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Alarico e la devastazione di Roma del 410 Un "sacco" provvidenziale

Ultimo Aggiornamento: 19/12/2015 11:08
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06/12/2010 19:59
 
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Alarico e la devastazione di Roma del 410 secondo Jacques-Bénigne Bossuet e Edward Gibbon

Un sacco provvidenziale


"Roma e il Sacco del 410. Realtà, interpretazione e mito" è il titolo della giornata di studio che si svolge a Roma lunedì 6 dicembre. Il convegno, coordinato da Lucrezia Spera, Angelo Di Berardino e Gianluca Pilara, intende approfondire gli eventi di sedici secoli fa, indagando su quanto è stato tramandato tra realtà e mito, e studiare gli effetti del sacco di Roma, gli assetti socio-culturali e gli apparati urbanistici. Pubblichiamo un intervento della tavola rotonda conclusiva dei lavori.

di Paolo Siniscalco

In una prospettiva storiografica può essere utile mettere a confronto le interpretazioni che due grandi personaggi del passato hanno dato dell'evento del 410. Ho scelto due voci distanti tra loro, per il tempo in cui vivono, l'uno nel XVIi l'altro nel XVIii secolo e, non meno, per formazione, mentalità, credenze e, ancora, per i diversi generi letterari a cui consegnano le loro riflessioni:  il primo è Edward Gibbon, il secondo e Jacques-Bénigne Bossuet.

La vita Jacques-Bénigne Bossuet (1627-1704) non si sviluppa intorno a una sola opera, come sarà il caso di Edward Gibbon, ma si articola lungo un itinerario complesso che lo vede di volta in volta indossare i panni del teologo, del filosofo, del filosofo della storia, dello storico, del polemista, dell'esegeta della Sacra Scrittura, e prima ancora dell'oratore, La sua produzione. non si incentra quindi sulla storia e tanto meno sulla storia di un popolo o di una civiltà, ma spazia in molti domini. Difensore della Chiesa cattolica, della sua Tradizione e della sua autorità si schiera contro il quietismo di Fénelon, l'esegesi biblica di Richard Simon, il pensiero sul libero esame sostenuto da Malebranche.

Il tema di Roma, anche della Roma cristiana, non è al centro della sua attenzione e tanto meno lo è il singolo episodio di cui ci stiamo occupando. E tuttavia l'episodio è trattato significativamente nell'ambito del suo pensiero perché gli dà modo di proporre una più ampia riflessione sulle cose ultime e penultime. In pari tempo prova quanto la presa di Roma del 410 continui ad attirare, a distanza di secoli l'attenzione di uomini di cultura, perché evidentemente rappresenta un evento, che ha mutato in profondità la storia dell'Occidente, imprimendole un svolta. Prenderò in esame due passi desumendo il primo da un'opera poco nota del Bossuet, l'Explication de l'Apocalypse, scritta nel 1689 (ma pubblicata nel 1772); il secondo da uno scritto ben più noto quale è Le Discours sur l'histoire universelle.

L'Explication, commentando l'ultimo libro del Nuovo Testamento si rivolge polemicamente contro quegli esegeti, come Richard Simon, che volevano identificare il Papa con l'Anticristo e la Roma pontificia con la Babilonia dell'Apocalisse. Il Discours, composto per il Delfino di Francia, pubblicato per la prima volta nel 1681 asserisce che tutti gli uomini, compresi coloro che stanno nei gradi più altri della scala sociale, altro non sono che strumenti nella mano di Dio. Gli imperi e i regni stanno o cadono per il verificarsi di causae secundae; ma dietro di esse si nasconde la vera causa, essendo la "storia universale" orientata all'incarnazione di Gesù Cristo e allo sviluppo della Chiesa. Ci si trova così di fronte a una teologia della storia.

Ma vediamo più da vicino il contesto dell' Explication de l'Apocalypse. Un primo pensiero riguarda i barbari. Parlando delle invasioni che da tempo compivano nei territori dell'Impero romano, osserva come allora parve fosse andato perduto il rispetto per la maestà romana. Lo dimostrano i vari popoli che penetrando nei confini dell'Impero, arrecano rovina e morte; tra tutti si distinguono i goti. Essi dapprima - scrive Bossuet - sono vinti; ma la giustizia divina li prepara per un'altra impresa. Un secondo pensiero concerne il rapporto tra la res publica roùmana e i cristiani. Il discorso prende le mosse dalla violenta persecuzione scatenata da Diocleziano e da Massimiano. Ma dopo questi imperatori la scena cambia:  Costantino infatti dà pace alla Chiesa.
 
"I sacrifici ai demòni sono aboliti, i loro templi chiusi"; sembra che l'idolatria abbia ricevuto il colpo mortale. Ma circa cinquanta anni dopo, Giuliano l'Apostata la fa rivivere. La battaglia insomma non è terminata, Come dimostra la Relatio di Simmaco indirizzata a imperatori a cui si chiede di ripristinare i privilegi tolti alle Vestali e di rimettere nell'aula del Senato l'altare della Vittoria. Un terzo pensiero ha di mira quella che Bossuet ritiene essere la situazione della religione pagana a Roma in quel tempo:  una religione ancora ben radicata nella città, nonostante l'opera di imperatori di fede cristiana. In un quinto pensiero Bossuet affronta da vicino il tema che ci interessa.

Se Dio aveva risparmiato Teodosio il Grande, non così avviene per Onorio. Dio infatti aveva chiamato i goti per attuare sapientemente i suoi piani. Due nemici minacciavano l'Urbe e l'Italia:  Radagaiso e Alarico. il primo pagano, il secondo cristiano, anche se di confessione ariana. Radagaiso aveva votato ai suoi dèi il sangue dei Romani. Se il Signore avesse abbandonato la città a quel pagano, i pagani avrebbero certo attribuito la vittoria agli dèi da lui adorati. Ma il Signore dispose diversamente. Radagaiso con i suoi uomini fu sconfitto. Alarico da parte sua assediò Roma. In quel frangente drammatico il popolo e i senatori pagani chiesero soccorso ai loro antichi dèi. Fu eletto un imperatore di tendenze politeiste, Attalo. Fu creato console uno zelante idolatra, Tertullio. A nulla valsero le proposte di pace avanzate dalla città. Qualcosa spingeva Alarico a compiere l'impresa, quasi fosse venuto al mondo solo per questo.

Roma fu conquistata e messa a ferro e fuoco. Tuttavia un particolare di non poco conto dà a vedere, che l'oggetto dell'ira di Dio fosse il paganesimo, e non il cristianesimo. Alarico infatti concesse sicuro asilo a chi si fosse rifugiato nelle chiese, e in special modo nelle grandi basiliche romane; un particolare in cui i cristiani riconobbero il dito di Dio.

Non è questa l'occasione per verificare il fondamento e l'esattezza storica dei fatti ai quali direttamente o indirettamente, si riferisce lo scrittore. Ben più rilevante è indicare la fonte da cui li desume, in special modo, per quanto concerne quel punto che trasforma il senso della presa della città:  l'ordine dato da Alarico e osservato dai suoi goti di lasciare tranquilli e senza danno quanti si fossero rifugiati nei luoghi sacri e particolarmente nella basilica di San Pietro. La fonte è senza dubbio l'Orosio, che così narra nelle Historiae adversus paganos. Come ancora da Orosio sembra essere tratto il confronto tra Radagaiso e Alarico.

Diverso è il taglio e lo scopo che Bossuet si propone nel Discours de l'histoire universelle. Il cenno all'episodio del sacco del 410 è rapido e si inserisce nella trama più ampia che sta tessendo, con lo scopo di mettere in luce i segreti giudizi divini. All'inizio del iv secolo l'impero romano cede e - egli nota - riceve pacificamente la Chiesa, a cui aveva fatto guerra per molto tempo. In tal modo Roma diviene capitale di quell'impero spirituale che Gesù Cristo ha voluto dilatare su tutta la terra. La potenza della città antica scade; essa diviene preda dei barbari; i barbari, a loro volta, a poco a poco, apprendono la pietà cristiana. Tale è il mistero che lo spirito rivela a Giovanni nell'Apocalisse. Ma, a cento anni da Costantino, Roma stenta a rinunziare al culto degli idoli, gli imperatori, ormai cristiani sono affaticati delle dispute religiose per le quali si continua ad accusare la Chiesa come responsabile delle disgrazie dell'impero.

Allora Dio abbandona ai barbari quella città e rinnova su di essa i castighi che aveva disposto contro Babilonia, come suggerisce appunto l'Apocalisse. Le è tolta la gloria delle sue conquiste, essa diviene per più volte preda dei barbari. Ma dalle sue ceneri nasce una nuova città, la Roma cristiana. E a questo punto seguono una serie di osservazioni sulla sorte degli imperi del mondo destinati a servire ai piani di Dio. È la ripresa di un motivo a lungo trattato da autori antichi specialmente in opere cronologiche antiche sia pagane che cristiane, un motivo che si collega alla fortunata dottrina della translatio imperii e della translatio studii e allo schema dei sette millenni della storia del mondo. Lo spunto, sia pure appena indicato, è tratto, come di consueto, dal libro di Daniele. In Bossuet non si ha che una leggera eco di tutto ciò, quanto basta però per coronare la sua visione relativa alla caduta di Roma.

Edward Gibbon (1737-1794) trascorre la sua vita tra due centri europei:  Londra e Losanna. Nato nel Surrey del 1737, dal 1752 comincia a frequentare l'università di Oxford; si converte al cattolicesimo, senza tuttavia persistere in quella sua decisione (un episodio questo non risolto della sua biografia); lo fa contro il volere del padre che si convince ad allontanarlo dall'Inghilterra, mandandolo a studiare a Losanna. Fin dal XVI secolo il vescovo della città e il duca di Savoia avevano perduto ogni potere sulla città; nel 1536 essa era stata conquistata da Berna ed era divenuta protestante; i poteri delle magistrature comunali erano stati assunte da funzionari bernesi, il culto cattolico interdetto. Il nuovo volto assunto da Losanna fa sì che vi affluiscano molti protestanti, per lo più esuli dai loro Paesi, dando vigore anche a iniziative culturali e religiose. Quando poco dopo la metà del XVIii secolo, precisamente nel 1753 Gibbon vi approda, la città continua a essere sotto la dominazione bernese (che reggerà fino al 1798, quando, per l'intervento francese verrà costituita capoluogo del cantone di Vaud).

La sua permanenza in Svizzera, dove rimane cinque anni, gli permette di entrare in contatto con la cultura francese e con alcuni suoi influenti rappresentanti:  legge libri di Montesquieu e di Pascal, conosce Voltaire nel periodo in cui si trattiene a Losanna, e certo il contatto con quella temperie culturale lascia una traccia non trascurabile in lui. Torna poi in patria, ma già nel 1763, dopo la Svizzera, scende in Italia, e a Roma sembra abbia concepito l'idea di scrivere la storia dell'Impero romano. Al progetto, che solo nel 1772 comincia a essere realizzato, egli si dedica con passione e intensità. Nel 1776 esce il primo volume della sua History of Decline and Fall of the Roman Empire, a cui è legata la sua fama. Nel 1781 appaiono il secondo e il terzo volume; nel 1788 gli ultimi tre.
Erano quelli gli anni in cui l'Inghilterra stava perdendo il suo impero - nel 1776 è proclamata l'indipendenza americana. In Europa la nozione di decadenza costituisce uno dei temi più ricorrenti di meditazione storica e filosofica. Un motivo questo a cui si accompagnava nella mente del Gibbon una visione del tutto negativa della storia da lui definita:  "Poco più che il racconto dei delitti, delle follie e delle sventure dell'umanità".

Interessa qui analizzare il capitolo xxxi della History del Gibbon, ove si considerano gli eventi del 410. Le pagine del Gibbon si indugiano nella descrizione della città di Roma sotto Teodosio e Onorio, dei suoi costumi, dei vizi e delle superstizioni ben presenti nella società romana:  l'ascoltare "con credulità gli auspici degli aruspici che pretendono leggere nelle viscere di una vittima i segni della grandezza futura e della prosperità" o il consultare "accuratamente le regole dell'astrologia, secondo le regole di astrologia, la posizione di Mercurio e l'aspetto della luna" rappresentano o "una ridicola superstizione, che non onora il buon senso dei romani (...) È assai comico - osserva - trovare tale credulità in scettici empi che osano negare o dubitare dell'esistenza di un potere celeste". Con precisione il Gibbon dà tutta una serie di notizie su molti particolari della vita nella capitale dell'Impero.

Occorre dire che la narrazione è corredata da un selva di note che rimandano a fonti antiche, il che prova la cura con cui lo scritto è stato redatto e testimonia della mole impressionante di lavoro preparatorio compiuto, tenendo anche conto dello stato degli studi storici in quel tempo. È evidente il gusto per il particolare che poggia su una solida documentazione. D'altra parte si deve aggiungere che spesso i riferimenti a passi di autori antichi sono colti in un ambito cronologico molto ampio che va da Tacito a Claudiano, da Seneca ad Ammiano Marcellino, da Plinio a Simmaco, per cui non tutto può coerentemente rappresentare lo stato di Roma al tempo di Onorio, ossia al momento in cui i goti la assediano e la bloccano. Le pagine concernenti la presa di Roma sono poi tenute vive dalla narrazione della tragica sorte di Serena, nipote di Teodosio, della umanità di Laeta, vedova dell'imperatore Graziano e da altri episodi vivacemente descritti. Di fronte ad Alarico la figura di Onorio appare del tutto priva di coraggio e di dignità, di saggezza mentre i consiglieri a lui sottoposti appaiono del tutto impari al compito loro assegnato, pieni di boria assurda e irresponsabile tracotanza.

Si giunge così, dopo la narrazione di varie vicende, all'apparire di Alarico sotto le mura di Roma, alla congiura segreta di schiavi e domestici legati ai barbari che aprono la porta Salaria e all'irrompere dei goti nella città. Anche qui sotto la penna del Gibbon la figura del vincitore che si impadronisce di Roma è delineata positivamente. Egli afferma che Alarico non era privo di "sentimenti umani e religiosi" e raccomandando ai suoi soldati "di risparmiare i cittadini inermi e di rispettare le chiese dei santi apostoli Pietro e Paolo, quali asili e santuari inviolabili. Come già in Bossuet è questa la notizia intorno a cui si concentra l'attenzione; una notizia, come già si vedeva desunta da Orosio e ritenuta vera. Ma, con realismo pragmatico, ben più accentuato che in Orosio, egli non teme di affermare che, nonostante qualche raro esempio di virtù dato dai barbari, molti sono stati i romani uccisi tanto che le strade erano piene di cadaveri e che quarantamila schiavi, senza pietà e rimorsi, hanno compiuto in quella occasione le loro vendette personali.

Oltre a Orosio, a Girolamo ed a Agostino, Procopio e poi ancora Sozomeno e Zosimo sono le fonti antiche a cui egli attinge altre notizie, con un prudente bilanciamento tra una visione troppo clemente e una troppo crudele rispetto ai barbari e alle loro gesta. Neppure tace la circostanza per cui date le calamità in cui erano incorse Roma e l'Italia "fecero sì che gli abitanti cercassero più sicuri, più lontani e solitari rifugi" in Africa o in Palestina , perché "l'orribile caduta di Roma" aveva sparso dappertutto il terrore e l'angoscia.

Con Jacques Bénigne Bossuet abbiamo conosciuto, un oratore, un controversista, un esegeta che, postosi al servizio della Chiesa, ha letto diversamente gli avvenimenti e in particolare l'evento al centro della nostra attenzione, con la lente di una teologia della storia. Anche lui si è riferito a fatti specifici:  nella sua Weltanschauung non esisteva il caso fortuito, ma riteneva che la provvidenza, attraverso le causae secundae conducesse la storia. In tale modo il suo scopo è stato quello di collegare i fatti e di interpretarli alla luce dell'idea di una provvidenza. La sua prima fonte è la Città di Dio di Agostino, un modello, a cui Bossuet ha mirato, senza tuttavia cogliere altri aspetti di quella medesima fonte. Ciò che conduce la ricerca di Bossuet è l'ansia di leggere negli eventi la vera natura della fisionomia dell'uomo attraverso i fatti di cui è egli causa o vittima.

Per lui il problema del senso della storia è introdotto alla sua soluzione da un unico elemento:  la fede. Questo non solo non gli impedisce, ma lo sollecita a esaminare, a fare parlare i fatti, attraverso, si intende, la lente del suo modo di pensare.
Dall'esame di Gibbon si fa evidente la stessa passione che lo conduce a considerare i fatti, a disporli in un certo ordine, a dare di essi un giudizio specifico. Giudizio severo sulla inadeguatezza, se non sulla immoralità, dei responsabili del governo romano, ma positivo sul comportamento tenuto da Alarico - "un capo vittorioso che univa all'audacia del barbaro l'arte e la disciplina di un generale romano".

Non si fa invece evidente la tesi che ci si aspetterebbe, frequentemente proposto dai pagani dell'inizio del v secolo e dei secoli successivi:  essere i cristiani la causa della rovina di Roma per avere cessato di venerare gli antichi dèi del Pantheon romano; una tesi che avrebbe potuto ben consuonare con quello che comunemente si dice essere lo scopo dell'opera dl Gibbon. Ma a questo proposito le cose sono più complesse. È stata notata l'ambivalenza della sua interpretazione sul cristianesimo. Ha scritto Arnaldo Momigliano:  "La religione di Gibbon è argomento di perpetua disputa (...) Ciò che importa ai fini della sua storia è l'ambivalenza della sua interpretazione del cristianesimo. Egli dice chiaro che il cristianesimo affretta la caduta dell'Impero, perché porta via troppa energia dalla politica, dall'amministrazione, dai traffici (...). Ma dice con altrettanta chiarezza che il cristianesimo favorì l'affratellamento di barbari e romani e quindi addolcì il trapasso". (A mio parere, è questo un lato del pensiero del Gibbon che andrebbe approfondito, esaminando tutto il percorso della sua opera).

Nella narrazione del sacco di Roma del 410 non c'è alcuna accusa, esplicita o implicita contro i cristiani, accusa che poteva essere tratta dalle fonti antiche - non solo pagane, ma anche cristiane - da lui ben conosciute, in primis da Agostino stesso. Lo storico moderno è prudente, riconosce la complessità di ogni evento e quindi la pericolosità di prese di posizioni "manichee". Ma tutto compie, come è naturale per ogni storico, alla luce delle sue concezioni e delle sue convinzioni. Ancora una volta nelle pagine e di Bossuet e di Gibbon, si verifica con tutta chiarezza da una parte quanto la storia sia inseparabile dallo storico e, d'altra parte, quanto un uso intelligente delle fonti conduca, nonostante tutto, a esiti non così differenti gli uni dagli altri.


(©L'Osservatore Romano - 6-7 dicembre 2010)

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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  Il Sacco di Roma: un castigo misericordioso


sacco di Roma

(di Roberto de Mattei) La Chiesa vive un’epoca di sbandamento dottrinale e morale. Lo scisma è deflagrato in Germania, ma il Papa non sembra rendersi conto della portata del dramma. Un gruppo di cardinali e di vescovi propugna la necessità di un accordo con gli eretici. Come sempre accade nelle ore più gravi della storia, gli eventi si succedono con estrema rapidità. Domenica 5 maggio 1527, un esercito calato dalla Lombardia giunse sul Gianicolo.


L’imperatore Carlo V, irato per l’alleanza politica del papa Clemente VII con il suo avversario, il re di Francia Francesco I, aveva mosso un esercito contro la capitale della Cristianità. Quella sera il sole tramontò per l’ultima volta sulle bellezze abbaglianti della Roma rinascimentale. Circa 20 mila uomini, italiani, spagnoli e tedeschi, tra i quali i mercenari Lanzichenecchi, di fede luterana, si apprestavano a dare l’attacco alla Città Eterna. Il loro comandante aveva concesso loro licenza di saccheggio.


Tutta la notte la campana del Campidoglio suonò a storno per chiamare i romani alle armi, ma era ormai troppo tardi per improvvisare una difesa efficace. All’alba del 6 maggio, favoriti da una fitta nebbia, i Lanzichenecchi mossero all’assalto delle mura, tra Sant’Onofrio e Santo Spirito. Le Guardie svizzere si schierarono attorno all’Obelisco del Vaticano, decise a rimanere fedeli fino alla morte al loro giuramento. Gli ultimi di loro si immolarono presso l’altar maggiore della Basilica di San Pietro. La loro resistenza permise al Papa di riuscire a mettersi in fuga, con alcuni cardinali.


Attraverso il Passetto del Borgo, via di collegamento tra il Vaticano e Castel Sant’Angelo, Clemente VII raggiunse la fortezza, unico baluardo rimasto contro il nemico. Dall’alto degli spalti il Papa assisté alla terribile strage che cominciò con il massacro di coloro che si erano accalcati alle porte del castello per trovarvi riparo, mentre i malati dell’ospedale di Santo Spirito in Saxia venivano trucidati a colpi di lancia e di spada.


La licenza illimitata di rubare e di uccidere durò otto giorni e l’occupazione della città nove mesi. «L’inferno è nulla in confronto colla veste che Roma adesso presenta», si legge in una relazione veneta del 10 maggio 1527, riportata da Ludwig von Pastor (Storia dei Papi, Desclée, Roma 1942, vol. IV, 2, p. 261).


I religiosi furono le principali vittime della furia dei Lanzichenecchi. I palazzi dei cardinali furono depredati, le chiese profanate, i preti e i monaci uccisi o fatti schiavi, le monache stuprate e vendute sui mercati. Si videro oscene parodie di cerimonie religiose, calici da Messa usati per ubriacarsi tra le bestemmie, ostie sacre arrostite in padella e date in pasto ad animali, tombe di santi violate, teste degli apostoli, come quella di sant’Andrea, usate per giocare a palla nelle strade. Un asino fu rivestito di abiti ecclesiastici e condotto all’altare di una chiesa. Il sacerdote che rifiutò di dargli la comunione fu fatto a pezzi. La città venne oltraggiata nei suoi simboli religiosi e nelle sue memorie più sacre (si veda anche André Chastel, Il Sacco di Roma, Einaudi, Torino 1983; Umberto Roberto, Roma capta. Il Sacco della città dai Galli ai Lanzichenecchi, Laterza, Bari 2012).


Clemente VII, della famiglia dei Medici non aveva raccolto l’appello del suo predecessore Adriano VI ad una riforma radicale della Chiesa. Martin Lutero diffondeva da dieci anni le sue eresie, ma la Roma dei Papi continuava ad essere immersa nel relativismo e nell’edonismo. Non tutti i romani però erano corrotti ed effeminati, come sembra credere lo storico Gregorovius. Non lo erano quei nobili, come Giulio Vallati, Giambattista Savelli e Pierpaolo Tebaldi, che inalberando uno stendardo con l’insegna “Pro Fide et Patria”, opposero l’ultima eroica resistenza a Ponte Sisto, né lo erano gli alunni del Collegio Capranica, che accorsero e morirono a Santo Spirito per difendere il Papa in pericolo.


A quella ecatombe l’istituto ecclesiastico romano deve il titolo di “Almo”. Clemente VII si salvò e governò la Chiesa fino al 1534, affrontando dopo lo scisma luterano quello anglicano, ma assistere al saccheggio della città, senza nulla poter fare, fu per lui più duro della morte stessa. Il 17 ottobre 1528 le truppe imperiali abbandonarono una città in rovina.


Un testimone oculare, spagnolo, ci dà un quadro terrificante della città un mese dopo il Sacco: «A Roma, capitale della cristianità, non si suona campana alcuna, non sì apre chiesa non si dice una Messa, non c’è domenica né giorno di festa. Le ricche botteghe dei mercanti servono per stalle per i cavalli, i più splendidi palazzi sono devastati, molte case incendiate, di altre spezzate e portate via le porte e finestre, le strade trasformate in concimaie. È orribile il fetore dei cadaveri: uomini e bestie hanno la medesima sepoltura; nelle chiese ho visto cadaveri rosi da cani. Io non so con che altro confrontare questo, fuorché con la distruzione di Gerusalemme. Ora riconosco la giustizia di Dio, che non dimentica anche se viene tardi. A Roma si commettevano apertissimamente tutti i peccati: sodomia, simonia, idolatria ipocrisia, inganno; perciò non possiamo credere che questo non sia avvenuto per caso. Ma per giudizio divino» (L. von Pastor, Storia dei Papi, cit., p. 278).


Papa Clemente VII commissionò a Michelangelo il Giudizio universale nella Cappella Sistina quasi per immortalare il dramma o che subì, in quegli anni, la Chiesa di Roma. Tutti compresero che si trattava di un castigo del Cielo. Non erano mancati gli avvisi premonitori, come un fulmine che cadde in Vaticano e la comparsa di un eremita, Brandano da Petroio, venerato dalle folle come “il pazzo di Cristo”, che nel giorno di giovedì santo del 1527, mentre Clemente VII benediceva in San Pietro la folla, gridò: «bastardo sodomita, per i tuoi peccati Roma sarà distrutta. Confessati e convertiti, perché tra 14 giorni l’ira di Dio si abbatterà su di te e sulla città».


L’anno prima, alla fine di agosto, le armate cristiane erano state disfatte dagli Ottomani sul campo di Mohacs. Il re d’Ungheria Luigi II Jagellone morì in battaglia e l’esercito di Solimano il Magnifico occupò Buda. L’ondata islamica sembrava inarrestabile in Europa. Eppure l’ora del castigo fu, come sempre l’ora della misericordia. Gli uomini di Chiesa compresero quanto stoltamente avessero inseguito le lusinghe dei piaceri e del potere. Dopo il terribile Sacco la vita cambiò profondamente.


La Roma gaudente del Rinascimento si trasformò nella Roma austera e penitente della Contro-Riforma. Tra coloro che soffrirono nel Sacco di Roma, fu Gian Matteo Giberti, vescovo di Verona, ma che allora risiedeva a Roma. Imprigionato dagli assedianti giurò che non avrebbe mai abbandonato la sua residenza episcopale, se fosse stato liberato. Mantenne la parola, tornò a Verona e si dedicò con tutte le sue energie alla riforma della sua diocesi, fino alla morte nel 1543.


San Carlo Borromeo, che sarà poi il modello dei vescovi della Riforma cattolica si ispirerà al suo esempio. Erano a Roma anche Carlo Carafa e san Gaetano di Thiene che, nel 1524, avevano fondato l’ordine dei Teatini, un istituto religioso irriso per la sua posizione dottrinale intransigente e per l’abbandono alla Divina Provvidenza spinto al punto di aspettare l’elemosina, senza mai chiederla. I due cofondatori dell’ordine furono imprigionati e torturati dai Lanzichenecchi e scamparono miracolosamente alla morte.


Quando Carafa divenne cardinale e presidente del primo tribunale della Sacra romana e universale Inquisizione volle accanto a sé un altro santo, il padre Michele Ghislieri, domenicano. I due uomini, Carafa e Ghislieri, con i nomi di Paolo IV e di Pio V, saranno i due Papi per eccellenza della Contro-Riforma cattolica del XVI secolo. Il Concilio di Trento (1545-1563) e la vittoria di Lepanto contro i Turchi (1571) dimostrarono che, anche nelle ore più buie della storia, con l’aiuto di Dio è possibile la rinascita: ma alle origini di questa rinascita ci fu il castigo purificatore del Sacco di Roma.

(Roberto de Mattei)


Fraternamente CaterinaLD

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(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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