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Se avete desiderio di capire che cosa insegna la Bibbia che il Magistero della Santa Chiesa, con il Sommo Pontefice ci insegna, questo Gruppo fa per voi. Non siamo "esperti" del settore, ma siamo Laici impegnati nella Chiesa che qui si sono incontrati da diverse parti d'Italia per essere testimoni anche nella rete della Verità che tentiamo di vivere nel quotidiano, come lo stesso amato Giovanni Paolo II suggeriva.
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Lo Sport è un grande valore, ma.... può anche.....

Ultimo Aggiornamento: 14/07/2014 22:36
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17/06/2010 22:44
 
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[SM=g1740757] Quando Ratzinger scriveva di football

Il calcio interessa e affascina milioni di persone in tutto il mondo, tocca qualcosa di radicalmente umano, scriveva nel 1985 l'allora cardinale Joseph Ratzinger in un testo raccolto nel libro Suchen was droben ist, Cercare ciò che sta in alto; in occasione dei Mondiali di calcio 2010 "Humanitas", la rivista di antropologia e cultura cristiana della Pontificia Università Cattolica del Cile, lo ripropone nel suo sito (www.humanitas.cl).

Secondo Ratzinger, i Mondiali, con la loro periodicità quadriennale, hanno un enorme impatto su una moltitudine immensa di persone, e per questo bisogna chiedersi dove si trova la base di questo potere.

Come gioco di squadra - scrive - il calcio obbliga a un ordinamento di ciò che è proprio all'interno dell'insieme, unisce attraverso l'obiettivo comune; il successo e l'insuccesso di ciascuno sono basati sul successo e sull'insuccesso dell'insieme; la libertà vive della regola e della disciplina che impara l'agire congiunto e lo scontro corretto.


(©L'Osservatore Romano - 18 giugno 2010)




[SM=g1740733]

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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25/05/2012 00:13
 
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Il calcio è di più

Testo del discorso tenuto dall’Arcivescovo di München e Freising Cardinale Joseph Ratzinger, nel corso della trasmissione ‘Verso la domenica’ del 3 giugno 1978 , che l’impagabile Scriteriato ha scovato e tradotto  per noi! Grazie
dal Blog di Costanza Miriano


di Joseph Ratzinger

Chi, in questi giorni di giugno del 1978, desse un’occhiata ai giornali od ai programmi radiofonici e televisivi, si accorgerebbe molto rapidamente del fatto che vi sia un tema dominante: i mondiali di calcio. Nel 1970 vi furono quasi 700 milioni di persone che li guardarono in televisione; questa volta saranno certamente anche più numerosi.
Il gioco del calcio è diventato un avvenimento globale, che lega le persone di tutto il mondo, al di là di ogni confine, negli stessi stati d’animo, nelle speranze, nei timori, nei dispiaceri e nelle gioie. Difficilmente un altro avvenimento sulla Terra può mostrare una simile potenza di coinvolgimento. Ciò mostra che qui deve piacere qualcosa di originariamente umano, e ci si chiede da dove un gioco tragga questa forza. Il pessimista dirà che succedeva la stessa cosa nell’antica Roma. Le masse gridavano: panem et circenses, pane e divertimenti. Pane e divertimenti sarebbero l’unico scopo esistenziale d’una società decadente, priva di obiettivi più elevati. Ma anche se si accettasse questa teoria, essa non sarebbe assolutamente sufficiente.
Bisognerebbe difatti allora chiedersi: da dove viene questa fascinazione per il gioco, tale da porlo allo stesso livello d’importanza del pane? A questa domanda si potrebbe rispondere, tenendo presente la situazione dell’antica Roma, che l’invocazione di pane e divertimenti fosse in effetti l’espressione del desiderio d’una vita paradisiaca, d’una vita di felicità senza preoccupazioni e di totale libertà. Perciò in ultima analisi il collegamento col gioco sarebbe questo: nell’agire, completamente liberi, senza scopo e senza necessità, e ciò impegna ed esaurisce tutte le forze degli uomini.

In quest’ottica il gioco sarebbe dunque una specie di ritorno a casa in Paradiso: la fuga dalla schiavitù del vivere di tutti i giorni e dalle sue preoccupazioni vitali verso un vivere libero, che non deve essere così e che proprio per questo è bello. Conformemente a ciò il gioco oltrepassa certamente la vita quotidiana; esso ha, in primis fra i bambini, certamente un altro carattere, è un apprendistato alla vita.
Esso simboleggia la vita stessa e per così dire la anticipa in una maniera liberamente scelta.
Mi sembra che la fascinazione per il gioco del calcio consista sostanzialmente nel fatto che esso riunisca questi due aspetti in una forma molto convincente. Esso obbliga le persone, in primis se stessi, alla disciplina, in modo da poter giungere, con l’allenamento, ad acquisire padronanza di sé.
Esso insegna però anche la collaborazione disciplinata: in quanto gioco di squadra costringe alla coordinazione dei singoli in una squadra.

Esso lega in nome dello scopo comune: vittoria e sconfitta di ciascuno stanno nella vittoria e nella sconfitta della squadra.
Ed insegna infine a gareggiare lealmente con chi è sottoposto alle medesime regole, in una competizione che riunisce ed unifica, ed inoltre la libertà dei giocatori, se esercitata con correttezza, sdrammatizza la competizione sportiva nel fatto che il gioco ad un certo punto finisce.
Assistendo alle partite gli uomini si identificano col gioco e con i giocatori, e quindi in compagni di squadra ed avversarî, con cui condividono la serietà e la libertà delle partite: i giocatori diventano il simbolo della loro vita, ciò continua a riflettersi su questi ultimi.
Essi sanno che gli uomini si trovano rappresentati e gratificati da loro.
Naturalmente tutto ciò può venir guastato da uno spirito venale, che subordini il tutto alla logica opprimente del denaro e trasformi il gioco da gioco in industria, che produca un mondo terribilmente illusorio. Ma parimenti questo mondo illusorio non potrebbe esistere se non avesse un fondamento positivo, quello che è alla radice del gioco: l’esercizio preparatorio alla vita e l’orientamento della vita nella direzione del paradiso perduto.

In entrambi i casi però si tratta di cercare una disciplina alla libertà, un modo di fare esercizio, nel rispetto delle regole, con i compagni di squadra, con gli avversarî e con l’armonia verso se stessi. Forse potremmo, dato che abbiamo quest’opinione, realmente apprendere dal gioco un nuovo modo di vivere, giacché in esso diventa visibile un principio fondamentale: l’uomo non vive di solo pane, sì, il mondo materiale è solamente il livello preparatorio per il veramente umano, per il mondo della libertà.

La libertà vive però di regole, di disciplina, che insegna la collaborazione e la corretta competizione, l’indipendenza dal successo apparente e dal capriccio, in modo da diventare così davvero liberi.
Il gioco, una vita – se approfondissimo la cosa, il fenomeno d’un mondo tifoso di calcio potrebbe darci più che del semplice divertimento.


[SM=g1740762]

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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14/08/2012 13:19
 
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DOVREMMO CHIEDERE NOI SCUSA A

SCHWAZER,

NON IL CONTRARIO.

E POI TUTTI QUANTI A DIO!

 

 

Scusa, Alex, ti abbiamo mentito: non è vero che non abbiamo bisogno di Dio… Siamo noi a dovergli chiedere scusa: scusa per avergli chiesto un ruolo non suo, scusa per aver aumentato le sue fragilità e i suoi bisogni, scusa per avergli fatto credere che il bene che gli volevamo era direttamente proporzionale alle medaglie che vinceva. Dobbiamo chiedergli scusa, perché l’abbiamo costretto a cercare l’olimpo degli dei, indistruttibili e incorruttibili. Scusaci Alex, se puoi, e di una cosa ti preghiamo: non mollare, non diventare un altro Pantani. Tu ci hai insegnato quanto l’uomo sia fragile, sia indifeso, sia poca cosa. Come diceva San Filippo Neri: “l’uomo da solo non ce la fa”. Adesso non lasciamolo solo, perché solo fino ad ora è stato.

 

 

 

 

di Riccardo Rodelli

 

 

 (foto e scelta dei brani biblici a cura di A.Margheriti Mastino)

Povero Schwazer! Usato e scaricato. In realtà, quell’uomo dai lineamenti spigolosi, rientranti certamente negli studi morfologici criminali di Lombroso, ci ha insegnato o forse solo ricordato una cosa: gli atei non esistono.

Non esistono perché l’uomo ha costante bisogno di modelli, di immagini positive con cui misurarsi. Da quando tramite l’iconografia abbiamo incominciato a disegnare il divino, l’uomo ha voluto rappresentare esteriormente quello che vedeva interiormente. Gli atei non esistono. Esistono uomini che ripudiando l’idea di Dio, abbracciano feticci di sabbia e terra, li idolatrano, segnando la morte per entrambi. E, sì, Schwazer è una nostra vittima. E’ vittima di una società che ha bisogno di modelli, sui quali ricavare business, e il dio denaro e l’agnello d’oro sono presenti ora come tremila anni fa, quando il popolo di Israele dimenticava la voce di Dio e si innamorava del metallo luccicante.

PERCHÉ ACCONTENTARSI DI COPIE SE ABBIAMO A DISPOSIZIONE L’ORIGINALE?

Ma se l’uomo ha bisogno di modelli intonsi, vergini senza macchia, solo apparentemente perfetti, perché non cerca ciò che è veramente perfetto, vergine e senza peccato? E’ questa la grande contraddizione in cui l’ateo si sconfessa e ci parla della sua fede non ancora matura. Se la religione parla di Dio, forse prima ancora ci parla dell’umanità. Ed ecco perché la religione, qualunque essa sia, permette all’uomo innanzitutto di guardarsi allo specchio, perché nel rapporto religioso esiste un Io e un Tu. In particolare, nel cristianesimo, esiste Dio Padre ed esiste il figlio, esiste il Creatore ed esiste la creatura. Tutta la nostra crescita è segnata necessariamente da rapporti a due, da rapporti biunivoci. Padre e figlio, madre e figlia, sposo e sposa, amico e amica. L’uomo vive immerso in rapporti di legame affettivo.

DIO “SPOSTATO” E L’IDOLATRIA AVANZA

La sinistra "cerimonia" d'apertura dei giochi

Gran parte dei filosofi, quando affrontavano il problema di Dio non lo risolvevano all’origine, ma lo spostavano solo di posto. Feuerbach sosteneva che Dio era solo una proiezione dell’uomo che soffre e che è diviso e fratturato al suo interno, verso un’immagine perfetta di sé stesso. Questo dimostra quanto Dio non venga eliminato ma soltanto relativizzato e banalizzato nell’uomo generico, oppure nell’idea sommaria di giustizia, o in quella di bellezza, oppure in quella della gioia. L’idolatria è proiezione esterna di un’idea interiore che affonda le proprie radici nel profondo solco del cuore umano, l’orgoglio; l’idea di concepire il mondo e tutto quanto in esso vive secondo un progetto tutto nostro. D’altronde la madre di tutte le tentazione è: “Diventerete come Dio” (Gn. 3,5).

SE IL CORPO APPARTIENE ALL’UOMO PERCHÉ SCHWAZER NON PUÒ FARE COME VUOLE?

Ma a noi di diventare come Dio non interessa. A noi interessa l’esortazione di Gesù a diventare perfetti come il Padre. Gesù, a differenza del demonio, ci indica una strada non segnata dalla menzogna. Noi non siamo chiamati ad essere dei: esiste una perfezione umana che non corrisponde all’essere Dio. Due nature differenti, tutto qui. Noi siamo chiamati ad essere perfetti come il Padre, ma non ad essere Dio. Dio è uno e Trino.

Schwazer non è chiamato ad essere Dio, ad essere esempio, ma forse esempio lo è solo nella misura in cui l’uomo moderno crede unicamente negli esempi positivi, perché idealizza il bene e stigmatizza con grandi strilli il male del mondo, ma questo male, in fondo, non lo prende sul serio.

Non lo prende sul serio quando cerca di riabilitare Morgan dopo che si era dichiarato eroinomane, non lo prende sul serio quando vittimizza Battisti, non lo prende sul serio quando permette la morte di Eluana Englaro e la morte di milioni di bambini tramite le varie pratiche abortive. Per l’uomo di oggi, il bene e il male sono soggetti al cambio del vento, mutano a secondo del fine che vuole raggiungere. Per cui, perché mai Schwazer che voleva solo vincere – perché se non lo avesse fatto sarebbe stato soggetto ad una gogna mediatica di eguale cattiveria – ma di diverso contenuto, dovrebbe essere accusato? Se la donna sessantottina gridava: “il corpo è mio e ci faccio quello che voglio”, uccidendo in questo caso una vittima innocente, perché l’atleta altoatesino, non può gridare: “il corpo e mio e mi sparo tutto l’Epo che voglio?”

L’UOMO NON È UN’IDEA. E THIBON DICE…

La questione quindi non è comprendere ciò che è bene o male. Questo problema a mio avviso è secondario e successivo alla risoluzione di un altro problema; è subordinato alla risposta alla prima domanda che i filosofi precristiani si ponevano: chi è l’uomo? Con il peccato originale si confondono le nature, si scambiano i ruoli, si sovverte l’ ordine naturale. L’uomo prima non aveva bisogno di conoscere il bene e il male, perché era perfettamente conscio del suo rapporto diretto con il Dio che l’aveva amato e creato. L’uomo si preoccupa del bene e del male, perché, perdendo il riferimento a Dio, ha bisogno di binari all’interno dei quali muoversi. Per questo ritengo che la prima risposta da dare sia sull’identità dell’uomo. L’atleta è uno sportivo, è un corridore, è un personaggio pubblico, è un appassionato di colline e di kinder pinguì, ma è un uomo. Noi lo abbiamo fatto diventare idea. E quando l’idea ci tradisce facciamo come scrive Gustave Thibon nel, Ritorno al Reale: “L’uomo può avere quattro atteggiamenti di fronte al suo ideale, alla sua stella.

Può, in primo luogo, conformare i suoi sentimenti e la sua condotta al suo ideale. Così fanno gli eroi e i santi. Può anche capitare che la condotta dell’individuo contraddica il suo ideale. In questo caso sono possibili due esiti.

Il vecchio buon Gustave Thibon, il filosofo "contadino", il gran cattolico che alla gloria del mondo... ha preferito il lavoro della terra

O l’uomo che cede rinnega puramente e semplicemente il suo ideale, e per giustificare il suo cedimento, dichiara impossibile o illusorio tale ideale; vendica sull’oggetto tradito il proprio tradimento. Può così digerire e dormire in pace: poiché l’ideale da cui è decaduto è diventato menzogna, la sua caduta è diventata verità! Codesti “realisti” codesti distruttori di illusioni si dicono sinceri. Ma restano pur sempre mentitori nella misura in cui erigono a legge generale, a globale condanna di un ideale, il loro individuale fallimento. Oppure (giacché la scelta tra queste reazioni dipende dal modo di essere individuale e anche dallo spirito dei tempi: vi sono epoche in cui si tende all’ipocrisia, altre in cui si tende al cinismo, e l’uno e l’altra possono d’altronde mescolarsi molto bene nella stessa anima, in un Russeau, per esempio), l’uomo tanto più esalta a parole il suo ideale, quanto più lo tradisce nei fatti. L’ideale in questo caso esiste solo a titolo di compensazione e di alibi. Esso d’altronde è ipertrofico e tanto puro, tanto rigoroso da divenire irreale e impraticabile. Così Russeau disertore dai propri doveri paterni, magnifica un sovraumano ideale di educazione; George Sand, amante perversa e volubile, presenta in Mauprat un’ideale di fedeltà coniugale spinto sino al più gustoso irrealismo.

Ma esiste un altro tipo di coloro “che dicono e non fanno”. E’ quello delle anime nobili, ma deboli e divise, le quali nonostante le smentite della loro esperienza interiore, persistono nell’amare e nel difendere il loro ideale. Tali uomini non voglio consentire- come i cinici e i “realisti” di cui ho parlato- ad universalizzare i loro fallimenti e i loro peccati personali; restano fedeli alla verità con il pensiero e con il desiderio; si rifiutano di negare e di lodare ciò che hanno tradito. Atteggiamento scomodo e umiliante, fedeltà eroica alla luce: questi uomini non soffiano sulla lampada che illumina la loro miseria e la condanna. E’ certamente preferibile essere del tutto fedeli alla verità e conformare le proprie azioni ai propri principi; ma, in caso di cedimento, val meglio ancora rispettare l’ideale da cui si è decaduti, che non trascinarlo, con la falsa sincerità dell’orgoglio, nel proprio individuale fallimento.

Tali uomini non portano il loro ideale come una maschera, sull’esempio dei compensatori romantici; essi lo vivono nel proprio cuore come una piaga”.

SCUSA, ALEX, TI ABBIAMO MENTITO: NON È VERO CHE NON ABBIAMO BISOGNO DI DIO

Ed è proprio quello che noi abbiamo fatto con Alex. Siamo noi a dovergli chiedere scusa: scusa per avergli chiesto un ruolo non suo, scusa per aver aumentato le sue fragilità e i suoi bisogni, scusa per avergli fatto credere che il bene che gli volevamo era direttamente proporzionale alle medaglie che vinceva. Dobbiamo chiedergli scusa, perché l’abbiamo costretto a cercare l’olimpo degli dei, indistruttibili e incorruttibili. Scusaci Alex, se puoi, e di una cosa ti preghiamo: non mollare, non diventare un altro Pantani. Tu ci hai insegnato quanto l’uomo sia fragile, sia indifeso, sia poca cosa. Come diceva San Filippo Neri: “l’uomo da solo non ce la fa”.

Adesso non lasciamolo solo, perché solo fino ad ora è stato.




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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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27/09/2012 20:45
 
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Il Papa: Voi, come medici specialisti, riconoscete che il punto di partenza di tutto il vostro lavoro è il singolo atleta che servite. Così come lo sport è qualcosa in più di una semplice competizione; ogni sportivo, uomo e donna, è più di un mero concorrente: possiede una capacità morale e spirituale che deve essere arricchita e approfondita dallo sport e dalla medicina sportiva


UDIENZA AI PARTECIPANTI AL XXXII CONGRESSO MONDIALE PROMOSSO DALLA FEDERAZIONE INTERNAZIONALE DI MEDICINA DELLO SPORT, 27.09.2012


Alle ore 12.15 di questa mattina, nella Sala degli Svizzeri del Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo, il Santo Padre Benedetto XVI riceve in Udienza i partecipanti al XXXII Congresso Mondiale di Medicina dello Sport.

Pubblichiamo di seguito il discorso che il Papa rivolge ai presenti:

DISCORSO DEL SANTO PADRE



Distinti Ospiti,
Cari Amici,

Sono lieto di accogliere a Castel Gandolfo voi rappresentanti del trentaduesimo Congresso Mondiale di Medicina dello Sport mentre, per la prima volta nella vostra storia, tenete il convegno biennale a Roma. Desidero anche ringraziare il dottor Maurizio Casasco per le gentili parole espresse a nome vostro.

In questa occasione è parso opportuno proporvi alcune riflessioni sulla cura degli atleti e di quanti partecipano allo sport. Ho appreso che voi, qui presenti al Congresso, provenite da centodiciassette Paesi e cinque continenti, e la vostra diversità è un segno importante della presenza dell'atletica nelle culture, nelle regioni e nelle diverse circostanze. È anche un'importante indicazione della capacità che hanno lo sport e gli sforzi atletici di unire le persone e i popoli nella ricerca comune di una pacifica eccellenza competitiva.
I recenti giochi olimpici e paralimpici a Londra lo hanno mostrato chiaramente. Il richiamo universale e l'importanza dell'atletica e della medicina dello sport sono giustamente riflessi anche dal tema del vostro Congresso di quest'anno, che tratta delle implicazioni a livello mondiale del vostro lavoro, e della sua potenziale possibilità d'ispirare molte persone diverse in tutto il globo.

Come il dottor Casasco ha giustamente sottolineato nel suo discorso, voi, come medici specialisti, riconoscete che il punto di partenza di tutto il vostro lavoro è il singolo atleta che servite. Così come lo sport è qualcosa in più di una semplice competizione; ogni sportivo, uomo e donna, è più di un mero concorrente: possiede una capacità morale e spirituale che deve essere arricchita e approfondita dallo sport e dalla medicina sportiva. Talvolta, però, il successo, la fama, le medaglie e la ricerca del denaro diventano la principale, o addirittura l'unica motivazione per quanti sono coinvolti. Di tanto in tanto è perfino accaduto che la vittoria a tutti i costi abbia preso il posto del vero spirito sportivo e abbia portato all'abuso e all'uso sbagliato dei mezzi di cui la medicina moderna dispone.

Voi, come esperti di medicina dello sport, siete consapevoli di tale tentazione e so che state dibattendo questa importante questione nel vostro Congresso. Lo fate perché certamente anche voi sapete che le persone delle quali vi prendete cura sono individui unici e dotati, a prescindere dalle capacità atletiche, e che sono chiamati alla perfezione morale e spirituale prima che a qualsiasi risultato fisico. Di fatto, nella sua prima Lettera ai Corinzi san Paolo osserva che l'eccellenza spirituale e atletica sono strettamente correlate, ed esorta i credenti ad allenarsi nella vita spirituale.

«Però ogni atleta -- dice -- è temperante in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona corruttibile, noi invece una incorruttibile» (9, 25). È per questo, cari amici, che vi esorto a continuare a tenere presente la dignità di coloro che assistete con il vostro lavoro medico professionale. In tal modo, sarete agenti non solo di guarigione fisica e di eccellenza atletica, ma anche di rigenerazione morale, spirituale e culturale.

Come il Signore stesso si è incarnato e si è fatto uomo, così ogni persona umana è chiamata a rispecchiare perfettamente l'immagine e somiglianza di Dio.

Pertanto, prego per voi e per coloro che beneficiano del vostro lavoro, affinché il vostro impegno porti a un apprezzamento sempre più profondo della bellezza, del mistero e del potenziale di ogni persona umana, atletico o di altro genere, fisicamente abile o con disabilità. Possano la vostra professionalità, il vostro consiglio e la vostra amicizia recare beneficio a tutti coloro che siete chiamati a servire! Con queste riflessioni invoco su di voi e su quanti servite le abbondanti benedizioni di Dio.

Grazie.


 - Libreria Editrice Vaticana

(Traduzione Osservatore Romano)
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14/07/2014 21:36
 
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  Mondiali: mons. Gänswein racconta la finale del Maracanà vista dal Vaticano










Mons. Gänswein racconta la Finale dei Mondiali vista dal Vaticano

14/07/2014

Oltre un miliardo di persone si sono fermate ieri per 120 minuti per guardare la finale dei Mondiali di Calcio, vinta 1-0 dalla Germania contro l’Argentina, nello stadio Maracanà di Rio de Janeiro. Una partita che è stata definita scherzosamente la “Finale dei due Papi” per le nazionalità argentina di Papa Francesco e tedesca di Benedetto XVI, anche se nessuno dei due - riferisce mons. Georg Gänswein - ha guardato la partita. Su questa originale coincidenza e sul ruolo che il calcio può avere per il dialogo e l’incontro tra nazioni e culture diverse, Alessandro Gisotti ha intervistato proprio il prefetto della Casa Pontificia e segretario particolare del Papa emerito:

R. – Ho tifato per la squadra del cuore – che è la Germania – e l’ho vista a casa, con le Memores Domini, che anche loro hanno tifato per la Germania e alla fine siamo stati molto contenti – anche se mi dispiace per gli argentini. Hanno giocato bene, ma penso che alla fine la Germania abbia vinto meritatamente.

D. – In molti, ovviamente, si sono chiesti: Papa Benedetto ha visto la partita? Ha saputo del risultato? Ci può dire qualcosa al riguardo?

R. – L’ho invitato a guardare la partita, però lui ha ringraziato ma ha preferito andare a dormire. Certamente, questa mattina l’ho informato – ma lui aveva anche già visto la mia faccia, che portava un messaggio chiaro. Poi l’ho informato sull’andamento e quindi sul risultato della partita.

D. – Evidentemente, c’era anche una gioia da parte sua …

R. – Sì e no, perché nella squadra ci sono anche alcuni bavaresi, e questo fa scaldare il cuore ancora di più; d’altra parte ha detto: “Speriamo che gli argentini si riprendano presto”. E poi, uno a zero è un risultato che non umilia …

D. – Ovviamente … “Argentina” – il pensiero va a Papa Francesco. In qualche modo lei ha potuto parlare con il Santo Padre di questa partita? Può dirci qualcosa anche su questo?

R. – Non ancora. Ho fatto le mie sentite “condoglianze” al suo segretario, don Fabian, e lui mi ha risposto in modo molto secco, chiaro, ma convincente e mi ha fatto anche gli auguri per la vittoria della nostra squadra.

D. – Abbiamo visto, soprattutto sui social network, una cosa particolare e anche originale: cioè, si sono uniti Papa Francesco e il Papa emerito Benedetto anche con un certo moto di affetto per entrambi; in qualche modo, se così si può dire, il calcio li ha uniti anche nell’immaginario collettivo …

R. – L’ho visto anch’io e devo dire che mi sono molto rallegrato, perché si vede che il calcio ha la forza di unire. E poi si è visto che molte cose sono state espresse in modo scherzoso, a volte in modo ironico, in fin dei conti sempre in modo simpatico, sincero … E penso che questa occasione ha fatto capire che c’è una bella intesa tra i due Papi.

D. – Papa Francesco in un tweet, prima ancora in un messaggio, ha sottolineato come i Mondiali di Calcio – lo sport in generale – siano occasione di incontro …

R. – Papa Francesco spesso parla – ed è diventata una parola chiave – dell’incontro, e lo sport – e anzitutto il calcio – è proprio un’occasione ad hoc per incontrarsi in modo sportivo e sincero. L’incontro, come tale, è quello che conta. E’ chiaro, c’è sempre il risultato, poi; ma quello che conta è l’incontro. E se per tutte e due le squadre l’incontro è positivo, penso che abbia una grande forza non soltanto per queste 22 persone, ma per molte altre persone ancora, e non soltanto dei due Paesi rappresentati, ma di tutto il mondo.

D. – Ovviamente, la finale del Mondiale, la parte finale del Mondiale, è coincisa purtroppo con il conflitto tra Israele e Palestina; fra l’altro, anche il Pontificio Consiglio della Cultura ha lanciato l’iniziativa "Pause for Peace", una pausa per la pace, legata ai Mondiali …

R. – Seguo con grande preoccupazione la situazione in Terra Santa; il Papa l’ha detto anche all’Angelus che la preghiera è importantissima; e che anche la preghiera con i due presidenti israeliano e palestinese e con il Patriarca ecumenico che ha fatto un mese fa, è un segnale e questo segnale deve avere e avrà frutti buoni, anche se attualmente la situazione, purtroppo, è diventata molto preoccupante.

D. – Quindi anche lo sport può aiutare? Per esempio, abbiamo visto tante volte che proprio lo sport è stata l’occasione in cui per la prima volta si sono affrontate squadre di nazioni che erano in guerra, o comunque in conflitto tra loro …

R. – Sì. Sono convinto – convintissimo – del fatto che la politica non sarebbe capace di fare incontrare squadre che politicamente siano totalmente diverse, ma lo sport – il calcio – è in grado di farlo e credo che questa sia una possibilità da rafforzare e una possibilità anche da apprezzare.

   



[Modificato da Caterina63 14/07/2014 22:36]
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