più strettamente scientifica dedicata agli aspetti geografici e storici dello Stivale, ottenuta intrecciando molti fili diversi - il paesaggio e il quadro ambientale, l'eredità latina e il retaggio cristiano cattolico, il policentrismo urbano e regionale, il familismo e l'invadenza della politica - si aggiunge un racconto autobiografico che "vuole essere una sorta di ricerca personale dei modi concreti, ma anche dei pensieri, delle emozioni, insomma dei più vari tramiti attraverso cui un italiano, nato più o meno all'alba della Repubblica, ha vissuto in tutti questi decenni l'appartenenza al proprio Paese, in che modo egli si è sentito (o non sentito) italiano". Frutto di una vicenda millenaria, ricca di prestiti e di contaminazioni, l'identità italiana è tuttora percepita come fragile e non ha saputo tradurre nelle forme della modernità un'idea unitaria del Paese; su questo tema, la "storia confidenziale" dell'Italia della seconda metà del Novecento tracciata dall'autore nelle pagine conclusive cede il passo alla cronaca di una delusione: "La mia generazione, mentre si schierava dalla parte delle res novae, ha però fatto ancora in tempo a sentire l'insieme di questo lascito del passato come il fondo decisivo, vivo e pulsante della propria identità. Abbiamo voluto scommettere, e abbiamo sperato, che anche nel futuro avrebbe potuto continuare a essere così. Apparentemente l'esito della scommessa è ancora incerto. Ma via via che passano i giorni la speranza diventa sempre più tenue e il passato sembra prendere il colore evanescente del superfluo, consegnandoci solo a un grigio presente". Anche la Chiesa percepisce questo scollamento, questo processo di disaggregazione, di disunione, di paura, di mancanza di speranza in un momento in cui "un disperato qualunquismo", per dirla con Galli della Loggia ("Corriere della Sera" del 30 dicembre scorso) è il chiaro sintomo di una disaffezione dalla politica, dal Paese, dalle istituzioni pubbliche avvertite a una distanza siderale rispetto alla realtà. Senza scomodare la società liquida di Bauman è evidente a tutti che lo spirito di unità, di condivisione di un comune destino, si è fatto tenue. La Chiesa vuole, oggi, tenere unito un popolo perché lo considera un valore, una vittoria sugli egoismi e sulle barriere, e ciò indipendentemente dal giudizio sulle modalità storiche con cui si è realizzata l'unità italiana e "mostra - scriveva ancorasul "Corriere della Sera" del primo dicembre scorso Aldo Cazzullo - un approccio sereno a fatti laceranti che richiederebbero qualche revisione sul fronte laico. Sono molti i segni dell'attenzione ai 150 anni: un convegno della Conferenza episcopale italiana, il segretario di Stato nel settembre scorso a Porta Pia, per la prima volta dal 1870, il dibattito in corso sui giornali cattolici. Paradossalmente a salvare quel Risorgimento che fu fatto contro la Chiesa potrebbe essere proprio la Chiesa".

Solo una battuta brillante o un'affermazione che contiene anche una parte di verità?

Penso che questa affermazione sia vera ma soltanto dal punto di vista politico. L'interesse per il Risorgimento credo sia più o meno equamente distribuito oggi tra tutte le persone che hanno un minimo di interesse per le cose pubbliche del Paese. Quello che è vero è che oggi i cattolici sono diventati i fautori più determinati dell'unità d'Italia, questo sì, dopo esserne stati non dico i nemici più accaniti, ma essere stati comunque all'opposizione, il gruppo sociale più ostile, insieme ovviamente a quelli che appoggiavano la vecchia monarchia preunitaria, oggi sono invece diventati i più determinati nell'appoggiare l'unità, nel riconoscere nell'unità nazionale un valore. C'è stato un grande spostamento negli ultimi decenni nel rapporto tra gli italiani e il Risorgimento e non solo, anche tra gli italiani e il sentimento patriottico-nazionale, le due cose sono molto accoppiate, negli ultimi tempi c'è stato un ingresso a vele spiegate nel fronte dei filo-risorgimentali e dei filo-italiani della sinistra che fino a qualche tempo fa manteneva delle riserve o comunque una distanza psicologica e sentimentale nei confronti di tutta la vicenda risorgimentale, in cui oggi invece si riconosce in pieno; viceversa nella destra c'è la creazione di una grande fetta di opinione pubblica polemica verso il Risorgimento e l'unità nazionale. I cattolici dal momento della conciliazione e poi dall'arrivo al potere nel 1945 si sono pienamente riconosciuti nell'unità nazionale, e quindi per forza nel Risorgimento; e ancora di più questa identificazione si è accresciuta con la comparsa sulla scena politica italiana della Lega.

Il disincanto - scrive Massimo Borghesi su Ilsussidiario.net - ha ucciso la retorica nazionale ma ne ha creato un'altra, celebrando al posto di questa, la "disunione" d'Italia.

Sicuramente nulla come l'esistenza di una cosa chiamata Stato italiano ha contribuito al fatto che gli italiani in un secolo e mezzo si siano alimentati meglio, abbiano abitato in case più confortevoli, abbiano avuto un'istruzione migliore, abbiano potuto crescere in ricchezza, e così via, lo Stato italiano è stato un grande promotore dello sviluppo economico, oggi tutto questo appare abbastanza dimenticato, colpevolmente dimenticato anche perché negli ultimi trent'anni il Risorgimento, l'unità nazionale, insomma tutto questo processo storico è stato sostanzialmente messo da parte nei programmi scolastici, non ha avuto grande spazio, poi perché sono ricomparse una serie di tensioni divisive e l'immigrazione che hanno ridato spazio a tutte le divisioni storiche del Paese: prima il nord contro il sud e poi il sud contro il nord, in una sorta di nostalgia borbonica anti-italiana, penso soprattutto a Terroni di Pino Aprile, tra i libri più venduti negli ultimi mesi, un atto di accusa violentissimo e infarcito di inesattezze e di dati sbagliati contro l'unificazione italiana sul tema del Mezzogiorno povero angariato e oppresso; è vero che fa sempre più notizia ciò che è negativo rispetto a ciò che è positivo: diciamo che negli ultimi trent'anni ha fatto sempre più notizia quello che era negativo dell'Italia, quello che non funzionava; cose che sono tutte vere naturalmente, ma tutto il resto non ha fatto notizia, è stato cancellato in qualche modo dalla memoria, e quindi gli effetti si vedono oggi.

Lei ha accusato più volte questa storiografia di un errore di metodo: scambiare i "giocattoli del re" per un indice di sviluppo.

Aprile sostiene che il regno di Napoli era la terza potenza industriale d'europa; molte delle "prove" di queste affermazioni sono dati reali mitizzati o fraintesi. Qualche esempio: le fabbriche di tessuti di San Leucio, vicino a Caserta, che producevano tessuti molto pregiati, erano tutte attività finanziate dal re e dalla casa reale per l'arredamento dei propri palazzi, così come le fabbriche di porcellana di Capodimonte; non è che ci fosse un mercato in Italia o nel regno del sud delle stoffe di San Leucio né dei prodotti di Capodimonte: erano fabbriche reali che servivano per la corte; il sud versava in condizioni economiche di arretratezza, anche rispetto a quei tempi. Sono cose che vengono completamente cancellate e dimenticate da questa moda di nostalgismo filo-sudista.

Il desiderio di riappropriarsi della propria storia, di per sé legittimo, se diventa ideologia porta a mitizzare dei particolari.

Non vedendo invece le cose generali. Una per tutte: la Lombardia da sola aveva più strade di tutto il regno del sud. Pensare a uno sviluppo economico senza strade è un po' difficile. Il tasso di analfabetismo dell'Italia meridionale era tra il 70 e il 90 per cento, in Sicilia il dieci per cento sì e no della popolazione sapeva leggere e scrivere (e nella popolazione femminile soltanto le donne dell'aristocrazia); nel nord invece il tasso di analfabetismo nel Lombardo-Veneto era tra il 40 e il 50 per cento, molto di meno. Ancora più forte era il dislivello tra le città, tra Milano e Napoli per esempio. I dati sono questi, e non vengono contestati, solo non vengono ricordati. Al loro posto viene citata la Napoli-Portici. Nessuno se lo chiede mai, ma a cosa servivano otto chilometri di ferrovia fra Napoli e Portici? Mentre la Torino-Genova fatta da Cavour serviva a molto, per il trasporto di merci, la Napoli-Portici non significava niente dal punto di vista commerciale, non esisteva neanche un traffico di viaggiatori. Era una grande novità la ferrovia, e il re di Napoli aveva voluto provare com'era andare in treno, le sensazioni che si provavano a bordo, viaggiando dalla sua residenza nella capitale alla villa fuori città.

"Un film riuscito proprio perché nessuno credeva che sarebbe mai stato girato"; Luciano Cafagna descrive così il miracolo politico dell'unità italiana, vedendo in Cavour il regista di un'opera riuscita quasi per caso.

È un paradosso intelligente, e come tale nasconde una verità. Nessuno avrebbe mai scommesso molto su un progetto del genere perché la quantità e la qualità dei fattori contrastanti erano molto superiori alla quantità e la qualità dei fattori a favore, eppure, miracolosamente, è il caso di dire, il progetto unitario riuscì, grazie soprattutto a Cavour, come Cafagna spiega molto bene. L'unità come un film che non si sa come fare a girare, ma viene girato perché ci fu un fortissimo elemento di improvvisazione e di casualità nella costruzione dell'Italia: su questo non ci sono dubbi. Cavour seppe sfruttare degli errori che l'Austria avrebbe potuto benissimo non fare, come l'ultimatum al Piemonte che dette il pretesto al conte di iniziare la seconda guerra di indipendenza (anticipazione dell'errore fatto con l'ultimatum alla Serbia intimato nel 1914 da Francesco Giuseppe dopo l'uccisione dell'arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo). C'è un elemento di casualità e di fortuna, perché le cose potevano andare diversamente e prendere una piega imprevista. Tutti questi elementi nel libro di Cafagna sono messi molto in evidenza, viene descritta la decisiva dimensione politica, l'invenzione politica quasi giorno per giorno dovuta al genio di un uomo. Sicuramente il Risorgimento è la dimostrazione del ruolo della personalità, dell'individuo nella storia; se non ci fosse stata una persona dell'abilità, della spregiudicatezza, dell'intelligenza di Cavour non so se si sarebbe potuta fare l'unità d'Italia, e anche se non ci fosse stato un uomo come Garibaldi. La personalità del singolo conta nella storia, conta, eccome. Anzi, forse questo è stato un male perché ha lasciato una specie di dna nella storia italiana, un po' di culto eccessivo dell'uomo nella storia politica, l'idea che l'uomo geniale, lo statista di piglio può risolvere le situazioni più complicate, cosa che spesso ha prodotto effetti rovinosi.

Nel suo libro analizza le mille differenze del "policentrismo" italiano. Che cosa può contribuire di più a rinsaldare il senso di un'appartenenza comune?

Per rispondere a questa domanda servirebbe la sfera di cristallo; è un po' come cercare la mappa per l'Eldorado. Comunque più che far appello a qualche fattore concreto, servirebbe qualcuno - un partito o qualcosa di simile - che spiegasse agli italiani i vantaggi che hanno avuto a essere riuniti e continuano ad avere e il disastro che sarebbe il dividersi. Qualcuno che facesse riflettere più su dati di realtà di natura storica, che non vengono tenuti in considerazione, da mettere in campo per rinsaldare l'unità. A parte questi fattori di tipo ideologico culturale, penso che ci siano dei dati che producono un'immagine del sud come qualcosa di diversamente affidabile; qualunque battaglia contro la delinquenza organizzata per spazzare via questo fenomeno rinsalda l'unità del Paese, qualsiasi miglioramento delle condizioni civili del Mezzogiorno, da quello delle città a quello delle comunicazioni, è una cosa che gioca a favore dell'unità del Paese perché diminuisce la divisione che c'è, divisione di percezioni culturali e divisioni anche concrete naturalmente, è soprattutto sul terreno della cultura civica e della legalità che l'unità d'Italia si può oggi rinsaldare, perché è su questi punti che si sono prodotte le diversità maggiori.

"Io non mi sento italiano ma per fortuna o purtroppo lo sono" cantava Gaber. Gli italiani hanno un'ambivalente percezione di sé, che va dalla facile autodenigrazione all'orgoglio; "all'italiana" è un modo di dire inventato dagli stessi italiani per designare quel misto di pressappochismo e di insufficienza con cui si affrontano le emergenze o si organizza l'ordinario.

Quest'ambivalenza non esiste forse un po' in tutti i Paesi? Siamo sicuri che non abbiano anche loro questa ambivalenza, che i francesi, a esempio non dicano talvolta: la Francia è il più bel Paese del mondo ma qualche volta dovremmo essere come i tedeschi? In certe occasioni storiche l'hanno detto, per esempio nel 1870 dopo Sedan ci fu una grande corrente culturale in Francia. Faccio un nome per tutti: Ernest Renan pensò che quella sconfitta militare era anche il sintomo di un ritardo complessivo della Francia in molti campi e che bisognava imitare la Germania. Certo, a livelli molto alti e non di chiacchiera da bar, comunque fu un discorso che penetrò profondamente nell'opinione pubblica, che la Francia era in ritardo e bisognava rimettersi in carreggiata e "gli altri erano meglio". Gli italiani nella percezione di sé hanno un problema storico, sanno di aver avuto un grandissimo passato; più o meno loro, poi, perché è discutibile che il passato della Roma antica sia un passato italiano, si possono muovere ragionevoli obiezioni a questa filiazione, ma comunque sono cose che sono avvenute in Italia e hanno lasciato tracce sulla nostra vita, sul paesaggio e così via. Quindi da un lato sanno di avere questo glorioso passato alle spalle - magari non è il loro, ma comunque è alle loro spalle - e per almeno tre, quattro secoli hanno poi dovuto misurare che dal punto di vista politico e sociale contavano poco o niente, e questo forse ha prodotto questo doppio registro di percezione di sé. Poi possono esserci tanti altri fattori, ma probabilmente in noi parla la mentalità del nobile decaduto.

Nel recente film di Martone Noi credevamo la visione è quella di un Risorgimento senza eroi, cupo, dominato dal fanatismo nazionaltotalitario di Mazzini. Una stesso desiderio di smascherare "di che lacrime gronda e di che sangue" quest'epoca muove lo storico Alberto Mario Banti, che avanza dubbi "sulla opportunità di continuare a cercare nel Risorgimento il mito fondativo della nostra attuale Repubblica"".

Nell'analisi di Banti c'è una totale cancellazione del Risorgimento come fatto politico; non c'è Cavour, non c'è la politica. Il che è una cosa che forse corrisponde allo stato d'animo presente degli italiani che non ne possono più, hanno schifo della politica, la disprezzano. Dal punto di vista storico si tratta di una notevole...

Ingenuità?

Non ingenuità, contraffazione della realtà delle cose. C'è stato innanzitutto un processo guidato politicamente con un fortissimo investimento nella politica come spiega il libro di Cafagna, senza la politica non si sarebbe potuto realizzare. C'è invece un affollarsi di analisi di personaggi, sentimenti, situazioni che vengono troppo avulsi dal proprio contesto e a cui viene data troppa centralità. Non si può giudicare il passato con gli occhiali di oggi. Banti vorrebbe che ci dissociassimo dal Risorgimento perché aveva modelli di comportamento e di idee con i quali non ci possiamo riconoscere, ma con questo criterio tutti dovrebbero dissociarsi dal loro passato nazionale. I francesi non si possono riconoscere in una rivoluzione francese che aveva la ghigliottina e le stragi di settembre, che decapitava innocenti a migliaia, che ha fatto la Vandea. Se uno dicesse polemicamente "ma allora voi vi riconoscete in questo?" chi potrebbe dire "sì, mi riconosco nello sterminio dei vandeani?". Gli inglesi si possono riconoscere nelle stragi che alla metà del Settecento il regno di Inghilterra fece degli scozzesi e degli irlandesi? Tutti i passaggi nazionali sono cosparsi di sangue, di uccisioni, di oppressioni e la storia è un banco di macelleria, come diceva Hegel. Tutte le storie, la storia delle nazioni, ma anche la storia dei movimenti politici che non sono stati nazionali. Da questo a dire che allora noi non ci possiamo riconoscere nel linguaggio dell'inno d'Italia, nel virilismo che anima tutta la prosa risorgimentale, come sicuramente lo animava, come la prosa di tutto il nazionalismo di tutti i Paesi europei - non ce ne è stato uno in cui non ci fosse questo virilismo patriottico - è una notevole ingenuità nel lavoro di uno storico di professione. È la stessa operazione dei "sudisti" che per trovare una giustificazione alla situazione attuale dell'Italia meridionale invocano il passato. Sono due usi del passato assolutamente impropri e strumentali, uno per giustificare l'oggi, l'altro per dissociare l'oggi dallo ieri e affermare che esistiamo, che siamo italiani solo perché possiamo riconoscerci nella Costituzione italiana. Siamo italiani per moltissime altre ragioni, tra cui il fatto che c'è uno Stato che si chiama Italia ed è stato fondato durante il Risorgimento.

Quali piste di ricerca consiglierebbe a un giovane studioso interessato al tema della nascita dell'Italia?

Non tanto di occuparsi del Risorgimento, super scandagliato da decenni, quanto di investigare il dopo. Le cose più interessanti possono venir fuori da studi sul periodo immediatamente successivo all'unità, per esempio l'incontro del nord con il sud. Posto che gli storici quando studiano il passato sono mossi da interessi contemporanei, oggi a me piacerebbe molto leggere dei libri di ricerche che mettano in luce quali sono stati i problemi, le reazioni, gli stati d'animo di coloro che concretamente hanno prodotto l'incontro del nord con il sud: gli impiegati che sono andati al sud dal nord, il prefetto toscano che porta la famiglia dove lavora, il tenente dei carabinieri che viene dalla Lombardia, come è avvenuto nei piccoli crogiuoli della quotidianità locale quest'incontro, con la nascita di quali sentimenti, di quali opinioni, di quali percezioni, di quali tensioni. Alcune cose sono già state pubblicate; ci sono testi interessantissimi sui professori che andavano nei licei del sud, spaccati delle società dell'epoca che possono fornire materiale prezioso; lavorerei su questo filone di ricerca.



(©L'Osservatore Romano 17 marzo 2011)



Dunque.... cliccate anche qui sotto:

Come dobbiamo e possiamo festeggiare i 150 anni dell'Unità d'Italia?


                    L'Italia e santa Caterina da Siena

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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21/03/2011 21:18
 
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Il contributo dei cattolici al processo di unificazione

Come la Chiesa si reinventò dopo l'unità d'Italia


di LUCETTA SCARAFFIA

Sarà dal 24 marzo in libreria la raccolta di saggi, curata da Lucetta Scaraffia, I cattolici che hanno fatto l'Italia. Religiosi e cattolici piemontesi di fronte all'Unità d'Italia (Torino, Lindau, 2011, pagine 251, euro 23). Anticipiamo ampi stralci dell'ultimo capitolo scritto dalla curatrice. Allo stesso tema è dedicata la mostra "Un'amicizia all'opera. La santità piemontese nella Torino dell'Unità" promossa dal centro culturale Pier Giorgio Frassati, in collaborazione con il consorzio Beni culturali Italia, e aperta dal 21 marzo al 10 maggio a Torino, a Palazzo Barolo.

Nel settembre 1860 le monache del monastero delle clarisse di Monteluce di Perugia vedono la loro vita tranquilla sconvolta dall'arrivo dei piemontesi, e lo narrano spaventate nel loro Memoriale: "Tornato il sullodato padre quasi correndo dal Vescovado ci annunziò che a momenti si doveva partire per andare in altro monastero dovendo in breve arrivare l'armata piemontese che si sarebbe qui accampata. Immagini ognuno il disturbo, la confusione, lo sbigottimento di tutte noi". Altre clarisse entrate successivamente nello stesso monastero, il 24 maggio 1915, al momento dell'entrata in guerra dell'Italia scrivono sempre sul Memoriale: "L'ora terribile è suonata e la guerra tanto temuta e scongiurata con tante preghiere fatte dì e notte è stata dichiarata dal nostro re Vittorio Emanuele III all'Austria (...) mentre un esercito si batte per la patria, noi pregheremo per essi e la preghiera affilerà le armi loro e le renderà robuste".

È una testimonianza, questa, del cambiamento di atteggiamento dei religiosi cattolici in poco più di cinquant'anni nei confronti della nuova nazione italiana, una prova di come, in un tempo relativamente breve, sia avvenuto un capovolgimento della situazione: da una forte contrapposizione iniziale a una sostanziale condivisione. È stato solo un adeguarsi alla realtà per ragioni di forza maggiore, oppure, fin dall'inizio, il rapporto così conflittuale fra nuovo Stato e Chiesa cattolica ha conosciuto una storia più complessa e in fondo più positiva di quella a cui spesso è stata ridotta?
I problemi da affrontare erano di due tipi, entrambi gravi e complicati: da una parte la Chiesa, con la sua realtà di Stato territoriale che occupava il centro della penisola, si opponeva di fatto alla sua unificazione, dall'altra le condizioni di assoluto privilegio di cui il clero e tutte le istituzioni ecclesiastiche godevano all'interno degli Stati peninsulari erano incompatibili con i principi liberali, e ancor di più con quelli democratico-mazziniani che animavano il movimento risorgimentale.
Il problema è stato affrontato dagli storici cattolici solo nella seconda metà del Novecento, con un atteggiamento sostanzialmente comprensivo verso le esigenze di formazione del nuovo Stato e la necessità della modernizzazione liberale: storici come Traniello, Scoppola, Rumi, Martina, hanno preferito guardare al cattolicesimo più favorevole alla modernizzazione, più vicino alla nuova entità nazionale, dimenticando l'intransigenza e la separazione che hanno segnato - se pure con intensità diversa - gli anni che vanno dall'Unità alla prima guerra mondiale.

Ma nel frattempo la storiografia cattolica, spesso anche interna alle stesse congregazioni religiose, ha avviato un interessante allargamento degli studi alla storia delle congregazioni di vita attiva nate nell'Ottocento, protagoniste di importanti interventi sociali nell'Italia appena riunificata, che hanno permesso di guardare al problema da un punto di visto più informale e positivo di quello del rapporto fra le istituzioni. Inoltre, negli ultimi decenni, è nata anche una storiografia cattolica tesa a recuperare in positivo le ragioni dell'intransigenza, descrivendo però il processo unitario in modo piuttosto unilaterale e negativo, cioè come una dura e violenta sopraffazione delle ragioni della Chiesa e dei cattolici da parte del nuovo Regno. Non si deve dimenticare, però, che il contributo di questo gruppo di storici è stato determinante per riaprire il dibattito e far conoscere la realtà di un processo storico in gran parte rimosso.
Certo, nei confronti della Chiesa lo Stato sabaudo fu ingiusto e prevaricatore, negandole la libertà proprio quando la concedeva a tutti, ma oggi studi recenti offrono la possibilità di una nuova sintesi interpretativa più equilibrata, come quella avviata da Andrea Riccardi, che pure ha riconosciuto che "l'intransigenza è stata qualcosa di più che una serie di battaglie contro nemici esterni: ha realizzato una ricomposizione profonda della Chiesa dopo la sua emarginazione dai quadri istituzionali". La Chiesa si ricentra su Roma e sul papato, e così si ricostruisce e si rafforza in una dimensione mondiale invece di spezzarsi in segmenti nazionali.
Quasi sempre, questi studi hanno mantenuto una prospettiva strettamente nazionale, senza prendere in considerazione il fatto che la costituzione del nuovo Regno d'Italia, con la fine del potere temporale della Chiesa, ha determinato un cambiamento sostanziale di una istituzione universale, che avrebbe poi coinvolto, nel giro di pochi anni, il cattolicesimo mondiale.

In sostanza, si può affermare che lo stretto legame fra Italia e sede del Papa provocò un positivo effetto di modernizzazione e di spiritualizzazione della struttura ecclesiastica che ebbe benefici effetti sullo stato del cattolicesimo nel mondo. Un vero esempio di eterogenesi dei fini, dal momento che i molti nemici della Chiesa pensavano invece che, privata del potere temporale, la Chiesa sarebbe scomparsa.
Non è un caso che, nell'Inghilterra dell'inizio Novecento, esca per la penna di Robert Benson, intellettuale anglicano appena convertitosi al cattolicesimo, un romanzo che si può definire di fantascienza religiosa dove si immagina che Roma sia rimasta sotto il dominio del Papa, in un'Italia unificata. Il protagonista, un sacerdote cattolico inglese, arriva a Roma e la trova ferma a vent'anni prima: "Il mondo aveva camminato molto: ma Roma non si era mossa". Questa volontà di rimanere impermeabile alla modernizzazione sembra essere la condizione, secondo l'autore, per il mantenimento di una tradizione a cui lui stesso aderisce.
La storia ci insegna invece che non furono indispensabili queste condizioni per mantenere la trasmissione della tradizione cattolica, dal momento che tanto male si è volto in bene, nel giro di pochi decenni. Ma questo è accaduto anche perché, pure all'interno della Chiesa, i punti di vista erano molti e diversi tra loro, e c'erano cattolici pronti a cogliere anche la perdita di beni e di poteri come un'occasione per riformare la vita religiosa. E fra costoro, come vedremo, un posto particolare lo ebbero le donne.

Senza dubbio, a confermare l'interpretazione più pessimista circa le intenzioni distruttive dello Stato italiano nei confronti della Chiesa sono state le leggi di espropriazione delle proprietà ecclesiastiche, che però, proprio mentre sembravano distruggere la Chiesa, hanno contribuito a rinnovare la vita religiosa. E che il risultato finale fosse poi stato ben diverso da quello che si proponevano gli anticlericali fautori delle leggi lo rivela Crispi, in un discorso tenuto alla Camera nel 1895, in cui presenta i risultati di un'inchiesta sulle associazioni religiose: "Il movimento religioso è tale da doversi impensierire (...). In Francia le congregazioni religiose sono attualmente aumentate e vanno al di là di quante erano nel 1789; hanno rifatto la manomorta e la stanno rifacendo in Italia (...). La legge del 1866 e quella del 1873 per la soppressione delle corporazioni religiose furono impotenti. Noi abbiano negato alle corporazioni religiose la personalità giuridica, ma non abbiamo impedito alle medesime di potersi raccogliere. E si sono raccolte; e possiedono più liberamente di quello che possedevano prima del 1866 e del 1873".
Il risultato della politica economica antiecclesiastica, alla fine, fu poi una sorta di compromesso che permise alle congregazioni di vivere, rinnovando le loro forme di vita. Ed è importante sottolineare che "le leggi del 1866 e del 1873 non soppressero alcun Ordine religioso e nessun Ordine religioso scomparve a seguito di esse".

Le pressioni a ridurre la Chiesa all'interno del diritto comune, mettendo fine ai suoi privilegi, che non trovano voce esplicita nello Statuto albertino del 1848, sfoceranno invece nel 1850 nelle leggi Siccardi: la prima era rivolta a sopprimere l'autonomia del foro ecclesiastico, togliendo ogni privilegio al clero, e indirizzando così la legislazione successiva sulla strada dell'uguaglianza dei culti; la seconda invece toccava proprio la proprietà ecclesiastica, con l'intento di limitare la concentrazione di beni nella cosiddetta manomorta. Ma la legge più rilevante fu quella, presentata da Cavour e da Rattazzi, del 1854, oggetto di discussione intensa nel Parlamento: con questo provvedimento cessavano di esistere, quali enti morali, le case degli Ordini religiosi, tranne quelli socialmente utili. Gli Ordini soppressi furono 21 maschili e 13 femminili, per un complesso di 335 case e 5.489 persone nei soli Stati sardi. I beni incamerati, per il momento, furono mantenuti all'interno dei bisogni religiosi, ma ciò nonostante fu forte l'opposizione dei cittadini piemontesi: di loro infatti 69.000 firmarono una petizione contraria alla legge, un numero ben superiore a quello dei votanti.

In sostanza, il Piemonte cattolico aveva pagato questo prezzo all'anticlericale Rattazzi per trovare un punto in comune fra gruppi politici estremamente eterogenei che condividevano solo il desiderio di unificare la penisola e di darle un'autonomia politica dai Paesi stranieri: monarchici, repubblicani, liberali di destra e di sinistra, esuli politici di tutti gli Stati italiani che erano stati accolti in Piemonte. Questa scelta assicurava anche al Piemonte l'alleanza della classe politica inglese, americana, tedesca, di parte del Belgio e dell'imperatore Napoleone III. "Fu, dunque, la difficile gestione del rapporto con il movimento moderato del resto d'Italia e poi con Garibaldi e i democratici - ancora una volta i problemi della strategia principale di Cavour - a dominare il campo; e il problema del rapporto con la Chiesa ne restò, tutto sommato, strumento tattico, come era stato - secondo la nostra interpretazione - in partenza. È forse uno di quei casi in cui la creazione politica avviene a spese dell'aggravamento di problemi di cui dovranno farsi carico le generazioni future" scrive Cafagna.
Dopo l'unificazione, la legge piemontese di eversione dei beni ecclesiastici venne subito applicata al resto della penisola, mentre il Codice civile dichiarava che "i beni degli istituti ecclesiastici sono soggetti alle leggi civili". Il Sillabo - che segna l'inevitabile inasprirsi dei rapporti con il pontefice - ribadisce invece la tesi opposta, cioè la piena autonomia della Chiesa dal potere civile e il diritto di questa di acquistare e possedere.

La crisi finanziaria in cui versava il nuovo Stato, unito all'inasprirsi dei rapporti con la Chiesa, costituì quindi il terreno favorevole alla promulgazione delle leggi del 1866-1867, che negavano alle organizzazioni religiose la personalità giuridica, cioè la possibilità di possedere dei beni.
Nonostante questi provvedimenti drastici, che segnarono una forte diminuzione del numero dei religiosi, il mondo monastico e conventuale italiano sopravvisse, purificandosi e modernizzandosi.
L'espropriazione ebbe conseguenze soprattutto dal punto di vista amministrativo: gli istituti religiosi, infatti, cercarono di utilizzare al massimo le possibilità offerte dalle leggi civili per garantire la propria sussistenza e le proprie opere. Molti tentarono di salvarsi, optando per diverse soluzioni: "O intestando i beni a singoli religiosi o religiose, o costituendo società tontinarie - come fece don Bosco - cioè intestavano i beni a un gruppo di persone, il cui numero poteva essere sempre ricostituito, con il vantaggio di pagare meno al momento della successione. O vendendo gli immobili a secolari ed ecclesiastici di loro fiducia, oppure fondando società immobiliari, società per azioni, società cooperative, o chiedendo l'approvazione civile come enti morali". Per operare queste strategie di sopravvivenza, i religiosi - in quanto fortemente limitati nelle loro attività economiche dal diritto canonico - avevano bisogno di apposite dispense, che la Santa Sede concesse rapidamente. In sostanza, alle congregazioni religiose fu chiesto un intervento nuovo, una rottura con la tradizione che rivelò spesso anche positivi effetti di modernizzazione.

Ma la via più moderna, battuta da molti istituti, fu quella della creazione di società anonime per azioni: la prima fu quella del Pontificio istituto missioni estere di Milano, nel 1866, e nello stesso anno la Società educativa delle Marcelline, di cui veniva nominata direttrice Marina Videmari, la fondatrice, che rimase in vita fino al 1940. Seguirono questa strada anche le suore di Carità fondate da Bartolomea Capitanio e Vincenza Gerosa, che costituirono l'associazione civile Sorelle della Carità in Milano. E l'elenco delle nuove società è lungo: Società anonima San Giuseppe, Società anonima San Pietro, Società anonima proprietà fondiarie, Istituto ligure dei beni stabili, Società ligure-emiliana di beni immobili, Società anonima per azioni San Paolo, La Immobiliare Valtellinese, e così via. Denominazioni che congiungono il nome di un santo antico con la moderna finanza capitalistica, creando spesso uno strano effetto di mescolanza di sacro e profano. Si tratta dunque di una forte spinta alla modernizzazione amministrativa, che conobbe parecchi successi, come cogliamo subito dal susseguirsi di nomi che ancora oggi ci richiamano l'esistenza di fiorenti società finanziarie.
A fine Ottocento, le innovazioni nella vita e nell'impegno religioso cominciano a coinvolgere anche le regioni meridionali. Un esempio interessante di questa commistione fra pietà popolare antica e nuove forme di vita religiosa assistenziale sviluppatosi negli ultimi decenni dell'Ottocento fu l'avvocato napoletano Bartolo Longo, a cui si deve l'"invenzione" di una nuova devozione di grande e duraturo successo - quella alla Madonna di Pompei, dove costruì un santuario - che seppe diffondere in tutta Italia, anche presso gli emigrati, con nuovi sistemi di diffusione per mezzo stampa, spedendo cioè a moltissimi nominativi, anche sconosciuti, libretti di preghiera e pubblicazioni del santuario. Accanto a questa opera devozionale, Longo volle realizzare istituti caritativi finalizzati sia all'educazione dei ragazzi della valle di Pompei sia all'educazione dei figli dei carcerati.

Longo costruisce la sua impresa seguendo le orme di don Bosco, che si reca visitare a Torino nel 1885, per capire, nel corso del breve colloquio, come aveva fatto a "conquistare il mondo". La tradizione narra che il prete torinese gli avrebbe risposto "mando il mio giornale a chi lo vuole e a chi non lo vuole" e Bartolo Longo, così, avrebbe capito che "la forza propulsiva della sua grande idea di fede e di carità" doveva essere la stampa periodica, "diffusa più ampiamente possibile e inviata anche a coloro che non pagavano".
Significava superare modi di comportarsi tipici del cattolicesimo della restaurazione, ma anche usi collaudati nel mercato librario e giornalistico, e sperimentare un nuovo tipo di utilizzazione della stampa periodica. "In altre parole - scrive Stella, biografo di don Bosco - don Bosco aveva capito l'importanza dell'opinione pubblica in un mondo che elevava i propri livelli d'istruzione e ch'era traversato dai messaggi più diversi mediante la stampa. In chiave economica aveva capito l'importanza dell'investimento di capitali a scopo di propaganda, di consenso e di ulteriore sicura mobilitazione di capitali in favore di opere di cui si faceva percepire il bisogno e l'utilità".
Come il "Bollettino salesiano", che rifletteva l'euforia di una impresa attiva e in espansione, così Longo ottenne analogo successo con il proprio periodico "Il Rosario e la Nuova Pompei", conquistando offerte per le sue opere di assistenza, prima locali, poi rivolte ai figli dei carcerati di tutta la penisola con un'opera che mirava, oltre all'assistenza dei figli, anche alla conversione dei genitori.

Anche l'iniziativa di Longo aveva una forte valenza culturale intransigente: gli scienziati positivisti della Scuola antropologica criminale sostenevano l'"impossibilità di educare i nati delinquenti", e lo accusarono di creare a Pompei "un covo di belve", usando per di più metodi educativi inadeguati, se non addirittura dannosi.
Bartolo Longo rispose proponendo i suoi come "sperimenti di fatto" che avrebbero negato l'atavismo e l'innata delinquenza, a favore della libertà dell'essere umano. Molto simile fu la risposta che don Bosco diede nei fatti a chi, come Darwin, sosteneva che gli indigeni della Patagonia fossero più simili alle bestie che agli umani, mandando i suoi missionari a convertirli e quindi a trasformarli in persone civili.
Si possono senza dubbio trovare molti elementi comuni fra i due benefattori: sia don Bosco che Longo erano promotori di santuari mariani, additavano ai fedeli la Madre di Dio come aiuto ai cristiani in ogni momento della vita, e si proponevano di affiancarle opere di assistenza rivolte alla gioventù povera, ma una certa differenza era segnata anche dal differente livello di alfabetizzazione fra il Piemonte e la Campania. Anche l'avvocato meridionale, però, dovette affrontare il problema di come collocare le sue opere all'interno dei sistemi politici e giuridici dell'epoca liberale, proponendosi come unico responsabile legale.

Fra i cambiamenti nella direzione della modernizzazione provocati dall'eversione dei beni ecclesiastici il più vistoso - e forse inaspettato - fu, senza dubbio, quello delle religiose che, fino all'Ottocento, erano state costrette dal concilio di Trento alla clausura.
Dopo la Rivoluzione francese, e la conseguente brusca interruzione della continuità secolare nella vita dei monasteri, la ripresa della vita religiosa femminile era infatti avvenuta in modo nuovo: le comunità nascevano per iniziativa di una candidata alla vita religiosa - quasi mai per desiderio di un fondatore esterno - ed escludevano la clausura e la perennità dei voti. Questo nuovo corso fu rafforzato dalle leggi di soppressione del Regno sabaudo, che comportarono la chiusura di 527 case femminili di clausura su un totale di 9.700; rimasero in vita quelle in cui le religiose svolgevano compiti di assistenza sociale. In questa fase di mutamento, durante la quale cominciò a manifestarsi un calo delle vocazioni maschili a cui corrispose un notevole aumento di quelle femminili, le religiose svolsero un ruolo particolarmente importante: fra il 1801 e il 1973 furono fondati quasi 350 nuovi istituti, di cui ben 185 nell'Ottocento e 162 nel Novecento. Norma pressoché comune di questi nuovi istituti fu la temporalità dei voti e la possibilità di conservare la proprietà dei beni, che fu chiamata "povertà semplice".

Le gerarchie ecclesiastiche hanno guardato a questo sviluppo con molto sospetto. Le primissime fondatrici, infatti, si appoggiavano sempre a un sacerdote, fingendo che egli fosse il fondatore o cofondatore, consapevoli che l'istituzione ecclesiastica non avrebbe mai accettato una fondazione solo femminile. Soprattutto, la gerarchia non accettava che ci fossero superiore generali sempre in viaggio, che cioè si comportavano come i superiori degli istituti maschili.
Le badesse, naturalmente, c'erano sempre state, ma appunto in un monastero, cioè stanziali, mentre la superiora generale di una congregazione di vita attiva, invece, doveva visitare tutti gli istituti e quindi viaggiare. Quando le suore parlavano di superiore generali, la Santa Sede rispondeva che, poiché le donne non potevano viaggiare, non poteva esistere una superiora donna. Contro questa tendenza ha combattuto una battaglia vittoriosa Teresa Eustochio Verzeri (1801-1852), nobildonna bergamasca che nel 1830 aveva fondato, dopo molte vicissitudini e con l'appoggio del canonico Benaglio, le Figlie del Sacro Cuore di Gesù, che realizzarono in pochi decenni una vera e propria catena di scuole inferiori e magistrali per le ragazze.
Teresa, di nobile famiglia, è stata una delle più ardenti fautrici dell'autonomia economica e organizzativa delle nuove congregazioni: è la prima fondatrice a chiedere esplicitamente la centralizzazione dei beni dell'istituto e la loro amministrazione diretta - "per quanto possibile", scrive, le donne "facciano da sé" - da parte della superiora generale, figura nuova e ancora molto controversa all'interno della Chiesa. L'intensa vita spirituale, testimoniata dai suoi numerosi scritti, non le impedisce di occuparsi con successo della gestione economica delle sue case e della loro espansione.

Le prime a richiedere di potersi organizzare con una superiora generale erano state, nel 1839, le suore della Carità di Lovere, che avevano incontrato in proposito un netto rifiuto. La Santa Sede temeva di diminuire l'autorità del vescovo, e mostrava preoccupazione per i viaggi che le superiore avrebbero necessariamente dovuto compiere per recarsi da un istituto all'altro. La Verzeri però procedette lo stesso nella sua richiesta, sicura del suo progetto - "questa libertà non è soltanto utile, è necessaria", scrive al Papa - forte anche dell'appoggio della sua famiglia di provenienza.
La nobile bergamasca avanzò così la richiesta direttamente a Pio IX nel 1847, dicendo che si trattava in realtà di un potere domestico, interno alla comunità, e riuscì a ottenere l'assenso, ma solo per il suo caso specifico. Però, rendendosi conto che il decreto di approvazione delle costituzioni del suo istituto non faceva menzione dell'abolizione della Quamvis justo - la costituzione di Benedetto XIV che impediva la superiora generale - la fondatrice non esitò a intervenire nuovamente presso la Curia romana, ottenendo che il breve pontificio contenesse quanto esplicitamente approvato, in modo che la possibilità di essere governate da una superiora generale fosse esteso a tutte le congregazioni femminili.
Volendo trarre qualche conclusione, che l'Italia fosse innanzi tutto una terra cattolica lo conferma il fatto che i due principali libri dell'Ottocento - prima di arrivare al libro Cuore di Edmondo De Amicis uscito nel 1886 - cioè Le mie prigioni e I promessi sposi, usciti nello stesso anno, 1832, siano due libri fortemente cattolici come i loro autori, Silvio Pellico e Alessandro Manzoni, entrambi convertiti dal liberalismo agnostico al cattolicesimo. In entrambe le opere, le ragioni della decadenza italiana seguita alle glorie del Rinascimento vengono spiegate con il dominio straniero, e questo costituirà un paradigma interpretativo condiviso almeno fino alle sconfitte delle rivoluzioni del 1848.

In realtà un'anticipazione delle polemiche anticattoliche risorgimentali era stata fatta dallo storico ed economista svizzero protestante Sismonde de Sismondi, autore di una Storia delle repubbliche italiane nel medioevo (1818), che aveva sostenuto che all'origine della decadenza italiana, della corruzione e superstizione delle sue plebi, stava la morale cattolica. Alessandro Manzoni, su suggerimento di Luigi Tosi, nel 1819 aveva confutato questi argomenti con il pacato ragionamento delle sue Osservazioni sopra la morale cattolica. Ma soprattutto dopo il 1848 - dopo cioè la fine del progetto neoguelfo - nella individuazione delle cause che avevano fino a quel momento impedito il formarsi di uno Stato nazione la presenza dello straniero viene sostituita o affiancata sistematicamente da quella della Chiesa.
I cattolici italiani infatti sono messi sul banco degli imputati non solo per la marcia indietro di Pio IX nei confronti della prima guerra d'indipendenza, ma soprattutto come responsabili dell'arretratezza culturale e sociale del Paese: in una caccia di tutto quello che risulta estraneo ad un rigido parametro di modernità razionalistica, ambito nel quale viene compresa anche la Riforma protestante, viene attribuita "alla Chiesa la responsabilità di aver tenuto lontano le masse dal progresso e dalla modernità".

La cultura cattolica fa infatti molta fatica ad accettare il liberalismo, che consiste, ai suoi occhi, nel mettere l'errore e la verità sullo stesso piano, mettendo in pericolo la fede e l'anima dei meno culturalmente preparati. Proprio contro questa libertà, che viene percepita come una pericolosa confusione, si muove con creatività e coraggio la cultura intransigente. Tipico esempio ben riuscito di mobilitazione intransigente sono le attività editoriali di don Bosco, e in particolare i libretti inseriti in una collana periodica iniziata nel 1853 con il titolo Letture cattoliche, libretti modesti di prezzo molto accessibile, volevano essere di lettura amena con apertura ai problemi sociali e naturalmente fondate su una ortodossa morale cattolica. Già dopo il 1870 avevano oltrepassato la tiratura di dodicimila copie, ed erano servite da modelli ad altri periodici pubblicati altrove con lo stesso titolo.

L'interesse per la stampa, intesa come impresa moderna, capitalistica, era centrale nel progetto di don Bosco, come dimostra la partecipazione dei salesiani all'esposizione universale di Torino del 1884, in cui trovava posto un padiglione dove essi avevano rappresentato tutto il ciclo della produzione libraria - dalla fabbricazione della carta fino alla stampa, alla legatoria e al banco vendita - con l'intento di presentarsi all'avanguardia del progresso.
Ma il più profondo cambiamento che si è impresso nell'Ottocento all'interno della cultura cattolica è stato proprio nel modo di essere e sentirsi cattolici: l'identità di appartenenza non è più determinata da nascita e tradizione, ma si basa su una "appartenenza sempre più consapevole", e la presenza cattolica in Italia si fa così un'alterità sempre più consapevole, migliorando quindi di qualità.

Se si vuole tentare un bilancio del conflitto scatenatosi fra Stato e Chiesa in occasione dell'unificazione del Paese dopo 150 anni, si può concludere che, nonostante indubbie violenze e prevaricazioni nei confronti della Chiesa e dei cattolici, la Chiesa non è stata indebolita da questa battaglia, ma ne è uscita più forte e purificata, e anche fortemente modernizzata, processo che era inevitabile e che trovava però molte difficoltà a essere accettato al suo interno. Un caso particolarmente significativo è quello delle religiose che, proprio a causa dell'eversione dei beni ecclesiastici, ottengono finalmente la possibilità di agire in campo sociale, dimostrando capacità e creatività tali da cambiare il posto delle donne nella Chiesa - basti pensare che quasi tutte le sante sono state canonizzate dopo l'Ottocento - e da proporre un modello interessante di emancipazione femminile: non attraverso la rivendicazione dei diritti, ma assumendosi le responsabilità e dimostrando di essere in grado di sostenerle.

Rimane comunque sempre aperto il problema che questa positiva metamorfosi è avvenuta sotto costrizione esterna, e non possiamo fare a meno di domandarci: "Perché la Chiesa del tempo subì anziché provocare essa stessa un mutamento che, alla lunga, si rivelò un guadagno? Perché non rinunciò essa stessa allo Stato temporale che già in occasione della guerra federale del 1848 era apparso un peso e una contraddizione?". Possiamo rispondere con le parole di Romanato che questo è un "nodo difficile e sempre riaffiorante del rapporto della Chiesa con il tempo e la storia, una storia che essa vorrebbe dominare e dalla quale invece, non infrequentemente, è dominata; e non sempre, aggiungo, ricevendone un danno".



(©L'Osservatore Romano 21-22 marzo 2011)
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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22/03/2011 00:00
 
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Forse non tutti sanno che il risorgimento è stato, anche, un violento tentativo di sradicare la fede cattolica dal cuore e dalla mente della popolazione italiana. (Angela Pellicciari)


Perché non è una novità che oggi
la Chiesa difenda l’unità d’Italia

di Angela Pellicciari

Forse non tutti sanno che il risorgimento è stato, anche, un violento tentativo di sradicare la fede cattolica dal cuore e dalla mente della popolazione italiana. Per giustificare la propria condotta e dare qualche parvenza di credibilità alla propria azione politica, i Savoia ed i liberali hanno proseguito nella “congiura all’aria aperta” ideata da Massimo D’Azeglio.

Prendendo atto della realtà, D’Azeglio riconosceva che, non essendoci le forze per fare la guerra, bisognava ricorrere alla propaganda e buttarsi nel “campo della opinione e della pubblicità”. Si trattava di screditare in ogni possibile modo lo stato della chiesa di cui si arrivava a mettere in dubbio la legittimità: “se il papa è divenuto principe per le donazioni di Pipino e di Carlo Magno, della contessa Matilde e d’altri, perché è stato tenuto perciò principe legittimo? Perché l’universale consentiva nel creder legittimo questo modo d’acquistare”. Queste le conclusioni del Marchese: i tempi essendo mutati, “si deve riconoscere, che l’idea sulla quale posava la legittimità del principato ecclesiastico, come di tant’altri, più non esiste”.

La congiura all’aria aperta trasforma la storia dell’Ottocento italiano in uno sdolcinato episodio di moralismo nazionalistico (quando si pensa all’attacco contro Berlusconi condotto in nome della morale viene da dire che il sangue non è acqua). Scrive Leone XIII nella Saepenumero considerantes del 1883: “la scienza storica sembra essere una congiura degli uomini contro la verità”; “Troppi vogliono che il ricordo stesso degli avvenimenti passati sia complice delle loro offese”.

Cosa fa il risorgimento in nome della morale? Sopprime tutti gli ordini religiosi della chiesa cattolica che lo Statuto albertino definisce unica religione di stato; deruba di ogni avere i 57.492 membri delle corporazioni; in nome della libertà di stampa vieta la pubblicazione delle encicliche pontificie; nel 1859 vara un nuovo codice di diritto penale in cui impone ai preti il canto del Te Deum per celebrare l’ordine morale che trionfa (pena due anni di carcere e 2.000 lire di multa); lascia oltre cento diocesi senza vescovo; fa passare di mano le 24.000 opere pie in cui la popolazione laica è capillarmente suddivisa per soccorrere i bisogni degli strati più poveri della popolazione; impone una scuola di stato, teoricamente gratuita, ma certamente laica, per plasmare una nuova generazione di italiani, liberi dai dogmi del cattolicesimo; invade gli stati italiani in nome della libertà e governa il Meridione con la legge marziale e lo stato d’assedio.

Il risorgimento ottiene due risultati rivoluzionari: trasforma gli italiani in un popolo di emigranti ed inculca nella popolazione il disprezzo per la propria storia e la propria identità. Se, negli ultimi anni, le violenze commesse dall’esercito sabaudo in Italia meridionale sono venute alla luce, la violenza anticattolica, che accomuna in una stessa sorte le popolazioni di tutte le regioni d’Italia, è rimasta scrupolosamente taciuta. Di questa non si può parlare.

Pio IX e Leone XIII denunciano in numerose encicliche la pratica liberticida dei governi liberali e ricordano agli italiani i meriti religiosi, culturali, artistici, civili ed economici, della cattolica Italia e del pontificato romano. Fra gli altri: la trasmissione dell’eredità greco-romana; l’evangelizzazione e la romanizzazione dei barbari; l’invenzione dell’università; le miriadi di opere di carità; la splendore dell’arte cristiana; l’organizzazione della difesa dall’islam. Fra i meriti dei pontefici, Leone XIII ricorda il seguente: “Né ultima fra le glorie dei Romani Pontefici è l’aver mantenuto unite, mercé la stessa fede e la stessa religione, le province italiane diverse per indole e per costumi, e l’averle così liberate dalle più funeste discordie. Anzi, nei peggiori frangenti più volte le cose pubbliche sarebbero precipitate in situazioni rovinose se il Romano Pontificato non fosse intervenuto a salvarle”.

La chiesa, oggi, difende l’unità d’Italia? Non è una novità.

(da Il Foglio, 18-03-2011)







[Modificato da Caterina63 03/05/2011 14:50]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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03/06/2011 19:41
 
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A colloquio con Louis Godart

Quante sorprese dal Quirinale

 

di RAFFAELE ALESSANDRINI

Il complesso architettonico del Quirinale ha ormai compiuto il mezzo millennio di vita. Il ragguardevole arco di tempo non esaurisce peraltro la storia del complesso che sorge su un'area ricca di precedenti fondazioni e di insediamenti anche molto antichi. Ne parliamo con Louis Godart - archeologo e specialista delle civiltà egee, consigliere per la Conservazione del Patrimonio Artistico del presidente della Repubblica Italiana - che ha appena inaugurato la terza edizione di "Roma nascosta. Percorsi di archeologia sotterranea" promossa dall'Amministrazione di Roma Capitale e realizzata da Zètema. Fino al 5 giugno sarà possibile visitare i più importanti siti sotterranei della Capitale con un programma di oltre quattrocento appuntamenti consultabile in rete (www.museiincomune.it). "Il compito del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica - dice Godart - è anche di riportare alla luce le antiche pagine di storia di un palazzo come il Quirinale che, da sempre, è associato al concetto latino di auctoritas. Grazie a un impegno costante molti capolavori che interventi maldestri in passato avevano nascosto o cancellato sono tornati alla luce sia nel sottosuolo del Colle, sia nel Palazzo stesso".

Cominciamo dal sottosuolo. Che cosa c'era qui prima del Palazzo attuale?

Nel 1998-1999 gli scavi intrapresi nei giardini per la posa di impianti tecnologici hanno restituito varie strutture abitative risalenti a un periodo databile tra la fine del I secolo antecedente l'era cristiana, e il III secolo, in piena età imperiale. Nell'estate del 2004 un secondo scavo nei pressi della Porta Giardini ci ha restituito un vasto complesso di abitazioni databili tra l'ultimo periodo della Roma repubblicana e l'VIII secolo. A tale complesso si associa uno stabilimento termale di notevoli proporzioni che non si è potuto indagare.

E non sono state trovate tracce d'insediamenti precedenti?


Negli strati inferiori sono state scoperte tre tombe a incinerazione databili tra la metà del III e l'inizio del II secolo prima dell'era cristiana.

Ma c'è stato qualche ritrovamento archeologico di rilievo specifico nel corso degli scavi effettuati?


Senz'altro il ritrovamento di una statua femminile seduta, coperta da un mantello e con la testa cinta da un diadema. Uno studio preliminare ha permesso di ipotizzare che si tratti di una statua di Giunone che presumibilmente faceva parte di un più articolato gruppo scultoreo comprendente Giove e Minerva. E poi, giusto tre settimane fa, durante un controllo in uno dei cunicoli scavati nel sottosuolo del Colle, i carabinieri hanno individuato una straordinaria statua d'età romana: una divinità, risalente forse al II o al III secolo. Fu utilizzata, presumibilmente nel Seicento, come architrave del cunicolo quando Bernini fece scavare le fondazioni del primo tratto della Manica Lunga.

Siamo così giunti alle vicende del Palazzo. Una delle ultime scoperte più rilevanti pare sia stata quella degli affreschi di Pietro da Cortona.


Fino all'occupazione napoleonica, nell'ala prospiciente la piazza del Quirinale si poteva ammirare una grandiosa Galleria edificata intorno al 1588 sotto Papa Sisto V. Ma fu Alessandro VII che nel 1655 diede incarico a Pietro da Cortona di decorare le pareti della Galleria. Poi durante l'occupazione napoleonica, tra il 1811 e il 1812, le finestre che danno sul Cortile d'onore furono murate e le pareti ricoperte con uno strato d'intonaco e una carta fodera; la Galleria fu divisa in tre saloni poiché Napoleone intendeva destinare tali ambienti alla famiglia imperiale. Si temeva che gli affreschi fossero andati irrimediabilmente persi, ma in occasione del rifacimento per la messa a norma degli impianti elettrici si scoprì con grande emozione che le pitture si erano perfettamente conservate sotto l'intonaco. Le finestre furono smurate e la Galleria recuperò la sua originaria luminosità. Le pitture di Pietro da Cortona sono ormai tornate tutte alla luce e oggi, grazie anche all'intervento della Fondazione Bracco, siamo in grado di completare i lavori avviati nel 2002. Si prevede che per la fine del prossimo agosto la Galleria di Alessandro VII Chigi, potrà essere di nuovo ammirata dai visitatori.

È stato questo l'unico "guasto" al Quirinale provocato dai capricci di Napoleone?

Anche la Sala Regia o Salone dei Corazzieri che dir si voglia, ha passato analoghe vicissitudini. Voluta da Papa Paolo V Borghese ai primi del Seicento, era una sala di rappresentanza dove il Pontefice riceveva le delegazioni diplomatiche straniere: ambascerie raffigurate nella parte alta della sala ornata da tre maestri del Seicento: Agostino Tassi, Giovanni Lanfranco e Carlo Saraceni. Il fregio seicentesco che sosteneva l'apparato iconografico sotto Napoleone fu sostituito da un cornicione a tempera più alto, ricco di simboli militari ed emblemi imperiali. Nel 1814, dopo la caduta di Napoleone, Pio VII riprendendo possesso del Quirinale si adoperò per cancellare ogni traccia degli odiati invasori, ma solo in tempi recenti dopo una sistematica campagna di sondaggi il fregio del Seicento ricoperto dai francesi è tornato alla luce e dalla fine del marzo 2006 la Sala Regia di Paolo V ha ripreso l'aspetto di quattro secoli fa.


Quali altri ritrovamenti artistici meritano di essere menzionati nel corso dei restauri effettuati all'interno e nell'area del Quirinale?


Anzitutto ricorderei gli affreschi della Sala dei Parati Piemontesi scoperti quasi per caso nel 2005, dopo l'improvviso distacco d'intonaco della volta di fine Ottocento che rivelò l'esistenza di un fregio seicentesco sempre dell'epoca di Paolo V. Sulle quattro pareti della sala allora ricomparvero le istantanee pittoriche di alcune delle realizzazioni architettoniche realizzate da Papa Borghese. Affreschi che rivelano uno scorcio prezioso della Roma Cinque e Secentesca in gran parte scomparsa, mentre su tutto spicca naturalmente l'ampliamento della basilica di San Pietro. Non dimenticherei infine le decorazioni araldiche ritrovate nel Passaggetto di Urbano VIII e soprattutto i resti di un ciclo pittorico quattrocentesco rinvenuto in un locale di passaggio accessibile dal terzo cortile del complesso di San Felice in via della Dataria. In un cielo a fondo stellato sfila una teoria di sante racchiuse entro la mistica mandorla. Tra queste sembra riconoscibile santa Apollonia identificabile per l'attributo della tenaglia. L'ex-lavatoio doveva essere in origine un piccolo oratorio o una cappellina che nel Cinquecento era forse inglobata nelle strutture conventuali del monastero dei benedettini di San Paolo e nel Seicento sarebbe stata assorbita dal fabbricato di San Felice completamente ristrutturato sotto Papa Urbano VIII. Significativa è la mancata distruzione dell'ambiente nonostante i continui interventi architettonici; il che potrebbe far supporre che la cappellina abbia a lungo rappresentato un rilevante luogo di culto. Ma tutta la storia di questo ambiente è ancora completamente da studiare se messa in relazione alle complesse vicende urbanistiche e architettoniche dell'intera area che, non dimentichiamolo, anticamente ospitava le strutture del tempio di Serapide.



(©L'Osservatore Romano 2 giugno 2011)

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ATTENZIONE!! [SM=g1740758]  l'argomento in questione, sul Risorgimento e la Chiesa prosegue in questo nuovo thread:
Il Risorgimento? Una pagina da ristudiare..... La Chiesa vera artefice dell'Unità (2)

[SM=g1740771]

[Modificato da Caterina63 11/06/2012 11:43]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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