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Se avete desiderio di capire che cosa insegna la Bibbia che il Magistero della Santa Chiesa, con il Sommo Pontefice ci insegna, questo Gruppo fa per voi. Non siamo "esperti" del settore, ma siamo Laici impegnati nella Chiesa che qui si sono incontrati da diverse parti d'Italia per essere testimoni anche nella rete della Verità che tentiamo di vivere nel quotidiano, come lo stesso amato Giovanni Paolo II suggeriva.
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Discorso del Papa ai Vescovi: un Vescovo è chiamato a essere "forte, deciso, giusto e sereno per un discernimento sapienziale"

Ultimo Aggiornamento: 09/10/2012 15:19
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Benedetto XVI ai presuli di recente nomina partecipanti all'incontro promosso dalla Congregazione per i Vescovi

L'arte delle arti
tra autorità e carità


Il vescovo "non è mero governante, burocrate" od "organizzatore" della vita diocesana:  egli è chiamato a essere "forte, deciso, giusto e sereno per un discernimento sapienziale" di persone, realtà e avvenimenti. Lo ha ricordato il Papa ai vescovi di nuova nomina ricevuti in udienza lunedì 13 settembre.

Carissimi Fratelli nell'Episcopato!
Sono molto lieto di incontrami con voi, Vescovi di recente nomina, provenienti da vari Paesi del mondo e riuniti a Roma per l'annuale convegno promosso dalla Congregazione per i Vescovi. Ringrazio il Cardinale Marc Ouellet per le cortesi parole che, anche a nome di tutti voi, mi ha rivolto; e a lui desidero porgere uno speciale augurio all'inizio del suo servizio come Prefetto di questo Dicastero:  sono lieto, venerato Fratello, che Lei incominci con questa bella esperienza di comunione ecclesiale tra i nuovi Pastori di varie Chiese particolari.

Saluto cordialmente anche il Cardinale Leonardo Sandri, Prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, ed esprimo la mia riconoscenza a quanti collaborano all'organizzazione di questo incontro.
 
Secondo una consuetudine molto significativa, avete compiuto innanzitutto un pellegrinaggio sulla tomba dell'Apostolo Pietro, il quale si è conformato a Cristo Maestro e Pastore, fino alla morte e alla morte di croce.

A questo proposito, illuminanti sono alcune espressioni di san Tommaso d'Aquino, che possono costituire un vero e proprio programma di vita per ogni Vescovo. Commentando l'espressione di Gesù nel Vangelo di Giovanni:  "Il Buon Pastore offre la vita per le sue pecore", san Tommaso osserva:  "Egli consacra a loro la sua persona nell'esercizio dell'autorità e della carità. Si esigono tutte e due le cose:  che gli ubbidiscano e che le ami. Infatti la prima senza la seconda non è sufficiente" (Esp. su Giovanni, 10, 3).

La Costituzione dogmatica sulla Chiesa, Lumen gentium, specifica:  "Il Vescovo, mandato dal Padre di famiglia a governare la sua famiglia, tenga innanzi agli occhi l'esempio del Buon Pastore, che è venuto non per essere servito ma per servire (cfr. Mt 20, 28; Mc 10, 45) e dare la sua vita per le pecore (cfr. Gv 10, 11). Preso di mezzo agli uomini e soggetto a debolezze, egli può compatire quelli che sono nell'ignoranza o nell'errore (cfr. Eb 5, 1-2). Non rifugga dall'ascoltare i sudditi che cura come veri figli suoi e che esorta a cooperare alacremente con lui. Dovendo rendere conto a Dio delle loro anime (cfr. Eb 13, 17), con la preghiera, la predicazione e ogni opera di carità, abbia cura di loro, e anche di quelli che non sono ancora dell'unico gregge, che deve considerare come affidati a sé nel Signore. Poiché egli, come l'Apostolo Paolo, è debitore a tutti" (n. 27).

La missione del Vescovo non può essere intesa con la mentalità dell'efficienza e dell'efficacia, per cui si pone l'attenzione primariamente su ciò che c'è da fare, ma occorre sempre tenere in conto la dimensione ontologica, che è alla base di quella funzionale. Infatti, il Vescovo, per l'autorità di Cristo di cui è rivestito, quando siede sulla sua Cattedra è posto "sopra" e "di fronte" alla comunità, in quanto egli è "per" la comunità verso la quale dirige la sua sollecitudine pastorale (Giovanni Paolo ii, Esort. ap. post-sinodale Pastores gregis, n. 29).
 
La Regola Pastorale di Papa san Gregorio Magno, che potrebbe essere considerata il primo "direttorio" per i Vescovi della storia della Chiesa, definisce il governo pastorale come "l'arte delle arti" (i, 1.4), e precisa che la potestà di governo "la regge bene chi sa con essa erigersi contro le colpe e con essa sa essere uguale agli altri ... e domina sui vizi piuttosto che sui fratelli" (ii, 6).

Fanno riflettere le parole esplicative del rito della consegna dell'anello nella liturgia dell'Ordinazione episcopale:  "Ricevi l'anello, segno di fedeltà, e nell'integrità della fede e nella purezza della vita custodisci la Santa Chiesa, sposa di Cristo".
 
La Chiesa è "sposa di Cristo" e il Vescovo è il "custode" (episkopos) di questo mistero.

L'anello è dunque un segno di fedeltà:  si tratta della fedeltà alla Chiesa e alla purezza della fede di lei. Al Vescovo, quindi, viene affidata un'alleanza nuziale:  quella della Chiesa con Cristo. Significative le parole che leggiamo nel Vangelo di Giovanni:  "Lo sposo è colui al quale appartiene la sposa; ma l'amico dello sposo, che è presente e l'ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo" (3, 29). Il concetto del "custodire" non vuol dire soltanto conservare ciò che già è stato stabilito - benché questo elemento non debba mai mancare -, ma include, nella sua essenza, anche l'aspetto dinamico, cioè una perpetua e concreta tendenza al perfezionamento, in piena armonia e continuo adeguamento alle esigenze nuove sorte dallo sviluppo e dal progresso di quell'organismo vivente che è la comunità.

Grandi sono le responsabilità di un Vescovo per il bene della diocesi, ma anche della società. Egli è chiamato ad essere "forte e deciso, giusto e sereno" (Congregazione per i Vescovi, Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi "Apostolorum successores", n. 44), per un discernimento sapienziale delle persone, della realtà e degli avvenimenti, richiesto dal suo compito di essere "padre, fratello e amico" (Ibid., nn. 76-77) nel cammino cristiano ed umano. Si tratta di una profonda prospettiva di fede e non semplicemente umana, amministrativa o di stampo sociologico quella in cui si colloca il ministero del Vescovo, il quale non è un mero governante, o un burocrate, o un semplice moderatore e organizzatore della vita diocesana. Sono la paternità e la fraternità in Cristo che danno al Superiore la capacità di creare un clima di fiducia, di accoglienza, di affetto, ma anche di franchezza e di giustizia.

Particolarmente illuminanti sono, al riguardo, le parole di un'antica preghiera di sant'Aelredo di Rievaulx, Abate:  "Tu, dolce Signore, hai posto uno come me a capo della tua famiglia, delle pecore del tuo pascolo (...) perché potesse essere manifestata la tua misericordia e rivelata la tua sapienza. È piaciuto alla tua benevolenza governare bene la tua famiglia mediante un tale uomo, così che si vedesse la sublimità della tua forza, non quella dell'uomo, così che non abbia a gloriarsi il sapiente nella sua sapienza, né il giusto nella sua giustizia, né il forte nella sua forza:  poiché quando questi governano bene il tuo popolo, sei tu che lo reggi, e non loro. E dunque non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo nome dà gloria" (Speculum caritatis, PL cxcv).

Affidandovi, cari Fratelli, queste brevi riflessioni, invoco la materna protezione di Maria Santissima, Regina Apostolorum, e imparto di cuore a ciascuno di voi, ai vostri sacerdoti, ai religiosi e alle religiose, ai seminaristi e ai fedeli delle vostre Diocesi una speciale Benedizione Apostolica.


(©L'Osservatore Romano - 13-14 settembre 2010)
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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MESSAGGIO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
AL CONVEGNO INTERNAZIONALE
«GESÙ, NOSTRO CONTEMPORANEO»
[ROMA, 9-11 FEBBRAIO 2012]

 

 

Al Venerato Fratello
Cardinale Angelo Bagnasco
Arcivescovo Metropolita di Genova
Presidente della Conferenza Episcopale Italiana

In occasione del Convegno internazionale «Gesù, nostro contemporaneo», che ha luogo a Roma dal 9 all’11 febbraio 2012 su iniziativa del Comitato per il Progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana, rivolgo un cordiale saluto a Lei, Venerato Fratello, ai Signori Cardinali e ai Vescovi presenti, ai Relatori, agli organizzatori e a tutti coloro che prendono parte a un così significativo evento.

Sono assai lieto e grato per la scelta di dedicare alla Persona di Gesù alcune giornate di approfondimento interdisciplinare e di proposta culturale, destinate ad avere risonanza nella comunità ecclesiale e sociale italiana. Molti segnali, infatti, rivelano come il nome e il messaggio di Gesù di Nazaret, pur in tempi così distratti e confusi, trovino frequentemente interesse ed esercitino una forte attrattiva, anche in coloro che non giungono ad aderire alla sua parola di salvezza. Siamo quindi stimolati a suscitare in noi stessi e dovunque una comprensione sempre più profonda e compiuta della figura reale di Gesù Cristo, quale può scaturire solo dall’ermeneutica della fede posta in fecondo rapporto con la ragione storica. A questo fine ho scritto i miei due libri dedicati a Gesù di Nazaret.

È molto significativo che, all’interno dell’opera di elaborazione culturale della comunità cristiana, venga messo a tema ciò che non può considerarsi oggetto esclusivo delle discipline sacre, come ben mostra la vastità delle competenze e la pluralità delle voci chiamate a raccolta nel Convegno. L’evangelizzazione della cultura, a cui tende il Progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana, si fonda sulla convinzione che la vita della persona e di un popolo può essere animata e trasformata in tutte le sue dimensioni dal Vangelo, per raggiungere in pienezza il suo fine e la sua verità.

Nel corso del mio Pontificato, ho più volte richiamato la priorità costituita dall’aprire a Dio una strada nel cuore e nella vita degli uomini. «Con Lui o senza di Lui tutto cambia», affermava incisivamente il titolo del precedente Convegno del Comitato per il Progetto culturale. Non a un indefinito ente superiore o a una forza cosmica possiamo affidare le nostre vite, ma al Dio il cui volto di Padre ci è stato reso familiare dal Figlio, «pieno di grazia e di verità» (Gv 1, 14). [SM=g1740721] 

È Gesù la chiave che ci apre la porta della sapienza e dell’amore, che spezza la nostra solitudine e tiene accesa la speranza davanti al mistero del male e della morte. La vicenda di Gesù di Nazaret, nel cui nome ancora oggi molti credenti, in diversi Paesi del mondo, affrontano sofferenze e persecuzioni, non può dunque restare confinata in un lontano passato, ma è decisiva per la nostra fede oggi.

Cosa significa affermare che Gesù di Nazaret, vissuto tra la Galilea e la Giudea duemila anni fa, è «contemporaneo» di ciascun uomo e donna che vive oggi e in ogni tempo? Ce lo spiega Romano Guardini con parole che rimangono attuali come quando furono scritte: «La sua vita terrena è entrata nell’eternità e in tal modo è correlata ad ogni ora del tempo terreno redento dal suo sacrificio... Nel credente si compie un mistero ineffabile: Cristo che è “lassù”, “assiso alla destra del Padre” (Col 3, 1), è anche “in” quest’uomo, con la pienezza della sua redenzione; poiché in ogni cristiano si compie di nuovo la vita di Cristo, la sua crescita, la sua maturità, la sua passione, morte e resurrezione, che ne costituisce la vera vita» (Il testamento di Gesù, Milano 1993, p. 141).

Gesù è entrato per sempre nella storia umana e vi continua a vivere, con la sua bellezza e potenza, in quel corpo fragile e sempre bisognoso di purificazione, ma anche infinitamente ricolmo dell’amore divino, che è la Chiesa. A Lui essa si rivolge nella Liturgia, per lodarlo e ricevere la vita autentica. La contemporaneità di Gesù si rivela in modo speciale nell’Eucaristia, in cui Egli è presente con la sua passione, morte e risurrezione. È questo il motivo che rende la Chiesa contemporanea di ogni uomo, capace di abbracciare tutti gli uomini e tutte le epoche perché guidata dallo Spirito Santo al fine di continuare l’opera di Gesù nella storia.

Nell’affidarLe questi pensieri, Venerato Fratello, invio di cuore a Lei e a tutti i partecipanti al Convegno il mio cordiale saluto con l’augurio di un felice esito. Accompagno i vostri lavori con la preghiera e con la mia Benedizione Apostolica, propiziatrice di una comunione sempre pia stretta con Gesù e con il Padre che lo ha inviato a noi.

Dal Vaticano, 9 Febbraio 2012

 

BENEDICTUS PP. XVI

 

 


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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19/06/2012 20:56
 
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DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
ALL'ASSEMBLEA DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Aula del Sinodo
Giovedì, 24 maggio 2012

 

Venerati e cari Fratelli,

è un momento di grazia questo vostro annuale convenire in Assemblea, in cui vivete una profonda esperienza di confronto, di condivisione e di discernimento per il comune cammino, animato dallo Spirito del Signore Risorto; è un momento di grazia che manifesta la natura della Chiesa. Ringrazio il Cardinale Angelo Bagnasco per le cordiali parole con cui mi ha accolto, facendosi interprete dei vostri sentimenti: a Lei, Eminenza, rivolgo i migliori auguri per la riconferma alla guida della Conferenza Episcopale Italiana. L’affetto collegiale che vi anima nutra sempre più la vostra collaborazione a servizio della comunione ecclesiale e del bene comune della Nazione italiana, nell’interlocuzione fruttuosa con le sue istituzioni civili.

In questo nuovo quinquennio proseguite insieme il rinnovamento ecclesiale che ci è stato affidato dal Concilio Ecumenico Vaticano II; il 50° anniversario del suo inizio, che celebreremo in autunno, sia motivo per approfondirne i testi, condizione di una recezione dinamica e fedele.

«Quel che più di tutto interessa il Concilio è che il sacro deposito della dottrina cristiana sia custodito e insegnato in forma più efficace», affermava il Beato Papa Giovanni XXIII nel discorso d’apertura. E vale la pena meditare e leggere queste parole. Il Papa impegnava i Padri ad approfondire e a presentare tale perenne dottrina in continuità con la tradizione millenaria della Chiesa, «trasmettere pura ed integra la dottrina, senza attenuazioni o travisamenti», ma in modo nuovo, «secondo quanto è richiesto dai nostri tempi» (Discorso di solenne apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II, 11 ottobre 1962).
Con questa chiave di lettura e di applicazione, nell’ottica non certo di un’inaccettabile ermeneutica della discontinuità e della rottura, ma di un’ermeneutica della continuità e della riforma, ascoltare il Concilio e farne nostre le autorevoli indicazioni, costituisce la strada per individuare le modalità con cui la Chiesa può offrire una risposta significativa alle grandi trasformazioni sociali e culturali del nostro tempo, che hanno conseguenze visibili anche sulla dimensione religiosa.

La razionalità scientifica e la cultura tecnica, infatti, non soltanto tendono ad uniformare il mondo, ma spesso travalicano i rispettivi ambiti specifici, nella pretesa di delineare il perimetro delle certezze di ragione unicamente con il criterio empirico delle proprie conquiste. Così il potere delle capacità umane finisce per ritenersi la misura dell’agire, svincolato da ogni norma morale. Proprio in tale contesto non manca di riemergere, a volte in maniera confusa, una singolare e crescente domanda di spiritualità e di soprannaturale, segno di un’inquietudine che alberga nel cuore dell’uomo che non si apre all’orizzonte trascendente di Dio. Questa situazione di secolarismo caratterizza soprattutto le società di antica tradizione cristiana ed erode quel tessuto culturale che, fino a un recente passato, era un riferimento unificante, capace di abbracciare l’intera esistenza umana e di scandirne i momenti più significativi, dalla nascita al passaggio alla vita eterna. Il patrimonio spirituale e morale in cui l’Occidente affonda le sue radici e che costituisce la sua linfa vitale, oggi non è più compreso nel suo valore profondo, al punto che più non se ne coglie l’istanza di verità. Anche una terra feconda rischia così di diventare deserto inospitale e il buon seme di venire soffocato, calpestato e perduto.

Ne è un segno la diminuzione della pratica religiosa, visibile nella partecipazione alla Liturgia eucaristica e, ancora di più, al Sacramento della Penitenza.
Tanti battezzati hanno smarrito identità e appartenenza: non conoscono i contenuti essenziali della fede o pensano di poterla coltivare prescindendo dalla mediazione ecclesiale. E mentre molti guardano dubbiosi alle verità insegnate dalla Chiesa, altri riducono il Regno di Dio ad alcuni grandi valori, che hanno certamente a che vedere con il Vangelo, ma che non riguardano ancora il nucleo centrale della fede cristiana. Il Regno di Dio è dono che ci trascende.
Come affermava il beato Giovanni Paolo II, «il regno non è un concetto, una dottrina, un programma soggetto a libera elaborazione, ma è innanzi tutto una persona che ha il volto e il nome di Gesù di Nazareth, immagine del Dio invisibile» (Giovanni Paolo II, Lett. enc. Redemptoris missio [7 dicembre 1990], 18).
Purtroppo, è proprio Dio a restare escluso dall’orizzonte di tante persone; e quando non incontra indifferenza, chiusura o rifiuto, il discorso su Dio lo si vuole comunque relegato nell’ambito soggettivo, ridotto a un fatto intimo e privato, marginalizzato dalla coscienza pubblica. Passa da questo abbandono, da questa mancata apertura al Trascendente, il cuore della crisi che ferisce l’Europa, che è crisi spirituale e morale: l’uomo pretende di avere un’identità compiuta semplicemente in se stesso.

In questo contesto, come possiamo corrispondere alla responsabilità che ci è stata affidata dal Signore? Come possiamo seminare con fiducia la Parola di Dio, perché ognuno possa trovare la verità di se stesso, la propria autenticità e speranza? Siamo consapevoli che non bastano nuovi metodi di annuncio evangelico o di azione pastorale a far sì che la proposta cristiana possa incontrare maggiore accoglienza e condivisione.
Nella preparazione del Vaticano II, l’interrogativo prevalente e a cui l’Assise conciliare intendeva dare risposta era: «Chiesa, che dici di te stessa?». Approfondendo tale domanda, i Padri conciliari furono, per così dire, ricondotti al cuore della risposta: si trattava di ripartire da Dio, celebrato, professato e testimoniato. Esteriormente a caso, ma fondamentalmente non a caso, infatti, la prima Costituzione approvata fu quella sulla Sacra Liturgia: il culto divino orienta l’uomo verso la Città futura e restituisce a Dio il suo primato, plasma la Chiesa, incessantemente convocata dalla Parola, e mostra al mondo la fecondità dell’incontro con Dio. A nostra volta, mentre dobbiamo coltivare uno sguardo riconoscente per la crescita del grano buono anche in un terreno che si presenta spesso arido, avvertiamo che la nostra situazione richiede un rinnovato impulso, che punti a ciò che è essenziale della fede e della vita cristiana. In un tempo nel quale Dio è diventato per molti il grande Sconosciuto e Gesù semplicemente un grande personaggio del passato, non ci sarà rilancio dell’azione missionaria senza il rinnovamento della qualità della nostra fede e della nostra preghiera; non saremo in grado di offrire risposte adeguate senza una nuova accoglienza del dono della Grazia; non sapremo conquistare gli uomini al Vangelo se non tornando noi stessi per primi a una profonda esperienza di Dio.

Cari Fratelli, il nostro primo, vero e unico compito rimane quello di impegnare la vita per ciò che vale e permane, per ciò che è realmente affidabile, necessario e ultimo. Gli uomini vivono di Dio, di Colui che spesso inconsapevolmente o solo a tentoni ricercano per dare pieno significato all’esistenza: noi abbiamo il compito di annunciarlo, di mostrarlo, di guidare all’incontro con Lui. Ma è sempre importante ricordarci che la prima condizione per parlare di Dio è parlare con Dio, diventare sempre più uomini di Dio, nutriti da un’intensa vita di preghiera e plasmati dalla sua Grazia. Sant’Agostino, dopo un cammino di affannosa, ma sincera ricerca della Verità era finalmente giunto a trovarla in Dio. Allora si rese conto di un aspetto singolare che riempì di stupore e di gioia il suo cuore: capì che lungo tutto il suo cammino era la Verità che lo stava cercando e che l’aveva trovato. Vorrei dire a ciascuno: lasciamoci trovare e afferrare da Dio, per aiutare ogni persona che incontriamo ad essere raggiunta dalla Verità. E’ dalla relazione con Lui che nasce la nostra comunione e viene generata la comunità ecclesiale, che abbraccia tutti i tempi e tutti i luoghi per costituire l’unico Popolo di Dio.

Per questo ho voluto indire un Anno della Fede, che inizierà l’11 ottobre prossimo, per riscoprire e riaccogliere questo dono prezioso che è la fede, per conoscere in modo più profondo le verità che sono la linfa della nostra vita, per condurre l’uomo d’oggi, spesso distratto, ad un rinnovato incontro con Gesù Cristo «via, vita e verità».

In mezzo a trasformazioni che interessavano ampi strati dell’umanità, il Servo di Dio Paolo VI indicava chiaramente quale compito della Chiesa quello di «raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono in contrasto con la Parola di Dio e col disegno della salvezza» (Esort. Ap.Evangelii nuntiandi [8 dicembre 1975], 19).
Vorrei qui ricordare come, in occasione della prima visita da Pontefice nella sua terra natale, il beato Giovanni Paolo II visitò un quartiere industriale di Cracovia concepito come una sorta di «città senza Dio». Solo l’ostinazione degli operai aveva portato a erigervi prima una croce, poi una chiesa. In quei segni, il Papa riconobbe l’inizio di quella che egli, per la prima volta, definì «nuova evangelizzazione», spiegando che «l’evangelizzazione del nuovo millennio deve riferirsi alla dottrina del Concilio Vaticano II. Deve essere, come insegna questo Concilio, opera comune dei Vescovi, dei sacerdoti, dei religiosi e dei laici, opera dei genitori e dei giovani». E concluse: «Avete costruito la chiesa; edificate la vostra vita col Vangelo!» (Omelia nel Santuario della Santa Croce, Mogila, 9 giugno 1979).

Cari Confratelli, la missione antica e nuova che ci sta innanzi è quella di introdurre gli uomini e le donne del nostro tempo alla relazione con Dio, aiutarli ad aprire la mente e il cuore a quel Dio che li cerca e vuole farsi loro vicino, guidarli a comprendere che compiere la sua volontà non è un limite alla libertà, ma è essere veramente liberi, realizzare il vero bene della vita. Dio è il garante, non il concorrente, della nostra felicità, e dove entra il Vangelo – e quindi l’amicizia di Cristo – l’uomo sperimenta di essere oggetto di un amore che purifica, riscalda e rinnova, e rende capaci di amare e di servire l’uomo con amore divino.

Come evidenzia opportunamente il tema principale di questa vostra Assemblea, la nuova evangelizzazione necessita di adulti che siano «maturi nella fede e testimoni di umanità». L’attenzione al mondo degli adulti manifesta la vostra consapevolezza del ruolo decisivo di quanti sono chiamati, nei diversi ambiti di vita, ad assumere una responsabilità educativa nei confronti delle nuove generazioni.

Vegliate e operate perché la comunità cristiana sappia formare persone adulte nella fede perché hanno incontrato Gesù Cristo, che è diventato il riferimento fondamentale della loro vita; persone che lo conoscono perché lo amano e lo amano perché l’hanno conosciuto; persone capaci di offrire ragioni solide e credibili di vita. In questo cammino formativo è particolarmente importante – a vent’anni dalla sua pubblicazione – il Catechismo della Chiesa Cattolica, sussidio prezioso per una conoscenza organica e completa dei contenuti della fede e per guidare all’incontro con Cristo. Anche grazie a questo strumento possa l’assenso di fede diventare criterio di intelligenza e di azione che coinvolge tutta l’esistenza.

Trovandoci nella novena di Pentecoste, vorrei concludere queste riflessioni con una preghiera allo Spirito Santo:

Spirito di Vita, che in principio aleggiavi sull’abisso,
aiuta l’umanità del nostro tempo a comprendere
che l’esclusione di Dio la porta a smarrirsi nel deserto del mondo,
e che solo dove entra la fede fioriscono la dignità e la libertà
e la società tutta si edifica nella giustizia.

Spirito di Pentecoste, che fai della Chiesa un solo Corpo,
restituisci noi battezzati a un’autentica esperienza di comunione;
rendici segno vivo della presenza del Risorto nel mondo,
comunità di santi che vive nel servizio della carità.

Spirito Santo, che abiliti alla missione,
donaci di riconoscere che, anche nel nostro tempo,
tante persone sono in ricerca della verità sulla loro esistenza e sul mondo.

Rendici collaboratori della loro gioia con l’annuncio del Vangelo di Gesù Cristo,
chicco del frumento di Dio, che rende buono il terreno della vita
e assicura l’abbondanza del raccolto.
Amen.

 
[SM=g1740722]

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Il Papa ai vescovi di recente nomina: Le comunità di cui siete Pastori in Africa, Asia, America Latina ed Oceania, pur in situazioni differenti, sono tutte impegnate nella prima evangelizzazione e nell’opera di consolidamento della fede...Nel vostro cuore sia sempre salda la fiducia nel Signore; la Chiesa è sua, ed è Lui che la guida sia nei momenti difficili, che di serenità


Vedi anche:

Il Papa: Dio vicino a Chiesa in serenità come in momenti difficili


Il Papa ai vescovi: Nel vostro cuore sia sempre salda la fiducia nel Signore; la Chiesa è sua, ed è Lui che la guida sia nei momenti difficili, che di serenità

Il Papa ai nuovi vescovi dei territori di missione: Dare fiducia al Vangelo (Sir)


UDIENZA DEL SANTO PADRE AI VESCOVI DI RECENTE NOMINA PARTECIPANTI AL CORSO PROMOSSO DALLA CONGREGAZIONE PER L’EVANGELIZZAZIONE DEI POPOLI, 07.09.2012


Alle ore 12 di oggi, nella Sala degli Svizzeri del Palazzo Apostolico d Castel Gandolfo, il Santo Padre riceve in Udienza i Vescovi di recente nomina alla guida dei Territori di Missione, che hanno partecipato al corso di formazione promosso dalla Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli.

Riportiamo di seguito il discorso che il Papa rivolge ai presenti nel corso dell’udienza:

DISCORSO DEL SANTO PADRE


Cari Fratelli,


sono lieto di incontrami con voi, riuniti a Roma per il corso di formazione dei Vescovi di recente nomina, promosso dalla Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli. Saluto cordialmente il Cardinale Fernando Filoni, Prefetto del Dicastero, e lo ringrazio per le cortesi parole che mi ha rivolto anche a nome vostro. Saluto Mons. Savio Hon Tai-Fai e Mons. Protase Rugambwa, Segretario e Segretario Aggiunto della Congregazione; a loro e a quanti contribuiscono alla buona riuscita del Seminario esprimo la mia riconoscenza.

Questo corso si svolge in prossimità dell’Anno della fede, un dono prezioso del Signore alla sua Chiesa per aiutare i battezzati a prendere coscienza della propria fede e a comunicarla a quanti non ne hanno ancora sperimentato la bellezza.
Le comunità di cui siete Pastori in Africa, Asia, America Latina ed Oceania, pur in situazioni differenti, sono tutte impegnate nella prima evangelizzazione e nell’opera di consolidamento della fede.
Di esse percepite le gioie e le speranze, come pure le ferite e le preoccupazioni, similmente all’apostolo Paolo, che scriveva: «Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24). E aggiungeva: «Per questo mi affatico e lotto, con la forza che viene da lui e che agisce in me con potenza» (v. 29).

Nel vostro cuore sia sempre salda la fiducia nel Signore; la Chiesa è sua, ed è Lui che la guida sia nei momenti difficili, che di serenità. Le vostre comunità sono quasi tutte di recente fondazione, e presentano i pregi e le debolezze legati alla loro breve storia. Mostrano una fede partecipata e gioiosa, vivace e creativa, ma spesso non ancora radicata. In esse l’entusiasmo e lo zelo apostolico si alternano a momenti di instabilità e incoerenza. Emergono qua e là frizioni ed abbandoni. Tuttavia, sono Chiese che vanno maturando grazie all’azione pastorale, ma anche al dono di quella communio sanctorum, che consente una vera e propria osmosi di grazia tra le Chiese di antica tradizione e quelle di recente costituzione, oltre che, prima ancora, tra la Chiesa celeste e quella pellegrinante. Da qualche tempo si registra una diminuzione dei missionari, bilanciata, però, dall’aumento del clero diocesano e religioso.

La crescita numerica di sacerdoti autoctoni produce pure una nuova forma di cooperazione missionaria: alcune giovani Chiese hanno iniziato ad inviare propri presbiteri a Chiese sorelle sprovviste di clero nel medesimo Paese o in nazioni dello stesso Continente; è una comunione che deve animare sempre l’azione evangelizzatrice.
Le giovani Chiese costituiscono, dunque, un segno di speranza per il futuro della Chiesa universale. In tale contesto, cari Fratelli, vi incoraggio a non risparmiare forza e coraggio per una solerte opera pastorale, memori del dono di grazia che è stato seminato in voi nell’ordinazione episcopale, e che si può riassumere nei tria munera di insegnare, santificare e governare.

Abbiate a cuore la missio ad gentes, l’inculturazione della fede, la formazione dei candidati al sacerdozio, la cura del clero diocesano, dei religiosi, delle religiose e dei laici. La Chiesa nasce dalla missione e cresce con la missione.

Fate vostro l’appello interiore dell’Apostolo delle genti: «Caritas Christi urget nos» (2 Cor 5,14). Una corretta inculturazione della fede vi aiuti ad incarnare il Vangelo nelle culture dei popoli e ad assumere ciò che di buono vive in esse. Si tratta di un processo lungo e difficile che non deve in alcun modo compromettere la specificità e l'integrità della fede cristiana (cfr Enc. Redemptoris missio, 52). La missione richiede Pastori configurati a Cristo per santità di vita, prudenti e lungimiranti, pronti a spendersi generosamente per il Vangelo e a portare nel cuore la sollecitudine per tutte le Chiese.

Vigilate sul gregge, avendo un’attenzione specifica per i sacerdoti. Guidateli con l’esempio, vivete in comunione con loro, siate disponibili ad ascoltarli e ad accoglierli con paterna benevolenza, valorizzando le loro diverse capacità. Impegnatevi ad assicurare ai vostri sacerdoti specifici e periodici incontri di formazione.

Fate sì che l’Eucaristia sia sempre il cuore della loro esistenza e la ragion d’essere del loro ministero. Abbiate sul mondo di oggi uno sguardo di fede, per comprenderlo in profondità, ed un cuore generoso, pronto ad entrare in comunione con le donne e gli uomini del nostro tempo. Non mancate alla vostra prima responsabilità di uomini di Dio, chiamati alla preghiera e al servizio della sua Parola a vantaggio del gregge. Si possa dire anche di voi quanto il sacerdote Onia affermò del profeta Geremia: «Questi è l’amico dei suoi fratelli, che prega molto per il popolo e per la città santa» (2 Mac 15,14). Tenete lo sguardo fisso su Gesù, il Pastore dei pastori: il mondo di oggi ha bisogno di persone che parlino a Dio, per poter parlare di Dio. Solo così la Parola di salvezza porterà frutto (cfr Discorso al Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, 15 ottobre 2011).

Cari Fratelli, le vostre Chiese conoscono bene il contesto di instabilità che incide in modo preoccupante sulla vita quotidiana della gente. Le emergenze alimentari, sanitarie ed educative interrogano le comunità ecclesiali e le coinvolgono in modo diretto. Anzi, la loro attenzione e la loro opera sono apprezzate e lodate. Alle calamità naturali si aggiungono discriminazioni culturali e religiose, intolleranze e faziosità, frutto di fondamentalismi che rivelano visioni antropologiche errate e che conducono a sottovalutare, se non a disconoscere, il diritto alla libertà religiosa, il rispetto dei più deboli, soprattutto dei bambini, delle donne e dei portatori di handicap. Pesano, infine, riaffioranti contrasti tra le etnie e le caste, che causano violenze ingiustificabili.
Date fiducia al Vangelo, alla sua forza rinnovatrice, alla sua capacità di risvegliare le coscienze e di provocare dall’interno il riscatto delle persone e la creazione di una nuova fraternità. La diffusione della Parola del Signore fa fiorire il dono della riconciliazione e favorisce l’unità dei popoli.

Nel Messaggio per la prossima Giornata Missionaria Mondiale ho voluto ricordare che la fede è un dono da accogliere nel cuore e nella vita, e di cui ringraziare sempre il Signore. Ma la fede è data perché sia condivisa; un talento consegnato perché porti frutto; una luce cui non è concesso di rimanere nascosta. La fede è il dono più importante che ci è stato fatto nella vita: non possiamo tenerlo solo per noi! «Tutti… hanno il diritto di conoscere il valore di tale dono e di accedervi». Dice Giovanni Paolo II nell’Enciclica Redemptoris missio (11).
Il Servo di Dio Paolo VI, riaffermando la priorità dell’evangelizzazione, affermava: «Gli uomini potranno salvarsi anche per altri sentieri, grazie alla misericordia di Dio, benché noi non annunziamo loro il Vangelo; ma potremo noi salvarci se, per negligenza, per paura, per vergogna o in conseguenza di idee false, trascuriamo di annunziarlo?» (Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 80). Tale interrogativo risuoni nel nostro cuore come appello a sentire l’assoluta priorità del compito dell’evangelizzazione.

Cari Fratelli, affido voi e le vostre Comunità a Maria Santissima, prima discepola del Signore e prima evangelizzatrice, avendo dato al mondo il Verbo di Dio fatto carne. Lei, la Stella dell’evangelizzazione, orienti sempre i vostri passi. In questo senso vi imparto la Benedizione Apostolica.


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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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UDIENZA AI VESCOVI DI RECENTE NOMINA PARTECIPANTI AL CONVEGNO PROMOSSO DALLE CONGREGAZIONI PER I VESCOVI E PER LE CHIESE ORIENTALI, 20.09.2012
 
Alle ore 12 di questa mattina , nella Sala degli Svizzeri del Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo, il Santo Padre Benedetto XVI riceve in Udienza i Vescovi di recente nomina partecipanti al Convegno promosso dalle Congregazioni per i Vescovi e per le Chiese Orientali.
 Pubblichiamo di seguito il discorso che il Papa rivolge ai presenti:
 
DISCORSO DEL SANTO PADRE
 
Cari Fratelli nell'episcopato,
 
Il pellegrinaggio alla Tomba di san Pietro, che avete compiuto in questi giorni di riflessione sul ministero episcopale, assume quest'anno particolare rilievo.
 Siamo infatti alla vigilia dell'Anno della fede, del 50° anniversario dell'apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II e della tredicesima Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi sul tema: «Nuova Evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana». Questi eventi, ai quali si deve aggiungere il ventennale del Catechismo della Chiesa Cattolica, sono occasione per rafforzare la fede, di cui, cari Confratelli, voi siete maestri ed araldi (cfr Lumen gentium, 25).
 Vi saluto ad uno ad uno, ed esprimo viva riconoscenza al Cardinale Marc Ouellet, Prefetto della Congregazione per i Vescovi, anche per le parole che mi ha rivolto, e al Cardinale Leonardo Sandri, Prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali.

Il ritrovarvi insieme a Roma, all'inizio del vostro servizio episcopale, è un momento propizio per fare esperienza concreta della comunicazione e della comunione tra di voi, e, nell'incontro con il Successore di Pietro, alimentare il senso di responsabilità per tutta la Chiesa.
In quanto membri del collegio episcopale, infatti, dovete sempre avere una speciale sollecitudine per la Chiesa universale, in primo luogo promuovendo e difendendo l'unità della fede.

Gesù Cristo ha voluto affidare la missione dell'annuncio del Vangelo anzitutto al corpo dei Pastori, che devono collaborare tra loro e con il Successore di Pietro (cfr ibid., 23), affinché esso raggiunga tutti gli uomini. Ciò è particolarmente urgente nel nostro tempo, che vi chiama ad essere audaci nell'invitare gli uomini di ogni condizione all'incontro con Cristo e a rendere più solida la fede (cfr Christus Dominus, 12).

 
Vostra preoccupazione prioritaria sia quella di promuovere e sostenere «un più convinto impegno ecclesiale a favore della nuova evangelizzazione per riscoprire la gioia nel credere e ritrovare l'entusiasmo nel comunicare la fede» (Lett. ap. Porta fidei, 7). Anche in questo siete chiamati a favorire e alimentare la comunione e la collaborazione tra tutte le realtà delle vostre diocesi.

L'evangelizzazione, infatti, non è opera di alcuni specialisti, ma dell'intero Popolo di Dio, sotto la guida dei Pastori.

Ogni fedele, nella e con la comunità ecclesiale, deve sentirsi responsabile dell'annuncio e della testimonianza del Vangelo. Il Beato Giovanni XXIII, aprendo la grande assise del Vaticano II prospettava «un balzo innanzi verso una penetrazione dottrinale ed una formazione delle coscienze», e per questo - aggiungeva - «è necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che risponda alle esigenze del nostro tempo» (Discorso di apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II, 11 ottobre 1962).

 Potremmo dire che la nuova evangelizzazione è iniziata proprio con il Concilio, che il Beato Giovanni XXIII vedeva come una nuova Pentecoste che avrebbe fatto fiorire la Chiesa nella sua interiore ricchezza e nel suo estendersi maternamente verso tutti i campi dell'umana attività (cfr Discorso di chiusura del I periodo del Concilio, 8 dicembre 1962).

 Gli effetti di quella nuova Pentecoste, nonostante le difficoltà dei tempi, si sono prolungati, raggiungendo la vita della Chiesa in ogni sua espressione: da quella istituzionale a quella spirituale, dalla partecipazione dei fedeli laici nella Chiesa alla fioritura carismatica e di santità. A questo riguardo non possiamo non pensare allo stesso Beato Giovanni XXIII e al Beato Giovanni Paolo II, a tante figure di vescovi, sacerdoti, consacrati e di laici, che hanno reso bello il volto della Chiesa nel nostro tempo.
 Questa eredità è stata affidata anche alla vostra cura pastorale. Attingete da questo patrimonio di dottrina, di spiritualità e di santità per formare nella fede i vostri fedeli, affinché la loro testimonianza sia più credibile. Allo stesso tempo, il vostro servizio episcopale vi chiede di «rendere ragione della speranza che è in voi» (1 Pt 3,15) a quanti sono alla ricerca della fede o del senso ultimo della vita, nei quali pure «lavora invisibilmente la grazia. Cristo, infatti è morto per tutti e la vocazione ultima dell'uomo è effettivamente una sola, quella divina» (Gaudium et spes, 22).

 Vi incoraggio, perciò, ad impegnarvi affinché a tutti, secondo le diverse età e condizioni di vita, siano presentati i contenuti essenziali della fede, in forma sistematica ed organica, per rispondere anche agli interrogativi che pone il nostro mondo tecnologico e globalizzato.
Sono sempre attuali le parole del Servo di Dio Paolo VI, il quale affermava: «Occorre evangelizzare - non in maniera decorativa, a somiglianza di vernice superficiale, ma in modo vitale, in profondità e fino alle radici - la cultura e le culture dell'uomo... partendo sempre dalla persona e tornando sempre ai rapporti delle persone tra di loro e con Dio» (Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 20).


 A questo scopo è fondamentale il Catechismo della Chiesa Cattolica, norma sicura per l'insegnamento della fede e la comunione nell'unico credo. La realtà in cui viviamo esige che il cristiano abbia una solida formazione!

 La fede chiede testimoni credibili, che confidano nel Signore e si affidano a Lui per essere «segno vivo della presenza del Risorto nel mondo» (Lett. ap. Porta fidei, 15).

 Il Vescovo, primo testimone della fede, accompagna il cammino dei credenti offrendo l'esempio di una vita vissuta nell'abbandono fiducioso in Dio. Egli, pertanto, per essere autorevole maestro e araldo della fede, deve vivere alla presenza del Signore, quale uomo di Dio. Non si può essere, infatti, al servizio degli uomini, senza essere prima servi di Dio. Il vostro personale impegno di santità vi veda assimilare ogni giorno la Parola di Dio nella preghiera e nutrirvi dell'Eucaristia, per attingere da questa duplice mensa la linfa vitale per il ministero.

 La carità vi spinga ad essere vicini ai vostri sacerdoti, con quell'amore paterno che sa sostenere, incoraggiare e perdonare; essi sono i vostri primi e preziosi collaboratori nel portare Dio agli uomini e gli uomini a Dio. Ugualmente, la carità del Buon Pastore vi farà attenti ai poveri e ai sofferenti, per sostenerli e consolarli, come anche per orientare coloro che hanno perduto il senso della vita. Siate particolarmente vicini alle famiglie: ai genitori, aiutandoli ad essere i primi educatori della fede dei loro figli; ai ragazzi e ai giovani, perché possano costruire la loro vita sulla salda roccia dell'amicizia con Cristo. Abbiate speciale cura dei seminaristi, preoccupandovi che siano formati umanamente, spiritualmente, teologicamente e pastoralmente, affinché le comunità possano avere Pastori maturi e gioiosi e guide sicure nella fede.

 Cari Fratelli, l'Apostolo Paolo scriveva a Timoteo: «Cerca la giustizia, la fede, la carità, la pace...Un servo del Signore non dev'essere litigioso, ma mite con tutti, capace di insegnare, paziente, dolce nel rimproverare» (2 Tm 2,22-25).
Ricordando, a me e a voi, queste parole, imparto di cuore a ciascuno la Benedizione Apostolica, perché le Chiese a voi affidate, spinte dal vento dello Spirito Santo, crescano nella fede e la annuncino sui sentieri della storia con nuovo ardore.



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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09/10/2012 15:19
 
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TRASMETTERE AL MONDO L A PASSIONE PER CRISTO

Città del Vaticano, 8 ottobre 2012 (VIS). La passione di comunicare Cristo al mondo e la consapevolezza che Dio agisce nella Chiesa sono stati i punti chiave del breve discorso che Benedetto XVI ha rivolto questa mattina ai Padri Sinodali in apertura del Sinodo dedicato alla nuova evangelizzazione e alla trasmissione della fede.

Le domande se Dio sia un'ipotesi, una realtà o no - ha detto il Papa - sono oggi così attuali come erano in quel tempo. Con il Vangelo Dio ha rotto il silenzio, ci ha parlato ed è entrato nella storia. Gesù è la sua Parola, il Dio che ci mostra, che ci ama e che soffre con noi fino alla morte e risorge.

Questa, ha proseguito il Pontefice, è la risposta della Chiesa a questo grande interrogativo. La questione però è anche come si può far arrivare questa realtà all'umanità del nostro tempo, affinché diventi salvezza. Noi non possiamo fare la Chiesa, possiamo solo far conoscere quanto ha fatto Lui. La Chiesa, ha affermato il Santo Padre, non comincia con il nostro fare; può soltanto far conoscere ciò che Dio ha fatto.

Nel ricordare che gli Apostoli ricevettero lo Spirito Santo, riuniti in preghiera nel cenacolo a Pentecoste, Benedetto XVI ha spiegato che non è una mera formalità il fatto che ogni assise sinodale inizi con una preghiera, ma una dimostrazione di consapevolezza del fatto che l'iniziativa è sempre di Dio, che noi possiamo implorarlo e che con Dio la Chiesa può solo cooperare.

Dopo aver acquisito tale consapevolezza, il secondo passo è quello della "confessio", la confessione pubblica della propria fede. Questa testimonianza in momenti difficili è, precisamente, una garanzia della sua credibilità ed implica la disponibilità a dare la vita per quello in cui si crede.

La confessione ha però bisogno di un abito che la renda visibile. Il terzo passo è la "caritas", la più grande forza che deve bruciare nel cuore di un cristiano. La fede, ha concluso il Papa, deve divenire in noi una fiamma dell'amore: fiamma che realmente accende il nostro essere e così accende il prossimo. Questa è l'essenza dell'evangelizzazione.

“Il cristiano non deve essere tiepido”, perché “la tiepidezza discredita il cristianesimo”.
Al contrario, “la fede deve divenire in noi fiamma dell’amore, fiamma che realmente accende il mio essere; diventa grande passione del mio essere e così accende il prossimo. Questo è il modo dell’evangelizzazione”. Sono le parole pronunciate dal Papa, che è intervenuto oggi a braccio, con una meditazione durante l’ora media, nella prima sessione di lavori del Sinodo dei vescovi.

“L’Apocalisse - ha spiegato Benedetto XVI - ci dice che questo è il più grande pericolo del cristiano: no, che dica no; ma che dica un sì molto tiepido”.
In una prospettiva cristiana, ha aggiunto, “la verità diventa in me carità e la carità accende come fuoco anche l’altro. Solo in questo accendere dell’altro per la fiamma della nostra carità, cresce realmente l’evangelizzazione, la presenza del Vangelo, che non è più solo parola, ma realtà vissuta”.

“La cultura umana - ha fatto notare il Santo Padre - comincia nel momento nel quale l’uomo ha il potere di creare fuoco: con il fuoco posso distruggere, ma con il fuoco posso trasformare, rinnovare. Il fuoco di Dio è fuoco trasformante, fuoco di passione - certamente - che distrugge anche tanto in noi, che porta a Dio, ma fuoco soprattutto che trasforma, rinnova e crea una novità dell’uomo, che diventa luce in Dio”.

Di qui l’auspicio che la “confessio” della fede “sia in noi fondata profondamente e che diventi fuoco che accende gli altri: così il fuoco della sua presenza, la novità del suo essere con noi, diventa realmente visibile e forza del presente e del futuro”. Nella prima parte del suo discorso a braccio, il Papa si è soffermato sul significato della parola “evangelium”: “Vangelo - ha detto - vuol dire che Dio ha rotto il suo silenzio, Dio ha parlato, Dio c’è. Questo fatto come tale è salvezza: Dio ci conosce, Dio ci ama, è entrato nella storia”.

“Come possiamo far arrivare questa realtà all’uomo di oggi, affinché diventi salvezza?”, si è chiesto il Papa. “Noi non possiamo fare la Chiesa, possiamo solo far conoscere quanto ha fatto Lui. La Chiesa non comincia con il fare nostro, ma con il fare e il parlare di Dio. La prima parola, l’iniziativa vera viene da Dio e solo inserendoci in questa iniziativa divina possiamo anche noi divenire evangelizzatori”.

Dio solo, dunque, “può creare la Chiesa”, e “quando noi facciamo nuova evangelizzazione è sempre cooperazione con Dio”, ha spiegato Benedetto XVI, ricordando che per i cristiani “la ‘confessio’ non è’ una parola; è più che il dolore, è più che la morte. Chi fa questa ‘confessio’ dimostra così che realmente quanto confessa è più che viva, è la vita stessa, è il tesoro, è la perla preziosa e infinita”.

ecco il testo integrale....

RIFLESSIONE  A BRACCIO DEL SANTO PADRE NEL CORSO DELLA PRIMA CONGREGAZIONE GENERALE DELLA XIII ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA DEL SINODO DEI VESCOVI, 09.10.2012
 
Pubblichiamo di seguito il testo della meditazione che il Santo Padre Benedetto XVI ha tenuto ieri mattina alle ore 9, nell’Aula del Sinodo, nel corso della prima Congregazione Generale della XIII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, dopo la lectio brevis dell’Ora Terza:
 
MEDITAZIONE DEL SANTO PADRE
 


Cari Fratelli,
 
la mia meditazione si riferisce alla parola «evangelium» «euangelisasthai» (cfr Lc 4,18).
In questo Sinodo vogliamo conoscere di più che cosa il Signore ci dice e che cosa possiamo o dobbiamo fare noi. E’ divisa in due parti: una prima riflessione sul significato di queste parole, e poi vorrei tentare di interpretare l’Inno dell’Ora Terza «Nunc, Sancte, nobis Spìritus», a pagina 5 del Libro delle Preghiere.
La parola «evangelium» «euangelisasthai» ha una lunga storia.

 Appare in Omero: è annuncio di una vittoria, e quindi annuncio di bene, di gioia, di felicità. Appare, poi, nel Secondo Isaia (cfr Is 40,9), come voce che annuncia gioia da Dio, come voce che fa capire che Dio non ha dimenticato il suo popolo, che Dio, il Quale si era apparentemente quasi ritirato dalla storia, c’è, è presente. E Dio ha potere, Dio dà gioia, apre le porte dell’esilio; dopo la lunga notte dell’esilio, la sua luce appare e dà la possibilità del ritorno al suo popolo, rinnova la storia del bene, la storia del suo amore. In questo contesto dell’evangelizzazione, appaiono soprattutto tre parole: dikaiosyne, eirene, soteria - giustizia, pace, salvezza. Gesù stesso ha ripreso le parole di Isaia a Nazaret, parlando di questo «Evangelo» che porta adesso proprio agli esclusi, ai carcerati, ai sofferenti e ai poveri.
 Ma per il significato della parola «evangelium» nel Nuovo Testamento, oltre a questo – il Deutero Isaia, che apre la porta -, è importante anche l’uso della parola fatto dall’Impero Romano, cominciando dall’imperatore Augusto.

Qui il termine «evangelium» indica una parola, un messaggio che viene dall’Imperatore. Il messaggio, quindi, dell’Imperatore - come tale - porta bene: è rinnovamento del mondo, è salvezza. Messaggio imperiale e come tale un messaggio di potenza e di potere; è un messaggio di salvezza, di rinnovamento e di salute. Il Nuovo Testamento accetta questa situazione. San Luca confronta esplicitamente l’Imperatore Augusto con il Bambino nato a Betlemme: «evangelium» - dice - sì, è una parola dell’Imperatore, del vero Imperatore del mondo. Il vero Imperatore del mondo si è fatto sentire, parla con noi. E questo fatto, come tale, è redenzione, perché la grande sofferenza dell’uomo - in quel tempo, come oggi - è proprio questa: dietro il silenzio dell’universo, dietro le nuvole della storia c’è un Dio o non c’è? E, se c’è questo Dio, ci conosce, ha a che fare con noi? Questo Dio è buono, e la realtà del bene ha potere nel mondo o no? Questa domanda oggi è così attuale come lo era in quel tempo.

Tanta gente si domanda: Dio è una ipotesi o no? E’ una realtà o no? Perché non si fa sentire? «Vangelo» vuol dire: Dio ha rotto il suo silenzio, Dio ha parlato, Dio c’è. Questo fatto come tale è salvezza: Dio ci conosce, Dio ci ama, è entrato nella storia. Gesù è la sua Parola, il Dio con noi, il Dio che ci mostra che ci ama, che soffre con noi fino alla morte e risorge. Questo è il Vangelo stesso. Dio ha parlato, non è più il grande sconosciuto, ma ha mostrato se stesso e questa è la salvezza.
 La questione per noi è: Dio ha parlato, ha veramente rotto il grande silenzio, si è mostrato, ma come possiamo far arrivare questa realtà all’uomo di oggi, affinché diventi salvezza? Di per sé il fatto che abbia parlato è la salvezza, è la redenzione.

 Ma come può saperlo l’uomo? Questo punto mi sembra che sia un interrogativo, ma anche una domanda, un mandato per noi: possiamo trovare risposta meditando l’Inno dell’Ora Terza «Nunc, Sancte, nobis Spìritus». La prima strofa dice: «Dignàre promptus ingeri nostro refusus, péctori», e cioè preghiamo affinché venga lo Spirito Santo, sia in noi e con noi.

 Con altre parole: noi non possiamo fare la Chiesa, possiamo solo far conoscere quanto ha fatto Lui. La Chiesa non comincia con il «fare» nostro, ma con il «fare» e il «parlare» di Dio. Così gli Apostoli non hanno detto, dopo alcune assemblee: adesso vogliamo creare una Chiesa, e con la forma di una costituente avrebbero elaborato una costituzione. No, hanno pregato e in preghiera hanno aspettato, perché sapevano che solo Dio stesso può creare la sua Chiesa, che Dio è il primo agente: se Dio non agisce, le nostre cose sono solo le nostre e sono insufficienti; solo Dio può testimoniare che è Lui che parla e ha parlato.
 Pentecoste è la condizione della nascita della Chiesa: solo perché Dio prima ha agito, gli Apostoli possono agire con Lui e con la sua presenza e far presente quanto fa Lui. Dio ha parlato e questo «ha parlato» è il perfetto della fede, ma è sempre anche un presente: il perfetto di Dio non è solo un passato, perché è un passato vero che porta sempre in sé il presente e il futuro.

Dio ha parlato vuol dire: «parla». E come in quel tempo solo con l’iniziativa di Dio poteva nascere la Chiesa, poteva essere conosciuto il Vangelo, il fatto che Dio ha parlato e parla, così anche oggi solo Dio può cominciare, noi possiamo solo cooperare, ma l’inizio deve venire da Dio. Perciò non è una mera formalità se cominciano ogni giorno la nostra Assise con la preghiera: questo risponde alla realtà stessa. Solo il precedere di Dio rende possibile il camminare nostro, il cooperare nostro, che è sempre un cooperare, non una nostra pura decisione. Perciò è importante sempre sapere che la prima parola, l’iniziativa vera, l’attività vera viene da Dio e solo inserendoci in questa iniziativa divina, solo implorando questa iniziativa divina, possiamo anche noi divenire - con Lui e in Lui - evangelizzatori.
 Dio è l’inizio sempre, e sempre solo Lui può fare Pentecoste, può creare la Chiesa, può mostrare la realtà del suo essere con noi. Ma dall’altra parte, però, questo Dio, che è sempre l’inizio, vuole anche il coinvolgimento nostro, vuole coinvolgere la nostra attività, così che le attività sono teandriche, per così dire, fatte da Dio, ma con il coinvolgimento nostro e implicando il nostro essere, tutta la nostra attività.
 Quindi quando facciamo noi la nuova evangelizzazione è sempre cooperazione con Dio, sta nell’insieme con Dio, è fondata sulla preghiera e sulla sua presenza reale.

 Ora, questo nostro agire, che segue dall’iniziativa di Dio, lo troviamo descritto nella seconda strofa di questo Inno: «Os, lingua, mens, sensus, vigor, confessionem personent, flammescat igne caritas, accendat ardor proximos». Qui abbiamo, in due righe, due sostantivi determinanti: «confessio» nelle prime righe, e «caritas» nelle seconde due righe. «Confessio» e «caritas», come i due modi in cui Dio ci coinvolge, ci fa agire con Lui, in Lui e per l’umanità, per la sua creatura: «confessio» e «caritas». E sono aggiunti i verbi: nel primo caso «personent» e nel secondo «caritas» interpretato con la parola fuoco, ardore, accendere, fiammeggiare. Vediamo il primo: «confessionem personent». La fede ha un contenuto: Dio si comunica, ma questo Io di Dio si mostra realmente nella figura di Gesù ed è interpretato nella «confessione» che ci parla della sua concezione verginale della Nascita, della Passione, della Croce, della Risurrezione. Questo mostrarsi di Dio è tutto una Persona: Gesù come il Verbo, con un contenuto molto concreto che si esprime nella «confessio». Quindi, il primo punto è che noi dobbiamo entrare in questa «confessione», farci penetrare, così che «personent» - come dice l’Inno - in noi e tramite noi.

 Qui è importante osservare anche una piccola realtà filologica: «confessio» nel latino precristiano si direbbe non «confessio» ma «professio» (profiteri): questo è il presentare positivamente una realtà. Invece la parola «confessio» si riferisce alla situazione in un tribunale, in un processo dove uno apre la sua mente e confessa. In altre parole, questa parola «confessione», che nel cristiano latino ha sostituito la parola «professio», porta in sé l’elemento martirologico, l’elemento di testimoniare davanti a istanze nemiche alla fede, testimoniare anche in situazioni di passione e di pericolo di morte.
 Alla confessione cristiana appartiene essenzialmente la disponibilità a soffrire: questo mi sembra molto importante. Sempre nell’essenza della «confessio» del nostro Credo, è implicata anche la disponibilità alla passione, alla sofferenza, anzi, al dono della vita. E proprio questo garantisce la credibilità: la «confessio» non è qualunque cosa che si possa anche lasciar cadere; la «confessio» implica la disponibilità di dare la mia vita, di accettare la passione.

Questo è proprio anche la verifica della «confessio». Si vede che per noi la «confessio» non è una parola, è più che il dolore, è più che la morte. Per la «confessio» realmente vale la pena di soffrire, vale la pena di soffrire fino alla morte. Chi fa questa «confessio» dimostra così che veramente quanto confessa è più che vita: è la vita stessa, il tesoro, la perla preziosa e infinita. Proprio nella dimensione martirologica della parola «confessio» appare la verità: si verifica solo per una realtà per cui vale la pena di soffrire, che è più forte anche della morte, e dimostra che è verità che tengo in mano, che sono più sicuro, che «porto» la mia vita perché trovo la vita in questa confessione.

 Adesso vediamo dove dovrebbe penetrare questa «confessione»: «Os, lingua, mens, sensus, vigor». Da San Paolo, Lettera ai Romani 10, sappiamo che la collocazione della «confessione» è nel cuore e nella bocca: deve stare nel profondo del cuore, ma deve essere anche pubblica; deve essere annunciata la fede portata nel cuore: non è mai solo una realtà nel cuore, ma tende ad essere comunicata, ad essere confessata realmente davanti agli occhi del mondo. Così dobbiamo imparare, da una parte, ad essere realmente – diciamo - penetrati nel cuore dalla «confessione», così il nostro cuore è formato, e dal cuore trovare anche, insieme con la grande storia della Chiesa, la parola e il coraggio della parola, e la parola che indica il nostro presente, questa «confessione» che è sempre tuttavia una. «Mens»: la «confessione» non è solo cosa del cuore e della bocca, ma anche dell’intelligenza; deve essere pensata e così, come pensata e intelligentemente concepita, tocca l’altro e suppone sempre che il mio pensiero sia realmente collocato nella «confessione». «Sensus»: non è una cosa puramente astratta e intellettuale, la «confessio» deve penetrare anche i sensi della nostra vita.

San Bernardo di Chiaravalle ci ha detto che Dio, nella sua rivelazione, nella storia di salvezza, ha dato ai nostri sensi la possibilità di vedere, di toccare, di gustare la rivelazione. Dio non è più una cosa solo spirituale: è entrato nel mondo dei sensi e i nostri sensi devono essere pieni di questo gusto, di questa bellezza della Parola di Dio, che è realtà. «Vigor»: è la forza vitale del nostro essere e anche il vigore giuridico di una realtà. Con tutta la nostra vitalità e forza, dobbiamo essere penetrati dalla «confessio», che deve realmente «personare»; la melodia di Dio deve intonare il nostro essere nella sua totalità.
 «Confessio» è la prima colonna - per così dire - dell’evangelizzazione e la seconda è «caritas».
 La «confessio» non è una cosa astratta, è «caritas», è amore. Solo così è realmente il riflesso della verità divina, che come verità è inseparabilmente anche amore. Il testo descrive, con parole molto forti, questo amore: è ardore, è fiamma, accende gli altri. C’è una passione nostra che deve crescere dalla fede, che deve trasformarsi in fuoco della carità. Gesù ci ha detto: Sono venuto per gettare fuoco alla terra e come desidererei che fosse già acceso. Origene ci ha trasmesso una parola del Signore: «Chi è vicino a me è vicino al fuoco».

 Il cristiano non deve essere tiepido. L’Apocalisse ci dice che questo è il più grande pericolo del cristiano: che non dica di no, ma un sì molto tiepido. Questa tiepidezza proprio discredita il cristianesimo. La fede deve divenire in noi fiamma dell’amore, fiamma che realmente accende il mio essere, diventa grande passione del mio essere, e così accende il prossimo. Questo è il modo dell’evangelizzazione: «Accéndat ardor proximos», che la verità diventi in me carità e la carità accenda come fuoco anche l’altro. Solo in questo accendere l’altro attraverso la fiamma della nostra carità, cresce realmente l’evangelizzazione, la presenza del Vangelo, che non è più solo parola, ma realtà vissuta.

 San Luca ci racconta che nella Pentecoste, in questa fondazione della Chiesa da Dio, lo Spirito Santo era fuoco che ha trasformato il mondo, ma fuoco in forma di lingua, cioè fuoco che è tuttavia anche ragionevole, che è spirito, che è anche comprensione; fuoco che è unito al pensiero, alla «mens». E proprio questo fuoco intelligente, questa «sobria ebrietas», è caratteristico per il cristianesimo. Sappiamo che il fuoco è all’inizio della cultura umana; il fuoco è luce, è calore, è forza di trasformazione.
 La cultura umana comincia nel momento in cui l’uomo ha il potere di creare fuoco: con il fuoco può distruggere, ma con il fuoco può trasformare, rinnovare. Il fuoco di Dio è fuoco trasformante, fuoco di passione - certamente - che distrugge anche tanto in noi, che porta a Dio, ma fuoco soprattutto che trasforma, rinnova e crea una novità dell’uomo, che diventa luce in Dio.

 Così, alla fine, possiamo solo pregare il Signore che la «confessio» sia in noi fondata profondamente e che diventi fuoco che accende gli altri; così il fuoco della sua presenza, la novità del suo essere con noi, diventa realmente visibile e forza del presente e del futuro.
 

Fraternamente CaterinaLD

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(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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