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ATTENZIONE: ISTRUZIONE SULLA LITURGIA UNIVERSAE ECCLESIAE per applicazione Summorum Pontificum

Ultimo Aggiornamento: 30/04/2013 15:59
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14/05/2011 13:10
 
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[SM=g1740733] Due forme del Messale, una sola liturgia
Una lezione di stile Cattolico


Potrà un gesto di pacata saggezza magisteriale restituirci al senso della fede che ci è comune? E anche, se mi è consentito, ricondurci al senso delle proporzioni, nelle discussioni in materia di liturgia e tradizione?

L’Istruzione diffusa ieri dalla Pontificia Commissione Ecclesia Dei, puntualizza dettagliatamente, con toni fermi e sereni la questione relativa alla teoria e alla pratica della forma liturgica precedente, e costituisce ora, a questo scopo, un autorevolissimo punto di riferimento.

Nell’evidenza di un eccesso di drammatizzazione dell’adeguamento liturgico ufficiale, il Papa Benedetto XVI (come del resto già il beato Giovanni Paolo II) ha giustamente difeso, a più riprese, la sua piena legittimità: «Non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del Messale Romano. Nella storia della liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura». Il giudizio, naturalmente, vale dai due lati. Non esiste alcuna ragione per qualificare pregiudizialmente come una deviazione il giusto adeguamento liturgico che la Chiesa autorevolmente procura alla tradizione vivente della fede (la liturgia sarà finalmente perfetta solo in cielo). Così come non esiste alcun motivo per lasciar intendere che un tale sviluppo comporti necessariamente una sorta di ripudio per ciò che nella tradizione liturgica è stato "sacro e grande". E tale rimane. La comprensione per la venerazione della forma precedente, e la regolata accoglienza del suo esercizio nella Chiesa odierna, confermano esattamente il principio ermeneutico confermato da Benedetto XVI.

L’effettiva percezione di una diffusa sensibilità, fra sacerdoti e fedeli, per il sostegno spirituale loro offerto dalla pratica dell’antico rito, lascia però intuire che quella sensibilità può essere gravemente manipolata (già è avvenuto, come si sa): persino in termini cattolicamente inaccettabili. Quella sensibilità, infatti, può essere pretestuosamente forzata a intendersi come baluardo della dottrina liturgica autentica contro una forma liturgica – di per sé altrettanto ufficiale e in continuità con la tradizione apostolica – che ne rappresenterebbe la corruzione e la distruzione. O peggio, la sua rivendicazione, in termini a sua volta materialmente esclusivi di ogni vitale adeguamento delle forme, potrebbe essere persino esaltata come simbolo per una linea di resistenza e di lotta al Magistero recente, che reagisce a un processo di generale corruzione della dottrina e della prassi della Chiesa cattolica. Corruzione alla quale gli stessi Sommi Pontefici non sarebbero in grado – o addirittura non avrebbero l’intenzione – di opporsi con la necessaria efficacia.

La continuità dell’affezione nei confronti di una forma rituale venerabile e sacra, che innumerevoli generazioni hanno abitato come espressione dell’immutabile tradizione apostolica, è dunque autorevolmente riconosciuta, in base a princìpi sempre condivisi e mai revocati in dubbio, come espressione legittima di una vera sensibilità cattolica. Il criterio ultimo della sua legittima "ospitalità ecclesiale", raccomandata al saggio discernimento dei vescovi, appare in tutta evidenza nel prologo del documento. Nulla deve ferire la concordia di ogni Chiesa particolare con la Chiesa universale: nella dottrina della fede, nei segni sacramentali, e «negli usi universalmente accettati dalla ininterrotta tradizione apostolica». Interesse rigorosamente comune e principio sicuro di pace ecclesiale.

Di qui in avanti, unire le forze per restituire alla liturgia l’incanto possente della fede che sta al cospetto dell’unico Signore deve apparirci, in questi tempi difficili, l’unica cosa veramente necessaria allo splendore della tradizione della fede. E se fosse proprio questo ciò che ci fa difetto? Da dove viene – e dove ci porta – questa assuefazione all’investitura fai-da-te, che impanca chiunque a salvatore del cristianesimo, e guida sicura delle sue guide insicure? Umiltà e obbedienza non sono virtù essenziali alla tradizione della fede? Se ce ne fossimo dimenticati, antichi o moderni quanti siamo, questo testo non ci istruisce soltanto. Ci dà una lezione di stile. Cattolico.
padre Pierangelo Sequeri
da Avvenire 14.5.2011


[SM=g1740722]


Preti e seminaristi a lezione di latino
di Giacomo Galeazzi
in “La Stampa” del 14 maggio 2011

Più latino per preti e seminaristi. I vescovi dovranno «mettere i sacerdoti in condizione» di apprendere la lingua di Tertulliano e Sant’Agostino affinché possano celebrare la messa secondo il rito antico. Per «la corretta interpretazione e la retta applicazione» del Motu proprio del luglio 2007, la pontificia commissione «Ecclesia Dei», attraverso l’Istruzione «Universae Ecclesiae», chiede
all’episcopato di assicurare al clero una preparazione adeguata alla liturgia preconciliare.
Ciò vale sia per i preti a digiuno di declinazioni e formule secolari sia per i seminaristi(«si dovrà provvedere nei seminari alla formazione dei futuri sacerdoti con lo studio del latino»).

Nelle diocesi dove non ci siano preti «idonei», interverrà «Ecclesia Dei», competente anche per i ricorsi dei fedeli contro i vescovi che ostacolano la liberalizzazione del rito antico. La Santa Sede,dunque, azzera le opposte forzature dei lefebvriani anti-Concilio e dei progressisti anti-latino. Potrà celebrare con il messale del 1962 solo chi accetta la riforma liturgica e chi condivide l’intento di unità di Benedetto XVI.
Il rito antico può essere usato nei vari sacramenti, anche per ordinare preti (ma solo negli istituti riconosciuti).

«Generosa accoglienza» verso quanti chiedono il messale precedente alla riforma liturgica, spiega il portavoce vaticano padre Federico Lombardi, per garantire «la legittimità e l’effettività dell’uso del messale antico e lo spirito di comunione ecclesiale: la finalità papale di riconciliazione non va ostacolata o frustrata, ma favorita e raggiunta». Non si tratta di un ritorno al passato, osserva il teologo Gianni Gennari, bensì di «un recupero di una ricchezza linguistica, liturgica, estetica, musicale, capace di attirare sia i semplici sia i colti».
Aggiunge Gennari: «Un prete che non conosce il latino non può accostarsi a quella “Vulgata” di San Girolamo che ha alimentato la teologia, la filosofia e la preghiera di generazioni di sacerdoti e cristiani. San Tommaso letto in latino ha un sapore diverso da ogni traduzione. Il latino è miniera di conoscenze e spiritualità».

Questo documento «non cancella nulla del Concilio e della riforma liturgica: la lingua del popolo resta quella della celebrazione ordinaria, con la possibilità a chi lo desidera del modo
“straordinario”», precisa Gennari, secondo il quale «il latino allontana chi non conosce il latino e avvicina chi lo conosce. E’ fuori strada chi pensa che basti questa istruzione per negare l’eredità riformatrice di Roncalli e Montini».


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Sulla messa antica il Papa insegna l’equilibrio

13 maggio 2011 -

Condivido pienamente quanto ha scritto oggi padre Federico Lombardi nella nota che sintetizza la nuova Istruzione “Universae Ecclesiae” sull’applicazione del motu proprio Summorum Pontificum.

Scrive Lombardi: “A lettura compiuta, rimane l’impressione di un testo di grande equilibrio, che intende favorire – secondo l’intenzione del Papa – il sereno uso della liturgia precedente alla riforma da parte di sacerdoti e fedeli che ne sentano il sincero desiderio per il loro bene spirituale; anzi, che intende garantire la legittimità e l’effettività di tale uso nella misura del ragionevolmente possibile. Allo stesso tempo il testo è animato da fiducia nella saggezza pastorale dei vescovi, e insiste molto fortemente sullo spirito di comunione ecclesiale che deve essere presente in tutti – fedeli, sacerdoti, vescovi – affinché la finalità di riconciliazione, così presente nella decisione del Santo Padre, non venga ostacolata o frustrata, ma favorita e raggiunta”.

Il rito romano è uno. Ma questo stesso rito si può “usare” secondo due forme diverse, quella del messale romano fino all’ultima edizione di Giovanni XXIII, nel 1962, e quella del nuovo messale approvato da Paolo VI nel 1970 a seguito della riforma liturgica del Concilio Vaticano II.

Il rito romano è uno come una è la chiesa. Pertanto, recita l’istruzione, i fedeli che chiedono la celebrazione in forma extraordinaria non devono in alcun modo sostenere o appartenere a gruppi che si manifestino contrari alla validità o legittimità della forma ordinaria e/o all’autorità del Papa come pastore supremo della chiesa universale. Ciò sarebbe infatti in palese contraddizione con la finalità di “riconciliazione” del motu proprio stesso.

Troppe volte coloro che difendono il rito antico rigettano quello nuovo e la chiesa che nel post Concilio ha continuato a rinnovare se stessa nella fedeltà a Pietro. Insieme, troppe volte coloro che rigettano il rito antico osteggiano la ricchezza di una grande tradizione che in nessun modo va persa.

Per questo ha ragione Lombardi: il testo manifesta un grande equilibrio perché la parola che meglio lo sintetizza è “riconciliazione”.

Pubblicato su palazzoapostolico.it venerdì 13 maggio 2011


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Messa in rito antico, istruzioni per l'uso


di Massimo Introvigne da LaBussola
13-05-2011


Il 13 maggio 2011 la Pontificia Commissione «Ecclesia Dei» ha pubblicato l’attesa Istruzione «Universae Ecclesiae» sull’applicazione della Lettera Apostolica Motu Proprio data «Summorum Pontificum» di S.S. Benedetto XVI. Come si ricorderà, tale lettera apostolica del 7 luglio 2007 liberalizzava l’uso della liturgia «antica», celebrata secondo il rito detto di san Pio V (1504-1572) e con l’uso del Messale del 1962 del beato Giovanni XXIII (1881-1963). L’Istruzione riporta l’approvazione esplicita di Benedetto XVI e porta la data formale del 30 aprile 2011, festa liturgica di san Pio V.

L’Istruzione interviene su una materia quanto mai controversa, e per comprenderne la portata è necessaria un po’ di storia. Dopo la riforma liturgica del 1969 del servo di Dio Paolo VI (1897-1978) – che non si limitava a passare dal latino alle lingue correnti, ma modificava profondamente la liturgia – si poneva il problema della sorte della liturgia precedente, la cosiddetta «Messa antica» o «Messa di san Pio V», spesso detta anche «Messa in latino», ma in modo impreciso perché anche la Messa secondo la riforma del 1969 può essere celebrata in lingua latina. Non poteva esistere nessun dubbio sulla volontà del servo di Dio Paolo VI di rendere la «nuova Messa» obbligatoria come rito ordinario della Chiesa latina, mentre le Chiese orientali conservavano le loro antiche liturgie. Qualcuno riteneva che la Messa antica fosse stata abrogata, e fosse vietata salvo speciali permessi o indulti concessi a singoli o congregazioni: un’obiezione che si fondava anche su commenti privati e interviste dello stesso servo di Dio Paolo VI.

In favore della Messa antica sorse un vasto movimento, che in parte accettò anche la nuova Messa accanto all’antica, in parte rifiutò la Messa nuova, andando nel secondo caso a confluire nella galassia di movimenti – il più noto dei quali è la Fraternità Sacerdotale San Pio X fondata da monsignor Marcel Lefebvre (1905-1991) – che contestavano anche tutti o alcuni dei documenti del Concilio Ecumenico Vaticano II. Per questi movimenti la Messa antica non era l’unica – e forse neppure la principale – ragione di dissenso con Roma, ma ne divenne in qualche modo la bandiera.
Proprio in occasione della scomunica di mons. Lefebvre nel 1988, come l’Istruzione Universae Ecclesiae ora ci ricorda, il beato Giovanni Paolo II (1920-2005), il quale «con lo speciale Indulto Quattuor abhinc annos, emanato nel 1984 dalla Sacra Congregazione per il Culto Divino, [aveva concesso] a determinate condizioni la facoltà di riprendere l’uso del Messale Romano promulgato dal Beato Papa Giovanni XXIII», «con il Motu Proprio “Ecclesia Dei” [appunto] del 1988, esortò i Vescovi perché fossero generosi nel concedere tale facoltà in favore di tutti i fedeli che lo richiedevano». In seguito a tale motu proprio nacquero anche gli istituti detti appunto «Ecclesia Dei» costituiti da sacerdoti e religiosi i quali intendevano preservare il rito antico e nello stesso tempo aderivano al Magistero conciliare e post-conciliare dei Pontefici, prendendo esplicitamente le distanze da mons. Lefebvre. Questi istituti, pur celebrando con il rito antico, s’impegnavano a non contestare non solo la validità – che non era contestata neppure da mons. Lefebvre, almeno in via generale – ma neppure la legittimità del nuovo rito.

Con il motu proprio Summorum Pontificum Benedetto XVI – dal momento che l’appello ai vescovi perché «fossero generosi», per usare un eufemismo, non sempre era stato accolto – fece un passo in più. Chiarì definitivamente che l’antico rito non era stato «mai abrogato» e che rito antico e rito nuovo sono «due usi dell’unico rito romano». Svincolò dall’approvazione previa dei vescovi le Messe private di singoli sacerdoti – cui peraltro, spiegò, «possono essere ammessi – osservate le norme del diritto – anche i fedeli che lo chiedessero di loro spontanea volontà», e quelle di ordini e società religiose, ordinando che potessero essere celebrate con il rito antico senza richiedere alcun permesso. Per le parrocchie e i santuari il Papa chiedeva ai parroci e rettori di «accogliere volentieri» le richieste di fedeli legati al rito antico e, qualora ci fossero problemi con i parroci, invitava i fedeli a rivolgersi al vescovo, a sua volta – scriveva Benedetto XVI – «vivamente pregato di esaudire il loro desiderio». Se il vescovo «non può provvedere», aggiungeva il motu proprio, «la cosa venga riferita alla Commissione Pontificia “Ecclesia Dei”».

Trascorsi tre anni dal motu proprio del 2007, com’era stato annunciato, è stata promossa un’inchiesta tra i vescovi di rito latino, dei cui risultati si è tenuto conto per l’Istruzione Universae Ecclesiae. L’Istruzione sintetizza la triplice finalità del motu proprio del 2007, così articolandola: «a) offrire a tutti i fedeli la Liturgia Romana nell’usus antiquior, considerata tesoro prezioso da conservare; b) garantire e assicurare realmente, a quanti lo domandano, l’uso della forma extraordinaria; c) favorire la riconciliazione in seno alla Chiesa». Quanto al secondo punto, si sottolinea come tale facoltà «vada interpretata in un senso favorevole ai fedeli che ne sono i principali destinatari».

È impensabile che non si sia tenuto conto anche delle tante lamentele pervenute alla commissione «Ecclesia Dei» nei confronti di vescovi i quali non applicavano le norme del motu proprio, quando pure non lo criticavano esplicitamente o ne promuovevano una sorta di boicottaggio. Forse tenendo conto di questi problemi, la Universae Ecclesiae ribadisce anzitutto che «il Motu Proprio Summorum Pontificum costituisce una rilevante espressione del Magistero del Romano Pontefice e del munus a Lui proprio di regolare e ordinare la Sacra Liturgia della Chiesa e manifesta la Sua sollecitudine di Vicario di Cristo e Pastore della Chiesa Universale», formula particolarmente impegnativa e solenne per indicare un Magistero da cui dovrebbe essere impensabile che un vescovo cattolico si discosti.

Una parte centrale della Universae ecclesiae riguarda appunto il ruolo dei vescovi. Essi sono chiamati ad «adottare le misure necessarie per garantire il rispetto della forma extraordinaria del Rito Romano, a norma del Motu Proprio Summorum Pontificum». Adottare le «misure necessarie» per conseguire un certo scopo evidentemente esclude la messa in discussione o il boicottaggio di quello scopo. Certo, afferma l’Istruzione, i vescovi «devono vigilare in materia liturgica per garantire il bene comune e perché tutto si svolga degnamente, in pace e serenità nella loro Diocesi», ma questa vigilanza non può essere arbitraria. Al contrario, deve essere «sempre in accordo con la mens del Romano Pontefice chiaramente espressa dal Motu Proprio Summorum Pontificum». Detto in altre parole, ai vescovi non spetta decidere se è opportuno affiancare al nuovo rito, che evidentemente mantiene il suo ruolo di rito ordinario, il rito antico come rito straordinario. Questo è già stato deciso dal Papa. Ai vescovi spetta semmai stabilire come possa essere introdotto o conservato nelle loro diocesi il rito antico, in stretta conformità non solo alla lettera ma anche alla mens, cioè allo spirito, del motu proprio, il cui scopo è favorire il rito antico e non ostacolarlo.

Dal momento che le controversie non saranno certo arrestate dalla Universae Ecclesiae, molto opportunamente l’Istruzione trasforma il semplice «riferimento» alla Commissione «Ecclesia Dei» del motu proprio in una vera e propria procedura giuridica di appello: «In caso di controversia o di dubbio fondato circa la celebrazione nella forma extraordinaria, giudicherà la Pontificia Commissione Ecclesia Dei».

L’Istruzione ribadisce che per le Messe private non è necessario chiedere alcun permesso, e che esigere tali permessi è un abuso. Precisa pure che «nel caso di un sacerdote che si presenti occasionalmente in una chiesa parrocchiale o in un oratorio con alcune persone ed intenda celebrare nella forma extraordinaria, come previsto dagli artt. 2 e 4 del Motu Proprio Summorum Pontificum, il parroco o il rettore di chiesa o il sacerdote responsabile di una chiesa, ammettano tale celebrazione, seppur nel rispetto delle esigenze di programmazione degli orari delle celebrazioni liturgiche della chiesa stessa». È dunque chiaro che se un gruppo di fedeli, accompagnato da un proprio sacerdote, si presenta in una chiesa per celebrare una Messa con il rito antico il parroco non può rispondere «Sono contrario alla Messa antica» oppure «Devo chiedere al vescovo». Se la Chiesa non è impegnata da altre celebrazioni, il parroco o rettore deve «ammettere tale celebrazione».

O meglio, la deve ammettere a meno che gli consti che le persone e i sacerdoti che la chiedono fanno parte di gruppi che rifiutano l’autorità del Papa, non solo in teoria ma anche in pratica – per esempio contestandone sistematicamente il Magistero –, ovvero di gruppi che, anche accettando in generale l’autorità del Pontefice, rifiutino la validità o la legittimità della nuova Messa. La formula è molto precisa: «I fedeli che chiedono la celebrazione della forma extraordinaria non devono in alcun modo sostenere o appartenere a gruppi che si manifestano contrari alla validità o legittimità della Santa Messa o dei Sacramenti celebrati nella forma ordinaria e/o al Romano Pontefice come Pastore Supremo della Chiesa universale».

Sono esclusi dai benefici della Universae Ecclesiae non solo i fedeli che «appartengano» ai gruppi che il Papa in altra occasione ha chiamato «anticonciliaristi» ma anche coloro, che pur senza «appartenervi», li «sostengano» con parole, scritti o offerte. Non solo coloro che contestano l’autorità del Papa ma anche quelli che contestano «solo» la nuova Messa. E per essere rubricati fra tali contestatori non è necessario mettere in dubbio la «validità» del nuovo rito; è sufficiente contestarne la «legittimità». I due concetti, canonicamente, non sono sinonimi, e la norma sembra scritta quasi apposta per descrivere la posizione della Fraternità Sacerdotale San Pio X, la quale afferma che – a certe condizioni – la nuova Messa è valida, ma afferma pure che non è «legittima», cioè non è una Messa cui i fedeli possano assistere senza mettere in pericolo la loro fede.

Per quanto riguarda le regolari celebrazioni nelle parrocchie e nei santuari, l’Istruzione offre precisazioni sulla questione del cosiddetto «gruppo stabile» (coetus fidelium stabiliter existens) che è titolato a richiederla. «Un coetus fidelium potrà dirsi stabiliter exsistens ai sensi dell’art. 5 § 1 del Motu Proprio Summorum Pontificum, quando è costituito da alcune persone di una determinata parrocchia che, anche dopo la pubblicazione del Motu Proprio, si siano unite in ragione della loro venerazione per la Liturgia nell’Usus Antiquior, le quali chiedono che questa sia celebrata nella chiesa parrocchiale o in un oratorio o cappella; tale coetus può essere anche costituito da persone che provengano da diverse parrocchie o Diocesi e che a tal fine si riuniscano in una determinata chiesa parrocchiale o in un oratorio o cappella». Non è dunque obbligatorio che tutti i membri del gruppo stabile siano della stessa parrocchia, anzi neppure della stessa diocesi.

Anche nel caso in cui non ci sia un «gruppo stabile» abbastanza numeroso, il vescovo non è autorizzato a chiudere la pratica magari tirando un sospiro di sollievo. Al contrario, spiega l’Istruzione, «nei casi di gruppi numericamente meno consistenti, ci si rivolgerà all’Ordinario del luogo per individuare una chiesa in cui questi fedeli possano riunirsi per ivi assistere a tali celebrazioni, in modo tale da assicurare una più facile partecipazione e una più degna celebrazione della Santa Messa». Anche qui, «individuare una chiesa» è cosa evidentemente diversa dal rispondere che non c’è nessuna chiesa disponibile.

Ci vuole, certo, un «sacerdote idoneo». Ma, precisa l’Istruzione, non c’è bisogno di un provetto liturgista o di un docente universitario di lingua latina. Per il latino, è sufficiente «una sua conoscenza basilare, che permetta di pronunciare le parole in modo corretto e di capirne il significato». Per «la conoscenza dello svolgimento del Rito, si presumono idonei i sacerdoti che si presentano spontaneamente a celebrare nella forma extraordinaria, e l’hanno usato precedentemente».

Certo, questo è un punto di partenza. La Chiesa vuole che la sua liturgia sia la più degna possibile e per questo «si chiede agli Ordinari di offrire al clero la possibilità di acquisire una preparazione adeguata alle celebrazioni nella forma extraordinaria. Ciò vale anche per i Seminari, dove si dovrà provvedere alla formazione conveniente dei futuri sacerdoti». Mancano perfino i sacerdoti in grado d’insegnare come si celebra con il vecchio rito? Risponde l’Istruzione che «nelle Diocesi dove non ci siano sacerdoti idonei, i Vescovi diocesani possono chiedere la collaborazione dei sacerdoti degli Istituti eretti dalla Pontificia Commissione Ecclesia Dei, sia in ordine alla celebrazione, sia in ordine all’eventuale apprendimento della stessa».

Altre norme precisano che nel Messale del 1962 in latino «potranno e dovranno essere inseriti nuovi santi e alcuni dei nuovi prefazi», secondo norme che saranno emanate in seguito; che i sacerdoti che lo desiderano possono usare il Breviario del 1962 in lingua latina; e che è confermata la facoltà di usare la formula antica per la Cresima, mentre per l’Ordine sacro l’antico rito può essere seguito solo negli istituti «Ecclesia Dei» «e in quelli dove si mantiene l’uso dei libri liturgici della forma extraordinaria», dunque non nelle diocesi, il che spiacerà a qualche sostenitore del rito antico.

Al di là di questo ultimo elemento, il senso generale dell’Istruzione è chiaro. Si tratta di un’Istruzione a favore della maggiore diffusione del rito antico, e intesa a rimuovere gli ostacoli che derivano da un’errata o maliziosa lettura del precedente motu proprio. Tutto questo – come Benedetto XVI ha precisato nel discorso del 6 maggio 2011 ai partecipanti al IX Congresso Internazionale di Liturgia, che La Bussola Quotidiana ha a suo tempo presentato e commentato – non per contrapporre riforma liturgica e rito antico, ma per integrarli e «riconciliarli». «Non poche volte – ha detto il Papa in quell’occasione – si contrappone in modo maldestro tradizione e progresso. In realtà, i due concetti si integrano: la tradizione è una realtà viva, include perciò in se stessa il principio dello sviluppo, del progresso. Come a dire che il fiume della tradizione porta in sé anche la sua sorgente e tende verso la foce». Il Papa chiede dunque insieme ossequio alla riforma liturgica del servo di Dio Paolo VI e al motu proprio del 2007: «piena fedeltà alla ricca e preziosa tradizione liturgica e alla riforma voluta dal Concilio Vaticano II, secondo le linee maestre della [costituzione sulla liturgia del Vaticano II] Sacrosanctum Concilium e dei pronunciamenti del Magistero».

[SM=g1740733]

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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