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La Santa Eucaristia (brevi lezioni sulla Dottrina)

Ultimo Aggiornamento: 11/03/2013 11:16
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21/11/2012 17:45
 
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[SM=g1740720]  Il codice di Gesù

Torniamo ancora una volta sulle parole dell’istituzione pronunciate dal sacerdote nella Celebrazione eucaristica in forza del mandato conferitogli “in persona Christi”. La contemplazione di queste parole ci permette di intuire l’atteggiamento interiore con il quale Gesù ha compiuto il suo sacrificio sulla Croce e fa sì che divenga presente nella Messa in modo sacramentale. È un binomio, che viene pronunciato sia durante la conversione del pane nel Corpo di Cristo sia durante la conversione del vino nel sangue di Cristo. “Questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi”, “Questo è il calice del mio Sangue… versato per voi”. Si tratta dell’affermazione “per voi”.
    
Se dovessimo trovare un codice per la vita di Gesù, una sigla, potrebbe essere questo: “per voi”. Gesù ha superato l’antichissimo problema dell’egoismo dell’umanità nella Sua persona. La Sua vita è stata l’offerta di sé per la glorificazione del Padre Suo celeste e per la salvezza degli uomini. Non è vissuto per sé, ma per noi. In ogni Santa Messa ci fa partecipi di questo atteggiamento, grazie al quale il cuore dell’uomo rivolto verso se stesso viene redento. Nella conversione del pane e del vino ci viene offerta ancora un’altra conversione: la conversione dell’io autosufficiente nel Tu che ama.
    
Questa è la ragione per cui la Messa per noi è il cuore dell’esistenza cristiana. Essa, secondo l’insegnamento della Chiesa, è “fonte e culmine di tutta la vita cristiana” (Concilio Vaticano II, Costituzione sulla Chiesa, 11). La Messa è il luogo dove questa sigla della fede cristiana non è mai taciuta. Sull’altare il cuore divino-umano batte ininterrottamente. La sua pulsazione è: per voi, per voi, per voi...

Di che tipo è la redenzione? Quale strada sceglie il Signore, quando celebriamo l’Eucaristia? Una risposta la troviamo nel nome che la liturgia dà a Cristo sotto la specie del pane: Agnello di Dio. A un certo punto, il rito della Messa riprende l’indicazione fatta da Giovanni Battista riguardo Colui che è più grande e viene dopo di lui: “Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo” (Gv 1,29). L’“Agnus Dei” ripetuto tre volte durante lo “spezzare del pane” ricorda percettibilmente il corpo spezzato dell’Agnello immolato. Anche uno dei formulari eucaristici fa pensare all’Agnello di Dio: “Beati coloro che sono invitati al banchetto nuziale dell’Agnello”. La terza Preghiera eucaristica, in riferimento alla Chiesa, dice: “Riconosci nell’offerta della Tua Chiesa la vittima immolata per la nostra redenzione”.

Perché si parla così spesso dell’agnello? Già nell’Antico Testamento troviamo l’immagine biblica dell’agnello come esempio per la disponibilità al sacrificio. Il profeta Isaia descrive il Servo di Dio che dovrà venire, che accetterà di portare su di sé la colpa di molti, “come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori” (Is 53,7). La scelta, da parte del Nuovo Testamento, di questa immagine per Cristo rende chiaro che bisogna distinguere tra l’azione risanatrice del Redentore e le altre offerte di salvezza di questo mondo. L’agnello illumina il codice di Gesù da un altro lato ancora.

Uno sguardo al mercato librario e ai calendari delle manifestazioni con la loro offerta di salvezza, mostra che quel che manca è proprio questa donazione. In quei casi si tratta di una salvezza che, in ultima analisi, rimane totalmente in ambito mondano. Sfogliando una brochure a caso leggiamo titoli come: digiuno a scopo terapeutico, ginnastica terapeutica, tisane, la forza occulta delle pietre preziose, le scienze occulte di culture tramontate, esperienze al di là dello spazio e del tempo, in cammino verso la serenità, trovare il centro, etc.   
Anche nella Messa si tratta della salvezza. Essa, però, va ben oltre la vita terrena: si tratta della vita eterna. Per questo non è una salvezza per direttissima. Il Signore percorre un’altra strada: Egli viene in qualità di agnello, in un tenero contatto e in umiltà. Una Messa non può mai essere un evento spettacolare o una festa pirotecnica. Cristo, l’Agnello di Dio, nella Messa ci rende partecipi dell’offerta di sé nell’amore. Attraverso il codice della Sua vita – “per voi” – ci dona l’accesso alla salvezza.  

Chiunque, attraverso la partecipazione nella fede alla liturgia, si lascia coinvolgere in questo movimento, viene inevitabilmente trasformato – senza accorgersene immediatamente. Tanto più fedelmente e con disponibilità percorriamo il cammino verso l’Agnello divino, tanta più parte di ciò che è dentro di noi può essere redenta. Sperimenteremo quanto a tanti uomini al tempo di Gesù venne confermato: “Da Lui usciva una forza che sanava tutti” (Lc 6,19).

Una famosa parabola racconta di un giovane. Egli pensava che tutti gli sforzi fatti per trovare la vicinanza di Dio fossero vani. Credeva che, alla fine, non rimanesse nulla dello sforzo da lui fatto. Il saggio lo mandò con un cestino di paglia sporco al pozzo per prendere l’acqua. Siccome la strada era lunga, alla fine nel cestino non c’era più acqua. Ma ogni giorno il saggio ce lo rimandò di nuovo. “E allora?” chiese dopo un po’ di tempo. “Era tutto vano?”. “Sì, tutto era vano, non sono riuscito neanche a portare una sola tazza d’acqua a casa. Ho perso tutto per strada”.  “No, non è stato vano andare ogni giorno al pozzo con il cestino”, rispose il maestro di saggezza. “È vero che con il tuo cestino di paglia non sei riuscito a conservare l’acqua. Ma non vedi come il cestino, grazie all’acqua, si è pulito? Lo stesso vale anche per te. Anche se credi che tutto lo sforzo fatto per trovare la vicinanza di Dio sia vano, sei comunque stato infine purificato da Lui, fonte di ogni bene”.
        
Questo racconto si può applicare anche alla partecipazione nella fede alla celebrazione della Santa Messa. Se ogni settimana portiamo il cestino sporco della nostra vita, pesantemente concentrata su se stessa, al pozzo della Celebrazione eucaristica, con l’andare del tempo anche in noi avverrà una purificazione. Il sangue di Cristo, versato per noi sulla Croce, sicuramente mostrerà la sua efficacia su di noi, fragili vasi. Soprattutto in unione con il sacramento della Penitenza, la Messa possiede un’altissima forza risanatrice. Il “per voi” del codice di Gesù diventa concretamente personale per ognuno di noi, forgiandoci insieme e facendoci diventare uomini di Chiesa capaci di comunione, nei quali l’“io” non ha più l’assoluta priorità.

Un consiglio dato da tanti Santi è che bisogna fare buon uso del momento della consacrazione, in cui il sacerdote alza la santa Ostia. In questi momenti l’azione risanatrice di Gesù è particolarmente tangibile. Il Santo Parroco di Ars definì questo momento della Santa Messa adattissimo per pregare per la conversione del cuore. L’amore di Cristo riesce a trasformare anche situazioni e cuori induriti. La conversione non vale soltanto per i doni offerti all’altare, vale anche per noi.


[SM=g1740753] La goccia d’acqua nel vino

Il fatto che in ben due Concili sia stata messa a tema l’infusione dell’acqua nel vino durante l’offertorio, risulta sorprendente persino per i cattolici praticanti. A parte i ministranti all’altare, probabilmente solo pochi partecipanti alla Messa si accorgono che, in ogni Messa, nel calice, l’acqua viene infusa nel vino.  
    
Nel senso della mistagogia, un accostamento ai misteri della fede, la goccia d’acqua ci può indurre a penetrare più profondamente nella teologia del sacrificio della Messa. Al Concilio di Firenze (1439), convocato per raggiungere un accordo con i cristiani armeni, la goccia d’acqua fu oggetto di approfondita valutazione dogmatica. Come materia necessaria per il sacramento dell’Eucaristia, il Concilio menziona “il pane di frumento e il vino d’uva al quale prima della consacrazione deve aggiungersi qualche goccia d‘acqua”.

Significativa è l’enunciazione che fu il Signore stesso ad aver istituito questo sacramento così, servendosi di vino infuso con acqua. Evidentemente era un’antica prassi ebraica bere il vino infuso con acqua. Lo scrittore Giustino, che morì martire verso l’anno 165, ci ha dato preziose indicazioni sul modo in cui avvenivano le Celebrazioni eucaristiche protocristiane. In tutta naturalezza testimonia anche: “Poi al primo dei fratelli vengono portati il pane e un calice con acqua e vino”.

A parte questa indicazione che Gesù stesso ha agito così e che questa prassi è confermata dalle “testimonianze dei santi padri e dottori della Chiesa”, il Concilio di Firenze fornisce anche una spiegazione allegorico-mistica: “perché questo si addice al memoriale della passione del Signore”. “Non si deve, infatti, offrire nel calice del Signore o solo il vino o solo l’acqua, ma l’uno e l’altra insieme, perché si legge che l’uno e l’altra, cioè il sangue e l’acqua, sono sgorgati dal fianco di Cristo” (cfr. Gv 19,34). Così entra in gioco il carattere sacrificale della Santa Messa, il sacrificio di sé del Redentore per amore della nostra salvezza.

Ma – così dice il Concilio di Firenze – si tratta anche del nostro ingresso nel Suo sacrificio. L’effetto che il sacramento ha su di noi deve manifestarsi nella goccia d’acqua: “nell’acqua si prefigura il popolo, e nel vino si manifesta il sangue di Cristo”. “Quando dunque si mischia nel calice l’acqua col vino, si unisce il popolo a Cristo, e il popolo fedele si congiunge e si unisce con colui nel quale crede”.

Perché fu proprio questo Concilio, il cui contenuto fu una conciliazione con gli armeni di tendenza monofisita, ad analizzare così dettagliatamente il tema della goccia d’acqua? L’eresia monofisita tendeva ad accentuare eccessivamente e unilateralmente la natura divina di Gesù Cristo. L’espressione “monophysis” significa “una sola natura”. La natura umana presa dal Figlio di Dio per la nostra salvezza sarebbe stata, secondo loro, assorbita dalla Sua divinità. Con questo, per i monofisiti, la realtà dell’incarnazione passava in secondo piano, l’azione redentrice sulla Croce perdeva il suo significato.

Tra lo svanire di questa eresia nel V secolo e i negoziati unionisti con gli armeni del XV secolo era trascorso un millennio. Ciò che, a causa della distanza di secoli, era diventato forse meno problematico a livello della dottrina, era ancora percepibile in un dettaglio liturgico. Coerentemente, i monofisiti avevano bandito la goccia d’acqua dalla loro liturgia: il divino non necessita di alcun completamento umano, di nessuna aggiunta da parte dell’uomo. La dottrina cattolica, però, abbraccia ambedue queste realtà, la natura divina e la natura umana, nell’unica persona di Gesù Cristo. Cosicché ancora oggi la preghiera che accompagna l’infusione dell’acqua nel vino recita: “L’acqua unita al vino sia segno della nostra unione con la vita divina di Colui che ha voluto assumere la nostra natura umana”.

Si legge come un viaggio teologico di esplorazione, quando, più di 100 anni dopo, nel 1562, al Concilio di Trento, in una dichiarazione dogmatica si vide riapparire la goccia d’acqua nel vino. Che cos’era successo? Martin Lutero aveva parlato della strapotenza della grazia. La giustificazione dell’uomo al cospetto di Dio avrebbe potuto avverarsi soltanto attraverso la grazia: “Sola gratia”. Nessuna aggiunta avrebbe permesso al peccatore di partecipare alla sua redenzione, fatta l’eccezione della sua fede fiduciale: “Sola fides”. Di conseguenza, per i protestanti la goccia d’acqua nel calice divenne del tutto fuori luogo. La pura opera divina non necessita di alcuna azione aggiunta da parte dell’uomo.
    
Ma non è forse vero quando l’apostolo Paolo dice: “Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1,24)? Con questa affermazione san Paolo non intende sminuire l’opera redentrice dell’unico Redentore. Anzi, proprio san Paolo sapeva per esperienza: “Per grazia di Dio però sono quello che sono” (1 Cor 15,10). Una volta il Signore gli aveva persino fatto capire: “Ti basta la mia grazia” (2 Cor 12,9). Ciò nonostante l’apostolo era consapevole del suo compito di “strumento”.
[SM=g1740733] Non è l’azione redentrice che necessita di complemento, ma la sua mediazione agli uomini, “per il Corpo di Cristo” che necessita del contributo umano.

Siccome Cristo non voleva redimere soltanto individualmente e l’azione redentrice include l’edificazione del Suo Corpo, la Chiesa, le singole membra fungono da “goccia d’acqua”. C’è un modo molto semplice di illustrare questi ragionamenti di alta teologia: quando Gesù morì sulla Croce, lo fece in qualità di unico mediatore tra Dio e gli uomini. Il fatto, però, che Maria, Giovanni e alcune donne fedeli, sotto la Croce, si unirono al Suo sacrificio, agli occhi di Dio non fu né una diminuzione del sacrificio di Gesù né un’aggiunta casuale. È proprio come la goccia d’acqua nel calice della salvezza.


Ma torniamo, dopo questa escursione nella storia della Chiesa e della teologia, all’offertorio della Messa. Noi tutti, la comunità radunata attorno all’altare, dobbiamo diventare dono gradito a Dio, assieme al sacrificio di Cristo, così come i fedeli lo esprimono nel “suscipiat” davanti al sacerdote: “Il Signore riceva dalle tue mani questo sacrificio a lode e gloria del suo nome, per il bene nostro e di tutta la sua santa Chiesa“.

Le osservazioni relative a un dettaglio apparentemente marginale dell’offertorio rivelano forse la grande ricchezza spirituale nascosta in questi momenti della celebrazione della Messa. È ben comprensibile che le parole che accompagnano le azioni dell’offertorio vengano normalmente recitate sottovoce, come previsto dal Messale. I fedeli possono intanto intonare un canto di offertorio che favorisca l’atteggiamento di offerta, o possono ascoltare il coro o la schola, oppure, cosa del tutto adatta a ciò che sta avvenendo, possono elevare silenziosamente il cuore e i sensi al Signore, mentre magari un organo o un alto strumento suona piano come accompagnamento di quest’azione.

Il Messale dice chiaramente che le processioni offertoriali dei fedeli sono in corrispondenza al contenuto interiore di questa parte della Messa. Non a caso, a questo punto viene fatta girare anche la bussola per le elemosine per raccogliere offerte per le esigenze della Chiesa e soprattutto dei più bisognosi. Anche questi piccoli doni fanno sì che la “goccia d’acqua” prenda una forma concreta.

Julia Verhaeghe, la Madre fondatrice della famiglia spirituale “L’opera”, la cui vita fu contrassegnata da un amore profondo per la Chiesa e la sua liturgia, nella goccia d’acqua vedeva se stessa e la propria missione: “Signore, lascia che, nel calice del sacerdote che offre a Te il santo sacrificio, io sia la piccola goccia d’acqua che si infonde nel vino perdendosi in esso”. Per un fedele che voglia partecipare alla celebrazione della Santa Messa in modo ancora più spirituale, questa intenzione di preghiera può essere uno stimolo prezioso.





[SM=g1740771]  continua.......

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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