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Ultimo Aggiornamento: 17/09/2012 23:47
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27/01/2011 00:38
 
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La prolusione del cardinale presidente al Consiglio permanente della Conferenza episcopale italiana

Non cedere al pessimismo
e tornare a educare i giovani



Si è aperto oggi ad Ancona il Consiglio permanente della Conferenza episcopale italiana, che si concluderà il 27 gennaio. Pubblichiamo stralci della prolusione del cardinale presidente.
 

del card. Angelo Bagnasco

Venerati e cari Confratelli,
ci ritroviamo insieme, all'inizio del nuovo anno 2011, per la sessione invernale del nostro Consiglio Permanente, mentre nubi ancora una volta preoccupanti si addensano sul nostro Paese. Conserviamo come preziosa in noi l'eco delle celebrazioni natalizie, con il loro corredo di tradizioni e di clima intensamente familiare, in coincidenza delle quali s'è potuto ancora una volta constatare il fascino benefico che la tradizione cristiana continua a far sentire ovunque nel nostro Paese. E ciò sembra muoversi in un quadro interpretativo nel quale una de-cristianizzazione progressiva apparirebbe ad alcuni ineluttabile.

In realtà, sugli esiti possono influire una serie non interamente ponderabile di cause, che determinano situazioni in continua evoluzione. La fede religiosa può far fronte alle intemperie, e ciascuno di noi è testimone di esperienze positive, capaci di rinvigorire e proporre una concezione della vita tipicamente cristiana. C'è, d'altra parte, un legame personale con lo spazio e il tempo che solo la religione riesce ad assicurare. Conosciamo il fascino che esercita il mistero di un Dio mai stanco degli uomini, che si fa loro incontro nella forma scandalosamente più dimessa, fino a permettere alla nostra presuntuosa libertà di ignorarlo o addirittura sentirlo come rivale (cfr. Benedetto XVI, Omelia nella Solennità dell'Epifania, 6 gennaio 2011).

Dio supera il nostro metro di misura e lo sorprende, non in astratto però, bensì nel Bimbo deposto in una grotta. Certo, nel mistero del Natale riusciamo ad avvertire nitidissimo anche lo strazio per chi si tiene lontano, e non vuol essere raggiunto neppure da un Dio Bambino; ma anche per chi è talmente compreso di sé e della sua propria intelligenza, da non lasciarsi insidiare dallo stupore né ghermire dal sorriso, gratuito e totale che, dalla grotta di Betlemme, si spande sul mondo.
 
La strage avvenuta ad Alessandria d'Egitto il primo giorno del 2011, che ha causato la morte di ventitré cristiani copti e il ferimento di altri novanta, è stato probabilmente l'episodio oltre il quale l'opinione pubblica non poteva più far finta di non vedere, ossia lo stillicidio di situazioni persecutorie, che nell'ultimo periodo si erano verificate in diverse zone del mondo, e avevano avuto i cristiani come vittime designate.

Questi da tempo sono diventati il gruppo religioso che deve affrontare il maggior numero di persecuzioni a motivo della propria fede. Un crescendo di episodi sanguinosi che nel corso dei mesi aveva interessato India, Pakistan e Filippine, Sudan e Nigeria, Eritrea e Somalia. Ma i fatti più gravi sono avvenuti in Iraq ed infine in Egitto; in entrambe le situazioni, a precedenti episodi di sangue trascurati o non chiariti, ne sono seguiti altri sempre più gravi.

Impressiona che il momento di preferenza scelto per condurre gli agguati contro i cristiani sia il giorno di festa, durante la celebrazione liturgica o all'uscita di chiesa. E ciò non fa che aggiungere orrore ad orrore. Naturalmente ciascun episodio fa caso a sé, così come ciascuna Nazione ha uno scenario proprio. Il Medio Oriente è di sicuro la regione a più alta tensione; lì la cristianofobìa, che è la versione più corrente dell'intolleranza religiosa, non è lontana dal porsi ormai nelle forme della pulizia etnica o religiosa, benché i cristiani siano colà una componente certo non aggiuntiva né importata, e per secoli quella terra sia stata laboratorio di convivenza tra fedi ed etnie diverse.

Nessuno Stato accetta oggi tranquillamente condizioni di disuguaglianza nei rapporti economici, politici e culturali:  se questo è vero, ed è fatto valere nelle sedi internazionali, occorre che il problema delle più elementari garanzie negate alle minoranze religiose - in non poche situazioni nazionali - venga posto con la lucidità e l'energia necessarie. Si apre qui, è noto, un problema drammatico di reciprocità, che non si risolve minacciando ritorsioni o attenuando, in Italia e in Occidente, le garanzie dei cittadini provenienti dagli Stati che non assicurano parità di trattamento. Anziché procedere con mezzo passo in avanti, se ne farebbe uno indietro. Questo però non può essere un alibi per incrementare colpevoli acquiescenze o finti pragmatismi. Si può e si deve urgentemente porre la questione della libertà religiosa nelle sedi internazionali - Unione Europea, Onu... - al fine di aprire gli occhi e mantenerli aperti, insistendo affinché nei singoli Stati vi sia un sistema minimo di garanzie reali per la libertà di tutte le fedi. Esiste la possibilità di istituire degli osservatori internazionali in grado di controllare quello che concretamente avviene nei singoli territori. È ragionevole presumere ci siano, in ogni Paese, settori di opinione pubblica sufficientemente maturi da comprendere che l'estinguersi delle minoranze interne non può non segnare un'involuzione massimalista, quando non totalitaria.

Ciò spiega il dibattito magari sottotraccia che esiste anche nelle situazioni più blindate, come pure gli appoggi che i cristiani ricevono sempre di più anche da esponenti di religione diversa. La questione tuttavia, di una fondamentale libertà religiosa, è da sollevarsi opportunamente nelle sedi multilaterali, come nelle relazioni bilaterali, e nei rapporti informali tra rappresentanti di Paesi diversi, avendo cura che l'interessamento puntuale non abbia a scatenare ritorsioni sulle spalle già oberate di chi soffre. Passi molto importanti in questo senso sono stati compiuti dall'Italia, e di ciò noi vescovi non possiamo non essere grati.

Saremmo - per così dire - ancora più soddisfatti se tutti i nostri stimati interlocutori prendessero atto che subdole minacce ad un'effettiva libertà religiosa esistono anche nei Paesi di tradizione democratica, a partire da quelli europei. Dovremmo guardarci infatti dai sottili tranelli dell'ipocrisia, che induce a cercare lontano ciò che invece è riscontrabile anche vicino. Il Papa nel suo Messaggio non manca di rilevarlo (cfr. n. 13; e anche il Saluto all'Angelus, 1 gennaio 2011, e il Discorso pronunciato dinanzi al corpo diplomatico il 10 gennaio 2011.), e dal canto nostro, al pari di Confratelli di altri Paesi, non manchiamo di ripeterlo quando serve, ad esempio nella vicenda del Crocifisso esposto nelle scuole o in ambito pubblico.

Convinti come siamo che la libertà religiosa è un perno essenziale e delicatissimo, compromesso il quale è l'intero meccanismo sociale a risentirne, solitamente anche oltre le previsioni. C'è talora un argomentare infastidito sulla neutralità dello Stato che si rivela non poco capzioso. E c'è un'aggressività laicista dalle singolari analogie con certe ossessioni ideologiche che ci eravamo lasciati alle spalle senza rimpianti. Colpisce, in questo senso, la denuncia che nel mese scorso è stata diffusa durante un convegno viennese dell'Osce secondo la quale un'astratta applicazione del principio di non discriminazione finisce paradossalmente per comportare un'oggettiva limitazione al diritto dei credenti a manifestare pubblicamente la propria fede. Un male sottile insomma sta affliggendo l'Europa, provocando una lenta, sotterranea emarginazione del cristianesimo, con discriminazioni talora evidenti ma anche con un soffocamento silente di libertà fondamentali. Il caso su cui ci si sofferma è quello dell'obiezione di coscienza sui temi di alta rilevanza etica che, in più nazioni, si tenta ormai di ridimensionare. Ciò segnerebbe un regresso sul crinale della libertà. Emarginare simboli, isolare contenuti, denigrare persone è arma con cui si induce al conformismo, si smorzano le posizioni scomode, si mortificano i soggetti portatori di una loro testimonianza in favore di valori cui liberamente credono.

La crisi economica e finanziaria che, a partire dal 2009, ha investito in pratica il mondo intero non è finita. E che non sia esaurita lo dicono studiosi ed economisti, ma del fatto abbiamo conferma anche nella concreta vicinanza alla gente, nostra e dei nostri cari sacerdoti, ai quali indirizziamo il pensiero grato e fraterno. Non mancano germi di nuovo, segnali di ripresa e di innovazione, con esperimenti rilevanti nelle relazioni lavorative, ma persistono varie situazioni impaludate. E dentro ciascuna di esse ci sono persone e, di conseguenza, famiglie in grande allarme e in comprensibile sofferenza. Noi siamo anzitutto con loro. Contribuisce poi ad impensierirci ulteriormente il senso di spaesamento che perdura, non come un'atmosfera evidentemente artificiosa e momentanea, ma come stato d'animo concreto, affatto passeggero. Per questo resta sempre necessario ascoltare per meglio comprendere e opportunamente decidere.

Ad esempio, la contestazione studentesca, sviluppatasi nelle settimane precedenti il Natale, è un fatto che merita una riflessione non scontata. Non si è trattato di un evento ripetitivo del passato; troppo diverse le situazioni e le condizioni. Certo, hanno inquietato gli innesti di violenza e di grave devastazione che si sono registrati. Si è parlato di infiltrazioni improprie, e non tutti né ovunque sono stati pronti a dissociarsi dalla violenza. Ma in ogni campo bisogna dare ascolto alle preoccupazioni reali e ai dubbi sinceri per meglio capirsi e per poter procedere con l'apporto più ampio e onesto possibile. Riconoscendo anche, come è accaduto non di rado, che l'esperienza diretta e concreta del nuovo ha riservato sorprese positive, magari non subito colte nella concitazione degli animi e degli eventi. Resta l'esigenza evidente, comunque, che ogni riforma richiede risorse indispensabili.

La prospettiva infatti del ridimensionamento di quello che ai giovani appare come il più consistente cespite di spesa che lo Stato stanzia in loro favore, deve essere apparsa incomprensibile. Ma oltre a queste motivazioni psicologiche - di impellenza immediata - ci sono quelle lunghe, ossia la consapevolezza che essi hanno di arrivare alla ribalta in cui dovrebbe cominciare la vita adulta e autonoma, quando una serie di condizioni sono diventate sfavorevoli. Si dice che questa sia la prima generazione della decrescita, e la si chiama generazione inascoltata o non garantita. La disoccupazione giovanile è un dramma per l'intera società, e non solo per i giovani direttamente interessati. Stando alle statistiche, ci sono oltre due milioni di giovani tra i 15 e 34 anni che non studiano, non lavorano, né ormai cercano più un impiego. Dicono di saper già di non trovarne uno stabile e sono poco disponibili ad abbracciarne uno qualsiasi. La svalutazione del lavoro manuale, anche specializzato, è evidente. E questo non è un bene. Il mondo degli adulti, secondo le diverse responsabilità, è in debito nei confronti delle nuove generazioni, "in debito di futuro". I giovani non vogliono certo essere accarezzati come degli eterni adolescenti, desiderano essere considerati responsabili e quindi trattati con serietà, ma chiedono di non sentirsi soli, gettati nella vita e privi di possibilità.

In un documento del nostro episcopato pubblicato trent'anni or sono e che ebbe a suo tempo una notevole accoglienza (La Chiesa italiana e le prospettive del Paese, 1981), si diceva icasticamente:  "Il consumismo ha fiaccato tutti" (n. 11). Ed eravamo appena agli inizi di quel processo di trasformazione che interesserà l'Italia e l'Occidente nei decenni a seguire, e troverà rappresentazione nella cosiddetta "modernità liquida" dominata da quella che alcuni hanno definito "ideologia del mercato". Colpisce l'efficacia di quella predizione, dove ad apparire centrato è in particolare il verbo usato:  "fiaccare". La desertificazione valoriale ha prosciugato l'aria e rarefatto il respiro. La cultura della seduzione ha indubbiamente raffinato le aspettative ma ha soprattutto adulterato le proposte. Ha così potuto affermarsi un'idea balzana della vita, secondo cui tutto è a portata di mano, basta pretenderlo. Una sorta di ubriacatura, alle cui lusinghe ha - in realtà - ceduto una parte soltanto della società. Però il calco di quel pensiero è entrato sgomitando nella testa di molti, come un pensiero molesto che pretende ascolto. Un ascolto peraltro che diventava sempre più improbabile, considerato il nuovo clima sociale, determinato da un volano economico che senza tanti complimenti si era messo a girare all'incontrario.

Noi siamo testimoni della dignità con cui la nostra gente sta normalmente reagendo alle difficoltà che si sono presentate, arrivando a configurare un andamento diverso nel passo del mondo. Sembrava che il trend della crescita dovesse tutto sommato aumentare sempre, in un movimento espansivo che avrebbe via via incluso sempre nuove fette di popolazione. Invece la crisi si è presentata come una sorta di drenaggio generale, obbligando un po' tutti a rivedere le proprie ambizioni. C'è una verità, forse non troppo detta, ma che la gente ha intuito abbastanza presto:  si stava vivendo al di sopra delle proprie possibilità. Bisogna allora imprimere una moderazione complessiva dell'andamento di vita, senza dimenticare - anzi! - tutti coloro che già prima vivevano sul filo e oggi si trovano sotto. Con bilanci meno ambiziosi, occorre far fronte a tutte le necessità di una società moderna, per di più senza poter più contare sullo sfogo del debito pubblico che invece dovrà rientrare. Ma che fare se ognuno difende a spada tratta il livello di vita già acquisito? Questo è il punto in cui i problemi dei giovani vengono a coincidere con le questioni di ordine generale:  bisogna infrangere l'involucro individualista e tornare a pensare con la categoria comunitaria del "noi", perché tutto va ricalibrato secondo un diverso soggetto.

Anche la crescente allergia che si registra nei confronti dell'evasione fiscale è un segnale positivo, che va assecondato. Adesso più che mai è il momento di pagare tutti nella giusta misura le tasse che la comunità impone, a fronte dei servizi che si ricevono. Bisogna snellire e semplificare, ma nessuno è moralmente autorizzato ad autodecretarsi il livello fiscale. Chi fa il furbo non va ammirato né emulato. Il settimo comandamento, "Non rubare", resiste con tutta la sua intrinseca perentorietà anche in una prospettiva sociale. L'intelligenza collettiva ha il dovere di riscattare l'istituto familiare dalle visioni ristrette e impacciate in cui è stato relegato. I riconoscimenti che nell'ultimo periodo sono giunti da istituzioni insospettabili alla famiglia italiana quale soggetto-baluardo della finanza nazionale e salvadanaio in grado di riequilibrare la finanza pubblica agli occhi delle autorità europee, acquistano oggi il valore di una riabilitazione culturale della famiglia stessa dinanzi a quei grandi poteri da cui è stata spesso ignorata.

Va da sé che una ricognizione lucida della condizione nazionale deve portare il Paese a darsi una politica familiare preveggente, che mantenga la famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna, e aperta alla vita, quale base per rilanciare il Paese, e rilanciarlo sul proprio caratteristico equilibrio esistenziale, dunque senza ossessivi cedimenti alla struttura del "soggetto singolare".

Come ho già più volte auspicato, bisogna che il nostro Paese superi, in modo rapido e definitivo, la convulsa fase che vede miscelarsi in modo sempre più minaccioso la debolezza etica con la fibrillazione politica e istituzionale, per la quale i poteri non solo si guardano con diffidenza ma si tendono tranelli, in una logica conflittuale che perdura ormai da troppi anni. Si moltiplicano notizie che riferiscono di comportamenti contrari al pubblico decoro e si esibiscono squarci - veri o presunti - di stili non compatibili con la sobrietà e la correttezza, mentre qualcuno si chiede a che cosa sia dovuta l'ingente mole di strumenti di indagine. In tale modo, passando da una situazione abnorme all'altra, è l'equilibrio generale che ne risente in maniera progressiva, nonché l'immagine generale del Paese. La collettività, infatti, guarda sgomenta gli attori della scena pubblica, e respira un evidente disagio morale.

La vita di una democrazia - sappiamo - si compone di delicati e necessari equilibri, poggia sulla capacità da parte di ciascuno di auto-limitarsi, di mantenersi cioè con sapienza entro i confini invalicabili delle proprie prerogative. "Muoversi secondo una prospettiva di responsabilità - ammoniva il Papa in occasione dell'ultima Settimana Sociale - comporta la disponibilità ad uscire dalla ricerca del proprio interesse esclusivo per perseguire insieme il bene del Paese" (Benedetto XVI, Messaggio alla 46a Settimana Sociale dei cattolici italiani, 12 ottobre 2010). Come ho già avuto modo di dire, "chiunque accetta di assumere un mandato politico deve essere consapevole della misura e della sobrietà, della disciplina e dell'onore che esso comporta, come anche la nostra Costituzione ricorda (cfr. art. 54)" (Prolusione al Consiglio Permanente, 21-24 settembre 2009, n. 8). Dalla situazione presente - comunque si chiariranno le cose - nessuno ricaverà realmente motivo per rallegrarsi, né per ritenersi vincitore. Troppi oggi - seppur ciascuno a modo suo - contribuiscono al turbamento generale, a una certa confusione, a un clima di reciproca delegittimazione. E questo - facile a prevedersi - potrebbe lasciare nell'animo collettivo segni anche profondi, se non vere e proprie ferite.

La comunità nazionale ha indubbiamente una propria robustezza e non si lascia facilmente incantare né distrarre dai propri compiti quotidiani. Tuttavia, è possibile che taluni sottili veleni si insinuino nelle psicologie come nelle relazioni, e in tal modo - Dio non voglia! - si affermino modelli mentali e di comportamento radicalmente faziosi. Forse che questo non sarebbe un attentato grave alla coesione sociale? E quale futuro comune potrà risultare, se il terreno in cui il Paese vive rimanesse inquinato? È necessario fermarsi - tutti - in tempo, fare chiarezza in modo sollecito e pacato, e nelle sedi appropriate, dando ascolto alla voce del Paese che chiede di essere accompagnato con lungimiranza ed efficacia senza avventurismi, a cominciare dal fronte dell'etica della vita, della famiglia, della solidarietà e del lavoro. Come Pastori che amano la comunità cristiana, e come cittadini di questo caro Paese, diciamo a tutti e a ciascuno di non cedere al pessimismo, ma di guardare avanti con fiducia. È questo l'atteggiamento interiore che permetterà di avere quello scatto di coscienza e di responsabilità necessario per camminare e costruire insieme.

Così, non possiamo non porre mente particolare alle giovani generazioni e al dovere educativo che investe in primissimo luogo la famiglia, e irrinunciabilmente i genitori, sostenuti dai parenti, in particolare dai nonni. La Chiesa è consapevole di questo diritto, primordiale perché naturale, dei genitori quali essenziali educatori dei loro figli, e si concepisce anzitutto al loro servizio, e questo fa con profondo rispetto e la premura che viene da un patrimonio umano e religioso a tutti noto. A sua volta, la Chiesa stessa ha un irrinunciabile mandato educativo, che intende assolvere con dedizione assoluta e santità di vita. Certamente l'istituzione scolastica fa tutto quello che può, specialmente attraverso l'impegno serrato di una moltitudine di docenti e operatori, competenti e generosi. Eppure, questo dispiegamento di disponibilità pare non bastare, tanto è grande e delicata oggi "la sfida educativa". Per questo deve entrare in campo la società nel suo insieme, e dunque con ciascuna delle sue componenti e articolazioni.

Se la scuola - come oggi si intende - dev'essere "comunità educante", bisogna convincersi con una maggiore risolutezza che la società nel suo complesso è chiamata ad essere "comunità educante". Affermare ciò, a fronte di determinati "spettacoli", potrebbe apparire patetico o ingenuo, eppure come Vescovi dobbiamo caricarci sulle spalle anche, e soprattutto, questo onere di richiamare ai doveri di fondo, di evidenziare le connessioni, di scoprire i pilastri portanti di una comunità di vita e di destino. Se si ingannano i giovani, se si trasmettono ideali bacati cioè guasti dal di dentro, se li si induce a rincorrere miraggi scintillanti quanto illusori, si finisce per trasmettere un senso distorcente della realtà, si oscura la dignità delle persone, si manipolano le mentalità, si depotenziano le energie del rinnovamento generazionale.

È la speranza, pane irrinunciabile sul tavolo dei popoli, a piegarsi e venire meno. Il cuore dei giovani tende - per natura - alla grandezza e alla bellezza, per questo cerca ideali alti:  bisogna che essi sappiano che nulla di umanamente valevole si raggiunge senza il senso del dovere, del sacrificio, dell'onestà verso se stessi, della fiducia illuminata verso gli altri, della sincerità che soppesa ogni proposta, scartando insidie e complicità. In una parola, di valori perenni. Gesù è il modello affascinante, l'amico che non tradisce e viene sempre incontro, che prende per mano e riaccende ogni volta la forza sorgiva che sostiene la fiducia verso la realizzazione di sé e la vera felicità. Questo - come adulti e come giovani - abbiamo bisogno di vedere e di sentire sempre, oltre ogni moralismo ma anche oltre ogni libertarismo, l'uno e l'altro spesso dosati secondo le stagioni.

Bisogna che nel suo complesso il Paese ringiovanisca, torni a crescere dal punto di vista culturale e quindi anche sociale ed economico, battendo i catastrofismi. Cambiare in meglio si può e si deve. Le cortine fumogene svaniscono, arroganze e supponenze portano a poco. I sacrifici che i cittadini stanno affrontando acquistano un senso se vengono prospettati obiettivi credibili e affidabili. Tra questi, c'è l'orizzonte di una maggiore giustizia sociale e di una modernizzazione effettiva in ogni articolazione pubblica, anche quella a beneficio dell'utenza più larga, specialmente se perseguita nel rispetto delle regole, e respingendo il malaffare e le intimidazioni di ogni mafia. Come è obiettivo inderogabile l'avvio delle riforme annunciate, applicandosi in un'ottica puntigliosamente coinvolgente tutte le forze politiche, ciascuna secondo la misura intera nella parte assegnata dai cittadini. Bisogna avere fiducia nelle nostre qualità e potenziare la capacità elaborativa di ogni sede responsabile, affinando l'attitudine a captare umori e orientamenti per poterli comporre in vista di una mediazione d'insieme la più alta possibile. Un Paese complesso richiede saggezza e virtù.

Vi ringrazio, Confratelli cari, per il Vostro paziente ascolto e per l'accoglienza ragionata che vorrete riservare a queste considerazioni. Con la discussione, entriamo già nel vivo dell'ordine del giorno, mentre ci attendono argomenti importanti in merito alla vita cristiana del nostro popolo e all'efficacia della nostra Conferenza. Ci assista Maria, che il popolo anconetano venera come Regina di tutti Santi, e che dalla sacra Casa di Loreto ci segue e ci protegge. E ci assistano i Santi Patroni, san Ciriaco e san Leopardo, san Giuseppe da Copertino e san Francesco di Sales:  la loro compagnia ci incoraggia e ci sostiene.


(©L'Osservatore Romano - 24-25 gennaio 2011)

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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