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4.12.1963 = 4.12.2003 a 40-anni dalla Sacrosanctum Concilium analisi di Don Pietro Cantoni

Ultimo Aggiornamento: 14/05/2011 13:19
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13/05/2011 15:56
 
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3. Brevi considerazioni di pastorale liturgica

Queste considerazioni inducono a una breve digressione di carattere pastorale. «Il vecchio slogan “sono credente ma non praticante” dovrebbe anch’esso essere oggetto di discernimento. Dal punto di vista pastorale, ci si trova davanti o a un battezzato “prematuro”, dunque un catecumeno, oppure a un penitente inconsapevole. Le assemblee primitive prevedevano queste due categorie di persone e le facevano partecipare solo gradualmente alla liturgia eucaristica. Si pensi a come, prima i catecumeni e poi i penitenti, venivano mandati fuori dall’assemblea prima che iniziasse l’anafora» (21).

Oggi, preso finalmente atto che la nostra cristianità è finita (22) e rimangono solo elementi residuali, più che da «cristiani anonimi» siamo ancora circondati da «catecumeni» e da «penitenti anonimi». L’atteggiamento giusto nei loro confronti non è quello di «sgridarli», ingiungendo loro di «andare a Messa»! Certamente è il procedimento per tanti versi più facile, ma non certamente il più opportuno e fruttuoso. Si tratta prima di spiegare — o di ri-spiegare — loro che cos’è la Messa: ma non solo, perché la liturgia non è una dottrina che si lascia apprendere con una breve conversazione e neppure con un semplice «corso», per quanto lungo e sofisticato esso sia. Si tratta piuttosto di avviarli a un «percorso»: d’iniziazione e di conversione. Essi sono a volte presenti — quasi casualmente — nelle nostre chiese come spettatori inerti e annoiati dei «divini misteri». Un celebrante che si sforzasse di rendere a tutti i costi interessante la liturgia per questo genere di persone fraintenderebbe il suo compito, confondendo i ruoli: la celebrazione liturgica — nel suo insieme — non è né evangelizzazione né catecumenato. Naturalmente, fermo restando che una degna celebrazione — per il suo valore estetico, percepibile anche da chi non crede o non crede abbastanza — ha un indubbio valore apologetico. Ma proprio nella misura in cui è disinteressata, cioè non si pone direttamente l’apologetica e l’evangelizzazione come compito.

Oggi, dunque, più che sforzarsi di moltiplicare le celebrazioni, bisognerebbe moltiplicare le occasioni d’iniziazione ai santi misteri. Certo occorre che le persone sufficientemente preparate e desiderose di partecipare all’Eucaristia, anche quotidianamente, abbiano la possibilità di farlo — nella misura del possibile — senza dover compiere sforzi eroici. Ma occorre soprattutto che l’innumerevole schiera dei catecumeni e dei penitenti anonimi esca dal suo anonimato e percorra un itinerario iniziatico per partecipare in pienezza alla liturgia.

Non si tratta, ovviamente, di fare dell’archeologismo, riesumando puramente e semplicemente l’antica dottrina dell’arcano e l’antica prassi penitenziale, ma di comprendere che queste antiche pratiche hanno ancora qualcosa di molto importante da insegnarci, che diventa tanto più importante e attuale in una società multiculturale in cui il cristianesimo è spesso assolutamente minoritario. La promulgazione di un articolato rito per il Battesimo degli adulti costituisce uno degli elementi più positivi della riforma liturgica e un esempio di opportuno «ricupero» della prassi antica (23).

Per questo il Papa pone una particolare enfasi nel sottolineare l’importanza di un’adeguata preparazione alla liturgia: «Occorre tuttavia che i Pastori facciano in modo che il senso del mistero penetri nelle coscienze, riscoprendo e praticando l’arte “mistagogica”, tanto cara ai Padri della Chiesa» (n. 12).

Il senso del mistero, poi, è strettamente connesso con l’adeguato apprezzamento del silenzio: «Un aspetto che occorre coltivare con maggiore impegno all’interno delle nostre comunità è l’esperienza del silenzio» (n. 13); e con il conseguimento di un autentico «gusto della preghiera» (n. 14). A questo scopo la preghiera liturgica, pur conservando tutto il suo primato, «[...] non si pone in tensione con la preghiera personale, anzi la suppone ed esige» (ibidem).

Oggi, in una società ampiamente secolarizzata, in cui convivono un ambiente e un ritmo di vita molto profani e una ricerca confusa ma a tratti spasmodica di pratiche di e di dottrine che evochino il sacro, la necessità del sacro e del mistero risulta sempre più ovvia. Ma, nello stesso tempo, appare anche chiaro che ciò richiede un’adeguata preparazione, appunto un’«arte “mistagogica”» (n. 12), cioè un’introduzione progressiva al senso profondo dei misteri cristiani, che comporta necessariamente un’educazione al senso del sacro e al senso del mistero. Non solo quella mistagogia assicurata all’interno della liturgia o costituita dalla liturgia stessa, ma precedente e susseguente a essa. Un po’ come il necessario parco, giardino, siepe, zona «di rispetto», attorno a un edificio che altrimenti risulterebbe privo di vita e di ambiente, «avulso». Un impatto con la liturgia senza preparazione è disastroso, soprattutto in un ambiente che vive di altri valori: oggi per lo più di valori, di sentimenti e di atteggiamenti che le sono radicalmente antitetici.

Dimenticata la necessaria preparazione, lo sforzo susseguente di renderla comprensibile — nonostante le buone intenzioni — si risolve inevitabilmente in una sua banalizzazione.

 

4. Dopo la liturgia

Dunque, ritornando a quanto detto precedentemente, la liturgia non è l’unica azione sacra della Chiesa, perché qualcosa la deve precedere. Ma non è l’unica, anche perché qualcosa la deve seguire: la testimonianza dei cristiani nella storia.

A questo proposito chiediamo soccorso al Catechismo della Chiesa Cattolica, che costituisce un eccezionale e ancora troppo poco utilizzato strumento d’interpretazione dei documenti del Concilio Ecumenico Vaticano II. Infatti nel Catechismo troviamo i princìpi di una profondissima teologia della liturgia (24). Il cuore della liturgia consiste nella ri-attualizzazione di un evento: il mistero pasquale di Cristo morto e risorto.

Non si tratta di sostenere l’assurdo che un evento storico passato non sia passato, annullando il trascorrere del tempo. Si tratta di comprendere che — se la storia ha un senso — deve avere un telos, un «orientamento». Se tutti gli eventi della storia si situassero allo stesso livello, mancherebbe l’indispensabile punto di riferimento per questa tensione. Se il punto di riferimento fosse esclusivamente trascendente, allora la storia in sé potrebbe soltanto sforzarsi d’imitare l’eternità ripetendo indefinitamente le stesse cose.

La fede ci dice che vi è una «pienezza del tempo». In questa pienezza si sono dati eventi che — per loro natura — non passano più: «Nella Liturgia della Chiesa Cristo significa e realizza principalmente il suo Mistero pasquale. Durante la sua vita terrena, Gesù annunziava con il suo insegnamento e anticipava con le sue azioni il suo Mistero pasquale. Venuta la sua Ora, [Cf Gv 13, 1; Gv 17, 1 ] egli vive l’unico avvenimento della storia che non passa: Gesù muore, è sepolto, risuscita dai morti e siede alla destra del Padre “una volta per tutte” (Rm 6,10; Eb 7, 27; Eb 9, 12). È un evento reale, accaduto nella nostra storia, ma è unico: tutti gli altri avvenimenti della storia accadono una volta, poi passano, inghiottiti nel passato. Il Mistero pasquale di Cristo, invece, non può rimanere soltanto nel passato, dal momento che con la sua morte egli ha distrutto la morte, e tutto ciò che Cristo è, tutto ciò che ha compiuto e sofferto per tutti gli uomini, partecipa dell’eternità divina e perciò abbraccia tutti i tempi e in essi è reso presente. L’evento della croce e della Risurrezione rimane e attira tutto verso la Vita» (25).

Come questo «unico avvenimento della storia che non passa» può diventare attuale anche per me? Appunto, mediante la partecipazione alla liturgia. Ma, se esso diventa attuale per me, vuol dire che io lo debbo in qualche modo «riprodurre» nella mia vita: «Tutto ciò che Cristo ha vissuto, egli fa sì che noi possiamo viverlo in lui e che egli lo viva in noi. [...]:

«Noi dobbiamo sviluppare continuamente in noi e, in fine, completare gli stati e i Misteri di Gesù. Dobbiamo poi pregarlo che li porti lui stesso a compimento in noi e in tutta la sua Chiesa... Il Figlio di Dio desidera una certa partecipazione e come un’estensione e continuazione in noi e in tutta la sua Chiesa dei suoi Misteri mediante le grazie che vuole comunicarci e gli effetti che intende operare in noi attraverso i suoi Misteri. E con questo mezzo egli vuole completarli in noi» (26).

La liturgia dunque non esime dall’impegno concreto nella vita cristiana e neppure — ovviamente — l’esaurisce; ne costituisce piuttosto l’indispensabile ordinario presupposto. Nel quasi inesauribile repertorio delle banalità post-conciliari abbiamo certamente tutti incontrato la sentenza per cui la «vera» liturgia è quella dell’impegno sociale o politico o altro. La celebrazione liturgica allora, se vuole conservare una qualche plausibilità, dev’essere il riflesso, la «celebrazione» di questo impegno. Come tutti gli errori ha ovviamente una sua componente di verità — un vecchio proverbio inglese dice che «anche un orologio rotto, almeno due volte al giorno ha ragione...» —: la liturgia se è autentica per me — cioè se è fruttuosa — deve continuare anche dopo il momento della «celebrazione» strictu sensu intesa, perché quello è il suo significato e il suo scopo. L’evento della Croce e della Risurrezione, che si è compiuto nella storia, deve diventare storico anche in me, per dare senso alla mia vita e anche attraverso di me conferire senso alla storia.

Quello che la banalità dell’orizzontalismo sociologistico misconosce è che la storia è stata oscurata dal peccato e che è bisognosa di salvezza. Se io «celebro» la vita quotidiana dell’uomo, così come concretamente si dà nella storia, non porto nessuna luce e nessuna salvezza e la celebrazione è condannata a rimanere deludente e banale; se ritrovo in chiesa quello che vi è già fuori non vedo nessuna ragione per entrarvi (27). Misconosce poi che ciò a cui Dio ci chiama dopo il peccato è qualcosa che va oltre una pura restaurazione della natura, ma è partecipazione alla natura divina (cfr. 2 Pt. 1, 4) e quindi tale da porsi oltre ogni possibilità — anche rappresentativa — della natura in sé stessa.

La liturgia trascende il tempo non perché lo «annulla», ma perché lo compie. Essa dunque dà senso alla storia riassumendone in sé e perfezionandone tutte le componenti: passato, presente e futuro. «La Chiesa celebra il Mistero del suo Signore “finché egli venga” e “Dio sia tutto in tutti” (1 Cor 11, 26; 15, 28). [...]

«San Tommaso [d’Aquino (1125 ca.-1274)] riassume così le diverse dimensioni del segno sacramentale: “Il sacramento è segno commemorativo del passato, ossia della passione del Signore; è segno dimostrativo del frutto prodotto in noi dalla sua passione, cioè della grazia; è segno profetico, che preannunzia la gloria futura”» (28).

 

5. Luci e ombre

Seguendo uno schema che è diventato ormai una consuetudine — soprattutto a proposito di liturgia — il Papa fa cenno nell’enciclica Ecclesia de Eucharistia a «luci e ombre» (29). Le luci sono identificate in «una più consapevole, attiva e fruttuosa partecipazione dei fedeli al santo Sacrificio dell’altare» (30). A cui andrebbe accostato un «rinnovato interesse per la Parola di Dio» (n. 8). Come reazione al protestantico sola Scriptura si era infatti introdotta in area cattolica una marcata diffidenza nei confronti di qualunque accostamento diffuso e popolare alla Bibbia: ora, essa si trova abbondantemente ricollocata in quello che è il suo luogo proprio, cioè la liturgia, là dove essa trova la sua corretta contestualizzazione nella Chiesa e nella sua Tradizione. Non bisogna infatti dimenticare che l’uso liturgico dei sacri testi è stata la modalità fondamentale mediante cui si è andato formando lo stesso canone biblico. Mentre fra le ombre sono rubricati: il fatto che in certi luoghi si sia giunti a «un pressoché completo abbandono del culto di adorazione eucaristica» (31); il diffondersi di abusi e — in conseguenza di essi — il manifestarsi di una comprensione riduttiva del mistero eucaristico per cui, «spogliato del suo valore sacrificale, viene vissuto come se non oltrepassasse il senso e il valore di un incontro conviviale fraterno» (32); «[...] la necessità del sacerdozio ministeriale, che poggia sulla successione apostolica, rimane talvolta oscurata» (33) e «[...] la sacramentalità dell’Eucaristia viene ridotta alla sola efficacia dell’annuncio» (34). Abusi liturgici se ne sono purtroppo sempre avuti nella storia della Chiesa.

Quanto però rende la situazione odierna particolarmente preoccupante è lo sfondo teologico — o meglio «ideologico» — che li sostiene. Non si tratta cioè — per lo più — soltanto di umana trascuratezza, di pigrizia e d’indifferenza, ma di segnali della presenza di un’altra concezione del mistero eucaristico, una concezione alternativa rispetto a quella della fede della Chiesa. Una concezione che lo priva di alcuni tratti che sono a esso essenziali e quindi lo sfigura a volte radicalmente, in modo tale da compromettere la validità stessa del sacramento.

La classificazione del Papa riporta a tre punti dogmatici nevralgici del mistero eucaristico: la natura sacrificale dell’Eucaristia, la differenza essenziale fra sacerdozio ministeriale e sacerdozio comune, la presenza reale che perdura anche dopo la celebrazione e quindi rende possibile e conveniente atti di adorazione dell’Eucaristia anche extra Missam. Si tratta in buona sostanza della dottrina del Concilio di Trento che, non a caso, viene richiamata con particolare enfasi sia nella Ecclesia de Eucharistia che nei lineamenta del prossimo Sinodo dei Vescovi. Non si tratta — come superficialmente da alcuni si sente dire — di «tornare al Concilio di Trento», perché nella storia e anche nella storia dei dogmi non si torna mai indietro: si tratta piuttosto di avere una concezione ortodossa dello sviluppo dogmatico. Le dottrine e i dogmi hanno sempre bisogno di essere di nuovo capiti e reinterpretati e quindi anche approfonditi.

Interpretazione poi non è sinonimo di cambiamento, ma significa proprio l’esatto contrario. Io interpreto correttamente un testo quando lo traduco in modo tale da farne comprendere il senso proprio e oggettivo, quando lo traduco e non lo tradisco. Come ripeteva un grande maestro contemporaneo dell’interpretazione, riprendendo un antico canone dell’ermeneutica giuridica: «sensus non est inferendus sed efferendus», «il significato non va attribuito, ma ricavato» (35). «Con i limiti che si possono certamente trovare nei testi di Trento, Trento rimane la norma, riletto con la nostra conoscenza più ricca e più profonda dei Padri e del Nuovo Testamento, letto con i Padri e con la Chiesa di tutti i tempi» (36); «Trento non si è sbagliato, si appoggiava sul fondamento solido della Tradizione della Chiesa. Rimane un criterio affidabile. Ma noi possiamo e dobbiamo comprenderlo in un modo più profondo ricorrendo alle ricchezze della testimonianza biblica e della fede della Chiesa di tutti i tempi. Ci sono dei veri segni di speranza che questa comprensione rinnovata e approfondita di Trento possa, in particolare attraverso l’intermediario delle Chiese di Oriente, essere resa accessibile ai cristiani protestanti» (37).

Non si tratta cioè di rifiutare la storia, ma proprio il contrario, cioè di difenderla. Se i dogmi mutano sostanzialmente infatti, allora non ha più senso parlare di storia: non si dà più storia di un soggetto che ha cessato di esistere. Non si tratta neppure di rifiutare l’approfondimento, anzi, proprio di fondarne la possibilità, perché non ha senso approfondire quanto non si ritiene più vero.

 continua.............

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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