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Curiosità .... Cattoliche e dalla Città del Vaticano... (2)

Ultimo Aggiornamento: 22/08/2014 16:12
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30/08/2011 20:18
 
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La ricca collezione scientifica di monsignor Giulio Cicioni il naturalista di Papa Pecci

Orsi e gazzelle nello zoo di Leone XIII

di ISABELLA FARINELLI

"Solo non si vedono i due liocorni"; forse si aspettavano di veder comparire anche quelli - come nell'arca di Noè musicata da Roberto Grotti - le scolaresche che fino a pochi anni fa visitavano, al primo piano della residenza vescovile perugina, il Museo di Storia naturale di monsignor Giulio Cicioni, insegnante nel locale seminario dalla seconda metà dell'Ottocento, quando Papa Leone XIII era ancora il vescovo Gioacchino Pecci.

L'originale artefice e primo curatore della raccolta, nato a Cerqueto - tra Marsciano e Perugia - nel 1844, si dilettò sin da ragazzo, anche prima di entrare in seminario, a raccogliere e conservare in modo sistematico fiori, piante e piccole collezioni di animali, specialmente insetti. Non sappiamo quanto, all'inizio, don Giulio fosse consapevole di condividere un entusiasmo naturalistico diffuso in tutta Europa, con risvolti letterari e artistici, filosofici e scientifici, non necessariamente in contrasto o in alternativa; basti pensare al suo quasi contemporaneo, l'agostiniano Gregor Johann Mendel - morto a Brünn in Moravia nel 1884 - infaticabile ricercatore in parte incompreso dai contemporanei, al quale la regista Liana Marabini ha recentemente dedicato un pensoso e delicato film (The Gardener of God), sinora non apparso nelle sale italiane.


Se nel film Pio IX rassicura Mendel (Christopher Lambert) sull'armonia tra fede e scienza, senz'altro non sfuggì la peculiare vocazione di Giulio Cicioni al futuro Leone XIII, che persino nella poesia, come nella pastorale, manifestò costante interesse per l'evoluzione del pensiero scientifico e della tecnologia, specie nel campo della comunicazione - dall'ars photographica al fonografo - tanto da imprimere una svolta sin da vescovo alla formazione dei futuri preti. Ordinato nel 1867 da Pecci, del quale diverrà segretario prima di essere inviato in una parrocchia di campagna, don Cicioni inizia quasi in contemporanea, partendo dalla "scuola di aritmetica", l'insegnamento delle materie scientifiche in seminario, dove trasporterà la sua nutrita collezione di esemplari per servirsene a scopo didattico.

Nel 1886 si poteva già parlare di un erbario, nel quale - secondo "Il Paese", il giornale voluto dieci anni prima da Pecci - erano rappresentate quasi tutte le famiglie della flora italiana. Né si arrestò qui la passione dell'enfant terrible. "A furia di perseguitare - parola del suo allievo Pietro Pizzoni - suore e missionari dell'America, dell'Asia e dell'Africa, a furia di cambi coi principali botanici, si procurò esemplari di vegetali da tutto il mondo; ed accanto al magnifico erbario locale ne formò un altro mondiale".

Nel frattempo si formano raccolte di fossili, minerali e reperti faunistici, questi ultimi con un insperato arricchimento nel 1888, dopo il solenne Giubileo sacerdotale di Leone XIII. In quella occasione, il mondo intero aveva fatto convergere intorno al Papa una collezione di doni, reperti e manufatti altamente rappresentativi che era andata a costituire una vera Esposizione universale, ospitata in Vaticano non senza qualche difficoltà di spazio. Particolarmente cara al Santo Padre la galleria, organizzata dal meteorologo e astronomo barnabita Francesco Denza - poi chiamato a dirigere la Specola Vaticana - degli strumenti scientifici progettati da membri del clero italiano, tra cui i sismografi di Filippo Cecchi e di Ignazio Galli, il tromometro di Timoteo Bertelli (cui aveva collaborato il geofisico Michele Stefano de Rossi) e l'anemoietografo dello stesso Denza.

A parte i non pochi esemplari viventi, portati subito nei Giardini Vaticani - come la gazzella proveniente da un'oasi sahariana al cui collo era stata posta una placca d'argento con un distico del cardinale Charles Martial Allemand Lavigerie, arcivescovo di Algeri e di Cartagine, Qui saevos fugio mea per deserta leones / Hic me pacifero fidentem trado Leoni - alla conclusione dell'evento corse voce che il Papa intendesse cedere il copioso materiale d'interesse scientifico e naturalistico a istituti romani. Cicioni accorse e implorò il Papa di provvedere anche a quello che stava diventando un museo perugino di storia naturale.

Il Pontefice acconsentì volentieri e don Giulio, si narra, preparò con le proprie mani le casse e ne curò la spedizione a Perugia. Da qui, nel settembre 1888, si recò a Firenze, invitato come relatore, al primo convegno della Società botanica italiana, che proprio in quell'anno si stava riorganizzando, e di cui Cicioni fu poi sempre membro attivissimo e ascoltato, a giudicare dai "Bollettini". Nell'agosto 1893, il suo "gabinetto scientifico del Seminario" fu decisivo a far eleggere Perugia come sede del Congresso botanico di quell'anno, seguito a quello internazionale tenutosi a Genova l'anno precedente. La competenza acquisita gli valse, nel 1896, il diploma di socio effettivo dell'Accademia dei Lincei.

Dal materiale raccolto tra i monti umbri "armato della sua vanghetta e della sua marra" a quello scambiato con la comunità scientifica - da Théodore Caruel a Giovanni Arcangeli, da Pietro Romualdo Pirotta a Emilio Chiovenda - sino ai reperti inviati da Papa Leone anche dopo l'Esposizione Vaticana (tuttora siglati E.V.), quale valore vi annettesse don Giulio fu chiaro quando, ottantenne, ne offrì simbolicamente alcuni esemplari, al posto degli abituali versi d'occasione, all'ingresso in Perugia del figlio spirituale di san Pio X, il vescovo Giovanni Battista Rosa: il quale tuttavia vi colse "la poesia più bella e più fresca". La simbiosi tra conoscenza e amore - evocata anche da Giovanni Paolo II nel primo centenario della morte di Mendel - non sarebbe sfuggita, decenni dopo, agli occhi dei visitatori d'ogni età, sia quando sfilavano dalla labradorite alla lazurite con oro, sia quando si arrestavano davanti all'imponente ursus maritimus donato a Leone XIII da Oscar II, il re di Svezia e di Norvegia appassionato a sua volta di scienze e arti. "Il Paese" segnala il sostegno del sovrano alle missioni di esplorazione artica e narra la sua visita al Santo Padre, nell'aprile 1888, preceduta da una lunga sosta tra le gallerie dell'Esposizione. Ma don Cicioni, che per tutta la vita preferì raccogliere esemplari per sottoporli all'autorità degli accademici prima che alla propria, gradiva ogni contributo: anche da un qualsiasi "don Leone" e da altri parroci di campagna, che molto incrementarono il salone ornitologico.

Colto da malore mentre faceva lezione di mineralogia, don Giulio morì nel 1923, lasciando alla diocesi e al seminario il museo nel quale dichiarava di aver racchiuso "tutto il suo cuore" - insieme a una raccolta di circa 15.000 esemplari rappresentativi di oltre 7.000 specie botaniche e a migliaia di campioni tra minerali, rocce, fossili, animali e materiali etnografici provenienti dall'intero pianeta. Una prima classificazione toccò al suo successore in seminario, don Aurelio Bonaca, all'apertura ufficiale al pubblico nel 1926, avvenuta con l'intervento delle civiche istituzioni e per volere del vescovo Giovanni Battista Rosa e del vicario generale Beniamino Ubaldi (poi vescovo di Gubbio).

Nel 1992 il materiale fu riclassificato secondo criteri correnti e valutato come un campionario di biodiversità tra i maggiori in Italia. Oggi l'intero patrimonio naturalistico, di proprietà del Seminario perugino, è affidato al Centro di Ateneo per i Musei Scientifici (Cams) e in parte riallestito nella Galleria di storia naturale di Casalina; qui la vasta e articolata collezione di Giulio Cicioni è stata abbinata a quella di Orazio Antinori, naturalista e appassionato viaggiatore (1811-1882).

 

 

Nelle Ville Pontificie di Castel Gandolfo

Tutti gli animali del Papa


 

di MARIO PONZI

Un bracco fa capolino tra le reti del recinto dove altezzose galline razzolano rasserenate da quella presenza. Poco più in alto, all'ombra di un rigoglioso uliveto, pascolano libere alcune maculate vacche frisone, con le mammelle gonfie di latte. Poco discosta s'intravvede la serie di piccole arnie del frequentatissimo apiario, dove matura un miele raffinato. Su, nel cielo, due falchetti addestrati hanno il loro bel da fare per proteggere i frutteti dall'assalto combinato di decine di fameliche cornacchie.

Tra le frasche del boschetto di pini, larici e lecci, di tanto in tanto s'affaccia il muso appuntito di una volpe in agguato, in attesa di un attimo di distrazione del bracco di guardia. In questo periodo estivo, poi, c'è l'ormai familiare coppia di upupe che regolarmente sceglie gli alti lecci per trascorrervi l'estate. E si avverte uno straordinario profumo di fieno, confuso con quello delle rose, che pervade tutto il rosso villaggio che, nelle Ville pontificie di Castel Gandolfo, ospita gli animali del Papa.

La fattoria è un pezzo storico della dimora estiva dei Pontefici. Si trova nella parte estrema della residenza, proprio dietro il cancello che si apre sulla piazza di Albano. Spaziare con l'occhio su questi venti ettari di terra, è come ritrovarsi immersi in una delle tele secentesche del pittore napoletano Andrea De Lione, maestro nel raffigurare anche scene bucoliche caratterizzate da colori brillanti e da un vivace dinamismo.

Di colori sono ricchi i fiori delle serre nella zona riservata alla floricoltura, il roseto nei ruderi della villa imperiale, il parco che si confonde con l'orto e si estende sino al pergolato, coperto in questi giorni di pampini verdolini.

I tralci s'inerpicano fino alle grandi terrazze ricavate da un'arida pietraia, e trasformate in un digradare ordinato di colture orticole. E nel bel mezzo le mucche. "Una volta - ricorda Saverio Petrillo, il direttore delle Ville - abbiamo ospitato anche due cinghiali. Li aveva regalati don Zeno di Nomadelfia a Paolo VI.

Di movimento ne crearono un bel po'. Più pacifiche erano le gazzelle di Pio XI. Erano state donate al Papa dal delegato apostolico in Egitto e il Pontefice si affezionò a quelle bestiole: le andava a trovare ogni volta che si fermava a Castello. Le sue erano visite quotidiane e non andava mai a mani vuote. Si racconta che spesso prendesse tra le sue braccia la più piccolina delle due. Purtroppo fece una brutta fine: un giorno, infatti, spaventata da un gruppo di giovani esploratori ungheresi in visita al Papa, saltò il recinto, si ritrovò sulla via Appia e venne travolta da un'auto. Con grande dispiacere di Pio XI".

Ogni pietra rossa del casale, ogni ramo o pianta avrebbero qualcosa di singolare da raccontare, per il susseguirsi di frequentatori illustri passati in questa parte delle Ville. Di certo la fattoria del Papa, anche se simile a tante altre, suscita comunque curiosità. Non esiste tuttavia un'aneddotica particolare e le cronache ne parlano solo a margine di eventi ben più significativi. Tutto quello che si sa è frutto dei racconti tramandati di generazione in generazione e un po' di storia si può leggere in questa stessa pagina. Ma la fattoria del Papa merita di per sé un'attenzione particolare.

Perché, come era nelle intenzioni di Pio XI, può senz'altro essere considerata un modello nel suo genere. Intanto, per la sua caratteristica della quale vanno fieri i fattori. Nonostante sia sempre stata tenuta al passo con i tempi e dotata delle tecnologie più moderne e sofisticate, la fattoria ha infatti conservato intatto l'aspetto del rustico antico, mostrando come sia possibile che l'ordine, la pulizia e le esigenze razionali dell'agricoltura moderna, estremamente tecnologizzata, possano sempre conciliarsi con il sapore della tradizione e con il gusto del pittoresco. Così, nell'ala principale dell'antico casale si scopre una modernissima pastorizzatrice per il latte. "L'uso di materiali d'avanguardia - spiega il responsabile della fattoria Giuseppe Bellapadrona - ci consente di pastorizzare il latte a 75 gradi, in modo da non distruggere le proprietà organolettiche. Da qui esce un latte di alta qualità, con un contenuto di siero-proteine superiore a quello che normalmente si trova nel pastorizzato in commercio. Riusciamo a conservare praticamente intatte tutte le proprietà principali".

Le mucche in produzione, quelle cioè che danno il siero, sono 25 e sono sistemate in una moderna vaccheria, allestita nel 2008. Quasi per evitare che stonasse con il resto del complesso è stata allestita in una zona più defilata. "Ci siamo decisi a farlo - spiega Bellapadrona - per offrire alle mucche un ambiente salubre e confortevole in modo da non farle stressare e dunque per non compromettere la qualità del prodotto". E sarebbe un peccato perché sono bestie di ottimo lignaggio, tutte rigorosamente segnate e marcate nell'anagrafe del Libro della frisona italiana.

Con la nuova sistemazione godono di notevoli spazi di libertà anche se si trovano in un ampio capannone aperto sui quattro lati. Ognuna ha il proprio spazio per il riposo: "Sono loro stesse che si sistemano il giaciglio con la paglia". Così è per il posto alla mangiatoia, una feritoia "che si apre ad orari stabiliti". E il menù è ricco: "Si tratta - precisa il responsabile della fattoria - di un'alimentazione tipica della zona del parmigiano reggiano, tutto a secco, fieno e concentrato.

Del tutto assenti le sostanze insilate del fieno o del mais perché nella zona del parmigiano lo sconsigliano per evitare fermentazioni anomale del formaggio". Un piatto unico, insomma, preparato con un miscelatore di ultima generazione, in modo che le "mucche assumano sia la parte proteica che la fibra in un insieme di massima digeribilità e adatto al fabbisogno di ognuna di loro. Questo perché ogni animale, a seconda del latte che produce, ha bisogno di un'integrazione alimentare". Nulla dunque è lasciato al caso. Tanto meno l'igiene: spazzole automatiche provvedono più volte al giorno alla pulitura del canale tra la zona giorno e quella notte, in modo da tenere l'ambiente sempre pulito. Lo stesso vale per il canale di scorrimento utilizzato per raggiungere il reparto mungitura che è completamente meccanizzata.

Proprio grazie ai miglioramenti e soprattutto all'attenzione posta nell'assicurare agli animali il benessere di un'esistenza tranquilla e pulita, "le nostre vacche - spiega Bellapadrona - riescono a produrre grandi quantità di latte, almeno cinquanta litri al giorno ciascuna.
Tuttavia dovendo rispettare la quota di produzione che ci è stata assegnata a suo tempo, circa seicento litri al giorno, dobbiamo cercare di limitare la produzione. Per attenerci alla regola riduciamo i capi in produzione. Del resto il nostro scopo, anche se riusciamo sempre ad autofinanziare ogni attività, non è commerciale. Latte, olio, uova e poche volte la carne sono in vendita esclusivamente nello spaccio annonario del Vaticano".

C'è stato un periodo tuttavia durante il quale il "latte del Vaticano" era particolarmente ambito. "Fu nei giorni - ricorda il responsabile - immediatamente successivi al disastro nucleare di Cernobyl, quando la nube di cesio sprigionata dal reattore distrutto giunse anche sull'Italia e inquinò gran parte delle campagne e dei raccolti. Noi già molto tempo prima, avevamo l'abitudine di conservare le nostre scorte di fieno non solo al coperto ma anche avvolte in teloni impermeabili.

E quando vennero tecnici per verificare il livello di radiazioni assorbite, il risultato fu stupefacente: non c'era traccia alcuna. In quel periodo ricordo che sconsigliavano l'assunzione di latte, soprattutto da parte dei neonati. Mettemmo così a disposizione il nostro. Furono le stesse autorità sanitarie a consigliare chi ne aveva più urgenza di rivolgersi a noi".

Non meno efficiente il pollaio. Un ampio recinto nel quale circa trecento galline ovaiole sono libere di razzolare a piacimento. "Danno - dice Bellapadrona - oltre duecento uova al giorno, che restano in vendita all'annona vaticana per pochissimo tempo: sono molto ambite e terminano in un baleno". Una sessantina sono i polli da carne, anch'essi rigorosamente ruspanti e "il ricambio è assicurato da diverse nidiate di pulcini che acquistiamo direttamente da pollai di fiducia e facciamo crescere secondo rigorosi criteri di igiene".

A completare questo quadro sono un vivaio, dal quale si ricavano i fiori e le piante necessarie per adornare i Palazzi pontifici, un frutteto soprattutto di albicocchi e peschi sufficiente alle esigenze interne e un uliveto secolare che dà frutti per una discreta quantità di olio, fra i duemila e i tremilacinquecento litri. Un nettare reso pregiato dalla spremitura a freddo, oltreché dalla particolarità dell'oliva, piccola ma molto saporita come quelle di alberi secolari. Solo poche bottiglie fanno una fugace comparsa tra gli scaffali dell'annona in Vaticano. E naturalmente tutti i prodotti arrivano sulla tavola del Papa.






(©L'Osservatore Romano 31 agosto 2011)

[Modificato da Caterina63 30/08/2011 20:20]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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