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I 7 Vizi Capitali: Superbia, Accidia, Lussuria, Ira, Gola, Invidia, Avarizia e le vere virtù

Ultimo Aggiornamento: 24/01/2016 19:22
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27/05/2010 18:21
 
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L'arte e la malattia dell'anima

Il vizio specchio deformato della virtù


Anticipiamo ampi stralci di una delle relazioni del convegno "Malattia versus Religione tra antico e moderno" in corso a Roma, terzo incontro delle Giornate genovesi di cultura cristiana.

di Timothy Verdon

Se si vuole riflettere attraverso l'arte sulla religione versus la malattia, e su quella guarigione già promessa dal Dio d'Israele (cfr. Esodo, 15, 26), un'immagine soprattutto merita attenzione:  il grande riquadro musivo del Battistero di San Giovanni a Firenze, in cui due angeli comandano a neri demoni alati di uscire dagli uomini in cui questi hanno preso dimora.

Gli uomini, alzando le mani in un gesto di supplica, guardano verso i loro soccorritori con un misto di disperazione e speranza che i medici e i sacerdoti conoscono bene, e sotto il potere benefico dell'esorcismo angelico vengono liberati dal loro male. Come suggerisce uno scritto nell'alto del riquadro, gli angeli appartengono alla gerarchia delle virtutes ("virtù") e così è chiaro che i "demoni" esorcizzati sono in verità dei vizi.

Questa scena è parte del grandioso programma di mosaici eseguito tra il terzo e il nono decennio del Duecento per l'intradosso della cupola di San Giovanni:  una di sette simili raffigurazioni delle gerarchie angeliche minori - gli Angeli, gli Arcangeli, i Troni, le Virtù, le Potestà, le Dominazioni, i Principati - nonché due diverse figure che rappresentano i cori angelici più eccelsi, i cherubini e serafini. A loro volta, queste figure sovrastano decine di scene evocanti il Giudizio Universale e la Historia Salutis biblica, nonché immagini dei patriarchi, dei profeti, degli evangelisti, dei padri e dottori della Chiesa. Menziono la complessità del programma per sottolineare un punto importante:  l'intero discorso che intendo sviluppare - i vizi nella teologia e nell'iconografia - appartiene al gusto tardo-antico e medievale di organizzare le cose in grandi sistemi morali e spirituali.

Nella tradizione cristiana, il concetto del vitium ("vizio") infatti è strettamente correlato a quello delle virtù, di cui costituisce la negazione. A partire da san Gregorio Magno, i vizi "capitali" (da cui scaturiscono altri vizi) sono poi sette - superbia, avarizia, lussuria, invidia, gola, ira e accidia - in corrispondenza appunto alle tre virtù teologali e le quattro cardinali:  fede, carità, speranza, giustizia, temperanza, prudenza e fortitudo.

La logica strutturale di questo sistema era ben conosciuto nel Medioevo, come suggerisce il racconto di una sacra rappresentazione inscenata a Firenze nel 1304. Era uno spettacolo sull'acqua:  al giorno prestabilito, il popolo prese posto da entrambe le parti del fiume, e sull'Arno vide barche e navicelle, con sopra dei palchi sui quali gli scenografi avevano fatto "la somiglianza e figura dello 'nferno, con fuochi e altre pene e martori", come dice un cronista contemporaneo, Giovanni Villani. C'erano "uomini contraffatti a demonia orribili a vedere, e altri, i quali aveano figure d'anime ignude, che pareano persone; et mettevangli in quelli diversi tormenti con grandissima grida e strida e tempesta, la quale parea odiosa cosa e spaventevole a udire e a vedere".

Della trama di questo spettacolo parla nel secondo Trecento un altro scrittore, Antonio Pucci, secondo cui:  "Sette tormenti v'eran per regione, / punendo i sette peccati mortali, / e sovra ognun scritto in un sermone:  / in questo luogo son puniti i tali". Ma queste figure di esponenti dei sette vizi capitali non erano vere persone:  il Pucci continua, con evidente partecipazione:  "Or udirai bel giuoco / e come que' che 'l feciono eran savi (...) / L'anime ch'eran poste a tal tormento / eran camicie di paglia ripiene / e vesciche di bue piene di vento, / per modo acconcie che parevan bene, / guardando dalla lunge, le persone / che fosser poste a così fatte pene".

Lo spettacolo sull'Arno focalizzava sui singoli colpevoli dei peccati capitali e le loro punizioni, ma nel Medioevo si riteneva che sia virtù che vizi abbiano chiare ripercussioni anche sulla vita collettiva. A Siena, negli affreschi eseguiti da Ambrogio Lorenzetti negli anni 1338-1340 in Palazzo Pubblico, le virtù orchestrano la vita della città tutt'intera.
 
Nella celebre Sala della Pace dove su una delle pareti contempliamo i frutti del "buon governo cittadino", mentre sulla parete di fronte vediamo gli effetti del cattivo governo:  case diroccate, botteghe abbandonate e chiuse, una fanciulla molestata:  la chiave di lettura è l'immagine allegorica sulla parete frammezzo, in cui troneggiano le virtù richieste per bene governare. Sette personaggi, sei dei quali donne con i loro nomi scritti sopra:  Pax, Fortitudo, Prudentia, Magnanimitas, Temperantia, Justitia.
 
In mezzo vi è un dignitosissimo vegliardo con lo scettro nella mano destra, che rappresenta il Comune di Siena, e sopra la sua testa vediamo tradizionali figure delle virtù teologali, Fides, Caritas, Spes. Ma sulla parete a sinistra di quest'allegoria - quella dove è raffigurato il cattivo governo - sul trono siede Satana, e sopra di lui vediamo i tre vizi del potere:  la Superbia (al centro:  col giogo), l'Avarizia (a sinistra:  la con pressa), e la Vanagloria (a destra:  con abiti sfarzosi e uno specchio). In questa stessa vena, più di un secolo più tardi - alla metà del Quattrocento - un altro senese, Sassetta, raffigurerà san Francesco d'Assisi in estasi con, sopra, le virtù di cui il Poverello si era adornato, e, sotto i suoi piedi, i relativi vizi. Leggendo da sinistra a destra, in alto vediamo la Castità, l'Obbedienza e la Povertà, mentre in basso sono la Lussuria, l'Iracondia e l'Avarizia.

L'umanesimo classicheggiante offrirà nuovi paradigmi d'analisi morale, d'indole più filosofica che teologica. L'affascinante busto di giovane del Donatello al Museo nazionale del Bargello, noto come il Giovane platonico, è un caso tipico:  sul petto del ragazzo vediamo una medaglia con un carro tirato da due cavalli, di cui uno ben addestrato, l'altro selvaggio e incontrollabile. È chiara l'allusione alla figura poetica usata da Platone nel Fedro, dove le passioni sia positive sia negative vengono caratterizzate appunto come cavalli, di cui uno nobile e obbediente al conducente, l'altro ribelle. Il conducente è l'anima, chiamata a tener in equilibrio queste energie psicofisiche.

L'antico sistema speculare di virtù e vizi capitali verrà ripristinato dalla Riforma cattolica nel secondo Cinquecento. Negli affreschi dell'intradosso della cupola del Duomo fiorentino, eseguiti tra il 1572-79 da Giorgio Vasari e Federico Zuccari, troviamo un'edizione moderna del programma medievale del battistero fiorentino:  non narrativa, come i mosaici duecenteschi, ma squisitamente teologale. Un sistema di idee dottrinali senza alcun riferimento, seppur remoto, alla narrativa:  un sistema concettuale complesso che trascende la storia.

In ognuno degli otto spicchi della cupola, troviamo:  un coro angelico, un mistero della Passione, una categoria precisa di santi, una beatitudine evangelica, una virtù, un dono dello Spirito Santo. In basso un vizio corrispondente alla virtù di quel settore. Così ad esempio le virtù (armate e con uno scudo crociato) sono il coro angelico corrispondente ai santi martiri, la cui beatitudine riguarda i perseguitati per il nome di Cristo, il cui dono dello Spirito è la forza e la cui virtù è la pazienza. Il vizio contrario a questa pazienza è l'Ira, figurata come un orso feroce.
 
O ancora:  il coro angelico dei principati protegge i principi terreni dalla vita santa (tra cui Carlomagno, il re san Luigi di Francia e Cosimo i de' Medici, committente degli affreschi); il dono dello Spirito relativo è il Consiglio, la beatitudine la Misericordia, la virtù la Giustizia. Il vizio tipico dei principi è l'Avarizia, raffigurata come un rospo furioso che sbatte in testa ai dannati del suo settore un pesante sacco di denari.

Quest'enciclopedico programma iconografico è la parte culminante di un programma ancora più comprensivo, che si sviluppava novanta metri sotto le pitture della cupola, nel presbiterio della cattedrale, arricchita di sculture nei decenni precedenti l'avvio degli affreschi:  sculture rimosse tra il Settecento e l'Ottocento. Sull'altare maggiore c'era un enorme gruppo statuario di Baccio Bandinelli raffigurante il Cristo morto per i peccati degli uomini ai piedi di Dio Padre benedicente, e dietro l'altare c'era un gruppo dello stesso raffigurante il peccato di Adamo ed Eva, origine del peccato nel mondo e della necessità umana di un redentore che si sacrificasse. Il programma degli affreschi completava questo programma di sculture, e così sopra Adamo ed Eva peccatori, in terra, in cielo li ritroviamo salvati, "giustificati nel profondo" secondo la dottrina del coevo concilio di Trento; e sopra il Cristo morto sull'altare vediamo, nel cielo della cupola, lo stesso ma risorto in cielo, circondato da raggi di luce.

Quella gloria di luce che concentra l'attenzione su Cristo è importante anche sul piano dottrinale. Il decreto tridentino sulla giustificazione introduce la visione cattolica di un'effettiva santificazione dell'uomo identificando Cristo come il sol iustitiae ("il sole di giustizia"), immagine letteraria derivata dal profeta Malachia. Il passo biblico completo, dal quale il riferimento è tratto, è chiaramente inteso:  parlando dei salvati, Dio dice, "avrò compassione di loro come il padre ha compassione del figlio che lo serve. Voi allora vi convertirete e vedrete la differenza fra il giusto e l'empio, fra chi serve Dio e chi non lo serve. Ecco infatti sta per venire il giorno rovente come un forno. Allora tutti i superbi e tutti coloro che commettono ingiustizia saranno come paglia; quel giorno, venendo, li incendierà - dice il Signore degli eserciti - in modo da non lasciare loro né radice né germoglio. Per voi invece, cultori del mio nome, sorgerà il sole di giustizia con guarigione nei suoi raggi".

Il programma cinquecentesco della cupola del Duomo fiorentino pone al centro la sanitas, la "guarigione" della natura umana, che abbiamo visto in un particolare dell'iconografia duecentesca dei mosaici del battistero:  nello spirito del coevo concilio pone al centro "la giustizia di Dio, non quella per la quale Egli è giusto in se stesso", come precisa il decreto tridentino, "ma quella giustizia per la quale Dio ci rende giusti - cioè per la quale ci dà grazia per rinnovarci nell'intimo dell'anima nostra. Per quella giustizia non solo siamo chiamati giusti, ma lo siamo realmente, ricevendo la giustizia in noi, ognuno secondo la sua propria misura".


(©L'Osservatore Romano - 28 maggio 2010)
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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