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4.12.1963 = 4.12.2003 a 40-anni dalla Sacrosanctum Concilium analisi di Don Pietro Cantoni

Ultimo Aggiornamento: 14/05/2011 13:19
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PIETRO CANTONI, Cristianità n. 326 (2004)

 

A quarant’anni dalla costituzione conciliare «Sacrosanctum Concilium». 4 dicembre 1963-4 dicembre 2003

 

1. Un anniversario

Gli anniversari costituiscono un luogo comune dello stile del Magistero. Non si tratta solo — ovviamente — di una esteriore e vuota celebrazione di eventi del passato, ma dell’espressione di quello che il Magistero è nella sua intima essenza: organo guida della Tradizione.

Non che la Tradizione si compia solo attraverso il Magistero, perché è tutta la Chiesa nel suo insieme che trasmette, ma la trasmissione è garantita nella sua unitarietà, coerenza e fedeltà dall’organismo costituito dal collegio dei Pastori che succedono agli Apostoli, collegio organicamente strutturato che non si può mai dare senza il suo capo, il successore di Pietro, e che questo stesso successore, anche quando parla singolarmente, sempre impersona. Il procedimento tradizionale è caratterizzato da una continua ripresa di quanto detto prima, ripresa che è riproposizione, rilettura, interpretazione e approfondimento. In una parola: attiva e penetrante memoria.

Alla luce di queste premesse dobbiamo leggere la lettera apostolica Spiritus et Sponsa nel XL anniversario della costituzione Sacrosanctum Concilium sulla sacra liturgia del 4 dicembre 2003 (1). Tale lettera apostolica è stata inviata al prefetto della Congregazione per il Culto Divino e i Sacramenti, card. Francis Arinze, in occasione del convegno commemorativo della Sacrosanctum Concilium, promosso dalla stessa Congregazione nel giorno dell’anniversario (2).

La Provvidenza ha voluto che a questo anniversario si aggiungesse — per stretta concomitanza di tempo — anche il centenario del motu proprio di san Pio X (1903-1914) Tra le sollecitudini sulla musica sacra, pubblicato il 22 novembre 1903 (3), a cui ha corrisposto un chirografo del Papa, datato appunto 22 novembre 2003 (4). Anch’esso è stato oggetto di studio nella stessa giornata commemorativa.

Ma il discorso si amplia, perché questo inizio di millennio ha visto e vede infittirsi i documenti del Magistero in tema di liturgia e di Eucaristia; e parlare di liturgia e di Eucaristia è — per tanti versi — la stessa cosa.

Il 28 marzo 2001 esce l’istruzione della Congregazione per il Culto Divino e i Sacramenti Liturgiam authenticam sul delicato problema della traduzione dei libri liturgici (5); il 9 aprile 2002 viene presentato il Direttorio su pietà popolare e liturgia. Principi e orientamenti, sempre della stessa Congregazione (6); il 17 aprile 2003 viene pubblicata l’enciclica Ecclesia de Eucharistia (7), a cui ha fatto seguito il 25 marzo 2004 l’istruzione della Congregazione competente Redemptionis sacramentum, che traduce in normativa concreta — peraltro non nuova — quanto l’enciclica chiede per il rispetto dell’Eucaristia (8). Vi è poi stata, il 18 marzo 2002, la promulgazione dell’editio typica tertia del Messale Romano (9), con significativi aggiustamenti, soprattutto nella Institutio generalis.

Credo che, per rendersi conto di quanto sta accadendo, occorra prestare attenzione a un passaggio dell’istruzione Liturgiam authenticam: «Questa istruzione predispone e si sforza di preparare una nuova fase del rinnovamento» (10). Una nuova fase, «novam aetatem»: dunque, una fase si è chiusa e se ne apre un’altra, evidentemente di assestamento, di approfondimento e di aggiustamento.

Che poi non si tratti di qualcosa di puramente congiunturale o circoscritto lo dimostra l’indizione dell’Anno dell’Eucaristia, con la lettera apostolica Mane nobiscum Domine, del 7 ottobre 2004 (11). Esso si apre con il congresso eucaristico internazionale di Guadalajara, svoltosi in Messico dal 10 al 17 ottobre 2004 (12), e si chiuderà con l’assemblea ordinaria del Sinodo dei Vescovi, prevista in Vaticano dal 2 al 29 ottobre 2005 e per la cui preparazione sono già stati resi di pubblico dominio i Lineamenta (13).

Papa Paolo VI (1963-1978) diede un valore particolare all’inizio del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965) proprio con la costituzione sulla sacra liturgia: incominciare con essa equivaleva ad attribuire un significato concreto e solenne al primato della preghiera: «Noi vi ravvisiamo l’ossequio alla scala dei valori e dei doveri: Dio al primo posto; la preghiera prima nostra obbligazione; la liturgia prima fonte della vita divina a noi comunicata, prima scuola della nostra vita spirituale» (14).

Nella lettera apostolica Novo millennio ineunte anche Papa Giovanni Paolo II ha posto con decisione la preghiera a fondamento del cammino di evangelizzazione per il terzo millennio cristiano: «[...] c’è bisogno di un cristianesimo che si distingua innanzitutto nell’arte della preghiera» (15). Appare allora del tutto logico che i primi passi del cammino siano contrassegnati da una rinnovata attenzione alla liturgia, nella quale «[...] ogni preghiera cristiana trova la sua sorgente e il suo termine» (16).

 

2. Per una teologia della liturgia

Nel documento commemorativo, la lettera apostolica Spiritus et Sponsa, Papa Giovanni Paolo II fissa la sua attenzione anzitutto sui princìpi teologici che la costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium delinea a proposito della liturgia: «La Liturgia viene collocata dai Padri conciliari nell’orizzonte della storia della salvezza, il cui fine è la redenzione umana e la perfetta glorificazione di Dio. La redenzione ha il suo preludio nelle mirabili gesta divine dell’Antico Testamento ed è stata portata a compimento da Cristo Signore, specialmente per mezzo del Mistero pasquale della sua beata passione, risurrezione dalla morte e gloriosa ascensione» (n. 2). Così come il popolo di Dio dell’Antico Testamento è nato attraverso l’azione di Dio, che lo ha liberato dalla schiavitù dell’Egitto, lo ha condotto nel deserto per dargli una legge e un culto e infine una terra, così il nuovo popolo di Dio che è la Chiesa nasce dall’azione di Dio che — fatto uomo — muore sulla croce e con la sua morte vince la morte, realizzando così il passaggio vero e definitivo alla città celeste, cioè la vera Pasqua.

A questa sua azione Dio vuole associare l’uomo e perciò lo «convoca» in assemblea — Chiesa è dal greco ek-kaleo, «convoco» — e pone al centro e a fondamento di tale assemblea un rito. Il rito è un insieme ordinato di azioni che mettono in contatto con le realtà divine. In questo caso l’azione è anzitutto di Dio, ma tale che non si compie senza la partecipazione dell’uomo: «Fate questo in memoria di me». Il mistero dell’azione di Dio e il rito fanno un tutt’uno inscindibile. Nella liturgia, «[...] soprattutto nel divino sacrificio dell’eucaristia, “si attua l’opera della nostra redenzione”» (17).

Nella costituzione sulla liturgia il Concilio Ecumenico Vaticano II ha perfezionato quella visione teologica e catechistica che vedeva nelle azioni liturgiche e nei sacramenti soltanto un’applicazione dei frutti di quanto compiuto da Gesù. Infatti non vi è più solo l’applicazione dei frutti di qualcosa che rimane però estraneo, ma la sua ri-attuazione, la sua ri-presentazione. La correzione è avvenuta per approfondimento, riprendendo il senso delle espressioni più forti del Concilio di Trento (1545-1563) e del Catechismo Romano che autenticamente lo interpreta: infatti, secondo quest’ultimo «il sacrificio della Messa e quello offerto sulla croce non sono e non devono essere considerati che un solo e identico sacrificio [unum [...] et idem]» (18).

Da questo derivano importanti conseguenze.

Prima di tutto sul «soggetto» della liturgia. Essa infatti è «opera di Cristo Sacerdote e del suo Corpo mistico» (n. 2) «“culto pubblico integrale” [Sacrosanctum Concilium, n. 7]» (ibidem). Si tratta di un’azione divino-umana, dove si manifesta soprattutto il mistero della Chiesa e il mistero della vita cristiana intesa come partecipazione alla vita divina, come «sinergia».

Quindi sul «fine»: prendendo parte a quest’azione divino-umana infatti «[...] si partecipa, pregustandola, alla Liturgia della Gerusalemme celeste» (ibidem). Non si comprende il mistero della liturgia se non lo s’inserisce nella grande visione teologica di un’azione che ha la sua sorgente in Dio, coinvolge la libertà umana in Cristo e in tutti coloro che sono chiamati ad aderire a Lui nella fede e nell’amore, per ricondurre tutto a Dio. Lo schema neoplatonico exitus-reditus, «uscita-ritorno», trova nel mistero cristiano il suo definitivo inveramento.

Diventa allora più chiaro il senso di una formula tante volte ripetuta e quindi divenuta famosa, che il Papa a questo punto opportunamente richiama: «[...] la Liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutto il suo vigore» (19).

Al fine di sottolineare le reali dimensioni del mistero che si attua nella liturgia e quindi della responsabilità che investe la Chiesa e ogni singolo fedele nel celebrarla, il Papa allarga immediatamente la prospettiva. Se la liturgia è azione sacerdotale di Cristo e del Christus totus, cioè di Cristo e del suo corpo mistico, non dobbiamo per questo pensare che si tratti di un qualcosa che riguardi solo la Chiesa, intesa come comunità dei credenti.

«La prospettiva liturgica del Concilio non si limita all’ambito intra-ecclesiale, ma si apre sull’orizzonte dell’intera umanità. Cristo infatti, nella sua lode al Padre, unisce a sé tutta la comunità degli uomini, e lo fa in modo singolare proprio attraverso la missione orante della “Chiesa, che loda il Signore incessantemente e intercede per la salvezza del mondo intero, non solo con la celebrazione dell’Eucaristia, ma anche in altri modi, specialmente con la recita dell’Ufficio divino” [Sacrosanctum Concilium, n. 83]» (n. 3). La vita liturgica della Chiesa, nell’ottica della costituzione Sacrosanctum Concilium, assume un respiro cosmico e universale, segnando in modo profondo il tempo e lo spazio dell’uomo. In questa prospettiva si comprende anche la rinnovata attenzione che la costituzione dà all’anno liturgico, «[...] cammino attraverso il quale la Chiesa fa memoria del Mistero pasquale di Cristo e lo rivive» (ibidem). Se il mondo è creato da Dio e a Dio è chiamato a ritornare, allora è evidente che la preghiera è il respiro del mondo e ciò su cui il mondo poggia.

La figura dell’intercessione ha un’importanza centrale nel mistero cristiano. Nella Lettera agli ebrei il sacerdozio dell’Antico Testamento viene così descritto: «Ogni sommo sacerdote, preso fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati» (Eb. 5, 1) e tutto il senso dell’epistola è quello di dimostrare come questo ideale del sacerdote mediatore fra Dio e gli uomini, pontifex, cioè «facitore di ponti», si realizzi in modo perfetto e insuperabile nel sacerdozio di Cristo «secondo l’ordine di Melchisedek» (Eb. 5, 6). Il sacerdote è il mediatore fra Dio e il popolo e Cristo, con la sua azione sacerdotale culminata nel mistero pasquale della morte e della risurrezione, è diventato il perfetto e l’unico mediatore. «Uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù» (1 Tim. 2, 5). L’unicità del mediatore però — come l’unicità del sacrificio in cui la mediazione si compie (cfr. Eb. 7, 27) — non dev’essere intesa in modo esclusivo ma inclusivo. Da questa unica mediazione scaturiscono, come da una inesauribile sorgente, tante altre mediazioni.

Infatti, lo scopo della mediazione di Gesù è quello di far partecipare l’uomo «sinergicamente» all’azione di Dio. Anzitutto abbiamo la mediazione di Maria, la cui adesione orante al piano di Dio è stata condizione essenziale per il realizzarsi stesso dell’opera di redenzione di Cristo; quindi quella della Chiesa — di cui Maria è il membro eminente —, quella dei santi e quella di tutti i fedeli. Questa mediazione si esprime soprattutto nella liturgia ed è rivolta non ai soli fedeli, ma all’intero mondo.

Poste queste premesse l’azione liturgica si propone come «sacra» per eccellenza. Cioè come «altra», «diversa» dall’agire comune, quotidiano e «profano» di questo mondo. Diversa però di una diversità che non è estraneità. Altra perché in essa l’azione principale e fondamentale è azione di Dio, «irruzione» di Dio nello spazio e nella storia di questo mondo. Non estranea però perché in essa l’uomo è associato a questa azione. L’uomo non solo come individuo, ma come essere sociale, perché è un’azione «pubblica» — tale è infatti il significato etimologico del termine greco leitourgia (20) — essendo azione di Cristo capo, uomo e Dio, e di tutto il suo corpo che è la Chiesa: culto integrale.

Nessuna azione è sacra come questa: «Se tutto questo è la Liturgia, a ragione il Concilio afferma che ogni azione liturgica “è azione sacra per eccellenza, e nessun’altra azione della Chiesa ne uguaglia l’efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado” [Sacrosanctum Concilium, n. 7]. Al tempo stesso, il Concilio riconosce che “la sacra Liturgia non esaurisce tutta l’azione della Chiesa” [Sacrosanctum Concilium, n. 9]» (n. 3). Anche a questo proposito abbiamo un’unicità non esclusiva ma inclusiva.

La liturgia non è l’unica azione della Chiesa, perché è necessariamente preceduta dall’annuncio del Vangelo e dev’essere seguita dalla testimonianza dei cristiani nella storia.

Vi è un qualcosa che deve necessariamente precedere la liturgia. Si tratta ovviamente della fede e quindi del sacramento della fede che è il Battesimo, detto ianua Ecclesiæ, «porta della Chiesa». Quando un fedele entra in chiesa è bene che si faccia un segno di croce con l’acqua benedetta: è una memoria del Battesimo. La chiesa di pietre è segno della «Chiesa corpo di Cristo». Così come in questa Chiesa si è stati inseriti con il Battesimo, che è stato aspersione di acqua «nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo», così nella «chiesa edificio» si entra ripetendo simbolicamente quel gesto. La Chiesa antica aveva una pratica che — con il passare del tempo e il mutare delle circostanze — è andata in disuso: quella di ammettere i catecumeni — cioè gli aspiranti al Battesimo — solo alla prima parte della celebrazione eucaristica, detta per questo anche «Messa dei catecumeni». Al momento dell’inizio della liturgia eucaristica vera e propria i catecumeni venivano invitati a uscire. Questa pratica si trovava intrinsecamente e logicamente intrecciata con un’altra, detta anche «disciplina dell’arcano», per cui i riti e le parole dell’Eucaristia venivano circondati da un’estrema discrezione, stimando che — per capirli adeguatamente — non era sufficiente cogliere il senso immediato delle parole, ma occorreva una vera e propria iniziazione, che è qualcosa di soprannaturale nella sua intima essenza.

Pur nell’innegabile somiglianza di vocabolario, questa pratica è ben diversa da quella analoga propria alle antiche comunità gnostiche, spesso riproposta in varie forme — sempre però piuttosto «artificiali» — nella lunga storia dei movimenti esoterici e magici. Non si tratta infatti di dividere gli uomini in più categorie, gli «spirituali», gli «psichici» e i «somatici», tali da determinarli definitivamente come adatti o meno per loro natura a cogliere il mistero, ma di riconoscere che «cristiani si diventa» e che questo comporta obbligatoriamente un cammino, una «sinergia» in cui l’azione determinante è quella libera e gratuita di Dio, che però non si compie senza lo storico dispiegarsi della libertà dell’uomo.

Accanto alla figura del «catecumeno», l’antica disciplina ne prevedeva un’altra, quella del «penitente». Com’è noto il sacramento della penitenza è quello che, nella storia della Chiesa, ha conosciuto i più grandi sviluppo ed evoluzione di forme, non ovviamente di sostanza. Solo lentamente si è imposta nella Chiesa la prassi di una riconciliazione frequente, mediante un colloquio con il sacerdote senza un procedimento canonico che coinvolgesse tutta la comunità; soprattutto con una penitenza che segue l’assoluzione e non la precede. Anticamente i penitenti dovevano sottoporsi a una pratica penitenziale lunga e impegnativa — in proporzione ovviamente alle colpe commesse — che sfociava in una solenne riammissione nella comunione piena il giorno del Giovedì Santo. Nel frattempo potevano partecipare solo a una parte della liturgia, posti in un luogo a loro riservato e quindi separati dal resto dell’assemblea. Come i catecumeni.

 continua..........

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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