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Quando pregate non sprecate le parole ma dite: PADRE NOSTRO CHE SEI NEI CIELI...

Ultimo Aggiornamento: 12/02/2018 08:59
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07/12/2017 08:57
 
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  • L'INTENZIONE DEL PAPA


Padre Nostro, una traduzione, tanti significati




Sulla modifica della traduzione di "non ci indurre in tentazione" nel Padre Nostro, bisogna ricordare che la categoria di Dio che mette alla prova è ampiamente citata nella Scrittura. L'attuale traduzione, pur non correttissima è più ricca di significati. Ma ciò che conta è che il linguaggio cristiano non può essere condizionato da quello corrente. 


Dio non tenta al male né oltre le nostre forze: Gc 1,12-13; 1Cor 10,13. Questo è ovvio e, come dice il Papa, tentare direttamente al male è il mestiere del diavolo. Il termine usato nel Padre nostro sia in Mt 6,13 sia in Lc 11,4, è l’aoristo attivo del verbo “eis-fero” (εἰσενέγκῃς” - eisenekes), che alla lettera significa “portare verso/dentro” e quindi introdurre/indurre. Sono interessanti gli usi - pochi - dello stesso verbo nel Nuovo Testamento con il senso inequivocabile di portare dentro.


Come Lc 5,18-19: il paralitico che i portatori cercano di introdurre di fronte a Gesù: «Ed ecco, alcuni uomini, portando su un letto un uomo che era paralizzato, cercavano di farlo entrare (portarlo dentro) e di metterlo davanti a lui. / Non trovando da quale parte farlo entrare a causa della folla, salirono sul tetto e, attraverso le tegole, lo calarono con il lettuccio davanti a Gesù nel mezzo della stanza».


O Lc 12,11: «Quando vi porteranno davanti (porteranno dentro) alle sinagoghe, ai magistrati e alle autorità, non preoccupatevi di come o di che cosa discolparvi, o di che cosa dire»; E ancora: At 17,20, la domanda dei filosofi ateniesi a san Paolo: «Cose strane, infatti, tu ci metti negli (ci fai entrare dentro negli) orecchi; desideriamo perciò sapere di che cosa si tratta», e 1Tm 6,7: «Infatti non abbiamo portato (portato/introdotto dentro) nulla nel mondo e nulla possiamo portare via». Infine, Eb 13,11: «Infatti i corpi degli animali, il cui sangue viene portato nel (portato dentro al) santuario dal sommo sacerdote per l’espiazione, vengono bruciati fuori dell’accampamento».


A questo punto il problema e la soluzione sono che cosa si intende con “indurre”. Certo, come già detto, non si può intendere che Dio tenta direttamente al male, ed è vero che nel linguaggio corrente “indurre in tentazione” a volte significa proprio questo. Ma è anche vero che “non ci indurre in tentazione” - pur aperto all’equivoco di cui sopra -, rispetta di più un altro senso implicito, che non è subito il “non lasciarci cadere” nella tentazione, ma prima ancora il “non introdurci” nel senso di “non lasciare che siamo introdotti” nella tentazione dal demonio o da noi stessi.


Non solo, il “non ci indurre in tentazione” mantiene in sottofondo - anche se con terminologia non correttissima rispetto al linguaggio odierno - la categoria di Dio che prova e mette alla prova. Ad esempio, Dt 13,4 «Osserverete per metterlo in pratica tutto ciò che vi comando: non vi aggiungerai nulla e nulla vi toglierai. Qualora sorga in mezzo a te un profeta o un sognatore che ti proponga un segno o un prodigio, e il segno e il prodigio annunciato succeda, ed egli ti dica: Seguiamo dèi stranieri, che tu non hai mai conosciuto, e serviamoli, tu non dovrai ascoltare le parole di quel profeta o di quel sognatore, perché il Signore, vostro Dio, vi mette alla prova per sapere se amate il Signore, vostro Dio, con tutto il cuore e con tutta l’anima»; Gdc 3,4 «Queste nazioni servirono a mettere Israele alla prova, per vedere se Israele avrebbe obbedito ai comandi che il Signore aveva dato ai loro padri per mezzo di Mosè»; e tantissimi altri passi che si trovano cercano la parola “prova” nelle Scritture.


In questo senso il “non ci indurre alla tentazione” significherebbe “Signore, non metterci troppo alla prova, non darci una prova troppo grande, non permettere che siano tentati oltre le nostre forze ecc.”. Si obietterà che Dio non tenta oltre le nostre forze e dunque non è il caso di inoltrargli una simile richiesta... ma così ragionando ci si dimentica che il nostro rapporto con Dio non si basa sulla filologia e sulle certezze al limite, ma parte dal vissuto e dalle implorazioni che sorgono spontanee dal vissuto.


Quanto poi alla considerazione che Dio non sta a vedere se siamo caduti ma ci sostiene prima, è verissima, ma non bisogna spingerla più di tanto sino ad eliminare il fatto che, secondo una tradizione ascetica e spirituale, Dio non soltanto ci mette alla prova, ma anche “sta a vedere” il nostro combattimento per premiarci.


Al riguardo è famoso il testo di sant’Atanasio nella Vita di Antonio, dopo che quest’ultimo fu tentato dal demonio sotto le forme orribili di animali feroci: «Il Signore neppure in questo momento si dimenticò della lotta di Antonio, ma venne in suo aiuto. Sollevati gli occhi, dunque, (Antonio) vide il tetto come se si aprisse e un raggio di luce che scendeva verso di lui. E i demoni scomparvero in un istante, il dolore del corpo era subito cessato, e la casa era di nuovo intatta. Antonio percepì l’aiuto e, ripreso più fiato e alleggerito dei suoi dolori, chiedeva alla visione che si era manifestata: “Dov’eri? Perché non sei apparso fin dall’inizio, per porre fine alle mie sofferenze?”. E una voce a lui: “Antonio, ero qui, ma aspettavo di vedere la tua contesa. Dunque, giacché hai resistito e non sei stato sconfitto, io sarò sempre tuo soccorritore e ti renderò famoso in ogni dove” (10,1-3)».


Dunque e concludendo: certo che si può cambiare la versione come hanno fatto i francesi, ma, più si precisa, più si perdono tanti significati concomitanti e sottesi come quelli indicati. Infine bisogna ricordare che la liturgia non cita necessariamente alla lettera la Scrittura, ma dalla Scrittura elabora una sua preghiera.


E alla fine bisogna ricordare che il linguaggio cristiano non sempre può essere condizionato dal linguaggio corrente e tarato su di esso: certe parole e certe espressioni hanno una polisemia che va mantenuta e imparata, come nel caso classico del termine neotestamentario di “carne”. Il linguaggio cristiano va imparato e, come diceva Totò, “nessuno nasce imparato”.





Papa Francesco corregge Gesù: vuole cambiare il Pater Noster?

Che cosa è, oggi, tutta questa smania di nuovo e di cambiamento se non quel monito paolino: “stanchi di udire la solita dottrina” (2Tim.4,1-5), attraverso la quale si vuole dare una “nuova” immagine di Dio e della Chiesa?

Dal latino della prima Vulgata di san Girolamo: “…et ne nos indúcas in tentatiónem…” e non ci indurre in tentazione, il primo a storcere il naso su questa traduzione fu Martin Lutero, sì, proprio lui che ovviamente lasciò ai suoi discepoli e alla “sua chiesa”, l’opportunità di ritradurre il finale con: “E non esporci alla tentazione, ma liberaci dal maligno, perché tuo è il regno e la potenza e la gloria in eterno. Amen“.

La versione della CEI del 1978 manteneva ancora la frase tradizionale della Vulgata: “e non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male“. Mentre, già dalla versione del 2008 abbiamo una modifica davvero grottesca in: “e non abbandonarci nella tentazione, ma liberaci dal male“. Una traduzione, quest’ultima, che Benedetto XVI non volle usare nel lezionario liturgico.

Chi ha ragione e chi ha torto? Ha torto il Protestantesimo ieri e la CEI con Papa Francesco, oggi, perché la traduzione protestante fu volutamente ideologica, come ideologica lo è oggi. Milioni di cattolici in tutto il mondo e da duemila anni hanno sempre pregato con la versione – tradotta in lingua propria – dalla Vulgata attraverso la quale, per altro, per duemila anni migliaia di Santi hanno pronunciato in latino le medesime parole.

Il messaggio che si vuole far passare è che “la Chiesa può sbagliare” e che per duemila anni ha sbagliato, finalmente oggi abbiamo un Papa così coraggioso e misericordioso, da rimettere le cose a posto. Riportiamo questo passaggio molto interessante da chi ha già discusso l’argomento:

“La parte a cui mi riferisco, tradotta e utilizzata per secoli, è proprio il versetto di Matteo 6,13a: “non ci indurre in tentazione” , che nella nuova versione è stato maldestramente tradotto con “non abbandonarci alla tentazione”. Naturalmente anche qui ha prevalso il “politicamente corretto”. Come può Dio “indurre” in tentazione? Allora cambiamo con una traduzione più morbida, più sdolcinata, più sentimentale. Cosa sbagliatissima… Il latino “inducere”, molto opportunamente usato da san Girolamo nella Vulgata (traduzione della Bibbia dall’ebraico e greco al latino fatta da Girolamo nel IV secolo), essendo composto da ‘in’ (‘dentro, verso’) e ‘ducere’ (‘condurre, portare’), corrisponde puntualmente al greco eisphérein; e naturalmente è seguito da un altro in (questa volta preposizione) e dall’accusativo temptationem, con strettissima analogia quindi rispetto al costrutto greco.

Quanto poi all’italiano indurre in, esso riproduce esattamente la costruzione del verbo latino da cui deriva e a cui equivale sotto il profilo semantico. Dunque la traduzione più giusta, che rimane fedele al testo è quella che è sempre stata: “non ci indurre in tentazione”. Ogni altra traduzione è fuorviante, e oserei dire anche grottesca.” (vedi qui il resto).

Il Pontefice,  durante la settima puntata del programma di Tv2000 intitolato proprio Padre Nostro  contesta – ALLA CHIESA CATTOLICA – il modo in cui è stata tradotta la frase «e non indurci in tentazione». «Nella preghiera del Padre Nostro – chiosa papa Francesco – Dio che ci induce in tentazione non è una buona traduzione. Anche i francesi hanno cambiato il testo con una traduzione che dice “non mi lasci cadere nella tentazione”: sono io a cadere, non è Lui che mi butta nella tentazione per poi vedere come sono caduto, un padre non fa questo, un padre aiuta ad alzarsi subito», ha spiegato Bergoglio, sottolineando che «quello che ti induce in tentazione è Satana, quello è l’ufficio di Satana».

Che l’abbiano cambiata i francesi non è certo una dimostrazione concreta, una prova, che san Girolamo avesse torto, e con lui la Chiesa Cattolica bimillenaria!!Come al solito Bergoglio non chiarisce, non spiega e soprattutto mente, perché non dice che la nuova traduzione servirebbe a far sentire più uniti i cattolici e i protestanti insieme, tanto non si prega più in latino, neppure nella Messa, perciò un cambiamento alla frase finale, e come la vogliono i protestanti da sempre, è un compromesso accettabile, per papa Francesco.

Che cosa sta accadendo? Che cosa è, oggi, tutta questa smania di nuovo e di cambiamento se non quel monito paolino: “stanchi di udire la solita dottrina” (2Tim.4,1-5), attraverso la quale si vuole dare una “nuova” immagine di Dio e della Chiesa? E’ chiaro che, come da anni si sta dando addosso anche al concetto del CASTIGO DI DIO per mitigarlo e cambiarlo, facendo passare solo una pastorale verso un Dio bonaccione, piacione (la cui nuova immagine è papa Francesco), misericordioso, atto a non dover mai giudicare alcun peccato degli uomini, così ora si attacca il Pater Noster per dimostrare che TUTTO dipende solo dagli uomini, e che Dio non ha alcun ruolo nelle nostre vite.

Figlio, se ti presenti per servire il Signore, preparati alla tentazione”(Sir.2)

Insegna san Paolo: “Che diremo dunque? C’è forse ingiustizia da parte di Dio? No certamente!  Egli infatti dice a Mosè: Userò misericordia con chi vorrò, e avrò pietà di chi vorrò averla. Quindi non dipende dalla volontà né dagli sforzi dell’uomo, ma da Dio che usa misericordia. Dice infatti la Scrittura al faraone: Ti ho fatto sorgere per manifestare in te la mia potenza e perché il mio nome sia proclamato in tutta la terra.  Dio quindi usa misericordia con chi vuole e indurisce chi vuoleMi potrai però dire: «Ma allora perché ancora rimprovera? Chi può infatti resistere al suo volere?».  O uomo, tu chi sei per disputare con Dio?” (Rm.9.14-20).

Ascoltiamo la risposta di sant’Agostino: “Se Dio è autore di tutto e vuole tutto, se è lui che indurisce, come può poi lamentarsi, minacciare, biasimare: come può rimproverare l’uomo del suo comportamento peccaminoso, se è Dio che, irresistibilmente, vuole tutto questo? Il problema è posto in termini chiari. Ma Paolo avverte subito la difficoltà di una risposta adeguata: quindi, mentre implicitamente afferma che l’uomo è libero è responsabile, e che quindi Dio ha tutti i diritti di rimproverare, situa il problema nel suo contesto naturale: la trascendenza divina. Fa questo anzitutto con una interrogazione retorica: come può l’uomo mettersi a discutere, quasi da pari a pari con Dio fino a contraddirlo? È la posizione assurda con cui l’uomo pone dei problemi che toccano la trascendenza divina, posizione che Dio rimprovera, ad esempio, a Giobbe (58-39)…” (tratto da 83 Questioni; questione n.68).

E dunque, perché affermiamo che la traduzione modernista del Pater Noster è sbagliata, è ideologica ed è protestante?

Beato l’uomo che poteva trasgredire e non ha trasgredito, che poteva fare il male e non lo fece” (Sir 31,10).

_063 addio al Pater noster 3In una delle trasmissioni di Radio Maria, il compianto esorcista Padre Amorth tenne una lectio proprio sul “VALORE DELLA TENTAZIONE” partendo proprio dal racconto del Libro di Giobbe dove si legge testualmente… “C’era nel paese di Uz un uomo che si chiamava Giobbe. Quest’uomo era integro e retto; temeva Dio e fuggiva il male…. Un giorno i figli di Dio vennero a presentarsi davanti al SIGNORE, e Satana venne anch’egli in mezzo a loro. Il SIGNORE disse a Satana: «Da dove vieni?» Satana rispose al SIGNORE: «Dal percorrere la terra e dal passeggiare per essa».  Il SIGNORE disse a Satana: «Hai notato il mio servo Giobbe? Non ce n’è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Dio e fugga il male».  Satana rispose al SIGNORE: «È forse per nulla che Giobbe teme Dio? Non l’hai forse circondato di un riparo, lui, la sua casa, e tutto quel che possiede? Tu hai benedetto l’opera delle sue mani e il suo bestiame ricopre tutto il paese. Ma stendi un po’ la tua mano, tocca quanto egli possiede, e vedrai se non ti rinnega in faccia».  Il SIGNORE disse a Satana: «Ebbene, tutto quello che possiede è in tuo potere; soltanto, non stender la mano sulla sua persona». E Satana si ritirò dalla presenza del SIGNORE… (Gb.1,1-12)

Il resto della storia dovremo conoscerlo…. Giobbe perderà TUTTO, Satana chiederà che Giobbe sia anche provato sulla sua persona attraverso delle malattie, la prova sarà immensa, la tentazione immane, ma vincerà donando – anche culturalmente – il famoso detto “la pazienza di Giobbe”, leggete il Libro, imparerete tutti qualcosa!

La Bibbia, spiegava Padre Amorth, tratta la tentazione come una beatitudine:”Beato l’uomo che sostiene la tentazione, poiché una volta collaudato riceverà la corona della vita che Dio promise a quanti lo amano” (Giacomo 1,12). Un grande santo e dottore della Chiesa, S.Giovanni Crisostomo, arrivò ad affermare che il demonio (certamente suo malgrado) è il “santificatore delle anime”. E’ evidente perciò che non va cambiato il Pater Noster, ma cercare di capire cosa intenda la Bibbia per TENTAZIONE, e perché, semmai, Dio che è davvero misericordioso, la permette.

Nel 2010 già Cantuale Antonianum faceva questo appello ai Vescovi: Per favore, non cedete alla tentazione di cambiare il Padre Nostro… vedi qui, facendo osservare: “Non ci si accorge che la traduzione proposta, se proprio vogliamo dirlo, si espone a domanda di egual tenore: “Ma può Dio abbandonare i suoi figli alla tentazione?”, non dice forse la Scrittura (Gc 1,14) che “Dio non permette che siamo tentati sopra le nostre forze”Quindi è ovvio che non ci abbandona alla tentazione se noi prima non abbiamo abbandonato lui! Ma leggiamo in Mt 4,1: “Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo” (Tunc Iesus ductus est in desertum a Spiritu, ut tentaretur a Diabolo)….

Anche Gesù, ricordiamolo (Lc 22,42), pregò il Padre, con umanissimo timore, di far passare il calice della prova della Passione, ma si rimise alla sua volontà (il ditelismo – le due volontà – è dogma di fede). Il Padre lo sostenne nella tentazione finale, quella di scappare dalla croce, e Cristo superando la prova potè affermare: “tutto è compiuto” (Gv 19,30). Infatti senza la tentazione nessuno è adatto alla prova, tanto in se stesso, come si ha nella Scrittura: Chi non è stato tentato che cosa sa? (Sir 34, 9.11)” Prosegue poi Agostino: “Quindi con quella preghiera non si chiede di non essere tentati, ma di non essere immessi nella tentazione, sulla fattispecie di un tale, a cui è indispensabile essere sottoposto all’esperimento del fuoco, e non chiede di non essere toccato col fuoco, ma di non rimanere bruciato. Infatti la fornace prova gli oggetti del vasaio e la prova della sofferenza gli uomini virtuosi(Sir 27,6)”. (De Sermone Domini in Monte II,9.30)

Ci viene quasi il sospetto che papa Francesco, come il suo preposto gesuita Arturo Sosa, non creda alle parole di Gesù perchè… “a quei tempi non c’era un registratore“, tanto da sentirsi autorizzato a modificare una traduzione che è limpida fin dai primi secoli…. che non fu una interpretazione, come sta tentando di fare lui oggi, e come fece Lutero ieri, ma che è una semplice ed autentica traduzione.

La tentazione E’ LA PROVA…. senza la quale nessuno di noi potrebbe entrare in Paradiso! Vogliamo concludere con le parole del Catechismo della Chiesa Cattolica, vedi qui, a dimostrazione che papa Francesco sta sbagliando, ha sbagliato la CEI con la nuova traduzione, e sbaglia questa nuova pastorale modernista:

Noi chiediamo al Padre nostro di non « indurci » in essa. Tradurre con una sola parola il termine greco è difficile: significa «non permettere di entrare in», «non lasciarci soccombere alla tentazione». «Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male» (Gc 1,13); al contrario, vuole liberarcene. Noi gli chiediamo di non lasciarci prendere la strada che conduce al peccato. Siamo impegnati nella lotta «tra la carne e lo Spirito». Questa domanda implora lo Spirito di discernimento e di fortezza. (n.2846)

Lo Spirito Santo ci porta a discernere tra la prova, necessaria alla crescita dell’uomo interiore (Cf Lc 8,13-15; At 14,22; 2 Tm 3,12)  in vista di una «virtù provata», (Cf Rm 5,3-5) e la tentazione, che conduce al peccato e alla morte. Dobbiamo anche distinguere tra «essere tentati» e «consentire» alla tentazione. Infine, il discernimento smaschera la menzogna della tentazione: apparentemente il suo oggetto è «buono, gradito agli occhi e desiderabile» (Gn 3,6), mentre, in realtà, il suo frutto è la morte. (n.2847)

«Dio non vuole costringere al bene: vuole persone libere […]. La tentazione ha una sua utilità. Tutti, all’infuori di Dio, ignorano ciò che l’anima nostra ha ricevuto da Dio; lo ignoriamo perfino noi. Ma la tentazione lo svela, per insegnarci a conoscere noi stessi e, in tal modo, a scoprire ai nostri occhi la nostra miseria e per obbligarci a rendere grazie per i beni che la tentazione ci ha messo in grado di riconoscere».




  • UN TESTO DEL '96

Padre nostro, la versione di Scalfari

di Angela Pellicciari

In un lontano domenicale del 1996, il direttore di Repubblica Eugenio Scalfari si esercitava in una lunga disquisizione sul Padre Nostro: “Padre Nostro, dove stai?”. Come mai un laico a tutto tondo, anzi, il pontefice massimo della cultura laica italiana, aveva scelto un simile soggetto? Per stanchezza. Perché era stufo di doversi confrontare coi fatti e i personaggi della squallida politica nostrana. Basta. Basta, nell’ordine, coi Dini, i D’Alema, i Fini e i Berlusconi. Meglio, molto meglio, occuparsi della preghiera che “tocca i credenti fin nelle più intime fibre e suggerisce ai non credenti attenzione e rispetto”. 

Le vene ai polsi del direttore Scalfari non tremavano e così, nell’incipit, a commento delle sei parole iniziali della preghiera (“Padre nostro che sei nei cieli”), il direttore-vate chiosava: “Quelle sei parole sono il condensato di tutta la civiltà ebraica-cristiana-islamica”. Forse nel frattempo qualcuno gli avrà pure chiarito come per l’islam sia pura aberrazione riferirsi ad Allah come ad un padre, ma tant’è. Quisquiglie, si dirà. E di lì giù a ridisegnare, smontandoli uno dopo l’altro, i versetti del Padre Nostro. La saggezza, la pacatezza, la disanima puntuale tipici della prosa (un pochino tronfia?) del direttore di Repubblica, servivano a Scalfari per affermare: “Sperare che ci salvi un Padre che sta nei cieli è una fuga. Qui e ora, questo è un compito che spetta interamente a noi”. I cieli, la modernità lo sa, non hanno padre. La legge ce la diamo da soli e la differenza fra bene e male siamo noi a stabilirla nella profondità della nostra libera coscienza: “Nel loro profondo essi –gli uomini moderni- pensano che i cieli siano vuoti, che il Padre sia morto e che comunque da Lui non sia mai venuto alcun comandamento. Essi pensano nel profondo che la moralità non sia accettazione di una legge ma scelta responsabile e autonoma, tanto più vincolante in quanto libera e liberata dall’aspettazione di premi e di castighi”.

I cieli sono vuoti ma, e Scalfari lo sa bene, la modernità nonostante tutto non è cattiva. Noi d’istinto rifiutiamo la condanna del peccatore perché “Bene e Male sono soltanto parole” e “per rimettere i debiti non c’è bisogno del Padre, né si debbono rimettere affinché il Padre a sua volta rimetta i nostri”. L’unica cosa che conta è l’amore: “Ama il prossimo come te stesso”, “Lì è il fondamento della carità, lì è la via dell’Amore al di sopra sia della fede che della saggezza. L’Amore è la riscoperta dell’Altro, del Prossimo, della Specie cui apparteniamo, della Vita nella sua finitezza preziosa che dà luce nell’atto stesso in cui si consuma e che non ha alternative al di fuori del consumarsi per far luce al Prossimo e a se stessi”. Amen. 

Il domenicale di Scalfari del 21 gennaio 1996 muoveva da uno spunto offertogli da un’informazione riservata: una commissione di vescovi stava preparando una nuova versione del Padre Nostro “per adattarlo - si dice - ai mutamenti della modernità”. Nella nuova versione i vescovi (la memoria non ci consente di chiarire quali e l’articolo non ci aiuta) “propongono una modifica importante nel testo della preghiera: non più il ‘non indurci in tentazione’ bensì ‘non abbandonarci alla tentazione’”. Perché se è vero, come è vero, che nei cieli non c’è nessun padre, questo padre è buono, nel senso che non condanna nessuno né tanto meno induce nessuno in tentazione (“Sta all’uomo e a lui soltanto essere il tentatore di se stesso e scegliere sotto la sua responsabilità se sperimentare la tentazione o respingerla”).  

Al di là delle questioni grammaticali, questa è la verità di Scalfari. Ma Scalfari, si sa , è la persona che molto ha fatto per scardinare dal cuore degli italiani la verità cattolica.




[Modificato da Caterina63 14/12/2017 12:37]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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