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Quando pregate non sprecate le parole ma dite: PADRE NOSTRO CHE SEI NEI CIELI...

Ultimo Aggiornamento: 12/02/2018 08:59
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11/02/2011 10:32
 
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IL PADRE NOSTRO

di padre Pedron Lino

Facciamo un brevissimo commento alla meravigliosa preghiera insegnataci da Cristo: il Padre nostro.
Leggiamo nel vangelo secondo Matteo queste parole di Gesù: "Voi dunque pregate così: ‘Padre nostro che sei nei cieli sia santificato il tuo nome; venga il tuo regno; sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano, e rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori, e non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male’" (Mt 6,9-13).

Nei primi secoli della chiesa, colui che chiedeva di diventare cristiano riceveva due tesori nella sua memoria e nel suo cuore: prima del battesimo, il credo o simbolo apostolico; dopo il battesimo, il Padre nostro.
Scrive Ioachim Ieremias: "Era un privilegio poter dire ‘la preghiera del Signore’. Nulla dimostra meglio delle antiche formule d’introduzione conservate in tutte le liturgie d’occidente e d’oriente di quale timore e di quale rispetto fosse circondato il Padre nostro. In oriente, la liturgia detta di Crisostomo, ancora in uso oggi nelle chiese ortodosse greca e russa, fa dire al prete prima del Padre nostro: ‘Dègnati accordarci, Signore, di osare con gioia e senza temerarietà d’invocarti come Padre, tu che sei il Dio del cielo, e dire: Padre nostro...’". In occidente, la messa romana si esprime in maniera analoga: "Obbedienti alla parola del Salvatore e formati al suo divino insegnamento, osiamo dire: ‘Padre nostro...’". Fin dal primo secolo, il Padre nostro costituisce la preghiera personale del battezzato e della sua famiglia, al mattino, a mezzogiorno e alla sera.

Al tempo di Gesù, ogni gruppo religioso si distingueva mediante una formula particolare di preghiera. Ora, quando i discepoli di Gesù cominciarono a prendere coscienza di costituire una comunità chiesero al Maestro: "Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli" (Lc 11,1). Chiesero al Maestro una preghiera che fosse il loro legame e il segno della loro appartenenza alla "famiglia" di Gesù, perché avrebbe dovuto esprimere il centro del pensiero e della preghiera di Gesù. E Gesù disse loro: "Quando pregate, dite: ‘Padre nostro’".

Ci dà la sua preghiera come preghiera personale, evidentemente. Difatti Gesù premette all’insegnamento del Padre nostro questo comando: "Tu quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà" (Mt 6,6). Ma anche dietro alla mia porta non sono solo nella mia preghiera: il mio cuore contiene i miei fratelli e il mondo, e dico al plurale: "Padre nostro... dacci... rimetti a noi... non ci indurre... liberaci...".

D’altra parte, questa forma plurale, con cui Gesù ci fa pregare, sottolinea il suo desiderio di vederci spesso riuniti in comunità di preghiera. Se il Padre nostro è il simbolo di riconoscimento dei battezzati, dei figli di Dio, è evidente che dobbiamo pregarlo spesso insieme. I cristiani sono un popolo e questo popolo ha la sua preghiera.
Luca ci riporta "la preghiera del Signore" in una redazione più breve di quella di Matteo. È impossibile dire con certezza quale sia la forma più antica. E poco importa. Il Signore dovette insegnare questa preghiera diverse volte con delle variazioni particolari sui temi essenziali. Comunque, dandoci il Padre nostro, Gesù non ha fissato la nostra preghiera ad una rigida formula così come suona. Ci dà una direzione, ci libera lo spirito; e poi tocca a noi.

Questa preghiera è profonda e semplice come Dio stesso, come il vangelo che essa sintetizza in poche righe. Dire il Padre nostro "in spirito e verità" (Gv 4,23-24) significa entrare nella profondità e nell’immensità dell’amore di Dio, nella conversione totale al Padre, nel movimento filiale di obbedienza spontanea e amorosa a lui. Il Padre nostro non può essere detto sinceramente che da persone che si convertono completamente all’amore per il Padre e per i fratelli.

Riflettiamo ora, brevemente e in modo essenziale, sulle singole espressioni del Padre nostro.

Padre nostro che sei nei cieli

Gesù ci ha insegnato: "Voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno padre sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo" (Lc 23,8-9). Un solo Padre di tutti, il nostro Padre comune. Non è possibile, quindi, dire il Padre nostro al di fuori della fraternità; non è possibile trovare accoglienza in Dio quando non abbiamo nel cuore tutti gli altri suoi figli, gli uomini nostri fratelli. Leggiamo, infatti, nella prima Lettera di Giovanni: "Chi ama Dio ami anche il suo fratello" (1Gv 4,21). Chi mette da parte i propri fratelli, con essi mette da parte anche il fratello maggiore Gesù e di conseguenza non può presentarsi al Padre nel suo nome. Con Gesù e con tutti i fratelli fin dalla prima parola del Padre nostro! Il Padre nostro è comunitario: è la preghiera della grande famiglia di Dio.
Gesù ha detto: "In verità vi dico ancora: se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro" (Mt 18,19-20).
Gesù ci assicura che il Padre suo è anche Padre nostro. Ma Padre a quale titolo? Dio è il creatore del mondo e dell’uomo, la sorgente della vita. L’Antico Testamento rivela, dunque, l’amore paterno di Dio per ogni creatura e in modo particolarissimo per l’uomo che, solo fra tutte le creature, è fatto "a sua immagine e somiglianza", come solamente un padre e una madre fanno il loro figlio.

Questa paternità dell’amore creatore è già una sconvolgente rivelazione che fa brillare sulla nostra vita il sorriso di un Dio che non è il Dio dei filosofi e dei sapienti. Ma c’è di più. "Il Figlio unigenito che è nel seno del Padre" (Gv 1,18), colui che, a ragione, può chiamare Dio "Abbà" si fece uomo e venne ad abitare in mezzo a noi (Gv 1,14) perché gli uomini, suoi fratelli, potessero "‘nascere’ di nuovo" (Gv 3,3-5). "A quanti l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio" (Gv 1,12) in una vera partecipazione alla natura divina (2Pt 1,4). Quindi noi siamo realmente figli di Dio (1 Gv 3,1), e "ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: ‘Abbà, Padre!’" (Gal 4,6).
Così questa parola "Abbà", questo termine riservato al Figlio unigenito nella famiglia divina passa direttamente nel nostro cuore e sulle nostre labbra perché noi tutti siamo uno in Cristo (Gal 3,26). La famiglia divina si estende a tutta l’umanità e diventa regno, il regno di Dio. L’uomo-Dio Gesù, venuto a chiamare i peccatori (Mt 9,13), ci fa entrare nel regno invitandoci a pronunciare questa parola "Abbà", a chiamare Dio "Papà amatissimo".

L’espressione "che sei nei cieli" non vuole localizzare nei cieli piuttosto che sulla terra colui che è ovunque. Nella simbolica biblica, il termine "cieli" richiama la trascendenza divina: l’uomo è piccolo, terra-terra; Dio è grande e riempie i cieli. Ma lungi dall’essere assente da quaggiù, "la sua gloria riempie tutta la terra" (Is 6,3). Ma anche se abita fra gli uomini "i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerlo" (1Re 8,27). Eppure a questo Dio osiamo dire: "Padre nostro".
Aggiungiamo che Matteo destinava il suo vangelo a una comunità cristiana venuta dal giudaismo. Ora costoro, per tradizione, non pronunciavano mai il nome di Dio, per rispetto. Tenendo conto della loro sensibilità, Matteo sostituisce il temine Dio con cielo o cieli. Così dice "regno dei cieli" per dire "regno di Dio". Nel vangelo di Matteo, pertanto, "Padre che sei nei cieli" o "Padre celeste" vuol dire "Padre che sei Dio" o "Padre Dio".

Sia santificato il tuo nome

Il nome è la persona in quanto è conosciuta, amica, la persona su cui si può affettuosamente contare perché ci ama, colui che si può chiamare per nome. Per questo il nome di Dio è la maniera biblica tradizionale per indicare rispettosamente il suo essere. Gesù, quindi, ci fa dire al Padre: "Che la tua persona sia santificata", "Che tu sia santificato".
Ma è evidente che non possiamo aggiungere nulla alla santità infinita di Dio. E allora che significato può avere questa "santificazione" dell’essere di Dio? E che cosa vogliono dire i termini "santo" e "santificato"?
Con la rivelazione che Dio è amore sappiamo che la santità è dimenticare se stessi e amare veramente gli altri con i fatti. L’espressione "Sia santificato il tuo nome" può essere compresa solo così: "Che tu sia rispettato, predicato, manifestato, riconosciuto per quello che sei: l’amore stesso. Rivela la tua santità, ossia il tuo amore".

In questo senso appunto Dio proclama per mezzo del profeta Ezechiele: "Santificherò il mio nome grande, disonorato fra le genti, profanato da voi in mezzo a loro. Allora le genti sapranno che io sono il Signore - parola del Signore Dio quando mostrerò la mia santità in voi davanti ai loro occhi. Vi prenderò dalle genti, vi radunerò da ogni terra e vi condurrò sul vostro suolo. Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi. Abiterete nella terra che io diedi ai vostri padri; voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio. Vi libererò da tutte le vostre impurità: chiamerò il grano e lo moltiplicherò e non vi manderò più la carestia" (Ez 36,23-29). Come possiamo capire da questa lunga citazione, l’espressione "sia santificato il tuo nome" è tutt’altro che un vago, pio desiderio! Questa domanda indica due direzioni ben precise e impegna a fondo Dio e noi. Innanzitutto domandiamo che Dio stesso irradi la sua gloria, che moltiplichi nel mondo le meraviglie del suo amore e della sua misericordia, che parli più forte e più teneramente agli uomini attraverso la creazione, le persone, gli avvenimenti, attraverso i poeti, gli artisti, i santi. Che si degni di moltiplicare la grazia e la vocazione missionaria della chiesa affinché tutti gli uomini possano conoscerlo e lodarlo in eterno.

Ma questa manifestazione del Padre impegna concretamente anche tutti i suoi figli. "Mostrerò la mia santità in voi davanti ai loro occhi" ha detto il Signore. La gloria del Padre sono i figli. Così già la prima domanda del Padre nostro non ci lascia tranquilli nella nostra nicchia, ma ci fa implorare la grazia di contribuire il più possibile alla gloria di Dio. Il nostro comportamento può essere occasione di bestemmia contro Dio o di riconoscimento del suo amore, appunto perché siamo suoi figli. Proprio così si esprime il vangelo: "Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere, perché faccia luce a tutti quelli che sono in casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli" (Mt 5,14-16).

E l’apostolo Paolo, senza mezzi termini, ci dice: "Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione: che vi asteniate dall’impudicizia, che ciascuno sappia mantenere il proprio corpo con santità e rispetto, non come oggetto di passione e di libidine, come i pagani che non conoscono Dio... Dio non ci ha chiamati all’impurità, ma alla santificazione. Perciò chi disprezza queste norme non disprezza un uomo, ma Dio stesso, che vi dona il suo santo Spirito" (1Ts 4,3-8). I nostri pensieri, quindi, le nostre parole, le nostre opere sono lo specchio della santità divina, dell’amore del Padre.
Il nostro primo compito è quello di ripulire in noi e attorno a noi l’immagine del Padre da tutte le incrostazioni che la sfigurano e dalle caricature che la deformano: il Dio carabiniere, inquisitore, torturatore, o, dal lato opposto, il Dio bonaccione, accomodatutto, il Dio salvagente e altre puerili deformazioni che degradano Dio e l’uomo.
Il nostro secondo compito, più difficile, è quello di dare alla nostra chiesa il volto che deve avere, quello che Dio le ha assegnato: il volto di un popolo cristiano onesto, distaccato e generoso, purificato dai suoi peccati; un popolo unito e pacifico, lavoratore sincero e gioioso, che canta e prega, abitato dallo Spirito di Dio; un popolo in cui l’amore è sovrano e le cui mani sono ricolme di opere di giustizia.

Venga il tuo Regno

Gesù ha detto esplicitamente: "Il mio regno non è di questo mondo... il mio regno non è di quaggiù" (Gv 18,36). Il regno quindi è escatologico: è lo stato definitivo del mondo quando il granello di senape, la chiesa, avrà raggiunto la sua statura e la sua maturità piena (Mt 13,31-32); quando il Padre sarà riconosciuto da tutti, quando il Figlio sarà il Signore di tutti, e lo Spirito santo sarà la vita di tutti; insomma, quando la salvezza sarà completamente realizzata, la mietitura portata a termine (Mt 13,30) e la sala del banchetto riempita di commensali (Lc 14,23).
La chiesa, pertanto, non è ancora il regno perché troppi sono ancora i posti vuoti, troppi i peccati. Ma nella chiesa il regno è in cammino, perché esso comincia da questo mondo, nei cuori, nella vita, nelle comunità di coloro che la fede e il battesimo ha "illuminati". È proprio a costoro che si rivolge l’apostolo Paolo quando scrive: "Ringraziamo con gioia il Padre che ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce. È lui infatti che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto, per opera del quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati" (Col 1,12-14).

Questo regno dell’amore non "viene" come una stagione o un avvenimento gratuito, ma come una persona. Il suo procedere è sempre una iniziativa di Dio. Ma Gesù dice: "Chiedetelo!". Chiedete che il regno, annunciato e inaugurato da Gesù, si dilati, entri più profondamente nei cuori, si manifesti con convincente chiarezza nel comportamento dei cristiani. Sotto altre parole, quindi, abbiamo la stessa insistenza della richiesta precedente: "Sia santificato il tuo nome". Il regno di Dio non è un movimento politico e non è monopolio di nessuno. Al contrario, il vangelo è lo specchio in cui tutti i movimenti cristiani devono confrontarsi con Gesù Cristo per mantenersi in tensione e in conversione permanente. Tutto questo, però, non deve giustificare l’assenteismo e il disimpegno. Chi non si bagna nel politico non si bagna nemmeno nel regno di Dio, perché Gesù non ha solo pregato, ma ha fatto il bene e ha combattuto il male e l’oppressione in tutte le sue forme. Quindi la nostra preghiera al Padre non deve essere una semplice manifestazione di pii desideri e di buone intenzioni, ma l’offerta concreta di collaborazione per l’avvento del suo regno. Le nostre preghiere, purtroppo, qualche volta, rischiano di distaccarci dall’azione responsabile personale e comunitaria perché sono legate a bisogni che non superano il contesto domestico. Qualche cristiano è un accanito divoratore di novene, un grande organizzatore di pellegrinaggi, un ricercatore dal fiuto finissimo di apparizioni e di devozioni inedite, ma non si occupa di niente e di nessuno.

Un certo numero di devoti non si appassiona per l’avvento del regno di Dio, ma soffre di una fame insaziabile e morbosa di sensazioni sacre. Colui che prega: "Venga il tuo regno" non può essere un egoista alla ricerca di se stesso, ma deve diventare l’intercessore di questo povero mondo, di tutti, buoni e cattivi, perché la preghiera è la leva fondamentale per innalzare il mondo a Dio.

Sia fatta la tua volontà

Questa domanda, come la preghiera di Gesù nel Getsemani, non è una preghiera di rassegnazione, ma un appello a Dio perché compia liberamente la sua volontà, che è la migliore di tutte: il Padre infatti vede (Mt 6,6), sa (Mt 6,8) e ci ama (Gv 16,27). La sua volontà è l’espressione della sua sapienza e del suo amore infinito.
Il Padre è solo amore e tutto amore, e non può volere altro che amarci. Noi, invece, siamo egoisti, chiusi e impazienti; non sappiamo bene che cosa vogliamo realmente, siamo peccatori, continuamente attirati verso scelte di peccato anche quando preghiamo, se chiediamo secondo la nostra volontà. Alla fine dei nostri sentieri capricciosi, constatiamo di essere infelici e nudi come Adamo ed Eva. Cristo, in agonia, ha pregato: "Padre mio... sia fatta la tua volontà" (Mt 26,42). Tutta la sua vita si racchiude in questo "sì" incondizionato: "Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato" (Gv 6,38).
La preghiera è un atto forte, non un gioco: è lo sforzo per avvicinarsi sempre più alla volontà di Dio, perché diventi totalmente nostra. L’alpinista aggrappato a uno spuntone di roccia tira forse perché la roccia venga a lui? Mai più. Precipiterebbe nel baratro. La roccia, fortunatamente, non si sfalda e l’alpinista fa assoluto affidamento su quella solidità per prendere slancio e tirarsi su fino ad essa. Il cristiano che prega non tenta di piegare Dio alla propria volontà, ma solleva verso Dio la sua anima pesante.

Come in cielo così in terra

Evidentemente i cieli presentati come termine di paragone non sono solamente quelli visibili, ma soprattutto quelli invisibili, gli angeli e i santi che compiono perfettamente la volontà di Dio. Noi desideriamo e chiediamo che Dio sia glorificato dalla libera adorazione dei suoi figli in terra, come è glorificato dall’evoluzione meravigliosa del sole, della luna e delle stelle e ancor più dalla lode armoniosa e perenne dell’assemblea dei santi.

Dacci oggi il nostro pane quotidiano

La prima parte del Padre nostro è tutta incentrata sul Padre: è la ricerca del regno di Dio e della sua giustizia (Mt 6,33). È questo il nostro primo desiderio e il nostro maggior bisogno. La seconda parte rimane ancora a livello di Dio perché è la preghiera dei suoi figli poveri e angosciati che portano dentro di sé la preoccupazione per i loro fratelli, nessuno escluso. Il pane quotidiano è tutto quanto è necessario all’uomo per essere uomo nel senso più pieno della parola. L’uomo non vive di solo pane materiale (Dt 8,3). Gesù, nel vangelo secondo Giovanni, ci dà il significato totale di questa domanda, quando dice: "‘Mio Padre vi dà il pane dal cielo, quello vero; il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo!’. Allora gli dissero: ‘Signore, dacci sempre questo pane!’. Gesù rispose: ‘Io sono il pane della vita: chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete’" (Gv 6,32-35). Ma queste grandi realtà (la parola di Dio e l’eucaristia) non mettono in ombra la richiesta fiduciosa dell’umile pane della nostra tavola. Il pane quotidiano è un dono di Dio ai suoi figli perché arrivino fino a domani e, giorno dopo giorno, giungano all’appuntamento definitivo del banchetto eterno dove Cristo stesso si cingerà le vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli (Lc 12,37).

Che cosa significa "quotidiano"? L’aggettivo greco originale non è usato in nessun altro luogo del Nuovo Testamento e neppure nella letteratura greca profana. Se la traduzione esatta del termine epiousios resta incerta, è comunque chiaro che questa domanda non racchiude una esigenza di sicurezza per il futuro. Gesù invita i suoi discepoli a chiedere, giorno dopo giorno, il cibo di cui hanno bisogno, con la certezza che Dio vi provvederà ogni giorno, come aveva nutrito Israele nel deserto con la manna raccolta giorno dopo giorno (Es 16,4). Scrive François Varillon: "Il Padre si occupa di te. Se lo chiami Padre, devi avere fiducia in lui. Se non ne hai, smetti di chiamarlo Padre".
Il Padre nostro è, quindi, la preghiera del povero di fatto, che non vuole inquietarsi per il domani, e volge lo sguardo fiducioso verso le mani del Padre.
È la preghiera del povero volontario che non accumula perché pensa fiduciosamente che la sua ricchezza e il suo domani sono il Padre.
È la preghiera del lavoratore che non dimentica di dovere la forza delle sue braccia al Padre, e guadagna il pane con il sudore della fronte.
È la preghiera del fratello che ha paura di accaparrare due porzioni, mentre altri suoi fratelli non hanno niente.

È la preghiera onesta di chi non può domandare in verità che gli altri abbiano il pane, se non fa lui stesso quanto può per procurarlo loro.
È la preghiera di chi crede fermamente che Dio è Padre di tutti e, di conseguenza, che tutti sono suoi fratelli in Cristo; di chi sa che solo chiedendo per tutti otterrà per sé e per i suoi.
Il vangelo, anche in questa espressione "Dacci oggi il nostro pane quotidiano", che può sembrare tanto accondiscendente ai nostri appetiti e al nostro egoismo, è terribile: non ci dà un momento di tregua, non ci lascia dormire sonni tranquilli.

Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori

La parola "debito" ha un significato molto ampio e include tutto quanto dovevamo fare e non abbiamo fatto. È più dell’offesa perché include i peccati di omissione; è più del debito, del torto e del peccato: è la smisurata distanza che separa la nostra povera vita reale dalla santità alla quale siamo chiamati come figli di Dio: "Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste" (Mt 5,48). Siamo "nati da Dio" (Gv 1,13) e siamo "partecipi della natura divina" (2Pt 1,4): quindi dobbiamo vivere come Gesù Cristo. È questo il nostro "dovuto", il nostro "debito". Se le cose stanno così, allora è facile comprendere che siamo più insolventi del debitore della parabola, che doveva al suo re diecimila talenti (Mt 18,23-25). Il nostro debito è praticamente infinito. E Dio sa meglio di noi che non potremo mai pagare. Ma Dio, che è nostro Padre, non ci chiede un regolamento di conti (i regolamenti di conti sono cose che fanno i malviventi!). Di più, tra Dio e noi non ci saranno nemmeno dei conti, perché un padre non tira mai le somme e, soprattutto, perché presso Dio non ha corso la giustizia umana. Il nostro Dio è il Padre tutto amore e misericordia. Egli "ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui" (Gv 3,16-17).

Il Padre rifiuta il livello della giustizia umana se noi viviamo al livello delle leggi della famiglia divina. Ma se vogliamo risolvere i torti e le ragioni sul terreno della giustizia umana, rifiutando di considerare gli altri come fratelli, noi rifiutiamo di riconoscere Dio come Padre nostro e Dio misurerà a noi con la stessa misura con cui misuriamo agli altri, come sta scritto nel vangelo secondo Matteo: "Se voi perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe" (Mt 6,14-15). È questo il solo commento che Gesù aggiunge al Padre nostro, perché sa che su questo punto abbiamo la testa dura, l’orecchio ancora più duro e il cuore durissimo.
Gesù ci insegna: "Se presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono" (Mt 5,23-24). Intendiamoci, Dio per primo ha perdonato e lo ha dimostrato coi fatti. È scritto nella Lettera ai Romani: "Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi" (Rm 5,8). Nonostante i nostri sbandamenti e i nostri debiti, il Padre ci tratta come figli amatissimi. Ma pretende, e giustamente, che noi lo imitiamo nel perdono e nella misericordia sempre e verso tutti. Diversamente, sarà lui a imitare noi. Se noi non perdoniamo, lui non perdona; se perdoniamo poco o nulla, lui perdona poco o nulla. E non diciamo che Dio cambia le carte in tavola. Glielo abbiamo chiesto noi, lo abbiamo pregato e scongiurato noi di comportarsi così: "Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori".

E non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male

La Bibbia, dalle prime pagine della Genesi fino alle ultime dell’Apocalisse, ci presenta l’uomo in balìa della tentazione, dilaniato fra il bene e il male, fra Dio e satana.
Gesù stesso, Figlio di Dio fatto uomo, fu ripetutamente (sarebbe meglio dire continuamente) tentato da satana. Appena fu battezzato "Gesù fu portato dallo Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo" (Mt 4,1). "Dopo aver esaurito ogni specie di tentazione, il diavolo si allontanò da lui per ritornare al tempo fissato" (Lc 4,13). Il tempo fissato è quello dell’agonia e della passione. Solo con la sua risurrezione Cristo inaugura la disfatta di satana. Tuttavia satana, come bestia ferita a morte, sa ancora terribilmente colpire. Leggiamo nel libro del l’Apocalisse: "Guai a voi, terra e mare, perché il diavolo è precipitato sopra di voi, pieno di grande furore, sapendo che gli resta poco tempo" (Ap 12,12).

La tentazione al male non può mai venire da Dio, che è buono e vuole solo il bene. Scrive san Giacomo: "Nessuno quando è tentato dica: ‘Sono tentato da Dio", perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male. Ciascuno piuttosto è tentato dalla propria concupiscenza che lo attrae e lo seduce’" (Gc 1,13-14). L’apostolo Paolo ci insegna: "La carne, infatti, ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda" (Gal 5,17). E satana, il tentatore, accende e alimenta il fuoco divorante della concupiscenza. Gesù ha riportato vittoria su satana e ha dato anche a noi questo potere. Leggiamo nel vangelo secondo Luca: "Vi ho dato il potere di camminare... sopra ogni potenza del nemico; nulla vi potrà danneggiare" (Lc 10,19).
Quali sono le armi per vincere questa lotta? Quelle stesse usate da Gesù!

Per Gesù la prima arma fu la parola di Dio. A ciascuna delle tre grandi tentazioni da lui subite (Mt 4) lo sentiamo rispondere con la Bibbia: "Sta scritto". La prima arma per vincere Satana è la Bibbia ascoltata, letta assiduamente e meditata ogni giorno. San Paolo ci esorta: "Rivestitevi dell’armatura di Dio, per poter resistere alle insidie del diavolo... Prendete la spada dello Spirito, cioè la parola di Dio" (Ef 6,11-17).
La seconda arma è la preghiera. Nel Getsemani, "inginocchiatosi, Gesù pregava... Poi andò dai discepoli e disse loro: ‘Perché dormite? Alzatevi e pregate per non entrare in tentazione’" (Lc 22,41-46). Per questo il Signore ci fa terminare il Padre nostro con l’invocazione: "Non permettere che siamo vinti dalla tentazione, ma liberaci dal maligno".

Leggiamo nella prima Lettera di san Paolo ai Corinti: "Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza di sopportarla" (1Cor 10,12-13).
Quando preghiamo: "Liberaci dal male (o dal maligno)" dobbiamo renderci conto a quale male andiamo incontro quando ci imbattiamo in satana. Anche quest’ultima invocazione del Padre nostro è seria e grave: chiediamo al Padre di essere liberati dal potere delle tenebre, dalla dannazione, dalla morte eterna. Tutti, prima o poi, avremo il nostro Getsemani, la nostra parte di tentazioni e di pericoli mortali. La vita è una guerra continua e per salvarci dobbiamo combattere e vincere. Noi siamo tanto deboli e i nemici sono molti e assai forti. Ma attraverso la preghiera il Signore ci darà la forza che noi non abbiamo.

S. Agostino dice che tutta la scienza di un cristiano consiste nel conoscere che egli è niente e non può niente. Così non cesserà di procurarsi da Dio, con la preghiera, quella forza che non ha e che gli è necessaria per resistere alle tentazioni e per fare il bene; e allora farà tutto con il soccorso di quel Signore che non sa negare nulla a chi lo prega con umiltà, perché è Padre, il Padre nostro, Dio.




Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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[SM=g1740733] Dalle Catechesi del Papa sulla Preghiera che trovate qui:
difenderelafede.freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd...

impariamo a conoscere come Gesù ci insegna a Pregare il Padre per aiutare coloro che soffrono, e comprendere come la malattia e la sofferenza, sono eventi nei quali maggiormente si manifesta la gloria di Dio...
www.gloria.tv/?media=228428



[SM=g1740717]

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Spiritualità domenicana

Commento di San Tommaso d’Aquino al Padre nostro

Introduzione al Padre nostro

Tra tutte le preghiere la più eccellente è certamente quella del “Signore”, o “Padre nostro”.
Essa possiede in sommo grado i cinque requisiti che ogni preghiera ben fatta deve avere: essere cioè sicura, retta, ordinata, devota e umile.

1. È sicura

La preghiera, infatti, deve darci la sicurezza di poterci accostare “con piena fiducia al trono della grazia” (Eb 4,16), e “con fede, senza esitare”, perché, come dice S. Giacomo, “non pensi di ricevere qualcosa dal Signore un uomo che ha l'animo oscillante e instabile” (Gc 1,6 7).
Ebbene, questa preghiera dà senz’altro molta fiducia perché è stata composta dal nostro Avvocato presso il Signore, l'Intercessore sapientissimo “nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza” (Col 2, 3) e del quale si dice: “Abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto. Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo” (1 Gv 2,1 2). Giustamente S. Cipriano dice: “Avendo come avvocato dinnanzi al Padre il Cristo, che è difensore per i nostri peccati, lasciamo parlare il nostro Avvocato”.
La sicurezza diventa ancora più grande e la nostra fiducia viene poi ulteriormente incoraggiata se si pensa a questo: che colui che ci ha insegnato questa preghiera, è lo stesso che, insieme al Padre, ha il compito di esaudirla, adempiendo quanto è detto nel salmo 91,15: “Mi invocherà e gli darò risposta”.
Per questo San Cipriano dice: “E una preghiera da amico e di familiare quella con la quale preghiamo Dio usando le sue stesse parole”.
E indubbiamente è questa la ragione per cui questa preghiera non si recita mai senza frutto, sicché essa ci ottiene tra l'altro, come dice S. Agostino, anche la remissione dei peccati veniali.

2. È retta

Ogni preghiera deve essere retta. Infatti ogni persona che prega deve chiedere a Dio le grazie che sono un bene per lui. San Giovanni Damasceno insegna che la preghiera è una “una richiesta a Dio di cose che sono un bene per noi”.
Ecco perché molte volte la preghiera non viene esaudita: perché vengono chieste cose che non sono un bene per noi, come dice S. Giacomo: “Chiedete e non ottenete perché chiedete male” (Gc 4,3).
Sapere che cosa chiedere è difficilissimo, perché è difficilissimo conoscere quali siano i veri beni da desiderare. Si chiede infatti lecitamente nella preghiera solo quello che è lecito desiderare. Lo rilevava già S. Paolo quando scriveva ai Romani: “Nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare” (Rm 8,26).
Il Cristo però, che è nostro Maestro, ci ha personalmente insegnato quello che dobbiamo chiedere quando i discepoli gli chiesero: “Signore, insegnaci a pregare” (Lc 11,1). Perciò la nostra preghiera è rettissima quando chiediamo al Signore le cose che lui stesso ci ha insegnato a chiedere. Insegna in proposito S. Agostino: “Se vogliamo pregare in modo retto e conveniente, qualunque sia la parola che usiamo, dobbiamo chiedere solo ciò che è contenuto nella Preghiera del Signore”.

3. È ordinata

La preghiera deve essere ordinata, così come ordinato dev’essere il desiderio. Infatti la preghiera è interprete del desiderio.
Ebbene: il giusto ordine vuole che tanto nel desiderare come nel chiedere preferiamo i beni spirituali a quelli materiali e i beni del cielo a quelle della terra. Il Signore infatti ci ha ammonito: “Cercate innanzitutto il regno di Dio e la sua giustizia, e tutto il resto vi sarà dato in aggiunta” (Mt 6,33). E questo ordine appunto il Signore ci ha insegnato ad osservare nella sua preghiera, nella quale ci fa domandare prima i beni celesti e poi quelli terreni.

4. È devota

La preghiera deve essere anche devota, perché l'abbondanza della devozione rende il sacrificio dell'orazione accetto a Dio, secondo quanto dice il salmista: “Nel tuo nome alzerò le mie mani; mi sazierò come a lauto convito, e con voci di gioia ti loderà la mia bocca” (Sal 63,5 6).
La devozione si stempera se la preghiera è prolissa. Per questo il Signore stesso ci ha comandato di evitare lungaggini. Pregando non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole” (Mt 6,7). S. Agostino, scrivendo a Proba, le dà il seguente avvertimento: “Lungi dalla preghiera le molte parole. Non manchi però il molto supplicare finché dura il fervore”. Ecco perché il Signore ha voluto che questa preghiera fosse breve.
La devozione, poi, sgorga dalla carità, e cioè dall'amore di Dio e del prossimo. E questi due amori vengono raccomandati nella preghiera del Pater.
L'amore di Dio viene stimolato quando, rivolti a Lui, lo chiamiamo “Padre”.
L’amore del prossimo invece viene stimolato quando, in comunione con tutti, preghiamo per tutti dicendo al plurale: “Padre nostro”. E “rimetti a noi i nostri debiti”. L’amore del prossimo infatti conduce a questo.

5. È umile

Da ultimo, la preghiera deve essere umile perché Dio “si volge alla preghiera dell'umile e non disprezza la sua supplica” (Sal 102,18). Vedi anche la parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18,10 14) e la preghiera di Giuditta: “Tu sei il Dio degli umili, sei il soccorritore dei derelitti” (Gdt 9,11).
E questa umiltà viene osservata nel Padrenostro. Infatti si ha vera umiltà quando uno non presume assolutamente nelle proprie forze, ma aspetta tutto dalla potenza divina alla quale si rivolge supplichevole.

La preghiera del Pater è la più eccellente fra tutte anche perché produce tre vantaggi

Quanto ai vantaggi, questa preghiera procura tre grandi benefici.

1. È rimedio utile ed efficace contro il male perché:
libera dai peccati commessi: “Tu hai perdonato la malizia del mio peccato. Per questo ti prega ogni fedele” (Sal 32,5 6). Il ladrone in croce pregò così e ottenne il perdono: “Oggi sarai con me nel paradiso” (Lc 23,43), e per la sua preghiera il pubblicano tornò a casa giustificato (cf. Lc 18,14).
libera inoltre dalla paura dei peccati imminenti, dalle tribolazioni e dalle tristezze. Dice la Scrittura: “Uno di voi è triste? Preghi (serenamente)” (Gc 5,13).
libera infine dalle persecuzioni e dai nemici. Diceva al riguardo il salmista: “Invece di volermi bene, mi colpivano; ma io pregavo” (Sal 109,4).

2. È il mezzo efficace e utile per ottenere tutto ciò che desideriamo.
Lo ha promesso Gesù: “Tutto quello che domandate nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi sarà accordato” (Mc 11,24).
Se poi non veniamo esauditi, è perché non ci atteniamo alla esortazione del Signore di “pregare sempre, senza stancarsi” (Lc 18,1).
Oppure per¬ché non chiediamo quello che è meglio per la nostra salvezza, come dice S. Agostino: “È buono il Signore, il quale spesso non ci dà quel che vogliamo, per darci quello che dovremmo preferire”.
Ciò si riscontra in S. Paolo, che per tre volte chiese di venire liberato da una spina nella carne, ma non fu ascoltato (cf. 2 Cor 12, 7).

3. È utile poi perché ci rende familiari a Dio, così da potergli dire con confidenza: “Come incenso salga a te la mia preghiera” (Sal 141,2).

Padre

Su questa invocazione facciamo due riflessioni: in che senso Egli è Padre e quali siano i nostri doveri verso di Lui in quanto Padre.
Viene detto nostro Padre innanzitutto in ragione del modo speciale con cui ci ha creati, perché ci ha creati a sua immagine e somiglianza (cf. Gen 1,26): il che non fece invece con le altre creature. Così infatti la Scrittura: “É lui il padre che ti ha creato, che ti ha fatto e ti ha costituito” (Dt 32,6).
Viene poi detto Padre per il modo speciale con cui ci governa. Governa, è vero, anche tutti gli altri esseri, ma governa noi lasciandoci padroni di noi stessi. Gli altri, invece, li governa come schiavi. Questa cosa è bene espressa dal Libro della Sapienza: “Tutto è governato, o Padre, dalla tua Provvidenza... Tu ci tratti con grande riverenza” (Sap 14,3; 12,18).
Viene detto Padre anche per averci adottati. Se, infatti, alle altre creature egli ha fatto dei regalini, a noi invece ha dato l'eredità. E questo perché siamo suoi figli, e “se figli, siamo anche eredi” (Rm 8,17). Sicché l'Apostolo può dire: “Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi e di paura, ma avete ricevuto lo Spirito dei figli adottivi che ci fa esclamare ‘Abbà, Padre’” (Rm 8,15).

Da parte nostra quattro sono i doveri che derivano da questa paternità

1. Gli dobbiamo anzitutto onore.
Dio dice per bocca di Malachia: “Se io sono il Padre, dov’è l’onore che mi spetta?” (Ml 1,6). E questo onore si deve manifestare in tre modi.
Primo, nel dare lode a Dio, come dice il salmista: “Chi offre il sacrificio di lode, questi mi onora” (Sal 50,23). Lode, però, che non deve essere solo un omaggio delle labbra ma del cuore, per non meritare il rimprovero che Dio rivolgeva al popolo ebraico: “Questo popolo si avvicina a me solo a parole e mi onora con le labbra, mentre il suo cuore è lontano da me” (Is 29,13).
Secondo, lo onoriamo in noi stessi accogliendo l'esortazione di S. Paolo: “Glorificate Dio nel vostro corpo” (1 Cor 6,20).
Terzo, lo onoriamo nel prossimo col giudicarlo equamente, perché Dio è un Re potente che ama la giustizia” (Sal 99,4).

2. Inoltre dobbiamo imitarlo.
Dio dice a Geremia: “Voi mi direte: 'Padre mio', e non tralascerete di seguirmi” (Ger 3,19).
Questa imitazione si attua in tre modi:
Primo, con l'amarlo, come ci ricorda S. Paolo: “Fatevi imitatori di Dio quali figli carissimi, e camminate nella carità” (Ef 5,1). Questo amore deve essere evidentemente nel nostro cuore.
Secondo, lo dobbiamo imitare nell'esercitare la misericordia, come ci ha ordinato il Signore: “Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro” (Lc 6,36).
Terzo, lo imitiamo tendendo alla perfezione, perché l'amore e la misericordia devono essere perfetti: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48).

3. Dobbiamo obbedirgli.
É infatti nostro Padre. Come dice S. Paolo “Noi abbiamo avuto come correttori i nostri padri secondo la carne e li abbiamo rispettati; non ci sottometteremo perciò molto di più al Padre degli spiriti, per avere la vita?” (Eb 12, 9). Questa obbedienza gli è dovuta per tre motivi.
Primo, per il dominio che ha su di noi, essendo egli il Signore di tutte le cose, per cui “quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo eseguiremo” (Es 24,7).
Secondo, per l'esempio che il suo vero Figlio ci ha dato facendosi obbediente al Padre fino alla morte (Fil 2,8).
Terzo, per il vantaggio che ne ricaviamo, come rispose Davide a Mikal che lo disprezzava per aver ballato davanti all'Arca: “L'ho fatto dinanzi al Signore, che mi ha scelto invece di tuo padre” (2 Sam 6,21).

4. Dobbiamo essere pazienti nelle prove che ci manda.
Dice infatti il Libro dei Proverbi. “Figlio mio, non disprezzare l'istruzione del Signore e non avere a noia la sua esortazione, perché il Signore corregge chi ama, come un padre il figlio prediletto” (Pr 3,11 12).

nostro

Da questo aggettivo scaturiscono due doveri verso il prossimo.

1. Il primo è l'amore, perché sono nostri fratelli in quanto tutti gli uomini sono figli di Dio e “chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1 Gv 4,20).
2. Il secondo è il rispetto, perché sono figli di Dio. Per cui Malachia si chiede: “Non abbiamo forse tutti noi un solo Padre? Forse non ci ha creati un unico Dio? Perché dunque agire con perfidia l'uno contro l'altro, profanando l'alleanza dei nostri padri?” (Ml 2,10). San Paolo ci esorta: “Gareggiate nello stimarvi a vicenda” (Rm 12,10).
Ciò ridonda a nostro vantaggio, perché “per tutti coloro che gli obbediscono egli divenne causa di salvezza eterna” (Eb 5,9).

Che sei nei cieli

Molte sono le cose necessarie per chi si mette a pregare. Ma la più importante è la fiducia. S. Giacomo dice: “Chieda con fede, senza esitare” (Gc 1,6).
Perciò il Signore, insegnandoci a pregare, presenta anzitutto le due realtà che servono per generare in noi la fiducia: la benignità del Padre e il suo immenso potere.
La benignità del Padre è messa in risalto dall’invocazione iniziale “Padre nostro”. Egli infatti ha detto: “Se voi che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono” (Lc 11, 13).
L’immensità del suo potere è messa in risalto dalle parole “che sei nei cieli”. A questo allude il salmo quando dice: “A te levo i miei occhi, a te che abiti nei cieli” (Sal 123,1).

L’espressione “che sei nei cieli” si riferisce a tre cose.
In primo luogo alla preparazione di chi si mette a pregare, secondo l’ammonimento che ci viene dalla Scrittura: “Prima dell’orazione prepara l’anima tua, per non essere come uno che tenta Dio” (Sir 18,23).
Sicché nell’espressione “nei cieli”, che si può intendere per “gloria celeste”, possiamo vedere un richiamo a quel premio che il Signore ha promesso agli Apostoli quando disse: “Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli” (Mt 5,12).
E questa preparazione deve avvenire imitando gli esseri del cielo, ossia del Padre celeste, perché il figlio deve imitare il Padre, secondo quanto dice S. Paolo: “Come abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra, così porteremo l’immagine dell’uomo celeste” (1 Cor 15,49).
La preparazione alla preghiera si fa anche tramite la contemplazione delle realtà celesti, perché gli uomini sogliono dirigere con più frequenza il loro pensiero là dove hanno il padre e le altre cose che amano. Infatti “dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore” (Mt 6, 21). A ragione dunque S. Paolo diceva che “il nostro interesse sta nei cieli” (Fil 3,20).
Infine la preparazione all’orazione si fa col desiderio e col tendere alle cose del cielo, in modo che a Colui che è nei cieli chiediamo soltanto beni celesti, secondo quanto si legge nella lettera ai Colossesi: “Cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo” (Col 3,1).

L’espressione “che sei nei cieli” indica anche la facilità con la quale il Signore ci ascolta, perché ci è vicino.
In tal caso per cieli vanno intesi i santi, nei quali Dio abita, perché, secondo quanto dice Geremia, egli abita in mezzo a noi (cfr. Ger 14,9). E anche quando il salmista dice: “I cieli narrano la gloria di Dio” (Sal 19,2), la parola cieli va presa per santi.
Dio abita nei santi in tre modi:
mediante la fede, per cui S. Paolo esorta gli Efesini: “Cristo abiti per la fede nei vostri cuori” (Ef 3,17);
mediante l’amore, perché “chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (1 Gv 4,16);
e infine mediante l’osservanza dei comandamenti, perché dice il Signore: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23).

L’espressione “che sei nei cieli” allude anche al particolare potere di Colui che ci esaudisce.
In tal senso la parola cieli indica i cieli materiali, non quasi volessimo affermare che Dio vi sia contenuto, essendo scritto di Lui, che “i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti” (1 Re, 8,27); ma per significare che Dio è perspicace nello sguardo, perché vede dall’alto, come dice il salmista: “Egli si volge alla preghiera del misero e non disprezza la sua supplica... si è affacciato dall’alto del suo santuario, dal cielo ha guardato la terra” (Sal 102, 18.20); è sublime nel potere, perché “ha stabilito nel cielo il suo trono e il suo regno abbraccia l’universo” (Sal 103,19); è stabile nella sua eternità perché di lui dice ancora il salmista: “I tuoi anni durano per ogni generazione... i tuoi anni non hanno fine” (Sal 102,25.28). E di Cristo si dice che “il suo trono durerà come i giorni del cielo” (Sal 89,30). E il Aristotele dice che, per la loro incorruttibilità, tutti i popoli ritennero che i cieli fossero la sede degli esseri spirituali.
Per questo le parole “che sei nei cieli” ci danno fiducia nel pregare per tre ragioni: per il potere di Colui al quale ci rivolgiamo, per la familiarità di Colui al quale chiediamo, e per le condizioni richieste per la preghiera.

Il potere di Colui al quale ci rivolgiamo emerge chiaramente se per cieli intendiamo i cieli fisici, quantunque Dio non vi risieda né sia racchiuso in essi secondo quanto egli dice di sé: “Non sono forse io a riempire i cieli e la terra?” (Ger 23,24).
Affermando che egli è nei cieli vengono suggeriti due suoi attributi: la virtù della sua potenza e la sublimità della sua natura.
La virtù della sua potenza elimina l’errore di quanti pensano che tutto succeda per necessità, quasi in forza di un destino derivante dagli astri. Per costoro sarebbe inutile chiedere qualcosa a Dio nella preghiera.
Ma questa è una opinione stolta, perché quando si dice che egli è nei cieli, si vuole affermare che egli vi è come Signore dei cieli e delle stelle, secondo quanto afferma anche il salmo: “Il Signore ha stabilito nei cieli il suo trono e il suo regno abbraccia l’universo” (Sal 103,19).

Il secondo attributo divino, e cioè la sublimità della sua natura, è contro l’abitudine di coloro che nel pregare costruiscono fantasie materialistiche riguardo a Dio. Si dice nei cieli perché, indicando ciò che è il più alto tra le cose sensibili (i cieli), si viene ad affermare la sua divina sublimità che tutto trascende, compresi l’intelligenza e i desideri umani. Sicché qualunque cosa si possa pensare o desiderare è sempre meno di Dio, come mettono in evidenza questi testi della Sacra Scrittura: “Ecco, Dio è così grande che non lo comprendiamo” (Gb 36, 26); “Su tutti i popoli eccelso è il Signore, più alta dei cieli è la sua gloria” (Sal 113 [112], 4); “A chi potreste paragonare Dio e quale immagine mettergli a confronto?” (Is 40, 18).
L’espressione “che sei nei cieli” indica la familiarità con Lui, se per cieli si intendono i Santi.
Poiché alcuni, a causa della divina trascendenza, affermarono che Dio non si cura delle cose umane, occorre considerare quanto invece egli sia vicino a noi, anzi intimo. Per questo si dice che è nei cieli, cioè nei santi, secondo il significato di questa parola del salmo sopra citato: “I cieli narrano la gloria di Dio” (Sal 19,2). Vicinanza e intimità che ci vengono ricordate anche dal profeta Geremia quando afferma: “Tu sei in mezzo a noi, Signore” (Ger 14,9).

Queste considerazioni infondono fiducia in chi prega per due motivi.
Primo, perché ci rassicurano della vicinanza di Dio, come dice il salmo: “Il Signore è vicino a quanti lo invocano” (Sal 145,18) e come afferma Gesù: “Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera”, ossia nella camera del tuo cuore (Mt 6,6).
Secondo, perché l’intercessione degli altri santi ci fa ottenere quanto desideriamo, secondo il consiglio dato a Giobbe: “Rivolgiti a qualcuno dei Santi” (Gb 5,1) e l’esortazione di S. Giacomo: “Pregate gli uni per gli altri... molto vale la preghiera del giusto” (Gc 5,16).
L’espressione “che sei nei cieli” indica infine l’adeguatezza e l’idoneità della nostra preghiera.
Infatti la nostra preghiera ha le dovute condizioni se nella formula “che sei nei cieli” prendiamo i cieli per i beni spirituali ed eterni, nei quali è riposta la nostra eterna felicità. E questo per due motivi.
Primo, perché così si accende in noi il desiderio delle realtà celesti. Il nostro desiderio deve essere rivolto là dove abbiamo il Padre, perché là c’è la nostra eredità. Dicono gli Apostoli: “Cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio” (Col 3,1) e “per una eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce” (1 Pt 1,4).
Secondo, perché così la nostra vita si modella fino a diventare celeste, e noi diventiamo conformi al Padre celeste, secondo quanto si legge: “Quale è il Celeste, così anche i celesti” (1 Cor 15, 48).
Infatti il desiderio di cose celesti e una vita celeste sono le due cose che rendono l’orante idoneo a chiedere. E per esse la preghiera ha quello che deve avere per domandare.


[SM=g1740771]  continua....

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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03/07/2012 15:59
 
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Spiritualità domenicana

Commento di San Tommaso d’Aquino al Padre nostro


prima domanda: sia santificato il tuo nome

È questa la prima domanda della preghiera insegnataci dal Signore, con la quale chiediamo che il nome di Dio si manifesti e risplenda in noi.
Ora, il nome di Dio è meraviglioso (ammirabile): perché opera meraviglie in tutte le creature. Dice infatti Gesù nel Vangelo parlando dei futuri credenti: “Nel mio nome scacceranno i demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno, imporranno le mani ai malati, e questi guariranno” (Mc 16,17).
Il nome di Dio è amabile: perché “non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo, nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (At 4,12).
E la salvezza tutti dobbiamo amarla.
Abbiamo in proposito l’esempio del Santo vescovo Ignazio, il quale amò tanto il nome di Cristo che, quando Traiano gli chiese di rinnegarlo, rispose: “Non riuscirai a togliermelo dalla bocca”.
E quando minacciò di tagliargli la testa per levarglielo dalla bocca, egli rispose: “Anche se tu me lo togliessi dalla bocca, non potrai togliermelo dal cuore”.
Allora Traiano gli volle tagliare la testa e comandò che gli fosse estratto il cuore: e fu trovato che recava il nome di Cristo a caratteri d’oro. Il martire l’aveva messo sul proprio cuore come un sigillo (Ct 8,6).
Il nome di Dio è venerabile.
Dice San Paolo: “Dio lo ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni alto nome; per¬ché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra” (Fil 2,9-10).
Gli esseri dei cieli sono gli Angeli e i beati, e si inginocchiano per amore.
Gli esseri della terra sono coloro che vivono in questo mondo e lo fanno per il desi¬derio di conquistare la gloria e per fuggire la pena.
Gli esseri che stanno sotto terra sono i dannati, che lo fanno per paura (Fil 2, 9 10).
Il nome di Dio è ineffabile: perché ogni lingua è incapace di esprimerlo. Per questo la Scrittura a volte ricorre a metafore prese dalle creature. Così nel Vangelo per la sua fermezza viene detto Pietra, come nella frase: “su questa Pietra edificherò la mia Chiesa” (Mt 16,18). Oppure per la sua virtù purificatrice viene detto fuoco, perché, come il fuoco purifica i metalli, così Dio purifica i cuori dei peccatori: “Il Signore tuo Dio è fuoco divoratore” (Dt 4, 24). E per la sua virtù di illuminare viene detto luce, perché, come la luce illumina le tenebre materiali, così Dio illumina quelle della mente. Per questo il salmista diceva: “Tu, Signore, sei luce alla mia lampada; il mio Dio rischiara le mie tenebre” (Sal 18,29).
Per tutte queste ragioni chiediamo che questo santo nome sia a tutti manifestato e da tutti sia riconosciuto e tenuto per santo.

Santo ha tre significati.

Innanzitutto può indicare ciò che è sancito, e perciò fermo, stabile. Si comprende allora perché i beati del cielo siano chiamati santi, per la loro stabilità nella eterna felicità. Sulla terra, invece, non possiamo essere santi in quanto siamo continuamente instabili, come rilevava S. Agostino di se stesso: “Signore, sono scivolato lontano da te e ho troppo errato, sono stato incostante lontano dalla tua stabilità”.
Santo può significare anche “non terreno”. I Santi che stanno in cielo non hanno più alcun affetto per le cose del mondo. Ad essi si può infatti applicare quello che San Paolo diceva di sé: “Tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura” (Fil 3,8).
Va notato che qui per terra sono da intendere i peccatori. E per tre motivi.
Primo, per la somiglianza che c’è tra questi e quelli.
I peccatori assomigliano alla terra in ragione del frutto. Infatti la terra se non viene coltivata produce soltanto rovi e spine, come si legge nella Scrittura: “Spine e rovi produrrà per te” (Gen 3,18). Analogamente l’anima del peccatore, se non è coltivata dalla grazia, produce solo i rovi e le punture del peccato.
Secondo, a motivo dell’opacità: “La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso” (Gen 1,2).
Terzo, per l’aridità. La terra infatti è un elemento secco ed è portato a sfaldarsi se non è tenuto compatto dall’umidità dell’acqua. Ed è per questo che la natura pose la terra vicino alle acque, secondo quanto dice il salmista: “Ha stabilito la terra sulle acque” (Sal 136,6), perché l’umore dell’acqua elimina l’aridità o secchezza della terra. Analogamente il peccatore ha l’anima secca e arida, come dice il salmista: “Sono davanti a te come terra riarsa” (Sal 143,6).
Infine il termine santo significa ciò che è tinto dal sangue.
Perciò i santi del cielo vengono chiamati santi perché tinti dal sangue, secondo quanto sta scritto: “Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti renden¬dole candide col sangue dell’Agnello” (Ap 7,14). E del Signore possono dire: “Ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue” (Ap 1,5).

Venga il tuo Regno

Lo Spirito Santo ci insegna ad amare, desiderare e chiedere rettamente. E in questo modo produce in noi il dono del Timore, dal quale siamo spinti a chiedere che il nome di Dio sia santificato.
Egli produce anche un secondo dono, ed è quello della Pietà, la quale propriamente è un dolce e devoto affetto verso il padre e verso qualsiasi persona che soffre.
Dio è nostro Padre, e verso di lui non dobbiamo avere soltanto rispetto e timore, ma anche un dolce e pio affetto.
E questo affetto ci spinge a chiedere che venga il regno di Dio vivendo “con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio” (Tt 2,12-13).
Qualcuno potrebbe obiettare: “Il Regno di Dio c’è sempre stato: perché allora chiedere ancora che esso venga?”.
Ebbene, la nostra richiesta si può intendere in tre modi.
1°- Un re può aver diritto a un regno e a governarlo. Ma può capitare che il suo potere non sia ancora effettivo, perché le persone del regno non gli sono ancora soggette. Il suo regno sarà reale solo quando le persone di quel regno gli saranno sottomesse.
Ora Dio per sua natura è già Signore di tutti gli esseri. E lo è anche Cristo in quanto Dio. Ma in quanto uomo, sebbene Dio gli abbia dato “potere, gloria e regno” (Dn 7,14), il suo regno non è ancora effettivo. È necessario pertanto che tutti gli esseri gli siano soggetti e questo avverrà alla fine dei tempi: “Bisogna infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi” (1 Cor 15,25).
Ecco perché possiamo dire: “Venga il tuo regno”.
E lo diciamo per tre finalità: per la conversione dei giusti, la punizione dei peccatori, la distruzione della morte.

In effetti gli uomini saranno assoggettati a Cristo in due modi: spontaneamente o contro la loro volontà.
Siccome la volontà di Dio è talmente efficace da doversi compiere in ogni caso ed egli vuole che tutti gli esseri vengano sottomessi a Cristo, non resta agli uomini che questa alternativa: o fare la volontà di Dio sottoponendosi spontaneamente, come fanno i giusti, alle sue disposizioni, oppure subirla quando Dio imporrà loro la sua volontà, come fa coi peccatori e coi suoi nemici, punendoli. Ma questo avverrà alla fine dei mondo, quando egli “porrà i suoi nemici a sgabello dei suoi piedi” (Sal 110,1).
Di conseguenza mentre è cosa dolce per i santi chiedere che venga il Regno di Dio, perché è chiedere di essere totalmente assoggettati a lui, per i peccatori invece è cosa spaventosa, perché per loro chiedere che venga il Regno di Dio equivale a chiedere di essere sottoposti alle pene che infliggerà loro la volontà di Dio. A costoro si rivolgeva minaccioso il profeta Amos quando diceva: “Guai a coloro che attendono il giorno del Signore! Che sarà per voi il giorno del Signore? Sarà tenebre e non luce” (Am 5,18).
E con ciò stesso sarà distrutta anche la morte. Infatti essendo Cristo la vita stessa, non può esservi nel suo regno la morte che è negazione della vita. Per questo San Paolo dice: “L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte” (1 Cor 15, 26). La distruzione della morte avverrà nella risurrezione, quando il Signore Gesù “trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che ha di sottomettere a sé tutte le cose” (Fil 3,21).

2°- Per Regno di Dio si può intendere la gloria del Paradiso.
Non sembri strana questa interpretazione perché dire regno è dire regime. Ora il miglior regime è quello dove non si fa nulla contro la volontà di chi governa.
Ebbene Dio vuole la salvezza degli uomini: “Egli vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità” (1 Tm 2,4).
Ma questo si avvera in modo perfetto in paradiso, dove nulla contrasterà più la salvezza degli uomini: “Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti gli operatori di iniquità” (Mt 13,41). In questo mondo, invece, molti sono gli impedimenti che ostacolano la salvezza degli uomini.
Pertanto, quando nella preghiera diciamo “venga il tuo Regno”, chiediamo di essere fatti partecipi del Regno celeste e della gloria del Paradiso.
E questo Regno è sommamente desiderabile per tre motivi.
Primo, per la somma giustizia che vi regna, perché lì si avvera quanto ha detto il profeta: “Il tuo popolo sarà tutto di giusti” (Is 60,21).
Mentre quaggiù i buoni sono mescolati coi cattivi, lassù invece non vi sarà nessun peccatore o malvagio.
È desiderabile poi per la perfettissima libertà che lì c’è. Mentre infatti qui in terra non c’è libertà, nonostante che per impulso naturale tutti la desiderino, in cielo vi sarà totale libertà contro ogni sorta di schiavitù: “la creazione stessa attende con impazienza... di essere liberata dalla schiavitù della corruzione” (Rm 8,19.21).
Anzi in Paradiso tutti non soltanto saranno liberi, ma regneranno. Dice infatti l’Apocalisse: “Li hai costituiti per il nostro Dio un regno di sacerdoti e regneranno sopra la terra” (Ap 5,10).
E ne è motivo il fatto che tutti avranno una volontà sempre all’unisono con quella di Dio, in quanto Dio vuole quello che vogliono i santi e questi quello che vuole Dio; sicché la volontà di Dio diventa loro volontà.
Perciò tutti regneranno, perché sarà fatta la volontà di tutti e Dio sarà la corona di tutti: “In quel giorno sarà il Signore degli eserciti una corona di gloria, uno splendido diadema per il resto del suo popolo” (Is 28,5).

Questo regno sarà infine desiderabile per la mirabile abbondanza di beni: “Orecchio non ha sentito, occhio non ha visto che un Dio, fuori dite, abbia fatto tanto per chi confida in lui” (Is 64,3). E ancora: “Egli sazia di beni i tuoi desideri” (Sal 103,5).
Si noti che l’uomo troverà solo in Dio tutti i beni e in una misura tanto più eccellente e perfetta di quanto si possa desiderare in questo mondo.
Vai tu in cerca del piacere? Lo troverai in Dio in sommo grado.
Desideri le ricchezze? Avrai in abbondanza quei beni a cui le ricchezze sono ordinate.
E così si dica di ogni altro bene.
Sant’Agostino dice nelle sue Confessioni: “L’anima quando col peccato si allontana da te va cercando al di fuori di te quella purezza e quella limpidità che si può trovare se non tornando a te”.
3° C’è poi un terzo modo di intendere il Regno di Dio. Talvolta in questo mondo a regnare è il peccato. E questo succede quando l’uomo è disposto a seguire e ad assecondare pienamente l’inclinazione al peccato, mentre S. Paolo ammonisce: “Non regni il peccato nel vostro corpo mortale, sì da sottomettervi ai suoi desideri” (Rm 6,12).
Dio invece deve regnare nel tuo cuore, come dice Isaia: “Sion, regnerà il tuo Dio” (Is 52,7). E questo avviene quando l’uomo è pronto ad obbedire a Dio e ad osservare i suoi comandamenti.
Quando preghiamo che venga il Regno di Dio, noi chiediamo che non regni in noi il peccato, ma Dio.
Questa richiesta ci fa giungere alla beatitudine menzionata da Matteo 5,4: “Beati i miti”.
Infatti, dal momento che l’uomo desidera che Dio sia Signore di tutti, non si vendica da sé delle offese ricevute ma riserva tutto ciò a Dio.
Se infatti ti vendicassi, non chiederesti che venga il Regno di Dio.
Inoltre se tu aspetti il Regno di Dio, cioè la gloria del Paradiso, non devi preoccuparti della perdita delle cose del mondo.
E infine se tu chiedi che in te regni Dio e regni Cristo, dal momento che Cristo è stato mitissimo, anche tu devi essere mite: “Imparate da me, che sono mite ed umile di cuore” (Mt 11,29). E “avete accettato con gioia di essere spogliati delle vostre sostanze, sapendo di possedere beni migliori e più duraturi” (Eb 10,34).

Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra

Il terzo Dono prodotto in noi dallo Spirito Santo è il Dono della Scienza.
Lo Spirito Santo, infatti, non solo produce in noi il Dono del Timore e della Pietà, la quale, come si è detto, è un dolce affetto verso Dio, ma fa sì che l’uomo diventi anche sapiente. Questo chiedeva Davide quando diceva: “Insegnami il senno e la saggezza, perché ho fiducia nei tuoi comandamenti” (Sal 119,66). E questa è la Scienza insegnataci dallo Spirito Santo per la quale l’uomo vive bene.
Ora tra i vari insegnamenti che riguardano la scienza e la sapienza dell’uomo, il più alto è quello che insegna a non confidare nel proprio giudizio, come dice il Libro dei Proverbi: “Non appoggiarti sulla tua intelligenza” (Pr 3,5).
Infatti quelli che presumono nel proprio giudizio al punto da non credere agli altri, ma solo a se stessi, sono sempre trovati e giudicati stolti. Si legge nei Proverbi: “Hai visto un uomo che si crede saggio? È meglio sperare in uno stolto che in lui” (Pr 26,12).
È proprio dell’umiltà l’uomo poi non creda al proprio giudizio: questa infatti ha la sua radice nella sapienza, come si legge in Pr 11,2: “i superbi confidano troppo in se stessi”.
Questo ce lo insegna lo Spirito Santo col Dono della Scienza, affinché non facciamo la nostra volontà ma quella di Dio.
E in forza di questo Dono chiediamo a Dio che si faccia la sua volontà come in cielo così in terra.
In questo si manifesta il Dono della Scienza: perché quando chiediamo a Dio che si faccia la sua volontà, noi ci mettiamo press’a poco nell’atteggiamento di un malato che per guarire chiede al medico qualcosa. E non chiede specificando che cosa vuole, ma si rimette alla sua volontà. Diversamente se facesse solo di sua testa, sarebbe uno stolto.

Così anche noi dobbiamo chiedere Dio nient’altro al di fuori del compimento della sua volontà, e cioè che la sua volontà si compia in noi.
Solo allora infatti il cuore dell’uomo è retto: quando concorda con la volontà divina.
Così ha fatto Cristo: “Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato” (Gv 6,38).
Cristo infatti, in quanto è Dio, ha la medesima volontà del Padre.
Ma, in quanto uomo, ha una volontà distinta da quella del Padre. E secondo questa volontà dice di non fare la volontà propria ma quella del Padre. E perciò ci insegna a pregare e a chiedere: “Sia fatta la tua volontà”.
Ma qual è il significato di questa domanda? Non dice forse il salmista che “tutto ciò che vuole il Signore lo compie in cielo e sulla terra” (Sal 135,6)?
Se Egli fa tutto quello che vuole sia in cielo che in terra, quale senso può avere il chiedere che si faccia la sua volontà?
Per capire questo, bisogna sapere che Dio nei nostri riguardi vuole tre cose. E noi chiediamo che queste tre cose si realizzino.
La prima cosa che Dio vuole da noi, è che noi possediamo la vita eterna. Chi fa una cosa per un determinato scopo, vuole che quella cosa raggiunga lo scopo. Ora Dio ha fatto l’uomo, ma non senza uno scopo, per il nulla. Dice il Salmo: “Forse che hai creato invano tutti i figli degli uomini?” (Sal 88,48).
Ebbene, Egli ha creato gli uomini per un fine: non però per le voluttà dei sensi, perché queste le possiedono anche gli animali, ma perché possiedano la vita eterna.
Il Signore dunque vuole che l’uomo abbia la vita eterna.
Ora, quando un essere consegue il fine per cui è stato fatto, si dice che si salva, e quando non lo consegue si dice che si perde.
E siccome Dio ha fatto l’uomo per la vita eterna, questi si salva quando la consegue. E questo Dio vuole: “Questa infatti è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna” (Gv 6,40).
Questa volontà è già compiuta negli Angeli e nei santi che sono nella Patria celeste perché vedono Dio e fruiscono di lui.
Ma noi desideriamo che la volontà di Dio si compia in noi che siamo in terra così come si è compiuta nei santi in cielo. E questo chiediamo quando diciamo: “Sia fatta la tua volontà”.
La seconda cosa che Dio vuole da noi, è che osserviamo i suoi comandamenti. Chi infatti desidera una cosa non solo vuole ciò che desidera ma anche i mezzi per conseguirla.
Anche il medico, che vuole la guarigione del malato, vuole nello stesso tempo la dieta, le medicine e quanto altro è necessario per la sua salute.
Ebbene, come Dio vuole che noi conseguiamo la vita eterna, così vuole anche che facciamo quanto è necessario per conseguirla, e la conseguiamo osservando i suoi comandamenti. Dice il Signore: “Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti” (Mt 19,17). E S. Paolo: “Sia razionale il vostro culto... per ravvisare quale sia la volontà di Dio, buona, gradevole e perfetta” (Rm 12,l 2).
Buona perché è utile, in quanto, come dice Isaia: “Io sono il Signore tuo Dio che ti insegno per il tuo bene, che ti guido per la strada su cui devi andare” (Is 48,17).
Gradevole perché, anche se non è piacevole per gli altri, è dilettevole per chi ama Dio. Si legge nel Salmo: “Una luce si è levata per il giusto, gioia per i retti di cuore” (Sal 97,11).
Perfetta perché è bella spiritualmente, in quanto il Signore ci vuole “perfetti com’è perfetto il Padre celeste” (Mt 5,47).
Perciò quando diciamo “sia fatta la tua volontà”, noi chiediamo di poter osservare i comandamenti di Dio.
Ma questa volontà di Dio mentre si compie nei giusti, che vengono indicati con la parola cielo, non si compie ancora nei peccatori, indicati con la parola terra. Pertanto chiediamo che si compia la volontà di Dio in terra, ossia nei peccatori, come in cielo, ossia nei giusti.
Anche dalla terminologia adoperata ci viene un insegnamento. Non dice: fa’, e neppure facciamo; ma sia fatta la tua volontà, perché per avere la vita eterna sono necessarie due cose: la grazia di Dio e la volontà dell’uomo.
Infatti sebbene Dio abbia creato l’uomo senza l’uomo, tuttavia non lo giustifica senza la sua cooperazione. Dice Sant’Agostino: “Chi ha creato te senza di te, non giustificherà te senza di te”, perché egli vuole che l’uomo cooperi. “Convertitevi a me e io mi rivolgerò a voi” (Zc 1,2); e San Paolo: “Per grazia di Dio sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana” (1 Cor 15,10).
Non presumere perciò di te stesso ma confida nella grazia di Dio, e non essere negligente, ma impegnati.
Per questo non si dice facciamo, affinché non sembri che nulla operi la grazia di Dio, e neppure fa’, affinché non sembri che nulla operino la nostra volontà e il nostro sforzo, ma sia fatta, cioè per la grazia di Dio e per l’impegno e lo sforzo nostro.

La terza cosa che Dio vuole per noi è che siamo restituiti allo stato e alla dignità in cui fu creato il primo uomo: stato e dignità così grandi, che il suo spirito e la sua anima non provavano nessuna ribellione da parte della carne e della sensualità.
Finché la sua anima rimase soggetta a Dio, anche il corpo rimase così soggetto allo spirito da non sperimentare alcuna corruzione, né di morte, né di malattia, né di altre passioni.
Da quando invece lo spirito e l’anima, che era intermediaria tra Dio e la carne, col peccato si è ribellata a Dio, anche il corpo si è ribellato all’anima e da allora cominciò a sperimentare la morte e la malattia e una continua ribellione della sensualità allo spirito. Descrivendo questa condizione S. Paolo dice: “Nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente” (Rm 7,23) e “la carne ha desideri contrari allo spirito e lo spirito ha desideri contrari alla carne” (Gal 5,17).
Vi è dunque una continua lotta tra la carne e lo spirito, e l’uomo con il peccato va sempre più peggiorando. È pertanto volontà di Dio che l’uomo venga restituito allo stato primitivo, in modo che nella carne non ci sia nulla che contrasti lo spirito: “Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione” (1 Ts 4,3).
Questa volontà di Dio non potrà realizzarsi in questa vita, ma solo nella risurrezione dei santi, quando il corpo risorgerà glorificato e sarà incorruttibile e nobilissimo, perché “si semina ignobile e risorge glorioso” (1 Cor 15,43).
Essa, quanto allo spirito, si compirà nei giusti mediante la giustizia, la conoscenza e la vita.
E perciò, quando diciamo “sia fatta la tua volontà”, preghiamo che essa si compia anche nella carne, dove con la parola cielo intendiamo lo spirito e con terra intendiamo la carne.
Questo allora il significato: “Sia fatta la tua volontà”, così in terra, ossia nella nostra carne, come in cielo, ossia nel nostro spirito mediante la giustizia.
Grazie a questa invocazione, noi giungiamo a quella beatitudine del pianto di cui ha parlato il Signore: “Beati gli afflitti perché saranno consolati” (Mt 5,4).
E ciò si verifica in ciascuna delle tre spiegazioni.
In base alla prima: poiché desideriamo la vita eterna, il vederla differita ci è causa di afflizione, come dice anche il Salmo: “Ahimè, è stato prolungato il mio soggiorno” (Sal 120,5).
Questo desiderio del cielo nei santi è stato talvolta tanto grande da far loro desiderare la morte, che di per sé andrebbe evitata. Dice S. Paolo: “Siamo pieni di fiducia e preferiamo andare in esilio dal corpo ed abitare presso il Signore” (2 Cor 5,8).
Ma anche in base alla seconda interpretazione, quelli che osservano i comandamenti di Dio sono anch’essi nell’afflizione, perché per quanto essi siano dolci all’anima, sono però amari per la carne, che è continuamente macerata. Dice il Salmo: “nell’andare, se ne va e piange” quanto alla carne, “ma nel tornare, viene con giubilo” quanto all’anima (Sal 126,6).
Ugualmente in base alla terza spiegazione, dalla lotta che c’è continuamente tra la carne e lo spirito, ne deriva l’afflizione.
È impossibile infatti che l’anima non rimanga ferita dalla carne, almeno per quanto riguarda i peccati veniali.
E, dovendoli espiare, è nel pianto. Dice il salmista: “Ogni notte inondo di pianto il mio giaciglio”, cioè le oscurità del peccato, “irroro di lacrime il mio letto” (Sal 6,7), cioè la mia coscienza.
E coloro che in questo modo piangono, giungono alla Patria, alla quale ci conduca Dio.



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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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03/07/2012 16:00
 
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Spiritualità domenicana

Commento di San Tommaso d’Aquino al Padre nostro


Dacci oggi il nostro pane quotidiano

La domanda è formulata in virtù del dono della fortezza

Capita molte volte che una persona divenga timida per la sua grande scienza e sapienza e che perciò le sia necessaria la fortezza del cuore perché non si abbatta nelle difficoltà. Ebbene, questa Fortezza la infonde lo Spirito Santo, il quale “dà forza allo stanco e moltiplica il vigore allo spossato” (Is 40,29) e di cui dice Ezechiele: “uno spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi” (Ez 2,2).
Infusa dallo Spirito Santo, questa Fortezza fa sì che il cuore dell’uomo non si deprima per paura delle prove, ma abbia ferma fiducia che quanto gli è necessario gli verrà dato da Dio. Ecco perché lo Spirito Santo, che dona tale Fortezza, ci insegna a chiedere a Dio il nostro pane. E perciò si chiama “Spirito di Fortezza”.

Nelle prime tre domande si chiedono beni spirituali i quali, sebbene abbiano inizio in questo mondo, avranno il loro conseguimento perfetto solo nella vita eterna. Quando dunque diciamo “sia santificato il nome di Dio”, noi chiediamo che la santità di Dio venga riconosciuta; quando diciamo “venga il tuo Regno”, chiediamo di venire resi partecipi della vita eterna; quando diciamo “sia fatta la tua volontà”, chiediamo che la sua volontà abbia il suo compimento in noi.
Tutte cose queste che, pur cominciando a realizzarsi in questo mondo, non possono avere la loro piena realizzazione che nella vita eterna.
Era perciò necessario che chiedessimo a Dio alcune cose che si possono avere in modo perfetto anche nella vita presente.
A tal fine lo Spirito Santo ci ha insegnato a chiedere le cose necessarie alla vita presente, che possiamo avere pienamente in questo mondo, anche per dimostrarci che pure i beni temporali ci vengono dati da Dio. Ed Egli fa questo facendoci dire: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”.

Con le parole “dacci oggi il nostro pane quotidiano” lo Spirito Santo ci insegna ad evitare cinque peccati nei quali siamo indotti dal desiderio delle cose temporali.
1 Il peccato di chi, spinto da smodata bramosia, cerca ciò che è al di là del suo stato e della sua condizione, non contento di quanto gli spetta. Per esempio, uno che è soldato, non vuole abiti da soldato, ma da conte; uno che è chierico, non vuole vestiti da chierico, ma da vescovo.
Questo difetto distoglie gli uomini dai beni spirituali, perché il loro desiderio è troppo legato ai beni temporali.
Il Signore ci ha insegnato a evitare questo difetto chiedendoci di domandare solo il pane, cioè l’indispensabile alla vita presente, secondo la condizione di ciascuno. Non ci insegnò, quindi, a chiedere cose delicate, scelte e raffinate, ma il pane, senza del quale la vita dell’uomo non può sussistere ed è indispensabile per tutti, come dice il Siracide: “indispensabili alla vita sono l’acqua, il pane, il vestito” (Sir 29,28).
Per questo S. Paolo esorta: “Quando dunque abbiamo di che mangiare e di che coprirci, contentiamoci di questo” (1 Tm 6,8).

2 - Un secondo peccato è quello di coloro che, per acquisire beni temporali, danneggiano gli altri e li defraudano. E questo è un vizio tanto più pericoloso, quanto più è difficile che il maltolto venga restituito. Dice S. Agostino che “i peccati non vengono rimessi se non si restituisce il maltolto” (Ep. 153,6,20) e S. Gregorio “i ladri mangiano un pane di iniquità”. Ebbene ci viene insegnato a evitare questo vizio, facendoci chiedere il pane “nostro”, non quello degli altri. I ladri, infatti, non mangiano il proprio pane ma quello degli altri.

3 - Un terzo vizio è il soverchio affannarsi.
Ci sono persone che non sono mai contente di quello che hanno, ma vorrebbero avere sempre di più: cosa questa certamente sregolata, perché regola del desiderio è la necessità. Il Saggio chiedeva al Signore: “Non darmi né povertà né ricchezza, ma fammi avere il cibo necessario, perché, una volta sazio, io non ti rinneghi” (Pr 30,8 9). Gesù ci ha insegnato a evitare questo vizio facendoci chiedere il nostro pane “quotidiano”, cioè quello che basta per un giorno o per un solo periodo.

4 - Un quarto vizio è l’ingordigia.
Ci sono persone che vogliono consumare in un solo giorno quanto basterebbe loro per molti giorni. Costoro non chiedono davvero il pane quotidiano, ma il pane di dieci giorni.
E poiché per procurarselo spendono troppo, succede che spendano quanto possiedono. La Scrittura dice: “L’ubriacone e il ghiottone impoveriranno” (Pr 23,21) e ancora: “Un operaio ubriacone non arricchirà” (Sir 19,1).

5 - Il quinto vizio è l’ingratitudine.
Chi ha ricchezze facilmente si insuperbisce e non riconosce che tutto quello che ha gli viene da Dio. Questo è un male molto grande, perché tutti i beni che abbiamo, siano essi spirituali o materiali, ci provengono da Dio, come afferma giustamente il re Davide: “Tutto è tuo, Signore... tutto proviene da te” (1 Cr 29,11 14).

Per rimuovere questo vizio ci è perciò stato insegnato a dire: “Dacci il nostro pane”, affinché impariamo che tutte le nostre cose sono da Dio.
E di questo abbiamo anche una prova. Accade talvolta che qualcuno possieda molte ricchezze, eppure da esse non tragga alcuna utilità, ma anzi soltanto danno spirituale e temporale. Alcuni sono infatti periti proprio a causa delle loro ricchezze. Racconta infatti il Qoelet: “Un brutto malanno ho visto sotto il sole: ricchezze custodite dal padrone a proprio danno. Se ne vanno in fumo queste ricchezze per un cattivo affare e il figlio che gli è nato non ha nulla nelle mani” (Qo 5,12 13).
E ancora: “Un altro male ho visto sotto il sole, che pesa molto sopra gli uomini. A uno Dio ha concesso beni, ricchezze, onori e non gli manca niente di quanto desidera; ma Dio non gli concede di poterne godere, perché è un estraneo che ne gode” (Qo 6,1).
Dobbiamo perciò pregare che le nostre ricchezze tornino a nostra utilità. Qquesto noi chiediamo quando diciamo: “Dacci il nostro pane” vale a dire: “fà che le nostre ricchezze ci siano utili”.
Eviteremo così che capiti anche a noi quanto si legge: “Il suo cibo gli si guasterà nelle viscere, veleno d’aspidi gli sarà nell’intestino. I beni divorati ora rivomita, Dio glieli caccia fuori dal ventre” (Gb 20,14 15).

6 - Un altro vizio troviamo poi nelle cose del mondo, l’eccessiva preoccupazione.
Ci sono alcuni, infatti, che già da oggi si preoccupano di ciò che potrà succedere tra un anno e vi pensano continuamente, sempre inquieti, contrariamente a quanto esorta il Signore: “Non affannatevi dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?” (Mt 6,31).
Per questo il Signore ci insegna a chiedere che ci sia dato oggi il nostro pane, ossia quanto ci è necessario al presente.

Ma ci sono anche altre due specie di pane: quello sacramentale e il pane della Parola di Dio (S. Cipriano, De oratione dominica).
Ebbene, noi chiediamo che il nostro Pane sacramentale, che la Chiesa consacra ogni giorno, perché come lo riceviamo nel Sacramento, così ci giovi per la nostra salvezza. “Io sono il pane disceso dal cielo. - dice Gesù - Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno” (Gv 6,51). Ma S. Paolo avverte: “Chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna” (1 Cor 11, 29).

L’altro pane è la Parola di Dio, dato che “non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4,4).
Quando gli chiediamo di darci il pane, chiediamo perciò a Dio che ci dia la sua parola.
Da essa proviene quella beatitudine promessa a chi ha fame di giustizia. Infatti, una volta ottenuti i beni spirituali, li desideriamo ancora di più. Da questo desiderio nasce la fame, e dalla fame quella sazietà della vita eterna, alla quale noi tendiamo.

Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori

Vi sono persone che possiedono grande sapienza e fortezza, ma confidano troppo nelle proprie forze e pertanto, non comportandosi saggiamente in quello che fanno, non portano a termine i loro propositi e non tengono conto dell’avvertimento: “Pondera bene i tuoi disegni, consigliandoti” (Pr 20,18).
Bisogna perciò che lo Spirito Santo, che elargisce il Dono di Fortezza, dia anche quello di Consiglio, perché ogni buon consiglio riguardante la salvezza degli uomini viene dallo Spirito Santo.
Il dono del consiglio è indispensabile all’uomo quando è nella prova. Come egli ha bisogno di ricorrere al consiglio del medico quando è ammalato, così quando è spiritualmente infermo a causa del peccato, per guarirne deve chiedere consiglio.

Che il dono del consiglio sia necessario al peccatore, lo dimostra anche Daniele quando scrive: “Accetta il mio consiglio: sconta i tuoi peccati con l’elemosina e le tue iniquità con atti di misericordia verso gli afflitti” (Dn 4,24).
Ottimo consiglio contro i peccati è quindi quello di fare elemosina e di usare misericordia. Per questo lo Spirito Santo insegna ai peccatori di chiedere nella preghiera: “Rimetti a noi i nostri debiti”.
Nei confronti di Dio siamo debitori dei suoi diritti quando lo defraudiamo. È diritto di Dio che noi facciamo la sua volontà, preferendola alla nostra. Quando noi preferiamo la nostra volontà alla sua, lo defraudiamo di un suo diritto, e questo è peccato.

I peccati sono allora nostri debiti nei riguardi di Dio. Di essi lo Spirito Santo ci consiglia di chiedere il perdono. E noi lo facciamo dicendo: “Rimetti a noi i nostri debiti”.
Su questa richiesta possiamo farci tre domande:
1) per quali ragioni si faccia tale richiesta;
2) quando si adempia;
3) che cosa si esige da parte nostra perché si adempia. Ed ecco le risposte.
Da questa richiesta noi possiamo raccogliere due ammaestramenti che sono necessari agli uomini in questa vita.
Il primo, è che gli uomini devono mantenersi sempre nel timore e nell’umiltà.
Ci furono infatti alcuni tanto presuntuosi da insegnare che l’uomo è in grado di vivere in questo mondo riuscendo con le sue sole forze a evitare il peccato. Ma questo non fu mai concesso ad alcuno, tranne a Cristo, che possedette lo Spirito senza misura (Gv 3,34), e alla beata Vergine, che fu piena di grazia e nella quale non ci fu alcun peccato, come dice Agostino: “Quando si parla di peccati non voglio che ella sia neppure nominata” (De natura et gratia 36,42).
Ma a nessun altro santo fu dato di non incorrere almeno in colpe veniali, per cui S. Giovanni poté scrivere: “Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi” (1 Gv 1,8). E ne è conferma anche la presente domanda. Sicché ovviamente, conviene a tutti i santi e a tutti gli uomini recitare il Pater noster, dove appunto si dice: “Rimetti a noi i nostri debiti”, riconoscendo così e confessando di essere debitori e di conseguenza peccatori.
Se quindi tu sei peccatore, devi temere e umiliarti.

L’altro ammaestramento è l’esortazione a vivere sempre nella speranza, perché, quantunque peccatori, non dobbiamo disperare, per evitare che la disperazione non ci spinga a commettere altri e più gravi peccati, come accadde ai pagani dei quali dice l’Apostolo: “Presi dalla disperazione, si abbandonarono alla dissolutezza, commettendo ogni sorta di impurità con avidità insaziabile” (Ef 4,19).
Perciò è molto utile sperare sempre, perché, per quanto sia peccatore, l’uomo deve avere fiducia che, se si pente perfettamente, Dio gli perdonerà. E questa speranza si rafforza in noi quando chiediamo: “Rimetti a noi i nostri debiti”.

Questa speranza fu negata dai Novaziani (eretici del 3° secolo), i quali insegnavano che se uno peccava anche una sola volta dopo il Battesimo, non poteva mai più ottenere perdono. Ma ciò non è vero, perché Cristo ha detto: “Io ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato” (Mt 18,32). Perciò otterrai da Dio perdono da qualsiasi peccato se, pentito, glielo chiederai.
Da tale invocazione nascono dunque il timore e la speranza, dal momento che tutti i peccatori, purché contriti e confessati, ottengono misericordia. Ecco perché questa invocazione era necessaria.

Quanto alla seconda domanda, si deve sapere che nel peccato bisogna distinguere due cose: la colpa con la quale si offende Dio e la pena dovuta per la colpa.
Ebbene, la colpa è rimessa per la contrizione, congiunta col proposito di confessarsi e di soddisfare, come dice anche il salmista: “Ho detto: confesserò al Signore le mie colpe, e tu hai rimesso la malizia del mio peccato” (Sal 31,5). Non c’è quindi motivo di disperare, dato che per la remissione della colpa è sufficiente la contrizione col proposito di confessarsi.

Ma qualcuno potrebbe obiettare: se per ottenere il perdono della colpa basta la contrizione, a che cosa serve il sacerdote? Al che si risponde, che per la contrizione Dio rimette sì la colpa, ma la pena eterna viene tramutata in temporale; per cui il peccatore resta ancora obbligato a scontare questa pena. Se perciò egli morisse senza confessione, non per averla disprezzata ma per non aver avuto modo di farla, andrebbe in purgatorio, dove la pena, al dire di Agostino, è grandissima.
Quando dunque tu ti confessi, il sacerdote ti assolve da questa pena per il potere delle chiavi perché a lui ti sottometti confessandoti. Cristo infatti disse: “Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi” (Gv 20,22 23).
Pertanto quando uno si confessa una volta, gli viene condonata parte di questa pena, e così quando si confessa di nuovo; di modo che si potrebbe confessare tante volte fino a che non gli è rimessa completamente la pena.

I successori degli Apostoli hanno escogitato anche un’altra maniera per rimettere questa pena, ossia col beneficio delle indulgenze, le quali, per quanti vivono nella carità, hanno valore nella misura e alle condizioni in cui sono concesse.
Che il papa possa concederle è fuori dubbio. Molti fecero infatti numerose opere buone, senza che essi avessero peccato, almeno mortalmente. Le loro opere buone le fecero perciò a beneficio della Chiesa. Similmente, il merito di Cristo e quello della Beata Vergine costituiscono un tesoro comune.
Di conseguenza, il Sommo Pontefice, e colui al quale egli ne abbia dato facoltà, può dispensare tale tesoro quando lo crede necessario.
In tal modo i peccati vengono perdonati quanto alla colpa dalla contrizione, quanto alla pena con la confessione e per mezzo delle indulgenze.

Quanto alla terza domanda, va notato che da parte nostra si esige che noi perdoniamo al nostro prossimo le offese da lui fatteci. Per questo diciamo: “come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Diversamente Dio non ci perdonerebbe. Sta scritto infatti: “Perdona l’offesa al tuo prossimo e allora per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati. Se qualcuno conserva la collera verso un altro uomo, come oserà chiedere la guarigione al Signore?” (Sir 28,2 3).
E ancora: “Perdonate e vi sarà perdonato” (Lc 6, 37). Ed è questo il motivo per cui soltanto in questa domanda è posta la condizione “come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori”.

Se quindi non perdoni non sarai perdonato.
Potresti però obiettare: io pronuncerò la prima parte della preghiera, ossia “rimetti a noi i nostri debiti”, omettendo la seconda “come noi li rimettiamo ai nostri debitori”.
Ma credi forse di poter ingannare Cristo? Lui, che compose questa preghiera, ben la ricorda e quindi non potrai ingannarlo. Quello che dici con la bocca, cerca perciò di adempierlo col cuore.

Ma ci si può domandare se chi non si propone di perdonare al suo prossimo, debba dire ugualmente le parole “come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Sembrerebbe di no, perché in tal caso pregherebbe che i suoi debiti non gli vengano perdonati.
Si deve invece rispondere che deve dirle, perché egli non prega a nome proprio, ma a nome della Chiesa che non si inganna.
Per questo la domanda viene fatta al plurale.

Bisogna poi anche considerare che il perdono agli altri può venire accordato in due modi.
Uno è quello dei perfetti e si ha quando è lo stesso offeso che va a cercare chi lo ha offeso, secondo il consiglio del salmista: “Cerca la pace e perseguila” (Sal 33,15).
L’altro è quello comune a tutti e al quale tutti siamo tenuti, e consiste nel concedere il perdono a chi lo chiede, secondo quanto dice il Siracide: “Perdona l’offesa al tuo prossimo e allora per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati” (Sir 28,2).
A questa domanda si connette la beatitudine beati i misericordiosi. Perché è la misericordia che ci fa aver pietà del nostro prossimo.



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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Spiritualità domenicana

Commento di San Tommaso d’Aquino al Padre nostro




E non ci indurre in tentazione

Alcuni peccano e poi, desiderando di ottenere il perdono dei loro peccati, li confessano e se ne pentono, senza però impegnarsi a fondo, come dovrebbero, per non ricadervi.
Ma non è davvero bello che uno, da una parte, pianga i propri peccati quando si pente, e dall’altra accumuli motivi di pianto tornando a peccare. Infatti sta scritto: “Lavatevi, purificatevi, togliete il male dalle vostre azioni, dalla mia vista. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene” (Is 1,16).
Per questo motivo Cristo, mentre nella precedente domanda ci insegnava a chiedere perdono dei peccati, in questa ci insegna a chiedere di poterli evitare, ossia di non essere indotti nella tentazione per la quale scivoliamo nel peccato, e ci fa dire: “Non ci indurre in tentazione”.

A proposito di questa domanda, ci poniamo tre interrogativi:
1) che cos’è la tentazione,
2) come e da chi l’uomo viene tentato,
3) come viene liberato dalla tentazione.

Quanto al primo interrogativo, diciamo che tentare non è altro che saggiare o mettere alla prova, sicché tentare l’uomo vuol dire provare la sua virtù. Il che può compiersi in due maniere, secondo le due esigenze della virtù dell’uomo, che sono: operare nel bene, ossia comportarsi bene, ed evitare il male, secondo il monito del salmo: “Stà lontano dal male e fa’ il bene” (Sal 33,15).
La virtù dell’uomo viene pertanto provata alle volte quanto al bene da fare, e altre volte circa il male da evitare.
Nel primo caso, l’uomo è messo alla prova affinché si veda se egli è pronto al bene; e se sarai trovato pronto al bene vuol dire che la tua virtù è grande. Ebbene, qualche volta Dio saggia l’uomo in questo modo, non perché egli non conosca la sua virtù, ma per far sì che tutti la conoscano e sia a tutti di buon esempio.
Fu a questo scopo che egli tentò Abramo e Giobbe; ed è con questa intenzione che egli manda spesso le tribolazioni ai giusti, affinché cioè, sopportandole con pazienza, appaia la loro virtù e facciano maggiore progresso. Dice infatti il Deuteronomio: “Il Signore vostro Dio vi mette alla prova per sapere se amate il Signore vostro Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima” (Dt 13,4).
Risulta perciò chiaro che Dio tenta incitando al bene.

Nell’altro caso, la virtù dell’uomo viene messa a prova dall’istigazione al male.
Se egli resiste e non acconsente alla tentazione, la sua virtù è grande.
Se invece soccombe, la sua virtù è nulla. Ma in questa maniera nessuno è tentato da Dio, perché egli, come dice Giacomo, “non tenta nessuno al male” (Gc 1,13).

In risposta al secondo interrogativo (come e da chi l’uomo viene tentato), si noti che l’uomo viene tentato al male in tre modi:
dalla propria carne,
dal diavolo
e dal mondo.
Dalla carne viene tentato in due maniere.
La carne infatti istiga al male, perché ricerca sempre i propri piaceri nei quali, trattandosi di piaceri carnali, spesso c’è il peccato per il fatto che chi si lascia assorbire da essi trascura quelli dello spirito. Dice al riguardo S. Giacomo: “Ciascuno è tentato dalla propria concupiscenza, che lo attrae e lo seduce, poi la concupiscenza concepisce e genera il peccato” (Gc 1,14).

La carne poi tenta distogliendo l’uomo dal bene. Mentre infatti lo spirito, per quanto dipende da lui, si diletta sempre dei beni spirituali, la carne col suo peso gli è di impaccio, perché “un corpo corruttibile appesantisce l’anima” (Sap 9,15).
S. Paolo scrive in proposito: “Acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra” (Rm 7,22 23).
E questa tentazione della carne è molto grave perché questo nostro nemico, cioè la carne, è congiunto a noi; e, come dice Boezio, “non c’è per noi peste più nociva di un nemico che sia della nostra famiglia” (De consolatione philosophiae III,5).
Contro la carne perciò si deve vigilare: “Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione” (Mt 26,41).

A sua volta, il diavolo tenta con estrema violenza.
Una volta infatti che si abbia vinta la carne, si scatena questo altro nostro nemico, il diavolo, contro il quale dobbiamo sostenere una grande battaglia: “La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti” (Ef 6,12).
Per questo satana è detto espressamente il tentatore (Mt 4,3; I Ts 3,5).

Il diavolo nel tentare usa molta astuzia.
Come un abile capitano che assedia una fortezza, prima studia il punto debole della persona che vuol far cadere e poi la tenta là dove la scorge più vulnerabile.
Perciò una volta che gli uomini hanno resa inoffensiva la propria carne, Satana li tenta in quei vizi verso i quali sono più inclinati, quali l’ira, la superbia ed altri vizi spirituali. Dice S. Pietro: “Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare” (1 Pt 5,8).

Quando poi egli tenta, mette in atto due espedienti.
Da principio non propone subito alla persona tentata un oggetto palesemente cattivo, ma qualcosa che abbia l’apparenza di bene, per stornarla inizialmente in tal modo dal suo proposito fondamentale e poterla poi in seguito indurre più facilmente al peccato, una volta che è riuscito a distoglierla sia pure di poco dal bene: in altre parole, “Satana si maschera da angelo di luce” (2 Cor 11,14).
In seguito poi, quando l’ha indotta al peccato, la lega talmente alla colpa da impedirle di distaccarsene, perché, al dire di Giobbe, “i nervi delle sue cosce si intrecciano saldi” (Gb 40,17).
Cosicché due cose fa il diavolo: prima inganna e poi trattiene nel peccato chi ha ingannato.

Il terzo tentatore è il mondo, il quale tenta anch’esso in due maniere.
Prima di tutto con un eccessivo e smoderato desiderio dei beni temporali, perché come dice l’Apostolo: “L’attaccamento al denaro è la radice di tutti i mali” (1 Tm 6,10).
Servendosi dei persecutori e dei tiranni, tenta poi anche incutendo terrore, per cui dice il Libro di Giobbe: “Anche noi siamo avvolti nelle tenebre” (Gb 37,19) e S. Paolo aggiunge: “Tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati” (2 Tm 3,12). Ma il Signore ci rassicura: “Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima” (Mt 10,28).
Dalle cose dette risulta perciò chiaro che cos’è la tentazione e come e da chi l’uomo viene tentato.

Rimane da vedere in qual modo l’uomo venga liberato dalla tentazione.
Su quest’ultimo punto va notato che Cristo ci insegna a chiedere non di non essere tentati, ma di non essere indotti nella tentazione.
Se infatti l’uomo vince la tentazione merita la corona; ed è per questo che Giacomo ci ammonisce: “Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove” (Gc 1,2), e il Siracide aggiunge: “Figlio, se ti presenti per servire il Signore, preparati alla tentazione” (Sir 2,1).
Ecco perché ci viene insegnato a chiedere di non essere indotti nella tentazione prestandole consenso; e S. Paolo commenta: “Nessuna tentazione vi ha finora sorpresi se non umana; infatti Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla” (1 Cor 10,12).
Essere tentati è infatti cosa umana, ma consentirvi è cosa diabolica.

Forse Dio induce al male dal momento che ci fa dire: “non ci indurre in tentazione”?
Rispondo che si dice che Dio induce al male nel senso che lo permette, in quanto, cioè, a causa dei suoi molti peccati precedenti, sottrae all’uomo la sua grazia, tolta la quale, egli scivola nel peccato. Per questo noi diciamo col salmista “Non abbandonarmi quando declinano le mie forze” (Sal 70,9).
Dio però sostiene l’uomo, perché non cada in tentazione, mediante il fervore della carità che, per quanto sia poca, è sufficiente a preservarci da qualsiasi peccato. Infatti che “le grandi acque non possono spegnere l’amore” (Ct 8,7).

Lo sostiene inoltre col lume dell’intelletto, col quale ci istruisce sulle cose da fare; poiché, come dice il Filosofo: “Ogni peccatore è un ignorante”.
E, siccome Dio per bocca sua aveva promesso: “Ti farò saggio, t’indicherò la via da seguire” (Sal 31,8), questo dono Davide lo chiedeva invocandolo: “Signore mio Dio, conserva la luce ai miei occhi, perché non mi sorprenda il sonno della morte, perché il mio nemico non dica: l’ho vinto” (Sal 12,4 5).
Noi otteniamo tutto questo col Dono dell’Intelletto, mediante il quale, se non consentiamo alla tentazione, conserviamo un cuore puro, del quale viene detto “Beati i puri di cuore” (Mt 5,8).
In questa maniera perverremo alla visione beatifica, alla quale ci faccia giungere il Signore.

Ma liberaci dal male. Amen

Nelle due domande precedenti il Signore ci ha insegnato a chiedere il perdono dei peccati e il modo di evitare le tentazioni.
Qui invece ci insegna a chiedere di essere preservati dal male.
Tale richiesta è generale, come fa osservare Agostino, perché riguarda tutti i mali, sia i peccati che le infermità, le avversità e le afflizioni.
Ma poiché del peccato e delle tentazioni si è già detto, ora non ci resta che parlare degli altri mali, ossia delle avversità e tribolazioni di questo mondo, dalle quali Dio ci libera in quattro maniere.
1 - Impedendo che ci colpisca l’afflizione. Ma capita di rado che i santi in questo mondo non siano afflitti, perché “tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati” (2 Tm 3,12).
A qualcuno tuttavia Dio concede alle volte di non essere afflitto dal male, quando cioè lo sa impotente e incapace di sopportarlo, alla stessa maniera del medico, il quale non somministra medicine troppo forti a un malato debole. A questo modo di agire di Dio allude l’Apocalisse quando dice: “Ho aperto davanti a te una porta che nessuno può chiudere perché hai poca forza” (Ap 3,8; Volgata).
In cielo invece sarà comune a tutti i beati l’esenzione da ogni afflizione. Si dice infatti che il Signore: “da sei tribolazioni ti libererà - quelle cioè della vita presente, che suole distinguersi in sei età - e alla settima non li toccherà il male” (Gb 5,19), e ancora, che essi: “non avranno più fame, né avranno più sete, né li colpirà il sole né arsura di sorta” (Ap 7,16).

2 - Consolandoci quando le afflizioni sopraggiungono.
Se infatti Dio non lo consolasse, l’uomo non potrebbe resistere. L’Apostolo scriveva infatti di sé: “La tribolazione che ci è capitata in Asia ci ha colpiti oltre misura, al di là delle nostre forze” (2 Cor 1,8), ma aggiungeva: “Dio che consola gli afflitti ci ha consolati” (2 Cor 7,6); e anche il salmista poteva dire di sé: “Quando ero oppresso dall’angoscia, il tuo conforto mi ha consolato” (Sal 93,19).

3 - Concedendo agli afflitti tanti beni da far loro dimenticare i mali, sì da far dire a Tobia “Tu non ti diletti delle nostre afflizioni, ma dopo la tempesta fai tornare la tranquillità e dopo le lacrime e il pianto infondi la gioia” (Tb 3,22).
Non sono dunque da temere le afflizioni e le tribolazioni di questo mondo perché sono facilmente tollerabili, sia per la consolazione che è loro unita, sia per la loro breve durata, come dice l’Apostolo: “Il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione, ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria” (2 Cor 4,17). Per esse si perviene cioè alla vita eterna.

4 - Trasformando in bene tentazioni e tribolazioni.
È per questo che non si dice “liberaci dalla tribolazione”, ma “dal male”, perché per i santi le tribolazioni servono alla loro corona, e quindi essi se ne gloriano, come se ne gloriava S. Paolo quando diceva: “Noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude” (Rm 5,3 5).
E Tobia diceva: “Benedetto sia il tuo nome, Dio dei nostri padri... che nel tempo della tribolazione perdoni i peccati” (Tb 3,13).
Dio, dunque, libera l’uomo dal male della tribolazione quando la volge in bene: e ciò è segno di massima sapienza, perché è proprio del sapiente ordinare il male al bene. E questo si ottiene mediante la pazienza che si esercita nelle tribolazioni. Mentre infatti tutte le altre virtù si servono dei beni dell’uomo, la pazienza usa invece dei mali, e perciò essa è necessaria solo nei mali, ossia nelle tribolazioni. Si legge infatti nel Libro dei Proverbi: “Dalla pazienza si conosce la saggezza dell’uomo” (Pr 19,11).

Questo lo Spirito Santo, mediante il Dono della Sapienza, ci fa chiedere: di poter pervenire a quella beatitudine alla quale ci ordina la pace, perché è per mezzo della pazienza che noi otteniamo la pace, sia nelle prosperità che nelle avversità. E si comprende così perché i pacifici siano detti figli di Dio, ossia simili a Lui, perché, come a Dio, anche a loro nulla può nuocere, né le cose prospere né quelle avverse. Perciò è detto: “beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio” (Mt 5,9).
Chiudiamo quindi la nostra preghiera dicendo: Amen, quasi come sigillo di conferma di tutte le nostre domande.

Sintesi conclusiva

Volendo riassumere in breve quanto è stato detto sul Pater noster, bisogna rilevare che nella Preghiera del Signore sono contenute tutte le cose da desiderare e tutte quelle da fuggire.
Tra le cose da desiderare, si desidera di più quella che più si ama, cioè Dio. Ecco perché chiediamo per prima cosa la gloria di Dio dicendo “sia santificato il tuo nome”.

A Dio vengono poi richiesti tre beni che riguardano te.
Il primo è quello di poter pervenire alla vita eterna, e tu glielo chiedi quando dici: “venga il tuo regno”.
Il secondo è che tu faccia la volontà e adempia la giustizia di Dio, e glielo chiedi quando dici: “sia fatta la tua volontà”.
Il terzo è che tu abbia le cose necessarie alla vita, e gliele chiedi quando dici: “dacci oggi il nostro pane quotidiano”.
A questi tre beni allude il Signore quando dice:
circa il primo “Cercate prima il regno di Dio”;
circa il secondo: “la sua giustizia”,
e circa il terzo: “e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” (Mt 6,33).

Le cose invece da evitare e da fuggire sono quelle contrarie al bene.
E il bene che noi dobbiamo desiderare è quadruplice.
Il primo è la gloria di Dio. E ad essa nessun male è contrario perché risulta sia dal bene che dal male: dal male in quanto Dio lo punisce, dal bene perché lo premia. Perciò è detto: “Se pecchi, che gli fai?... Se tu sei giusto, che cosa gli dai?” (Gb 35,67).
Il secondo è la vita eterna, e ad essa è contrario il peccato, perché col peccato si perde.
Per rimuoverlo diciamo perciò: “rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori”.
Il terzo bene è costituito dalla giustizia e dalle opere buone, e a questo bene sono contrarie le tentazioni, perché esse ci impediscono di fare il bene. Per rimuovere questo male chiediamo: “non ci indurre in tentazione”.
Il quarto bene sono le cose necessarie alla vita, alle quali si oppongono le avversità e le tribolazioni. Per rimuoverle chiediamo: “liberaci dal male. Amen”.


Pubblicato 05.02.2008




[SM=g1740738]

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[SM=g1740717] [SM=g1740720] Ave Maria, eco del Padre nostro
   

La preghiera a Maria deve avere un’impronta biblica. E ciò vuol dire che il culto alla Vergine dovrà essere permeato delle grandi tematiche del messaggio cristiano.
 

Dire che l’Ave Maria è l’eco del Padre nostro è affermare che a quel modo che il Padre nostro scaturisce dal fatto che noi, divenuti figli nel Figlio, possiamo pregare esclamando nello Spirito: Abbà, Padre!, così l’Ave Maria procede dalla fede vera che di Maria riconosce la maternità divina e spirituale e muove l’animo alla venerazione e all’amore, alla preghiera e alla imitazione di Maria. Allo stesso modo, come le domande del Padre nostro traggono la loro genuina ispirazione dalle pagine della Sacra Scrittura, che è il libro fondamentale della preghiera, così anche le preghiere e i canti a Maria trovano nella Bibbia la loro ispirazione e, in una certa misura, la forma.

Ad ampia conferma di queste riflessioni mi piace riportare il pensiero di san Luigi Maria da Montfort: «Maria è la meravigliosa eco di Dio, e risponde: Dio! quando si grida Maria, e glorifica Dio quando, con santa Elisabetta, la si chiama beata» (Segreto di Maria, 21). «Maria, l’eco fedele di Dio, intonò "L’anima mia magnifica il Signore". Ciò che ella fece quella volta, lo fa tutti i giorni; quando la si loda, la si ama, la si onora, o ci si dona a lei, Dio è lodato, Dio è amato, Dio è onorato per mezzo di Maria e in Maria» (Vera devozione, 225).


La preghiera a Maria

Condotta dallo Spirito Santo, la Chiesa venera Maria con affetto di pietà filiale e come madre amatissima. Per questo le riconosce apertamente quel ruolo materno di intercessione che essa stessa continuamente sperimenta e raccomanda all’amore dei fedeli perché, sostenuti da tale materno aiuto, siano sempre più intimamente congiunti al mediatore e salvatore Gesù. «Già sin dai tempi più antichi – leggiamo nella Lumen gentium 66 – la beata Vergine è venerata col titolo di Madre di Dio, sotto il cui presidio i fedeli imploranti si rifugiano in tutti i pericoli e necessità».

È questo un richiamo esplicito al celebre tropario Sub tuum praesidium, «venerando per antichità e mirabile per contenuto», la cui composizione si fa oscillare tra il III e il IV secolo. Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, santa Madre di Dio. Non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, e liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta.

Gli anni e i secoli della storia della Chiesa sono tutti una chiara e continua testimonianza dell’amore filiale della Chiesa verso la Madre del Signore e del suo fiducioso ricorso alla protezione e all’intercessione di Maria. «Mentre con tutta l’umanità si avvicina al confine tra i due millenni – osservava Giovanni Paolo II nella Redemptoris Mater del 1987 – la Chiesa, da parte sua, con tutta la comunità dei credenti e in unione con ogni uomo di buona volontà, raccoglie la grande sfida contenuta nelle parole dell’antifona Alma Redemptoris Mater sul "popolo che cade, ma pur anela a risorgere, e si rivolge congiuntamente al Redentore e a sua Madre con l’invocazione: "Soccorri"».

Essa, infatti, vede – e lo attesta questa preghiera – la beata Madre di Dio nel mistero salvifico di Cristo e nel suo proprio mistero; la vede profondamente radicata nella storia dell’umanità, nell’eterna vocazione dell’uomo, secondo il disegno provvidenziale che Dio ha per lui eternamente predisposto; la vede maternamente presente e partecipe nei molteplici e complessi problemi che accompagnano oggi la vita dei singoli, delle famiglie e delle nazioni; la vede soccorritrice del popolo cristiano nell’incessante lotta tra il bene e il male, perché "non cada" o caduta "risorga".

Crocifissione e Dio Padre, miniatura italiana dei secc. XV-XVI.
Crocifissione e Dio Padre, miniatura italiana dei secc. XV-XVI.

Oggi, nella liturgia romana, il tema dell’intercessione misericordiosa di Maria è largamente presente, tanto nel Messale quanto nel Lezionario. Da parte sua, la Liturgia delle Ore contiene eccellenti testimonianze di pietà verso la Madre del Signore:

A) nelle "composizioni innodiche" tra cui non mancano alcuni capolavori della letteratura universale, quale la sublime preghiera di Dante Alighieri (Vergine Madre, figlia del tuo Figlio).

B) Nelle antifone che suggellano l’ufficiatura quotidiana (O santa Madre del Redentore; Ave, Regina dei cieli; Salve, Regina, madre di misericordia; Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio; Inviolata, integra et casta es, Maria; Virgo parens Christi).

C) Nelle intercessioni delle Lodi e del Vespro, tra cui non è infrequente il fiducioso ricorso alla Madre della misericordia (cf MC 13).

Anche negli altri libri liturgici «non mancano espressioni di amore e di supplice venerazione verso la Theotokos; così la Chiesa invoca lei, Madre della grazia, prima di immergere i candidati nelle acque salutari del Battesimo; implora la sua intercessione per le madri che, riconoscenti per il dono della maternità, si recano liete al tempio; lei addita come esempio ai suoi membri che abbracciano la sequela di Cristo nella vita religiosa, o ricevono la consacrazione verginale, e per essi chiede il suo soccorso materno; a lei rivolge istante supplica per i figli che sono giunti all’ora del tramonto: richiede il suo intervento per coloro che, chiusi gli occhi alla luce temporale, sono comparsi dinanzi a Cristo, luce eterna, ed invoca conforto, per la sua intercessione, su coloro che, immersi nel dolore, piangono con fede la dipartita dei propri cari» (MC 14).

Alla scuola della Chiesa, la preghiera a Maria fiorisce in mille modi nel cuore e sulle labbra dei fedeli. «Non c’è un bimbo – osserva ancora il Santo di Montfort – che, anche solo balbettando l’Ave Maria, non la lodi; non ci sono peccatori che, pur nel loro indurimento, non abbiano in lei qualche scintilla di fiducia; non c’è nemmeno un demonio negli inferi che, temendola, non la rispetti» (Vera devozione, 9).

Momento più intenso di preghiera a Maria è il pellegrinaggio ai suoi santuari: commovente incontro tra Madre e figli, tra figli e Madre, che Paul Claudel ha così magnificamente descritto nella poesia Mezzogiorno con la Madonna: «È mezzogiorno. Vedo la chiesa aperta. Bisogna entrare. Madre di Gesù Cristo, io non vengo a pregare. Io non ho niente da offrire, e niente da domandare. Io vengo solamente, o Madre, a vederti. Vederti, piangere di felicità, sapere che sono tuo figlio e che tu ci sei. Non più che per un istante, mentre tutto si arresta, a mezzogiorno. Restare con te, qui, in questo luogo dove stai tu. Non dir nulla, guardarti in viso, e far cantare il cuore nella sua lingua. Non dir nulla, ma solamente cantare perché si ha il cuore troppo pieno...».

G. Cesari, Madonna e santi (sec. XVI), chiesa di santa Lucia, Serra San Quirico (Ancona).
G. Cesari, Madonna e santi (sec. XVI), chiesa di santa Lucia, Serra San Quirico (Ancona – foto Paolo Ferrari).

«Scaccia da noi ogni male»

È necessario – avverte la Marialis cultus di Paolo VI – che la preghiera a Maria abbia un’impronta biblica. Ciò vuol dire che occorre «soprattutto che il culto alla Vergine sia permeato dei grandi temi del messaggio cristiano, affinché, mentre i fedeli venerano colei che è Sede della Sapienza, siano essi stessi illuminati dalla luce della divina Parola e indotti ad agire secondo i dettami della Sapienza incarnata» (MC 30).

In concreto, è bene che la preghiera a Maria abbia un suo triplice movimento di lode, di anamnesi e di supplica. In questo l’Ave Maria ha valore di esemplarità. Essa, infatti, si apre con un grido di ammirazione, unito a riconoscenza: «Rallegrati, Maria, piena di grazia! Il Signore è con te».

Segue l’anamnesi (il ricordo) di un avvenimento della storia della salvezza che motiva la lode: «Tu sei benedetta fra le donne, e benedetto è il frutto del tuo seno, Gesù». In Maria si riconosce la donna nuova, la nuova Eva, che con la sua fede obbediente e con il suo generoso ha dato all’umanità la Vita stessa, il frutto benedetto del suo seno, Gesù, redentore e salvatore del mondo.

Nella sua seconda parte, l’Ave Maria si fa implorazione, supplica: «Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte». Contemplando la santità della Madre del Signore, che rifulge come modello di virtù davanti a tutta la comunità degli eletti, i fedeli si sforzano di crescere nella santità, debellando il peccato.

A Maria, congiunta intimamente e indissolubilmente al Figlio nell’opera della salvezza, si chiede che ci renda veri discepoli di Cristo e ci ottenga, con la sua molteplice intercessione, le grazie della salvezza eterna.

A Maria affidiamo i nostri "adesso", e cioè il tempo e il luogo dove viviamo le nostre primavere, le nostre estati, i nostri autunni e i nostri inverni; i nostri misteri di gioia, di dolore e di speranza.

All’intercessione misericordiosa di Maria affidiamo, fiduciosi, il nostro ultimo "adesso", quell’adesso transeunte che introduce nell’adesso intramontabile dell’eternità.

Giuseppe Daminelli

[SM=g1740750] [SM=g1740752]


[Modificato da Caterina63 20/01/2013 15:20]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Il "Non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal Male" - frase che non deve essere separata.....: ha un punto di partenza che è l’affrancamento da ogni schiavitù di male e il superamento delle tentazioni (leggasi IL CATECHISMO) CHE DIO PERMETTE AFFINCHE' SUPERIAMO LA PROVA , come insegna il Libro di Giobbe NON continuate a leggere la frase come un errore di traduzione, la teologia cattolica l'ha sempre letta come dottrina del fatto che DIO PERMETTE LA CROCE E LA SOFFERENZA, pensate a Gesù al Getsemani... Non era certo il Padre a portare Gesù alla tentazione, ma Gesù DOVEVA SUPERARE QUELLA PROVA, QUELLA TENTAZIONE: Padre NON la mia, ma la tua volontà..."

E ANCORA: GESU' PORTATO DALLO SPIRITO SANTO NEL DESERTO PER ESSERE TENTATO.... E' LA REALTA' DELLA FRASE DEL PADRE NOSTRO, CHE ATTENDE OGNUNO DI NOI NELLA VITA....  l'obbedienza di Gesù al Padre si sviluppa e si applica SULLA CROCE, LA PROVA CHE DIO PADRE VUOLE DA OGNUNO DI NOI Tentare di modificare la TRADUZIONE del testo, significa solo voler modificare LA DOTTRINA SULLA SOFFERENZA dell'uomo....PENSATECI bene! QUANTO A RATZINGER, LEGGETE IL GESU' DI NAZARETH DOVE NON DICE AFFATTO CHE LA TRADUZIONE E' ERRATA, MA DOVE SPIEGA IL SENSO, IL SIGNIFICATO DELLA TENTAZIONE.... 

I santi e il Padre nostro

Il Vangelo in una sola preghiera
di Antonio Gentili

Se i commenti al Padre nostro sono innumerevoli, non è stata invece rivolta molta attenzione all’impatto che la "preghiera di Gesù" ha avuto sulla vita di molti santi. In queste pagine ci accingiamo a ripercorrere a grandi linee una storia ancora per certi aspetti inedita, ma molto ricca di fascino. Lo facciamo, ricercando nelle pagine dell’agiografia cristiana tracce, vistose o comunque significative, dell’"impronta" lasciata dalla preghiera cristiana per eccellenza – definita da Tertulliano il «compendio di tutto il Vangelo» – nella vita di quanti, lungo i secoli, hanno saputo prendere sul serio il Vangelo.

Difficile pensare a una preghiera che goda della diffusione e della notorietà del Padre nostro, non fosse che per il fatto di essere comune a un quarto dell’umanità, tanti sono i seguaci di Gesù nel mondo, secondo le diverse confessioni cristiane. Inoltre, la "preghiera del Signore" ha da sempre costituito un passaggio obbligato nell’iniziazione cristiana: ne veniva fatta consegna ai candidati al battesimo, dopo che il testo era stato adeguatamente illustrato. E non c’è catecheta, dagli antichi Padri ai moderni maestri spirituali, che non si sia sentito in dovere di spiegare l’orazione definita da Tertulliano «il compendio di tutto il Vangelo».

Se i commenti al Padre nostro sono innumerevoli, a quanto ci risulta, però, non è stata rivolta molta attenzione all’impatto che la preghiera di Gesù ha avuto sull’animo e sulla vita dei santi, o in ogni caso di persone impegnate in un serio cammino spirituale. Sant’Agostino considerava il Padre nostro alla stessa stregua dei sacramenti, ossia alla stregua di parolesegni che operano quanto dicono. È possibile – ci siamo chiesti – ritrovare nelle sterminate pagine dell’agiografia cristiana tracce, vistose o comunque significative, dell’"impronta" lasciata dalla preghiera cristiana per eccellenza nella vita di quanti hanno preso sul serio il Vangelo?

Accingiamoci a ripercorrere a grandi linee una storia ancora per certi aspetti inedita, ma molto ricca di fascino. Passeremo in rassegna personaggi la cui vita attraversa la storia della Chiesa dal tempo dei Padri a oggi. Di alcuni illustreremo ampiamente la testimonianza, ad altri faremo riferimento nei veloci richiami in testa alle pagine del dossier. Troveremo, accanto ai santi più famosi, testimoni che meritano un primo incontro.

Francesco d’Assisi

È probabile che i nostri lettori vadano quasi istintivamente con il pensiero a san Francesco d’Assisi (1182-1226). Leggiamo dunque subito un breve squarcio biografico del Poverello, che ci ricorda il gesto clamoroso con il quale si denudò alla presenza del proprio padre e del vescovo della città, nelle cui mani consegnava la sua vita. Dopo aver deciso di lasciare casa e beni paterni, «davanti a molti che si erano riuniti e stavano in ascolto, esclamò: "D’ora in poi potrò dire liberamente: Padre nostro che sei nei cieli, non padre Pietro di Bernardone. Ecco, non solo gli restituisco il denaro, ma gli rendo pure tutte le vesti". Così andò nudo incontro al Signore». E, rivolto al padre: «Finora ho chiamato te mio padre sulla terra; d’ora in poi posso dire con tutta sicurezza: "Padre nostro che sei nei cieli, perché in lui ho riposto ogni mio tesoro e ho collocato tutta la mia fiducia e la mia speranza"».

La preghiera di Gesù, in colui che ne sarebbe diventato un modello vivente, acquista una portata nuova, inedita, e costituirà un punto di riferimento costante nella vita e nell’insegnamento del santo assisiate.

Egli dettò anche una parafrasi del Padre nostro e, quando insegnava a pregare ai frati, raccomandava soprattutto di non cessare di dire il Padre nostro, così che quanti non erano forniti di "lettere" recitavano una specie di salterio sostitutivo comprendente 24 Pater a Mattutino, 5 alle Lodi, 7 per le singole quattro Ore diurne (Prima, Terza, Sesta e Nona), 12 ai Vespri e 7 a Compieta. Nella Lettera ai fedeli addita nel Padre nostro la formula di orazione continua: «Eleviamo a lui lodi e preghiere giorno e notte, dicendo Padre nostro che sei nei cieli, poiché bisogna che noi preghiamo senza stancarci».

Angela da Foligno

Negli annali francescani non è meno celebre il caso di una tra le più illustri seguaci del Poverello, la beata Angela da Foligno (1248 ca.-1309). Sposa e madre, fattasi poi terziaria e dedita alla più squisita pratica della carità, dettò un Memoriale in cui erano riprese le sue straordinarie esperienze mistiche. Ascoltiamo la sua stessa testimonianza: «Una volta ero andata in chiesa e avevo pregato Dio che mi facesse qualche grazia. E mentre pregavo, mi pose nel cuore il Pater noster con una grandissima e chiara intelligenza della bontà divina e della mia indegnità. E dicevo quel Pater noster oralmente con tale lentezza e con tale cognizione di me medesima, che, benché da una parte piangessi amaramente per i peccati e per la mia indegnità che allora venivo conoscendo, tuttavia ebbi proprio da lì una gran consolazione; e allora cominciai a gustare qualche poco della dolcezza divina, perché conoscevo meglio la bontà divina lì che in qualunque altra cosa; ma ora la trovo in modo anche migliore. Tuttavia, siccome in quel Pater noster mi fu scoperta la mia indegnità e i miei peccati, cominciai a esser assalita dalla vergogna, e in modo tale che non osavo alzare gli occhi. Ma feci ricorso alla beata Vergine, perché lei impetrasse per me il perdono dei peccati. Ed ero ancora nell’amarezza a causa dei peccati. E in qualunque dei passi sopraddetti fui fermata per un buon tempo prima di potermi muovere verso un altro passo. Ma in un passo dimorai più a lungo, in un altro meno» (Il Libro dell’esperienza, 1992). Risulta evidente quali risonanze avesse suscitato nella beata la preghiera di Gesù e come essa venne a costituire il punto di partenza di una sempre più elevata esperienza della bontà divina. In seguito però Angela la trovò «in modo anche migliore» di quanto non le risultasse attraverso la recitazione di una formula sia pure così penetrante.

A questo punto ci si domanderà se e come sia possibile operare perché in chi si accinge alla preghiera ci siano le debite disposizioni, così che il Signore «ponga nel cuore il Pater noster».

Ignazio di Loyola

E qui dobbiamo dare la parola a quel grande maestro di preghiera che è sant’Ignazio di Loyola (1491-1556). Il fondatore della Compagnia di Gesù riprende e riduce a sistema la pratica degli esercizi spirituali. Nell’aureo libretto che porta questo titolo, dedica non poco rilievo a come pregare il Padre nostro e illustra due diverse modalità: di chi si sofferma sulle singole parole e di chi le scandisce sul ritmo respiratorio.

Vale quindi la pena di rileggere l’insegnamento del santo. Una prima indicazione prescrive: «La persona, in ginocchio o seduta, come meglio si sente e secondo la devozione che ha, terrà gli occhi chiusi o fissi in un punto, senza girarli qua e là, e dirà Padre riflettendo su questa parola per tutto il tempo che, nelle considerazioni pertinenti a tale parola, troverà significati, paragoni, gusti e consolazioni. Faccia poi lo stesso con ogni parola del Padre nostro...»(Esercizi spirituali). Dopo questa indicazione di massima, Ignazio detta tre regole pratiche. Eccole: «La prima regola è che impiegherà, nella maniera già detta, un’ora per tutto il Padre nostro... La seconda regola è che, se la persona che contempla il Padre nostro trovasse in una o due parole molta materia di meditazione, insieme a gusto e consolazione, non si dia pensiero di passare oltre, anche se dovesse impiegare in quello che ha trovato tutta l’ora; finita la quale, dirà il resto del Padre nostro... La terza regola è che, se si è intrattenuto per un’ora intera su una o due parole del Padre nostro, un altro giorno, quando vorrà tornare su quella preghiera, dica le suddette una o due parole secondo il solito, e cominci a contemplare, come si è spiegato nella seconda regola, dalla parola che segue immediatamente...». Che un simile modo di pregare potesse esigere anche un tempo prolungato, lo ricaviamo da un’osservazione scritta quasi en passant: «C’è da dire che, finito in uno o più giorni il Padre nostro...».

La seconda modalità con cui entrare nella preghiera del Padre nostro,leggiamo sempre negli Esercizi spirituali, «consiste nel fatto che a ogni respirazione o movimento respiratorio si deve pregare mentalmente pronunciando una parola del Padre nostro..., in modo tale che una singola parola venga detta tra un respiro e un altro. Mentre poi dura il tempo tra un respiro e l’altro, si badi principalmente al significato di tale parola, o alla persona a cui si rivolge la preghiera, o alla propria pochezza, o alla differenza tra quella altezza e la propria bassezza. Seguendo lo stesso modo, si andrà avanti con le altre parole del Padre nostro».

Teresa di Gesù

Coeva a sant’Ignazio fu Teresa di Gesù (1515-1582). Dottore della Chiesa, raccolse nel Cammino di perfezione «qualche considerazione sulle parole del Pater, perché molte volte sembra che con tanti libri si vada perdendo la devozione di una preghiera di cui importa molto essere devoti». E, dopo averla ampiamente commentata, conclude: «Non pensavo nemmeno che questa preghiera potesse racchiudere così grandi segreti. Eppure contiene tutta la vita spirituale, dal suo punto di partenza fino a quello in cui l’anima si immerge in Dio, e Dio l’abbevera in abbondanza di quell’acqua viva che si trova soltanto al termine del cammino».

Sembra che Teresa abbia "scoperto" la ricchezza del Padre nostro mentre si industriava a spiegarlo alle sue discepole. Alle quali, di conseguenza, trasmise ciò che ella stessa aveva sperimentato in prima persona. Nel recitare il Padre nostro, la santa tiene anzitutto lo sguardo fisso simultaneamente sul Padre e su Cristo dal quale abbiamo imparato a recitarlo: «Quando dico il Padre nostro, mi sembra che l’amore esiga che io intenda chi sia questo Padre e chi il Maestro che ci ha insegnato tale preghiera». Ritiene inoltre che il Padre nostro possa bastare da solo per nutrire un’intera ora di orazione: «Se nello spazio di un’ora non recitassimo il Pater che una volta, sarebbe già sufficiente per farci ascoltare (da Dio), sempre inteso che da parte nostra comprendiamo di parlare con lui, conosciamo il valore delle nostre domande e pensiamo al desiderio che egli ha di esaudirci».

La santa sostiene che l’orazione vocale può condurre alla contemplazione: «Non è poco il profitto che si ha nel far bene l’orazione vocale. Anzi, può darsi che recitando il Padre nostro... si venga elevati a contemplazione perfetta», e racconta come una persona «in certi Padre nostro che recitava... durava alle volte per ore intere (e) che con la sola recita del Padre nostro arrivava alla pura contemplazione e come talvolta il Signore l’univa a sé nell’unione».

Che la finalità della preghiera vocale consista nello spianare la via a quella interiore, lo ricorda dicendo: «Val molto di più una sola parola del Padre nostro detta di quando in quando, che non recitarlo per intero molte volte e in fretta». Non solo, ma una corretta recitazione del Padre nostro ci difende dalle insidie del Maligno: «Tra coloro che recitano come si deve il Padre nostro, sono così pochi quelli che si lasciano ingannare dal demonio».

Adrienne von Speyr

Si pone sulla scia di Teresa d’Avila una mistica nostra contemporanea: Adrienne von Speyr (1902-1967). Di professione medico, coniugata, fu discepola e nello stesso tempo ispiratrice del grande teologo Hans Urs von Balthasar. Il quale scrive di lei: «Adrienne aveva ripetutamente intrapreso il tentativo di stabilire dei contatti con un prete cattolico per istruirsi finalmente sul cattolicesimo, per esprimere il suo desiderio di conversione; tutti i tentativi andarono a vuoto. Negli ultimi anni prima del 1940 pregava ancora di più, ma un oscuro scoraggiamento s’impadronì della sua anima. Con la morte di Emil Durr (il vedovo con due figli da lei sposato, che spirò nel 1934) aveva fatto la scoperta che veramente non poteva più garantire la piena veracità della domanda del Padre nostro "sia fatta la tua volontà". Aveva accettato certamente fin da principio la morte di Emil, ma successivamente s’insinuò la sensazione che questo consenso le fosse stato in certo modo carpito, non lo avesse offerto a Dio nella piena libertà» (a cura di B. Albrecht, Adrienne von Speyr. Mistica oggettiva, Milano 1975).

Cosa implicasse per Adrienne la preghiera del Padre nostro, con quale serietà ella facesse propria l’orazione del Signore, è spiegato in questa pagina tratta da Il mondo della preghiera (Milano 1982) sulla "Natura della preghiera" vocale: «Le preghiere vocali possiedono una specie di sintesi nel Padre nostro che il Figlio di Dio ci ha insegnato e che è quindi espressione del suo stesso atteggiamento di preghiera dinanzi al Padre, della sua completa disponibilità a servire il Padre. Noi ci sforziamo di ripetere queste parole come il Figlio le ha intese, come lui desidera ascoltarle da noi; sappiamo che per la prima volta Dio Padre ha sentito questa preghiera dalla bocca di suo Figlio e che egli adesso la vuole ascoltare in grazia da noi e la vuole ricevere sulla base di quel sentire. E noi comprendiamo che queste parole contengono tutto quello che il Figlio ci raccomanda di dire al Padre, che esse non ci sarebbero mai venute in mente nella pienezza e semplicità che possiedono, ma portano l’impronta del Figlio, e capiamoanche che il Figlio ci mette a disposizione il suo santo Spirito affinché noi riusciamo a pronunciarle col suo animo filiale. E quando incominciamo a dire: Padre nostro, ci rammentiamo che egli pone in un’unità le due parole – Padre nostro – e desideriamo perciò ritrovare in ogni frase e in ogni domanda il senso che il Figlio diede ad esse, in modo da farlo rivivere in noi affinché Dio le ascolti come vive», e da consentirci un rinnovato «accesso a lui».

Simone Weil

Sulla stessa linea della von Speyr si pone un’altra contemporanea, Simone Weil (1909-1943). Di origine francese, prese parte con i rivoluzionari repubblicani alla guerra civile spagnola e, trasferitasi a Londra, sostenne l’operaismo anarchico diventando, da insegnante, operaia. Cosa che le costò la vita, stanti le disastrose condizioni del lavoro a quell’epoca. Fece dell’"attesa di Dio" la ragion d’essere della propria vita spirituale e approdò alla fede attraverso un’appassionata ricerca che la condusse al battesimo alla fine della sua breve vita.

L’intuizione vivida della portata che riveste il Padre nostro nella sua vita risale all’estate del 1941. Simone a quell’epoca stava studiando greco e aveva fatto per un amico una traduzione letterale del Padre nostro. «Ci eravamo ripromessi di studiarlo a memoria. Credo che lui non l’abbia fatto, e neppure io in quel momento. Ma qualche settimana dopo, sfogliando il Vangelo, mi sono detta che, poiché me l’ero ripromesso ed era una buona cosa, dovevo farlo. E l’ho fatto. La dolcezza infinita del testo greco mi prese a tal punto che per alcuni giorni non potei fare a meno di recitarlo fra me continuamente. Una settimana dopo cominciò la vendemmia, e io recitai il Padre nostro in greco ogni giorno prima del lavoro, e spesso lo ripetevo nella vigna. Da allora mi sono imposta, come unica pratica, di recitarlo ogni mattina con attenzione totale. Se mentre lo recito la mia attenzione si svia o si assopisce, anche solo un poco, ricomincio daccapo sino a quando non arrivo a un’attenzione assolutamente pura. Mi accade talvolta di ripeterlo una seconda volta per puro piacere, ma lo faccio solo se il desiderio mi spinge. Il potere di questa pratica è straordinario e ogni volta mi sorprende, poiché, sebbene lo esperimenti tutti i giorni, esso supera ogni volta la mia attesa. Talora già le prime parole rapiscono il pensiero dal mio corpo e lo trasportano in un luogo fuori dello spazio, dove non esiste né prospettiva né punto di vista. Lo spazio si apre. L’infinità dello spazio ordinario della percezione viene sostituita da un’infinità alla seconda e talvolta alla terza potenza. Nello stesso tempo, questa infinità dell’infinità si riempie, in tutte le sue parti, di silenzio, ma di un silenzio che non è assenza di suono bensì l’oggetto di una sensazione positiva, più positiva di quella di un suono. I rumori, se ve ne sono, mi pervengono solo dopo avere attraversato questo silenzio. Talvolta anche, mentre recito il Padre nostro oppure in altri momenti, Cristo è presente in persona, ma con una presenza infinitamente più reale, più toccante, più chiara, più colma d’amore della prima volta in cui mi ha presa».

Henri Le Saux

In considerazione della straordinaria portata che riveste la preghiera insegnataci da Gesù, viene data molta importanza alle diverse modalità con cui può essere "pregata". Studiare simili modalità rientra in quella serie di insegnamenti e di norme che consentono di condurre l’orante alla comprensione del mistero. Vogliamo ricordare sinteticamente le "lezioni" di due autori contemporanei.

Il primo è Henri le Saux (1910-1973). Benedettino, si ritirò in India per inculturarvi il monachesimo occidentale. Riflettendo sul suo Journal intime, il diario nel quale ha fissato la sconvolgente esperienza dell’incontro tra due universi religiosi per tanti aspetti polari fra loro, si è potuto cogliere un prezioso insegnamento.

La preghiera del Padre nostro, se recitata a ritroso partendo dall’ultimo versetto, con le sue diverse scansioni può costituire un vero e proprio itinerario spirituale che conduce alla piena trasformazione dell’uomo in Cristo (Henri le Saux, Il Padre nostro, Sotto il Monte 1996).

E l’itinerario conoscerà le seguenti tappe, richiamate dalle singole invocazioni del Padre nostroNon ci indurre in tentazione, ma liberaci dal Male: il punto di partenza è l’affrancamento da ogni schiavitù di male e il superamento delle tentazioni. Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori: stante la limitatezza e la colpevolezza dell’essere umano, dobbiamo ricorrere incessantemente alla pratica del perdono, richiesto e offerto. Dacci oggi il nostro pane quotidiano: il nutrimento spirituale dona l’energia divina che sostiene nel cammino spirituale. Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra: lo Spirito santo, dimorando nel cuore, è la "nuova Legge" del cristiano, che illumina e sostiene nell’adempimento della volontà divina. Venga il tuo regno: unito a Cristo e confermato dallo Spirito, l’uomo è in grado di operare per l’edificazione del regno di Dio. Sia santificato il tuo nome: di conseguenza, il nome di Dio è conosciuto e celebrato nel mondo. Padre nostro che sei nei cieli: a queste condizioni la paternità di Dio si trasferisce dai cieli sulla terra.

Sono svariati i tentativi di rendere la preghiera di Gesù in modo che le singole espressioni risultino immediatamente comprensibili nella loro carica che si può definire esplosiva.

Giovanni Vannucci

Il tentativo forse più riuscito è quello di padre Giovanni Vannucci (1913-1984), il quale era solito dire che «nella Chiesa cattolica il più grande martire è il Padre nostro», a motivo della trascuratezza con cui viene recitato e... vissuto. Padre Giovanni, dell’ordine dei Servi di Maria, fu valente esegeta, e in spirito sinceramente ecumenico visse e operò nell’eremo della Stinche (Firenze). Egli faceva notare che nell’ebraico ci sono due lingue: quella delle comunicazioni ordinarie e quella sacra che, diceva, «va riscoperta pazientemente, tenacemente, attentamente, ma soprattutto nel silenzio e nell’ascesa del nostro essere. Ora, la lingua sacra ebraica conosce soltanto due tempi: lo stato di perfezione e lo stato di imperfezione». Questo, secondo padre Vannucci, si applica anche al Padre nostro, le cui espressioni non indicano un puro desiderio condizionato alla fallibile volontà dell’uomo, ma contengono un’affermazione di fede nella quale si riflettono gli immutabili disegni divini.

Tenendo conto di questo, dovremmo tradurre – precisa padre Vannucci – non "sia santificato il tuo nome", ma santo è il tuo nome; non "venga il tuo regno", ma il tuo regno viene; non "sia fatta la tua volontà...", ma la tua volontà si compie nella terra come nel cielo; non "dacci oggi il nostro pane quotidiano", ma tu doni a noi il pane di oggi e di domani ("quotidiano" traduce un termine che ha il doppio significato di pane terreno e pane celeste). E ancora: tu perdoni i nostri debiti nell’istante in cui li perdoniamo ai nostri debitoritu non ci induci in tentazione, ma nella tentazione tu ci liberi dal male.

Anche per padre Vannucci, come per santa Teresa d’Avila, questa fu una vera e propria scoperta. «Dovete scusarmi, ma prima d’ora non me ne ero accorto», furono le parole pronunciate sommessamente, e con un accenno di sorriso che chiedeva comprensione, alcuni mesi prima della morte. Secondo padre Giovanni Vannucci, questa versione nel nostro idioma della preghiera di Gesù, così diversa da quella che solitamente siamo abituati a recitare, era più fedele all’autentico senso originario della lingua parlata da Cristo ed era coerente con altre parole di lui riportate nei racconti evangelici: «Padre nostro che sei nei cieli, / santo è il Tuo Nome, / il Tuo Regno viene, / la Tua volontà si compie / nella terra come nel cielo. / Tu doni a noi il pane di oggi / e di domani. / Tu perdoni i nostri debiti / nell’istante in cui / li perdoniamo ai nostri debitori. / Tu non ci induci in tentazione, / ma nella tentazione / tu ci liberi dal male».

Antonio Gentili
   

San Vittore, sacerdote ed eremita della Gallia (secolo VII).Mentre si avviava per la celebrazione eucaristica, e dopo aver vegliato in orazione lungo la notte, si fermò all’ascolto di una turba di angeli che recitavano la preghiera del Signore nella sua interezza, fino al "liberaci dal male". «Ah!, Signore Gesù», esclamò, «come sono fatto degno di sentire con le mie orecchie dalle voci celestiali degli angeli la preghiera che tu, Signore, hai insegnato ai tuoi discepoli?» (Acta sanctorum). 

San Nicola di Flüe (1417-1487). Dopo una vita attiva, si ritirò cinquantenne in un eremo e continuò a operare per il bene della nascente Confederazione elvetica, di cui è il patrono. Si narra che una volta, al suo ritorno da Liestal in patria, abbia recitato, meditando, un solo Padre nostro, e non era ancora giunto alla fine quando arrivò all’alpe di Klyster. I biografi attestano che la recita del Padre nostro lo teneva assorto per ore e ore, e che scrisse una parafrasi di quest’orazione. Le diverse raffigurazioni lo presentano sempre con la corona dei "Pater" in mano. Non è improbabile che l’assidua meditazione del Padre nostro gli abbia ispirato la celebre preghiera che recita: «Mio Signore e mio Dio, / prendi me a me stesso / e dammi tutto a te. / Mio Signore e mio Dio, / prendimi tutto ciò / che mi separa da te. / Mio Signore e mio Dio, / dammi tutto ciò / che mi attira a te».

Beata Giuliana Puricelli di Busto Arsizio (1427-1501).Ventisettenne, si recò di nascosto nel monastero del Sacro Monte di Varese, dove visse in qualità di "conversa", trascorrendo 22 anni in eremitaggio e 25 nel cenobio. Essendo analfabeta, le venne prescritto di recitare unicamente il Padre nostro e l’Angelus Domini, preghiere che le assicurarono un grande progresso spirituale (Acta sanctorum).

San Salvatore de Horta (1520-1567).
Frate francescano, nato in Spagna, di umili origini e analfabeta, fu costretto a continue peregrinazioni a motivo degli straordinari poteri taumaturgici che insospettivano i suoi superiori. Venne esiliato a Cagliari, dove morì. Sedò tempeste suscitate dai demoni e guarì paralitici recitando il Padre nostro e l’Angelus Domini.

San Paolo della Croce (1694-1775).
Fondatore dei Passionisti e grande mistico. «Il nostro padre Paolo mi esortava che facessi la mia orazione sopra queste medesime parole: Pater noster qui es in coelis e poi mi soggiungeva: "Di’ così: Pater noster qui es in coelis, e poi stai zitto e lavora con l’interno"» (I Processi di beatificazione di san Paolo della Croce, Roma 1976).

Beato Luigi Guanella (1842-1915).
Fondatore di due istituti prevalentemente dediti a opere di carità, ma radicati in una forte tensione contemplativa. «Alle suore ripeteva, con espressioni tipiche della sua forza di persuasione: "Voi dovete essere sacchi di Pater noster"» (A. Tamborini-G. Preatoni, Il servo della carità. Beato Luigi Guanella, Milano 1964).

Santa Teresa di Gesù Bambino (1873-1897).
Dottore della Chiesa, autrice di un’autobiografia intitolata Storia di un’anima. «Qualche volta, se il mio spirito è in un’aridità così grande che mi è impossibile trarne un pensiero per unirmi al buon Dio, recito molto lentamente un Padre nostro o l’Angelus Domini... Allora queste preghiere mi rapiscono, nutrono l’anima mia ben più che se le avessi recitate precipitosamente un centinaio di volte» (Manoscritto autobiografico C, 318).

San Giovanni Bosco (1815-1888). 
Fondatore della Società di San Francesco di Sales (Salesiani) e delle Suore di Maria Ausiliatrice. «Appena san Giovanni Bosco fu alla presenza di Pio IX, questi gli disse sorridendo: "Con quale politica vi cavereste voi da tante difficoltà (legate al rapporto Stato-Chiesa, ndr)?". "La mia politica", rispose don Bosco, "è quella di vostra Santità. È la politica del Pater noster. Nel Pater noster noi supplichiamo ogni giorno che venga il regno del Padre celeste sulla terra, che si estenda cioè sempre più, che si faccia sempre più sentito, sempre più vivo, sempre più potente e glorioso: adveniat regnum tuum! Ed è ciò che più conta"» (Memorie biografiche).






[Modificato da Caterina63 06/12/2017 12:05]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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07/12/2017 08:57
 
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  • L'INTENZIONE DEL PAPA


Padre Nostro, una traduzione, tanti significati




Sulla modifica della traduzione di "non ci indurre in tentazione" nel Padre Nostro, bisogna ricordare che la categoria di Dio che mette alla prova è ampiamente citata nella Scrittura. L'attuale traduzione, pur non correttissima è più ricca di significati. Ma ciò che conta è che il linguaggio cristiano non può essere condizionato da quello corrente. 


Dio non tenta al male né oltre le nostre forze: Gc 1,12-13; 1Cor 10,13. Questo è ovvio e, come dice il Papa, tentare direttamente al male è il mestiere del diavolo. Il termine usato nel Padre nostro sia in Mt 6,13 sia in Lc 11,4, è l’aoristo attivo del verbo “eis-fero” (εἰσενέγκῃς” - eisenekes), che alla lettera significa “portare verso/dentro” e quindi introdurre/indurre. Sono interessanti gli usi - pochi - dello stesso verbo nel Nuovo Testamento con il senso inequivocabile di portare dentro.


Come Lc 5,18-19: il paralitico che i portatori cercano di introdurre di fronte a Gesù: «Ed ecco, alcuni uomini, portando su un letto un uomo che era paralizzato, cercavano di farlo entrare (portarlo dentro) e di metterlo davanti a lui. / Non trovando da quale parte farlo entrare a causa della folla, salirono sul tetto e, attraverso le tegole, lo calarono con il lettuccio davanti a Gesù nel mezzo della stanza».


O Lc 12,11: «Quando vi porteranno davanti (porteranno dentro) alle sinagoghe, ai magistrati e alle autorità, non preoccupatevi di come o di che cosa discolparvi, o di che cosa dire»; E ancora: At 17,20, la domanda dei filosofi ateniesi a san Paolo: «Cose strane, infatti, tu ci metti negli (ci fai entrare dentro negli) orecchi; desideriamo perciò sapere di che cosa si tratta», e 1Tm 6,7: «Infatti non abbiamo portato (portato/introdotto dentro) nulla nel mondo e nulla possiamo portare via». Infine, Eb 13,11: «Infatti i corpi degli animali, il cui sangue viene portato nel (portato dentro al) santuario dal sommo sacerdote per l’espiazione, vengono bruciati fuori dell’accampamento».


A questo punto il problema e la soluzione sono che cosa si intende con “indurre”. Certo, come già detto, non si può intendere che Dio tenta direttamente al male, ed è vero che nel linguaggio corrente “indurre in tentazione” a volte significa proprio questo. Ma è anche vero che “non ci indurre in tentazione” - pur aperto all’equivoco di cui sopra -, rispetta di più un altro senso implicito, che non è subito il “non lasciarci cadere” nella tentazione, ma prima ancora il “non introdurci” nel senso di “non lasciare che siamo introdotti” nella tentazione dal demonio o da noi stessi.


Non solo, il “non ci indurre in tentazione” mantiene in sottofondo - anche se con terminologia non correttissima rispetto al linguaggio odierno - la categoria di Dio che prova e mette alla prova. Ad esempio, Dt 13,4 «Osserverete per metterlo in pratica tutto ciò che vi comando: non vi aggiungerai nulla e nulla vi toglierai. Qualora sorga in mezzo a te un profeta o un sognatore che ti proponga un segno o un prodigio, e il segno e il prodigio annunciato succeda, ed egli ti dica: Seguiamo dèi stranieri, che tu non hai mai conosciuto, e serviamoli, tu non dovrai ascoltare le parole di quel profeta o di quel sognatore, perché il Signore, vostro Dio, vi mette alla prova per sapere se amate il Signore, vostro Dio, con tutto il cuore e con tutta l’anima»; Gdc 3,4 «Queste nazioni servirono a mettere Israele alla prova, per vedere se Israele avrebbe obbedito ai comandi che il Signore aveva dato ai loro padri per mezzo di Mosè»; e tantissimi altri passi che si trovano cercano la parola “prova” nelle Scritture.


In questo senso il “non ci indurre alla tentazione” significherebbe “Signore, non metterci troppo alla prova, non darci una prova troppo grande, non permettere che siano tentati oltre le nostre forze ecc.”. Si obietterà che Dio non tenta oltre le nostre forze e dunque non è il caso di inoltrargli una simile richiesta... ma così ragionando ci si dimentica che il nostro rapporto con Dio non si basa sulla filologia e sulle certezze al limite, ma parte dal vissuto e dalle implorazioni che sorgono spontanee dal vissuto.


Quanto poi alla considerazione che Dio non sta a vedere se siamo caduti ma ci sostiene prima, è verissima, ma non bisogna spingerla più di tanto sino ad eliminare il fatto che, secondo una tradizione ascetica e spirituale, Dio non soltanto ci mette alla prova, ma anche “sta a vedere” il nostro combattimento per premiarci.


Al riguardo è famoso il testo di sant’Atanasio nella Vita di Antonio, dopo che quest’ultimo fu tentato dal demonio sotto le forme orribili di animali feroci: «Il Signore neppure in questo momento si dimenticò della lotta di Antonio, ma venne in suo aiuto. Sollevati gli occhi, dunque, (Antonio) vide il tetto come se si aprisse e un raggio di luce che scendeva verso di lui. E i demoni scomparvero in un istante, il dolore del corpo era subito cessato, e la casa era di nuovo intatta. Antonio percepì l’aiuto e, ripreso più fiato e alleggerito dei suoi dolori, chiedeva alla visione che si era manifestata: “Dov’eri? Perché non sei apparso fin dall’inizio, per porre fine alle mie sofferenze?”. E una voce a lui: “Antonio, ero qui, ma aspettavo di vedere la tua contesa. Dunque, giacché hai resistito e non sei stato sconfitto, io sarò sempre tuo soccorritore e ti renderò famoso in ogni dove” (10,1-3)».


Dunque e concludendo: certo che si può cambiare la versione come hanno fatto i francesi, ma, più si precisa, più si perdono tanti significati concomitanti e sottesi come quelli indicati. Infine bisogna ricordare che la liturgia non cita necessariamente alla lettera la Scrittura, ma dalla Scrittura elabora una sua preghiera.


E alla fine bisogna ricordare che il linguaggio cristiano non sempre può essere condizionato dal linguaggio corrente e tarato su di esso: certe parole e certe espressioni hanno una polisemia che va mantenuta e imparata, come nel caso classico del termine neotestamentario di “carne”. Il linguaggio cristiano va imparato e, come diceva Totò, “nessuno nasce imparato”.





Papa Francesco corregge Gesù: vuole cambiare il Pater Noster?

Che cosa è, oggi, tutta questa smania di nuovo e di cambiamento se non quel monito paolino: “stanchi di udire la solita dottrina” (2Tim.4,1-5), attraverso la quale si vuole dare una “nuova” immagine di Dio e della Chiesa?

Dal latino della prima Vulgata di san Girolamo: “…et ne nos indúcas in tentatiónem…” e non ci indurre in tentazione, il primo a storcere il naso su questa traduzione fu Martin Lutero, sì, proprio lui che ovviamente lasciò ai suoi discepoli e alla “sua chiesa”, l’opportunità di ritradurre il finale con: “E non esporci alla tentazione, ma liberaci dal maligno, perché tuo è il regno e la potenza e la gloria in eterno. Amen“.

La versione della CEI del 1978 manteneva ancora la frase tradizionale della Vulgata: “e non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male“. Mentre, già dalla versione del 2008 abbiamo una modifica davvero grottesca in: “e non abbandonarci nella tentazione, ma liberaci dal male“. Una traduzione, quest’ultima, che Benedetto XVI non volle usare nel lezionario liturgico.

Chi ha ragione e chi ha torto? Ha torto il Protestantesimo ieri e la CEI con Papa Francesco, oggi, perché la traduzione protestante fu volutamente ideologica, come ideologica lo è oggi. Milioni di cattolici in tutto il mondo e da duemila anni hanno sempre pregato con la versione – tradotta in lingua propria – dalla Vulgata attraverso la quale, per altro, per duemila anni migliaia di Santi hanno pronunciato in latino le medesime parole.

Il messaggio che si vuole far passare è che “la Chiesa può sbagliare” e che per duemila anni ha sbagliato, finalmente oggi abbiamo un Papa così coraggioso e misericordioso, da rimettere le cose a posto. Riportiamo questo passaggio molto interessante da chi ha già discusso l’argomento:

“La parte a cui mi riferisco, tradotta e utilizzata per secoli, è proprio il versetto di Matteo 6,13a: “non ci indurre in tentazione” , che nella nuova versione è stato maldestramente tradotto con “non abbandonarci alla tentazione”. Naturalmente anche qui ha prevalso il “politicamente corretto”. Come può Dio “indurre” in tentazione? Allora cambiamo con una traduzione più morbida, più sdolcinata, più sentimentale. Cosa sbagliatissima… Il latino “inducere”, molto opportunamente usato da san Girolamo nella Vulgata (traduzione della Bibbia dall’ebraico e greco al latino fatta da Girolamo nel IV secolo), essendo composto da ‘in’ (‘dentro, verso’) e ‘ducere’ (‘condurre, portare’), corrisponde puntualmente al greco eisphérein; e naturalmente è seguito da un altro in (questa volta preposizione) e dall’accusativo temptationem, con strettissima analogia quindi rispetto al costrutto greco.

Quanto poi all’italiano indurre in, esso riproduce esattamente la costruzione del verbo latino da cui deriva e a cui equivale sotto il profilo semantico. Dunque la traduzione più giusta, che rimane fedele al testo è quella che è sempre stata: “non ci indurre in tentazione”. Ogni altra traduzione è fuorviante, e oserei dire anche grottesca.” (vedi qui il resto).

Il Pontefice,  durante la settima puntata del programma di Tv2000 intitolato proprio Padre Nostro  contesta – ALLA CHIESA CATTOLICA – il modo in cui è stata tradotta la frase «e non indurci in tentazione». «Nella preghiera del Padre Nostro – chiosa papa Francesco – Dio che ci induce in tentazione non è una buona traduzione. Anche i francesi hanno cambiato il testo con una traduzione che dice “non mi lasci cadere nella tentazione”: sono io a cadere, non è Lui che mi butta nella tentazione per poi vedere come sono caduto, un padre non fa questo, un padre aiuta ad alzarsi subito», ha spiegato Bergoglio, sottolineando che «quello che ti induce in tentazione è Satana, quello è l’ufficio di Satana».

Che l’abbiano cambiata i francesi non è certo una dimostrazione concreta, una prova, che san Girolamo avesse torto, e con lui la Chiesa Cattolica bimillenaria!!Come al solito Bergoglio non chiarisce, non spiega e soprattutto mente, perché non dice che la nuova traduzione servirebbe a far sentire più uniti i cattolici e i protestanti insieme, tanto non si prega più in latino, neppure nella Messa, perciò un cambiamento alla frase finale, e come la vogliono i protestanti da sempre, è un compromesso accettabile, per papa Francesco.

Che cosa sta accadendo? Che cosa è, oggi, tutta questa smania di nuovo e di cambiamento se non quel monito paolino: “stanchi di udire la solita dottrina” (2Tim.4,1-5), attraverso la quale si vuole dare una “nuova” immagine di Dio e della Chiesa? E’ chiaro che, come da anni si sta dando addosso anche al concetto del CASTIGO DI DIO per mitigarlo e cambiarlo, facendo passare solo una pastorale verso un Dio bonaccione, piacione (la cui nuova immagine è papa Francesco), misericordioso, atto a non dover mai giudicare alcun peccato degli uomini, così ora si attacca il Pater Noster per dimostrare che TUTTO dipende solo dagli uomini, e che Dio non ha alcun ruolo nelle nostre vite.

Figlio, se ti presenti per servire il Signore, preparati alla tentazione”(Sir.2)

Insegna san Paolo: “Che diremo dunque? C’è forse ingiustizia da parte di Dio? No certamente!  Egli infatti dice a Mosè: Userò misericordia con chi vorrò, e avrò pietà di chi vorrò averla. Quindi non dipende dalla volontà né dagli sforzi dell’uomo, ma da Dio che usa misericordia. Dice infatti la Scrittura al faraone: Ti ho fatto sorgere per manifestare in te la mia potenza e perché il mio nome sia proclamato in tutta la terra.  Dio quindi usa misericordia con chi vuole e indurisce chi vuoleMi potrai però dire: «Ma allora perché ancora rimprovera? Chi può infatti resistere al suo volere?».  O uomo, tu chi sei per disputare con Dio?” (Rm.9.14-20).

Ascoltiamo la risposta di sant’Agostino: “Se Dio è autore di tutto e vuole tutto, se è lui che indurisce, come può poi lamentarsi, minacciare, biasimare: come può rimproverare l’uomo del suo comportamento peccaminoso, se è Dio che, irresistibilmente, vuole tutto questo? Il problema è posto in termini chiari. Ma Paolo avverte subito la difficoltà di una risposta adeguata: quindi, mentre implicitamente afferma che l’uomo è libero è responsabile, e che quindi Dio ha tutti i diritti di rimproverare, situa il problema nel suo contesto naturale: la trascendenza divina. Fa questo anzitutto con una interrogazione retorica: come può l’uomo mettersi a discutere, quasi da pari a pari con Dio fino a contraddirlo? È la posizione assurda con cui l’uomo pone dei problemi che toccano la trascendenza divina, posizione che Dio rimprovera, ad esempio, a Giobbe (58-39)…” (tratto da 83 Questioni; questione n.68).

E dunque, perché affermiamo che la traduzione modernista del Pater Noster è sbagliata, è ideologica ed è protestante?

Beato l’uomo che poteva trasgredire e non ha trasgredito, che poteva fare il male e non lo fece” (Sir 31,10).

_063 addio al Pater noster 3In una delle trasmissioni di Radio Maria, il compianto esorcista Padre Amorth tenne una lectio proprio sul “VALORE DELLA TENTAZIONE” partendo proprio dal racconto del Libro di Giobbe dove si legge testualmente… “C’era nel paese di Uz un uomo che si chiamava Giobbe. Quest’uomo era integro e retto; temeva Dio e fuggiva il male…. Un giorno i figli di Dio vennero a presentarsi davanti al SIGNORE, e Satana venne anch’egli in mezzo a loro. Il SIGNORE disse a Satana: «Da dove vieni?» Satana rispose al SIGNORE: «Dal percorrere la terra e dal passeggiare per essa».  Il SIGNORE disse a Satana: «Hai notato il mio servo Giobbe? Non ce n’è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Dio e fugga il male».  Satana rispose al SIGNORE: «È forse per nulla che Giobbe teme Dio? Non l’hai forse circondato di un riparo, lui, la sua casa, e tutto quel che possiede? Tu hai benedetto l’opera delle sue mani e il suo bestiame ricopre tutto il paese. Ma stendi un po’ la tua mano, tocca quanto egli possiede, e vedrai se non ti rinnega in faccia».  Il SIGNORE disse a Satana: «Ebbene, tutto quello che possiede è in tuo potere; soltanto, non stender la mano sulla sua persona». E Satana si ritirò dalla presenza del SIGNORE… (Gb.1,1-12)

Il resto della storia dovremo conoscerlo…. Giobbe perderà TUTTO, Satana chiederà che Giobbe sia anche provato sulla sua persona attraverso delle malattie, la prova sarà immensa, la tentazione immane, ma vincerà donando – anche culturalmente – il famoso detto “la pazienza di Giobbe”, leggete il Libro, imparerete tutti qualcosa!

La Bibbia, spiegava Padre Amorth, tratta la tentazione come una beatitudine:”Beato l’uomo che sostiene la tentazione, poiché una volta collaudato riceverà la corona della vita che Dio promise a quanti lo amano” (Giacomo 1,12). Un grande santo e dottore della Chiesa, S.Giovanni Crisostomo, arrivò ad affermare che il demonio (certamente suo malgrado) è il “santificatore delle anime”. E’ evidente perciò che non va cambiato il Pater Noster, ma cercare di capire cosa intenda la Bibbia per TENTAZIONE, e perché, semmai, Dio che è davvero misericordioso, la permette.

Nel 2010 già Cantuale Antonianum faceva questo appello ai Vescovi: Per favore, non cedete alla tentazione di cambiare il Padre Nostro… vedi qui, facendo osservare: “Non ci si accorge che la traduzione proposta, se proprio vogliamo dirlo, si espone a domanda di egual tenore: “Ma può Dio abbandonare i suoi figli alla tentazione?”, non dice forse la Scrittura (Gc 1,14) che “Dio non permette che siamo tentati sopra le nostre forze”Quindi è ovvio che non ci abbandona alla tentazione se noi prima non abbiamo abbandonato lui! Ma leggiamo in Mt 4,1: “Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo” (Tunc Iesus ductus est in desertum a Spiritu, ut tentaretur a Diabolo)….

Anche Gesù, ricordiamolo (Lc 22,42), pregò il Padre, con umanissimo timore, di far passare il calice della prova della Passione, ma si rimise alla sua volontà (il ditelismo – le due volontà – è dogma di fede). Il Padre lo sostenne nella tentazione finale, quella di scappare dalla croce, e Cristo superando la prova potè affermare: “tutto è compiuto” (Gv 19,30). Infatti senza la tentazione nessuno è adatto alla prova, tanto in se stesso, come si ha nella Scrittura: Chi non è stato tentato che cosa sa? (Sir 34, 9.11)” Prosegue poi Agostino: “Quindi con quella preghiera non si chiede di non essere tentati, ma di non essere immessi nella tentazione, sulla fattispecie di un tale, a cui è indispensabile essere sottoposto all’esperimento del fuoco, e non chiede di non essere toccato col fuoco, ma di non rimanere bruciato. Infatti la fornace prova gli oggetti del vasaio e la prova della sofferenza gli uomini virtuosi(Sir 27,6)”. (De Sermone Domini in Monte II,9.30)

Ci viene quasi il sospetto che papa Francesco, come il suo preposto gesuita Arturo Sosa, non creda alle parole di Gesù perchè… “a quei tempi non c’era un registratore“, tanto da sentirsi autorizzato a modificare una traduzione che è limpida fin dai primi secoli…. che non fu una interpretazione, come sta tentando di fare lui oggi, e come fece Lutero ieri, ma che è una semplice ed autentica traduzione.

La tentazione E’ LA PROVA…. senza la quale nessuno di noi potrebbe entrare in Paradiso! Vogliamo concludere con le parole del Catechismo della Chiesa Cattolica, vedi qui, a dimostrazione che papa Francesco sta sbagliando, ha sbagliato la CEI con la nuova traduzione, e sbaglia questa nuova pastorale modernista:

Noi chiediamo al Padre nostro di non « indurci » in essa. Tradurre con una sola parola il termine greco è difficile: significa «non permettere di entrare in», «non lasciarci soccombere alla tentazione». «Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male» (Gc 1,13); al contrario, vuole liberarcene. Noi gli chiediamo di non lasciarci prendere la strada che conduce al peccato. Siamo impegnati nella lotta «tra la carne e lo Spirito». Questa domanda implora lo Spirito di discernimento e di fortezza. (n.2846)

Lo Spirito Santo ci porta a discernere tra la prova, necessaria alla crescita dell’uomo interiore (Cf Lc 8,13-15; At 14,22; 2 Tm 3,12)  in vista di una «virtù provata», (Cf Rm 5,3-5) e la tentazione, che conduce al peccato e alla morte. Dobbiamo anche distinguere tra «essere tentati» e «consentire» alla tentazione. Infine, il discernimento smaschera la menzogna della tentazione: apparentemente il suo oggetto è «buono, gradito agli occhi e desiderabile» (Gn 3,6), mentre, in realtà, il suo frutto è la morte. (n.2847)

«Dio non vuole costringere al bene: vuole persone libere […]. La tentazione ha una sua utilità. Tutti, all’infuori di Dio, ignorano ciò che l’anima nostra ha ricevuto da Dio; lo ignoriamo perfino noi. Ma la tentazione lo svela, per insegnarci a conoscere noi stessi e, in tal modo, a scoprire ai nostri occhi la nostra miseria e per obbligarci a rendere grazie per i beni che la tentazione ci ha messo in grado di riconoscere».




  • UN TESTO DEL '96

Padre nostro, la versione di Scalfari

di Angela Pellicciari

In un lontano domenicale del 1996, il direttore di Repubblica Eugenio Scalfari si esercitava in una lunga disquisizione sul Padre Nostro: “Padre Nostro, dove stai?”. Come mai un laico a tutto tondo, anzi, il pontefice massimo della cultura laica italiana, aveva scelto un simile soggetto? Per stanchezza. Perché era stufo di doversi confrontare coi fatti e i personaggi della squallida politica nostrana. Basta. Basta, nell’ordine, coi Dini, i D’Alema, i Fini e i Berlusconi. Meglio, molto meglio, occuparsi della preghiera che “tocca i credenti fin nelle più intime fibre e suggerisce ai non credenti attenzione e rispetto”. 

Le vene ai polsi del direttore Scalfari non tremavano e così, nell’incipit, a commento delle sei parole iniziali della preghiera (“Padre nostro che sei nei cieli”), il direttore-vate chiosava: “Quelle sei parole sono il condensato di tutta la civiltà ebraica-cristiana-islamica”. Forse nel frattempo qualcuno gli avrà pure chiarito come per l’islam sia pura aberrazione riferirsi ad Allah come ad un padre, ma tant’è. Quisquiglie, si dirà. E di lì giù a ridisegnare, smontandoli uno dopo l’altro, i versetti del Padre Nostro. La saggezza, la pacatezza, la disanima puntuale tipici della prosa (un pochino tronfia?) del direttore di Repubblica, servivano a Scalfari per affermare: “Sperare che ci salvi un Padre che sta nei cieli è una fuga. Qui e ora, questo è un compito che spetta interamente a noi”. I cieli, la modernità lo sa, non hanno padre. La legge ce la diamo da soli e la differenza fra bene e male siamo noi a stabilirla nella profondità della nostra libera coscienza: “Nel loro profondo essi –gli uomini moderni- pensano che i cieli siano vuoti, che il Padre sia morto e che comunque da Lui non sia mai venuto alcun comandamento. Essi pensano nel profondo che la moralità non sia accettazione di una legge ma scelta responsabile e autonoma, tanto più vincolante in quanto libera e liberata dall’aspettazione di premi e di castighi”.

I cieli sono vuoti ma, e Scalfari lo sa bene, la modernità nonostante tutto non è cattiva. Noi d’istinto rifiutiamo la condanna del peccatore perché “Bene e Male sono soltanto parole” e “per rimettere i debiti non c’è bisogno del Padre, né si debbono rimettere affinché il Padre a sua volta rimetta i nostri”. L’unica cosa che conta è l’amore: “Ama il prossimo come te stesso”, “Lì è il fondamento della carità, lì è la via dell’Amore al di sopra sia della fede che della saggezza. L’Amore è la riscoperta dell’Altro, del Prossimo, della Specie cui apparteniamo, della Vita nella sua finitezza preziosa che dà luce nell’atto stesso in cui si consuma e che non ha alternative al di fuori del consumarsi per far luce al Prossimo e a se stessi”. Amen. 

Il domenicale di Scalfari del 21 gennaio 1996 muoveva da uno spunto offertogli da un’informazione riservata: una commissione di vescovi stava preparando una nuova versione del Padre Nostro “per adattarlo - si dice - ai mutamenti della modernità”. Nella nuova versione i vescovi (la memoria non ci consente di chiarire quali e l’articolo non ci aiuta) “propongono una modifica importante nel testo della preghiera: non più il ‘non indurci in tentazione’ bensì ‘non abbandonarci alla tentazione’”. Perché se è vero, come è vero, che nei cieli non c’è nessun padre, questo padre è buono, nel senso che non condanna nessuno né tanto meno induce nessuno in tentazione (“Sta all’uomo e a lui soltanto essere il tentatore di se stesso e scegliere sotto la sua responsabilità se sperimentare la tentazione o respingerla”).  

Al di là delle questioni grammaticali, questa è la verità di Scalfari. Ma Scalfari, si sa , è la persona che molto ha fatto per scardinare dal cuore degli italiani la verità cattolica.




[Modificato da Caterina63 14/12/2017 12:37]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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LITURGIA E LETTERATURA

Il Papa, Tolkien e il Padre nostro
ECCLESIA 11-02-2018

Il 6 dicembre 2017, Papa Francesco, nel corso di una puntata di un programma dedicato alla spiegazione della Preghiera del Signore trasmessa dalla televisione italiana (1), ha criticato la frase tradotta come «[...] non ci indurre in tentazione», generando un po’ di subbuglio nei media.

Il Santo Padre ha semplicemente ribadito la vecchia preoccupazione per le implicazioni non volute di quella frase, frase che parrebbe asserire che Dio possa positivamente volere il nostro peccato. «Sono io a cadere», ha detto Papa Francesco. «Ma non è [Dio] che mi butta alla tentazione per... per poi... vedere... come sono caduto. No, un padre non fa questo; un padre aiuta a alzarsi subito».

Ascoltando le parole del Papa, ho avvertito familiarità con quella discussione di natura linguistica, ma non sono riuscito a collegarla mnemonicamente ad alcuno studio biblico né ad alcuna lezione di Sacra Scrittura. Poi mi sono ricordato: l’avevo sentita da J.R.R. Tolkien, cattolico devoto, scrittore e creatore del legendarium della Terra di Mezzo.

Certo, non ne tratta nella sua opera più notaIl Signore degli Anelli (anche se nel 1956 disse a uno dei primi lettori di quel romanzo che il «[...] non ci indurre in tentazione» è la chiave della scena culminante del romanzo). Lo fa invece in uno studio inedito che chiamò «la storia del “Padre nostro” in inglese» e che ora è conservato nel Tolkien Archive, parte delle collezioni Modern Papers della Bodleian Library di Oxford, in Inghilterra.

In un passaggio risalente a più di 80 anni fa, Tolkien osserva che la parola tradotta con «tentazione» nelle lingue moderne dava già problemi nella traduzione in latino del Pater noster effettuata sul testo greco. «Tentatio», scrive Tolkien, «(o l’indipendente temptatio con cui lo si è confuso) era una buona traduzione di [peirasmos], cioè “una verifica o una prova (di forza o di valore)”, e già attorno al 1200 la si cominciava a utilizzare in contesti scritturistici o teologici».

La confusione, afferma Tolkien, «[…] ha sicuramente reso il “[...] non ci indurre in tentazione” incomprensibile (rivolto a Dio), benché resti una richiesta ardua in ogni caso. Anche “indurre” non è più la parola giusta, dato che così suggerisce l’azione di una persona che diriga o di una guida, spesso l’azione sinistra di un impostore». Ma, nonostante il fatto che l’inequivocabile definizione d’«incomprensibile» che Tolkien dà dell’espressione quando rivolta a Dio riecheggi la parole di Papa Francesco, il tenore dei suoi altri scritti sulle lingue e sulle traduzioni - che hanno occupato tutta la sua vita di scrittore di opere di fantasia e di professore - fanno dubitare che egli avrebbe auspicato una modifica della traduzione ufficiale.

Infatti, benché sensibilissimo alle cattive traduzioni, Tolkien era pure consapevole del peso che la tradizione ha, specialmente nel linguaggio liturgico.

La sua conoscenza del Padre nostro e il suo interesse verso di esso iniziarono senza dubbio al tempo in cui imparò la preghiera da bambino, tra l’altro imparandola da anglicano. Sua madre, suo fratello e Tolkien stesso si convertirono al cattolicesimo solo nel 1900, quando il giovane John Ronald aveva otto anni. Di fatto, Tolkien sarà stato costretto a prestare attenzione al linguaggio usato nella preghiera subito dopo la conversione della madre, allorché lui e suo fratello Hilary iniziarono a recitarla senza la “dossologia” («Perché tuo è il regno» e così via) che avevano pronunciato quando l’avevano imparata la prima volta (nella sua storia di quella preghiera Tolkien commenta anche questo aspetto). (2)

Verosimilmente, Tolkien conosceva le prime versioni inglesi del Fæder ure, come la preghiera era chiamata in anglosassone, quando fece della lingua e della letteratura Anglosassone l’oggetto specifico dei propri studi universitari a Oxford, e continuò a usarne versioni diverse come strumento didattico quando insegnò quella medesima lingua nell’Università di Leeds (1920-1925) e poi nell’Università di Oxford (1925-1959).

Scrivo «versioni inglesi», al plurale, poiché il primo aspetto della versione anglosassone che colpì Tolkien come cattolico e come storico della lingua fu che, a differenza delle epoche successive della lingua (e della Chiesa), nell’epoca anglosassone non sembrava esserci una traduzione tipica o ufficiale. Fu l’osservazione di questo fatto che diede il via alla sua storia del Padre nostroinglese.

All’inizio della primavera 1936 - un anno prima di pubblicate Lo Hobbit -, dom Adrian Morey dell’abbazia di Downside a Bath spedì a Tolkien una riproduzione fotostatica di un manoscritto anglosassone che aveva trovato nel British Museum, domandandogli un commento.

Il saggio che ne derivò occupò almeno i successivi trent’anni della vita di Tolkien. Il testo conservato nella Bodleian Library consta di una grande quantità di note scritte con l’inchiostro blu di una penna stilografica nel 1936, poi dattiloscritte negli anni 1940 e quindi coperte da correzioni fatte con una penna a sfera in rosso a partire dal 1966. La morte di Tolkien nel settembre 1973 ha lasciato incompleto questo studio così come parecchi altri sui scritti. Uno dei testi della collezione che fu invece portato a termine rivela la competenza di livello internazionale che Tolkien possedeva in un’altra forma creativa: la calligrafia. A quanto pare, il primo moto che Tolkien ebbe vedendo il facsimile del manoscritto fu di farne uno per contro proprio, imitando splendidamente la mano che nel secolo X aveva prodotto quello anglosassone. Di fatto, il risultato è superiore all’originale, e ben degno di essere incorniciato.

Qualsiasi cosa la Chiesa decida di fare a proposito della traduzione del Padre nostro nelle lingue moderne, l’affermazione di Tolkien secondo cui il «[...] non ci indurre in tentazione» gioca un ruolo chiave nella trama de Il Signore degli Anelli è «incomprensibile» tanto quanto lo è la preghiera se s’intende «tentazione» nel senso dell’inganno diabolico. Ma assume invece un senso eccellente se lo s’intende nel senso di “prova, calvario”. Proprio come Dio non desidera affatto spingerci a cadere, nel romanzo le forze del bene - anzitutto Gandalf, che è un “angelo” del Creatore - non desiderano affatto che Frodo venga attirato dall’anello. Tutti i buoni della Terra di Mezzo tolkieniana sperano però che Frodo si sottoponga volontariamente alla prova finale, la sofferenza necessaria a distruggere l’anello. Come Cristo, Frodo esprime l’equivalente del “non permettere che nella prova io cada”. Ma, sempre come Cristo, Frodo sa che per il suo mondo non può esservi salvezza se egli non si sottoporrà a quella tentatio.

Traduzione di Marco Respinti

NOTE del traduttore

(1) Il programma #Padre Nostro, condotto da don Marco Pozza, cappellano del carcere di Padova, è stato trasmesso in prima serata da Tv2000 in nove puntate a partire dal 25 ottobre 2017. La puntata del 6 dicembre è stata la settima. Dalla trasmissione è stato tratto il libro di Papa Francesco con Marco Pozza, Quando pregate dite Padre nostro, Liberia Editrice Vaticana-Rizzoli, Città del Vaticano-Milano 2017

(2) Nella liturgia cristiana, la “dossologia” (dal sostantivo greco “doxa”, “gloria”) è un formula esclamativa rituale a glorificazione di Dio. Scrive il Catechismo della Chiesa Cattolica del 1997: «Ben presto l’uso liturgico ha concluso la Preghiera del Signore con una dossologia. Nella Didaché: “Perché tuo è il potere e la gloria nei secoli”. Le Costituzioni apostoliche aggiungono all'inizio della dossologia: “il regno”; ed è questa la formula usata ai nostri giorni nella preghiera ecumenica. La tradizione bizantina aggiunge dopo “la gloria”: “Padre, Figlio e Spirito Santo”. Il Messale Romano sviluppa l'ultima domanda nella prospettiva esplicita della attesa della beata speranza e della venuta del Signore nostro Gesù Cristo; segue l'acclamazione dell'assemblea, che riprende la dossologia delle Costituzioni apostoliche» (n. 2760).

La liturgia cattolica latina non adotta la dossologia poiché assente dal testo latino della cosiddetta Vulgata anche se dal 1970 essa è inclusa nella liturgia del rito romano come testo indipendente da quello del Padre nostro.  La dossologia è adoperata nella liturgia bizantina e anche dalla maggior parte dei protestanti. Nella Comunione anglicana, Il libro della preghiera comune include la dossologia nel Padre nostro solo a volte.

* John Holmes, autore di diversi studi accademici su Tolkien, è professore d’Inglese nella Franciscan University di Steubenville in Ohio, negli Stati Uniti d’America, e membro del Veritas Center for Ethics in Public Life promosso dal medesimo ateneo. La versione originale dell’articolo, intitolato Pope Francis, J.R.R. Tolkien and the Lord’s Prayer  è stato pubblicato sul quindicinale cattolico statunitense National Catholic Register il 5 gennaio 2018. L’editore e il direttore hanno concesso il diritto di traduzione e di pubblicazione. Con l’autore sono state concordate lievi modifiche all’originale per rendere il testo più lineare nella lettura in italiano.

   si legga anche qui: il Padre Nostro spiegato da san Tommaso d'Aquino






[Modificato da Caterina63 12/02/2018 08:59]
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