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4.12.1963 = 4.12.2003 a 40-anni dalla Sacrosanctum Concilium analisi di Don Pietro Cantoni

Ultimo Aggiornamento: 14/05/2011 13:19
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6. «Vetus Ordo» e «Novus Ordo»

Risulta difficile, per non dire impossibile, parlare della costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium e della riforma liturgica che ha fatto seguito, senza evocare le reazioni che essa ha suscitato. A testimonianza che la liturgia si trova alla fonte e al vertice della vita della Chiesa e quindi la condiziona radicalmente e insieme ne riflette invariabilmente le tensioni e i problemi, toccare il «problema liturgico» è un po’ come mettere il dito su un nervo scoperto.

È veramente arduo ricostruire attorno a questo problema un clima sereno e oggettivo, ma ciò non toglie che sia comunque sempre necessario e urgente. Un evento in particolare ha riacceso le discussioni sul punto: il 24 maggio 2003, a Roma, nella Basilica di Santa Maria Maggiore, il card. Darío Castrillón Hoyos, prefetto della Congregazione per il Clero e presidente della Pontificia Commissione Ecclesia Dei, nell’approssimarsi del XXV anniversario di elevazione al Sommo Pontificato di Papa Giovanni Paolo II e nel contesto dell’Anno dedicato al Rosario, ha celebrato una Messa nel rito romano detto di San Pio V (1566-1572) (38). La celebrazione della Messa tradizionale da parte di una tale personalità e in quel luogo e contesto costituiva già di per sé un evento eccezionale.

A rendere però il fatto ancor più significativo sono state le parole pronunciate dal prelato nell’omelia, in particolare: «Il rito cosiddetto di san Pio V non si può considerare come estinto e l’autorità del Santo Padre ha espresso la sua benevola accoglienza verso i fedeli che, pur riconoscendo la legittimità del rito romano rinnovato secondo le indicazioni del Concilio Vaticano II, rimangono legati al precedente rito e trovano in esso valido nutrimento spirituale nel loro cammino di santificazione. D’altronde, lo stesso Concilio Vaticano II dichiarava che “[...] la santa madre Chiesa considera con uguale diritto e onore tutti i riti legittimamente riconosciuti, e vuole che in avvenire essi siano conservati e in ogni modo incrementati, e desidera che, ove sia necessario, vengano prudentemente riveduti in modo integrale nello spirito della santa tradizione e venga loro dato nuovo vigore secondo le circostanze e le necessità del nostro tempo” [Sacrosanctum Concilium, n. 4].

«L’antico rito romano conserva, quindi, nella Chiesa il suo diritto di cittadinanza nella multiformità dei riti cattolici, sia latini che orientali. Ciò che unisce la diversità di questi riti è la stessa fede nel Mistero Eucaristico, la cui professione ha sempre assicurato l’unità della Chiesa, santa, cattolica ed apostolica» (39). Le parole del porporato paiono esprimere un atteggiamento dell’autorità della Chiesa che va oltre la concessione di un benevolo indulto, perché in questa omelia si parla di rito accanto ad altri riti, soggetto di diritti e di onore, invocando allo scopo le solenni parole della costituzione Sacrosanctum Concilium.

Queste espressioni hanno suscitato forti reazioni, com’era prevedibile. Perplessità anche presso i fedeli più obbedienti e aperti agl’insegnamenti della Santa Sede.

Vi è stata una riforma: un rito è stato legittimamente riformato dall’autorità competente, com’è possibile ammettere che la sua forma precedente possa sussistere accanto a quella rinnovata come un rito autonomo? Ci si troverebbe davanti all’assoluta anomalia di due riti romani. Il carattere d’«indulto» ne salvaguarda la provvisorietà, qualifica la misura come strettamente pastorale, in vista di permettere a fedeli che non hanno ben capito la portata e il valore della riforma di adattarsi con il tempo a quanto la Chiesa ha stabilito, ma un «rito» a pieno titolo rischia di trasformare un’anomalia transitoria in qualcosa di definitivo.

Credo che questo tipo di ragionamento non tenga conto di diversi fattori. Innanzitutto il fatto — perché d’incontestabile fatto si tratta — che a questo proposito ci si trova di fronte alla più vasta e più radicale riforma che si sia mai data nella storia della liturgia cristiana. Verso la metà del 1600 il patriarca di Mosca Nikita Minic Nikon (1605-1681) attuò una riforma del rito bizantino slavo celebrato dalla Chiesa russa. La riforma consistette sostanzialmente nel conformare i libri liturgici russi ai libri liturgici greci utilizzati allora a Costantinopoli. In concreto la portata dei cambiamenti era veramente minima: il più significativo è il segno di croce e le benedizioni con tre dita anziché con due. Il risultato fu uno scisma di terribili proporzioni — frantumatosi ben presto in diverse branche — che conta ancora ai nostri giorni milioni di aderenti (40).

Tenendo conto di questo e di altri precedenti storici — sono, per esempio, molto istruttive le vicende della comunità di cristiani indiani noti come «cristiani di san Tommaso», nella quale, a partire dal sinodo di Diamper, del 1599, ogni «riforma» e anche «contro-riforma» liturgica, insomma ogni sensibile cambiamento, ha prodotto scismi e incessanti resistenze (41) — nel caso della riforma attuata dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II vi è da rimanere piuttosto stupiti che lo scisma che ha generato sia così ridotto, certamente non proporzionato rispetto alle reali dimensioni del disagio che la radicalità e la rapidità dei cambiamenti ha comunque di fatto indotto nella Chiesa. Ma — si sa — la presenza del Magistero rappresenta nella Chiesa cattolica un elemento fondamentale di equilibrio che rende improbabili — nella misura, ovviamente, in cui il «senso del Magistero» rimane operante — le manifestazioni di «estremismo»: le cose sarebbero andate in ben altro modo in una Chiesa o comunità ecclesiale non cattolica.

Questa riforma poi — e riforma di tali proporzioni — si è presentata sul palcoscenico della storia in un momento particolarmente delicato, caratterizzato soprattutto da due elementi. Anzitutto da una difficilissima e delicatissima situazione d’instabilità teologica, conseguenza della crisi modernistica d’inizio del secolo XX, non ancora veramente superata; in secondo luogo, dal contesto di una società ampiamente secolarizzata, in cui il senso del sacro e delle ritualità era sottoposto a una critica radicale e quindi in stato di endemica incertezza, in preda alla IV Rivoluzione, cioè alla «Rivoluzione culturale», utilizzando le categorie di Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995) (42). «Tutte le liturgie precedenti [...] facevano parte di una cultura essa stessa di carattere rituale. La cultura dominante che cominciò ad emergere dopo la seconda guerra mondiale, lungi dall’essere “di carattere rituale”, era una cultura per la quale rituale, gerarchia, riverenza e costume erano oggetto di sospetto» (43). Anche a questo proposito vi è da rimanere piuttosto stupiti che il rito riformato sia nella sua struttura assolutamente ortodosso, cioè conforme alla retta fede, pur prestando il fianco a legittime critiche di carattere liturgico. E anche questo è un fatto (44).

Risultano veramente illuminanti a questo proposito le osservazioni di S. Em. il card. Francis Eugene George O.M.I., arcivescovo di Chicago, in occasione della giornata commemorativa del 4 dicembre 2003: «Personalmente credo che il rinnovamento liturgico dopo il concilio è stato considerato come un programma o un movimento di cambiamento, senza sufficientemente considerare che cosa succede in una comunità quando il suo sistema simbolico è messo sottosopra. [...] Un cambiamento nella liturgia cambia il contesto della vita della Chiesa. Recentemente, introducendo i cambiamenti disposti dal nuovo Ordinamento generale del Messale Romano (terza edizione tipica), facevo notare che i cambiamenti erano “minimi”. Una laica dell’arcidiocesi di Chicago mi corresse: “Cardinale, non ci sono cambiamenti minimi in liturgia”. Aveva ragione» (45).

Le legittime perplessità riguardo alla presenza di due «riti romani» uno accanto all’altro si sciolgono facilmente se si riflette un po’ più attentamente sul significato dell’espressione «rito». Si tratta infatti di una parola dai significati molteplici. Possiamo prendere «rito» nel suo senso più generico, ricorrendo alla storia e alla fenomenologia delle religioni. Il latino ritus corrisponde al sanscrito rta, «ordine» e «[...] designa un’azione sacrale compiuta secondo moduli fissi» (46), e in base a «[...] uno schema di comportamento sottratto alla contingenza e proposto dalle varie religioni come un’azione simbolica o un “simbolo d’azione”» (47). In questo senso ampio si potrebbe dire che i riti fondamentali della Chiesa cattolica e anche delle Chiese orientali separate da Roma sono costituiti dai sette sacramenti. Uno sguardo più attento fa però subito scoprire che questi riti incontrano modalità abbastanza diverse nella loro esecuzione quanto a lingua, a gesti e a formule utilizzati senza che la Chiesa li ritenga sostanzialmente diversi. A questo proposito allora si può parlare di «riti» in un altro senso, non più genericamente storico-religioso, ma «liturgico». Volendosi limitare ai riti principali, si dovrebbe segnalare, nell’ambito del rito latino, il rito romano e quello ambrosiano, che è il rito della diocesi di Milano. Nell’ambito della Tradizione Costantinopolitana il rito bizantino che in Russia, Serbia, Bulgaria e così via diventa bizantino-slavo. Nella Tradizione Siriaca, il rito siro-antiocheno, a cui dev’essere accostato il rito maronita, celebrato in Libano, e quello siro-orientale, detto anche «assiro» o «caldeo», con il rito siro-malabarese, proprio delle comunità cristiane che in India si ricollegano alla Tradizione di san Tommaso Apostolo, i «cristiani di san Tommaso». Alla Tradizione Alessandrina appartiene il rito copto, a cui si ricollega anche il rito etiopico; mentre il rito armeno, espressione liturgica dell’antichissima Chiesa Armena, raccoglie influssi di diverse tradizioni, soprattutto quella antiochena e costantinopolitana.

Il termine «rito» in liturgia rivela dunque una straordinaria complessità. Può designare le grandi famiglie liturgiche: ecco allora il rito latino, il rito bizantino, il rito copto, il rito siro-antiocheno, il rito siro-orientale, il rito armeno di cui abbiamo parlato. Può designare «sotto-famiglie» all’interno delle grandi tradizioni liturgiche, come il rito etiopico nell’ambito del rito copto; quelli bizantino-slavo, bizantino-rumeno e melchita nell’ambito del rito bizantino; il rito ambrosiano e mozarabico nell’ambito del rito latino. Ma questi stessi riti, come per esempio il rito romano, possono conoscere a loro volta diverse varianti rituali, e qui incontriamo un ulteriore significato del termine. Prima del Concilio Ecumenico Vaticano II, per esempio, poteva facilmente capitare a un fedele di entrare in un convento dei frati di san Domenico di Guzmán (1170 ca.-1221), l’Ordo prædicatorum, e di assistervi a una Messa celebrata in un «altro» rito, il rito appunto «domenicano». Anche il rito domenicano era rito romano, non un altro rito come poteva essere il rito bizantino, ma ne costituiva una «variante». Come il rito certosino, per fare un esempio legato a una famiglia liturgica o quello della diocesi di Braga, in Portogallo, per richiamare l’ambito delle varianti «territoriali» (48).

Evidentemente in quest’ultimo senso bisogna intendere le parole del card. Castrillón Hoyos, come d’altronde lui stesso ha precisato: non si tratta di due riti come possono essere il rito bizantino e quello armeno, ma di due varianti all’interno dello stesso e identico rito romano (49).

D’altra parte, se da un punto di vista teorico, due varianti del rito romano che coesistono non creano problemi, sussistono indubbi problemi dal punto di vista pastorale e anche ecclesiologico. Una generale e indiscriminata «liberalizzazione della Messa» andrebbe incontro a diverse difficoltà pratiche. Chi infatti potrebbe decidere quale Messa celebrare in parrocchia? Il parroco? Allora potrebbe succedere che un parroco imponesse a una parte dei fedeli un rito che non è di loro gradimento e questo in virtù di una sua scelta personale e soggettiva: il colmo del clericalismo! I parrocchiani? Ma in che modo? Attraverso libere elezioni? Si tratta di una procedura impensabile nella Chiesa. Il card. Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, affronta la delicata questione con l’abituale chiarezza e profondità : «Come regolamentare l’uso dei due riti? Mi sembra chiaro che, in diritto, il Messale di Paolo VI è il Messale in vigore e che il suo uso è normale. Bisogna dunque studiare in qual modo permettere e conservare per la Chiesa il tesoro dell’antico Messale. [...] se c’era un rito domenicano, se c’era — e c’è ancora — un rito milanese, perché non anche il rito — cosiddetto — “di san Pio V”? Ma c’è un problema molto reale: se l’ecclesialità diventa una questione di libera scelta, se ci sono nella Chiesa delle chiese rituali scelte secondo il criterio della soggettività, questo crea un problema. La Chiesa è costruita sui vescovi secondo la successione degli apostoli nella forma delle Chiese locali, dunque con un criterio oggettivo. Io sono in questa Chiesa locale e non cerco i miei amici, ma trovo i miei fratelli e le mie sorelle; e i fratelli e le sorelle non si cercano, si trovano. Questa situazione di non arbitrarietà della Chiesa nella quale mi trovo, che non è una chiesa di mia scelta ma la Chiesa che si presenta a me, è un principio molto importante. Mi sembra che le lettere di sant’Ignazio vadano con decisione in questa linea, che questo vescovo è la Chiesa; non è una mia scelta, come se io andassi col tal gruppo di amici o col tal altro; io sono nella Chiesa comune, con i poveri, con i ricchi, con le persone simpatiche e non simpatiche, con gli intellettuali e con gli stupidi; io sono nella Chiesa che mi precede. Aprire ora la possibilità di scegliere la propria Chiesa à la carte potrebbe realmente ferire la struttura della Chiesa.

«Bisogna dunque cercare — mi sembra — un criterio non soggettivo, per aprire la possibilità dell’antico Messale. Mi sembra molto facile se si tratta di monasteri: è una cosa buona; corrisponde anche alla tradizione secondo la quale c’erano degli ordini con un rito speciale, per esempio i domenicani. Dunque monasteri che garantiscono la presenza di questo rito, o anche comunità come i domenicani di san Vincenzo Ferreri [1350-1419], o altre comunità religiose, o anche fraternità: questo mi sembra essere un criterio oggettivo. Naturalmente il problema si complica con le fraternità che non sono ordini religiosi, ma comunità di sacerdoti non diocesani e tuttavia prestanti esercizio nelle parrocchie. Forse la parrocchia personale è una soluzione, ma non è anch’essa senza problemi. In ogni caso la Santa Sede deve aprire a tutti i fedeli questa possibilità e conservare questo tesoro, ma d’altra parte deve anche conservare e rispettare la struttura episcopale della Chiesa» (50).

Rimangono però perplessità di un altro e più profondo ordine, perché, se «la diversità liturgica può essere fonte di arricchimento» (51), essa «[...] può anche provocare tensioni, reciproche incomprensioni e persino scismi» (52). Così qualcuno — considerando giustamente che un rito è sempre anche espressione di una teologia, oltre che di una spiritualità — ha avanzato il sospetto che la simpatia manifestata nei confronti del Vetus Ordo celi in realtà la professione di una ecclesiologia alternativa rispetto a quella professata dal Concilio Ecumenico Vaticano II nella costituzione sulla Chiesa Lumen gentium, del 1964 (53). Davanti a questo genere di obiezioni non si può non provare un forte disagio, perché riesce veramente difficile — pur con tutta la consapevolezza dell’importanza che lo sviluppo dogmatico ha nella vita della Chiesa, e anche del fatto che molte eresie del passato sono state, almeno in parte, motivate da indebite resistenze nei confronti di un legittimo progresso — pensare che un rito praticato nella Chiesa in modo pressoché immutato per secoli e che ha nutrito la devozione di generazioni di fedeli e di santi possa improvvisamente diventare dogmaticamente scorretto.

Se lo sviluppo dogmatico precludesse per principio la possibilità di utilizzare formule precedenti, non si capirebbe neppure come la riforma liturgica abbia potuto ricuperare testi arcaici reinserendoli nell’uso vivo della Chiesa di oggi. Se poi, in qualche caso, nelle critiche al Novus Ordo si può trovare una certa debilitazione del ruolo e dell’importanza del sacerdozio comune dei fedeli, bisogna però riconoscere che questo non è mai l’elemento dominante; la letteratura critica indugia piuttosto sul carattere sacrificale e la presenza reale e in generale sul senso del sacro. Soprattutto si può ritorcere l’argomento. Come spiegare un’opposizione così sistematica e viscerale al Vetus Ordo? Certo, presso qualche perito del Consilium ad exsequendam Constitutionem de sacra Liturgia si può scorgere la «troppo umana» preoccupazione di difendere il proprio operato, ma in altri si profila l’immagine inquietante di un’«altra» concezione dell’Eucaristia, in cui sacrificio, presenza reale e sacerdozio ministeriale sono percepiti con disagio e con fastidio.

Ma non si tratta, comunque, di una chiara scelta di quanto vi era prima del Concilio e, quindi, di una messa in discussione del Concilio in quanto tale? La celebrazione del Vetus Ordo non rappresenta di suo un rifiuto del Concilio? Una scorsa attenta della letteratura critica sulla riforma liturgica, letteratura che cresce velocemente in quantità e in qualità, è tale da mettere in luce che la posta in gioco non è affatto il Concilio ma, caso mai, quale interpretazione dare del Concilio. Non dunque Concilio o anti-Concilio, ma continuità o rottura. Ciò che anima i critici non è il misconoscimento del valore e della necessità del rinnovamento conciliare, quanto la preoccupazione che qualunque sviluppo nella Chiesa si può dare solo se è ben saldamente assestato sulla base di una forte e convinta coscienza di continuità. Se le cose stanno così allora la coesistenza dei due riti — in qualunque modo poi la questione possa essere risolta dal punto di vista normativo e pastorale — appare come una pratica e persuasiva icona del corretto sviluppo della fede della Chiesa, che non si attua per rottura e per sostituzione ma per viva e progressiva crescita organica, tale da confondersi con quella evangelica dello «scriba divenuto discepolo del regno dei cieli [...] che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt. 13, 52).

don Pietro Cantoni



***

NOTE


(1) Cfr. Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica «Spiritus et Sponsa» nel XL anniversario della Costituzione «Sacrosanctum Concilium» sulla sacra Liturgia, del 4-12-2003; tutte le citazioni senza rimando sono tratte da questo documento, con l’indicazione del paragrafo fra parentesi nel testo stesso.

(2) Cfr. Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, Spiritus et Sponsa. Atti della Giornata commemorativa del XL della «Sacrosanctum Concilium». Roma, 4 dicembre 2003, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004.

(3) Cfr. san Pio X, Motu proprio «Tra le sollecitudini» sulla musica sacra, del 22-11-1903, in Tutte le encicliche e i principali documenti pontifici emanati dal 1740. 250 anni di storia visti dalla Santa Sede, a cura di Ugo Bellocchi, vol. VII, Pio X (1903-1914), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1999, pp. 49-56.

(4) Cfr. Giovanni Paolo II, Chirografo per il Centenario del Motu proprio «Tra la sollecitudini» sulla musica sacra, del 22-11-2003, in L’Osservatore Romano, Città del Vaticano 4-12-2003.

(5) Cfr. Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, Quinta Istruzione per la retta Applicazione della Costituzione sulla sacra Liturgia del Concilio Vaticano II «Liturgiam authenticam», del 28-3-2001, <www.vatican.va/roman_curia/congre ga tions/ccdds/documents/rc_con_ccdds_doc_ 200105 07_liturgiam-authenticam_lt.html>.

(6) Cfr. Eadem, Direttorio su pietà popolare e liturgia. Principi e orientamenti, del 9-4-2002, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2002.

(7) Cfr. Giovanni Paolo II, Lettera enciclica «Ecclesia de Eucharistia» sull’Eucaristia e il suo rapporto con la Chiesa, del 17-4-2003.

(8) Cfr. Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, Istruzione «Redemptionis sacramentum» su alcune cose che si devono osservare ed evitare circa la Santissima Eucaristia, del 25-3-2004.

(9) Cfr. Messale Romanum, ex decreto sacrosancti Oecumenici Concilii Vaticani II instaurandum, auctoritate Pauli Pp. VI promulgatum, Ioannis Pauli Pp. II cura recognitum, editio typica tertia, diei 20 aprilis 2000, Typis Vaticanis, Città del Vaticano 2002.

(10) Cfr. Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, Quinta Istruzione per la retta Applicazione della Costituzione sulla sacra Liturgia del Concilio Vaticano II «Liturgiam authenticam», cit., n. 7.

(11) Cfr. Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica «Mane nobiscum Domine» per l’Anno dell’Eucaristia. Ottobre 2004-Ottobre 2005, del 7-10-2004.

(12) Cfr. L’Osservatore Romano, Città del Vaticano 18/19-10-2004.

(13) Cfr. Sinodo dei Vescovi. XI Assemblea Generale Ordinaria, L’Eucaristia: fonte e culmine della vita e della missione della Chiesa. Lineamenta, Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 2004.

(14) Paolo VI, Discorso di chiusura del 2° periodo del concilio, del 4 dicembre 1963, in Enchiridion Vaticanum, vol. 1, EDB. Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 1993, pp. 124-145 (p. 133).

(15) Giovanni Paolo II, Lettera apostolica «Novo Millennio Ineunte» al termine del Grande Giubileo dell’Anno Duemila, del 6-1-2001, n. 32.

(16) Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1073.

(17) Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione sulla sacra Liturgia «Sacrosanctum concilium», del 4-12-1963, n. 2; la citazione è tratta dal Messale romano, Secreta della domenica IX dopo Pentecoste, che nel Messale romano riformato è divenuta Orazione sulle offerte della II domenica del Tempo Ordinario.

(18) Catechismus Romanus seu Catechismus ex decreto Concilii Tridentini ad Parochos Pii Quinti Pont. Max. iussu editus, edizione critica a cura di Pedro Rodriguez, Libreria Editrice Vaticana-Ediciones Universidad de Navarra, Città del Vaticano 1989, p. 283. Vale la pena notare che il Catechismo della Chiesa Cattolica riprende ed «enfatizza» le espressioni del Concilio Tridentino: «Il sacrificio di Cristo e il sacrificio dell’Eucaristia sono un unico sacrificio: “Si tratta infatti di una sola e identica vittima e lo stesso Gesù la offre ora per il ministero dei sacerdoti, egli che un giorno offrì se stesso sulla croce: diverso è solo il modo di offrirsi”. “In questo divino sacrificio, che si compie nella Messa, è contenuto e immolato in modo incruento lo stesso Cristo, che si offrì una sola volta in modo cruento sull’altare della croce” [Concilio di Trento: Denz.-Schönm., 1740]» (n. 1367). Cfr. anche il n. 1545.

(19) Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione sulla sacra Liturgia «Sacrosanctum Concilium», cit., n. 10.

(20) Il termine nel suo significato classico indica «una funzione ufficiale da parte della nobiltà» (Pontificio Istituto Liturgico Sant’Anselmo, Scientia Liturgica. Manuale di Liturgia, Direzione di Anscar J. Chupungco O.S.B., Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 1998, vol. I, p. 17). Non tutti possono partecipare alla liturgia — alla sua parte più intima ed essenziale, come vedremo —, ma solo i battezzati. Ora, con il Battesimo si entra a far parte di una «stirpe eletta», di un «sacerdozio regale», di una «nazione santa», di un «popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui» (1 Pt. 2, 9). «Aristocratico» o «nobile» non è solo chi vanta nobili origini — qui origini divine (cfr. 2 Pt. 1, 4) —, è anche chi non si chiude nel proprio «particulare», ma si fa carico del bene comune della città. In questo caso, come abbiamo visto, addirittura del «cosmo».

(21) Jean Corbon M.Afr. (1924-2001), Liturgia alla sorgente, trad. it., Qiqajon, Magnano (Biella) 2003, p. 122, n. 1.

(22) «È ormai tramontata, anche nei Paesi di antica evangelizzazione, la situazione di una “società cristiana”, che, pur fra le tante debolezze che sempre segnano l’umano, si rifaceva esplicitamente ai valori evangelici» (Giovanni Paolo II, Novo Millennio Ineunte. Lettera apostolica al termine del Grande Giubileo dell’Anno 2000, cit., n. 40).

(23) Cfr. Rituale Romanum. Ordo Initiationis Christianæ Adultorum, 1972; cfr. l’edizione ufficiale italiana, Conferenza Episcopale Italiana, Rituale Romano. Rito dell’iniziazione cristiana degli adulti, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1978.

(24) «La prima sezione della Sacrosanctum Concilium [...] è deliberatamente breve, i suoi importantissimi punti non sono ulteriormente sviluppati. Aspetti della teologia della liturgia sono ripresi nella Lumen gentium e Dei Verbum, e l’area della teologia liturgica è stata oggetto di una seria riflessione in questi quarant’anni. Il più importante sviluppo magisteriale sul punto può essere trovato nel Catechismo della Chiesa Cattolica. Questo entra nella categoria dello sviluppo della dottrina, perché il modo con cui il Catechismo tratta l’argomento gli fa fare un significativo passo avanti che è insieme di una semplicità disarmante e di una profondità stupefacente» (card. Francis Eugene George O.M.I., Lecture commemorating «Sacrosanctum Concilium», in Congregazione per il Culto Divino e la disciplina dei Sacramenti, Spiritus et Sponsa. Atti della Giornata commemorativa del XL della «Sacrosanctum Concilium». Roma, 4 dicembre 2003, cit., pp. 207-222 [p. 210]).

(25) Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1085.

(26) Ibid., n. 521; la citazione è tratta da san Giovanni Eudes (1601-1680), Tractatus de regno Iesu, testo che si trova anche nella Liturgia delle Ore, vol. IV, Ufficio delle letture del venerdì della trentatreesima settimana.

(27) Nel 1972 la rivista americana di liturgia Worship chiese all’antropologo statunitense di origine scozzese Victor Turner (1920-1983), molto noto e assai apprezzato per i suoi studi antropologico-culturali ed etnologici sul rituale, di esprimere il suo parere — dal punto di vista della sua disciplina — sulla recente riforma liturgica. Turner, che era un cattolico praticante, senza voler assolutamente entrare direttamente in questioni teologiche e liturgiche, fece notare che il tentativo di rendere i riti cattolici più comprensibili e aderenti alla vita di tutti i giorni rischiava proprio d’intaccare il processo rituale in qualcosa che gli è essenziale, cioè il suo porsi al di fuori degli schemi ordinari della vita. Le forme liturgiche «[...] hanno un carattere decisamente opposto a quelle prevalenti nel campo delle strutture sociali. Uno dei modi con cui esse capovolgono le strutture secolari è la loro qualità “arcaica”. È un errore pensare che l’arcaico sia fossilizzato o sorpassato. L’arcaico può essere contemporaneo come la fisica nucleare. Nel rito l’arcaico è una metafora dell’antistruttura. [...] Il positivismo e il razionalismo hanno ridotto il rito e il suo simbolismo a poco più che il riflesso e l’espressione di aspetti della struttura sociale, diretti o “velati” o “proiettati”. I momenti liminali e il rito che li protegge sono le prove dell’esistenza di poteri antitetici a quelli che generano e mantengono strutture “profane” di tutti i tipi, sono una prova che l’uomo non vive di solo pane. Se il rito non è necessariamente un semplice riflesso della vita sociale secolare, se la sua funzione è in parte di proteggere e in parte di esprimere verità che rendono gli uomini liberi dalle esigenze del loro stato, liberi di contemplare e pregare, di pensare e di inventare, allora il repertorio delle azioni liturgiche non potrebbe essere limitato a un riflesso diretto della scena contemporanea. Perciò la modernità autentica del rito dovrebbe esprimersi in forme che, almeno in parte, dovrebbero essere ereditate» (Victor Turner, Simboli e momenti della comunità. Saggio di antropologia culturale, trad. it., Morcelliana, Brescia 2003, pp. 8-9). Per l’importanza degli studi di Turner in vista di un approfondimento teologico della liturgia, cfr. Andrea Bozzolo S.D.B., Mistero, simbolo e rito in Odo Casel. L’effettività sacramentale della fede, Monumenta Studia Instrumenta Liturgica 30, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2003, pp. 285-297.

(28) Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1130; la citazione è da san Tommaso d’Aquino, Summa theologiæ, III, q. 60, a. 3. «L’essenza della liturgia è ultimamente riassunta nella preghiera che ci hanno trasmesso san Paolo (1 Cor. 16, 22) e la Didaché (10, 6): Maran atha — nostro Signore è presente — Signore vieni! Nell’Eucaristia si compie fin d’ora la parusia, questo però indirizzandoci nella direzione del Signore che viene, precisamente insegnandoci a invocare: Vieni, Signore Gesù. Ed essa ci fa sempre ancora percepire la sua risposta sperimentandone la verità: sì, vengo presto (Ap. 22, 17.20)» (Card. Joseph Ratzinger, Théologie de la liturgie, in Autour de la question liturgique avec le Cardinal Ratzinger. Actes des Journées liturgiques de Fontgombault 22-24 Juillet 2001, Association Petrus a Stella, Fontgombault 2001, pp. 13-29 [p. 29]).

(29) Cfr. Giovanni Paolo II, Lettera enciclica «Ecclesia de Eucharistia» sull’Eucaristia e il suo rapporto con la Chiesa, cit., n. 10.

(30) Ibidem.

(31) Ibidem.

(32) Ibidem.

(33) Ibidem.

(34) Ibidem.

(35) Emilio Betti (1890-1968), Teoria generale della interpretazione, 1955, Giuffrè, Milano 1990, vol. I, p. 305.

(36) Card. J. Ratzinger, Bilan et perspectives, in Autour de la question liturgique avec le Cardinal Ratzinger. Actes des Journées liturgiques de Fontgombault 22-24 Juillet 2001, cit., pp. 173-183 (p. 177).

(37) Ibid., pp. 28-29.

(38) Cfr. un annuncio in Avvenire. Quotidiano d’ispirazione cattolica, Milano 24-5-2003; e una cronaca, in Andrea Tornielli, Il cardinale Castrillón celebra la vecchia messa a Roma, in il Giornale, Milano 25-5-2003.

(39) Card. Darío Castrillón Hoyos, prefetto della Congregazione per il Clero e presidente della Pontificia Commissione Ecclesia Dei, Con Maria, uniti a Pietro, nel venerabile rito romano detto di san Pio V, in Cristianità, anno XXXI, n. 317, maggio-giugno 2003, pp. 3-6 (pp. 5-6).

(40) Cfr. le voci Vecchiocredenti, quadro ecclesiologico e Vecchiocredenti, quadro socio-politico, in Edward G. Farrugia S.J. (a cura di), Dizionario enciclopedico dell’Oriente Cristiano, Pontificio Istituto Orientale, Roma 2000, pp. 802-804.

(41) Cfr. uno sguardo sintetico, in Pontificio Istituto Liturgico Sant’Anselmo, Scientia Liturgica, cit., pp. 38-39.

(42) Cfr. Plinio Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, 3a ed. it. accresciuta di «Rivoluzione e Contro-Rivoluzione» vent’anni dopo in prima edizione mondiale, con lettere di encomio di mons. Romolo Carboni (1911-1999) e con un saggio introduttivo di Giovanni Cantoni su L’Italia tra Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, Cristianità, Piacenza 1977, parte III, capitolo III, pp. 189-195.

(43) Stratford Caldecott, Liturgie et Trinité. Vers une anthropologie de la liturgie, in Autour de la question liturgique avec le Cardinal Ratzinger. Actes des Journées liturgiques de Fontgombault 22-24 Juillet 2001, cit., pp. 34-56 (p. 38).

(44) Nel 1988 ho pubblicato uno studio in cui ho dimostrato questo assunto: se si situa il Novus Ordo Missae nell’ampio contesto dei documenti del Magistero che lo hanno preparato, accompagnato e seguito, tutte le accuse di eterodossia mosse a suo carico si scontrano con positive attestazioni del contrario: cfr. Novus Ordo Missae e fede cattolica, Quadrivium, Genova 1988. Il testo riprendeva sostanzialmente la mia tesi di licenza in Teologia presso la Pontificia Università Lateranense, discussa — relatore monsignor Brunero Gherardini — il 23 ottobre 1984. La sua pubblicazione è stata preceduta da diversi articoli sulla rivista genovese Renovatio, dei quali l’opera costituisce la raccolta riveduta e integrata, e da una sintesi in lingua tedesca, Der Novus Ordo Missae und der katholische Glaube [Il Novus Ordo Missae e la fede cattolica], in Una Voce Korrespondenz, anno 14, n. 6, Colonia 1984, pp. 340-354. La reazione da parte degli ambienti tradizionalisti che hanno fatto dell’eterodossia del Novus Ordo Missae il loro cavallo di battaglia è stata nulla. Credo di poter affermare che gli argomenti allora prodotti sono incontrovertibili. Il libro è ormai esaurito, ma lo si può leggere — ed eventualmente scaricare — sul sito <www.opus mariae.it>. Una conferma mi è venuta da uno studio recente che rende di pubblico dominio parte delle memorie sulla riforma liturgica del card. Ferdinando Antonelli (1896-1993), perito e segretario della Commissione conciliare della S. Liturgia nel1962, membro del Consilium ad exsequendam Constitutionem de sacra Liturgia nel1964, e segretario della Sacra Congregazione dei Riti nel 1965. L’importante documento viene ad affiancare, a integrare e a correggere mons. Annibale Bugnini C.M. (1912-1982), La riforma liturgica (1948-1975), C.L.V. Ed. Liturgiche, Roma 1983, di cui si chiarisce la visione decisamente unilaterale. Si tratta di appunti e di memorie private, quindi assolutamente «libere». Mentre il porporato è fortemente preoccupato del clima di concitazione, di fretta e anche di confusione teologica che pervade l’attuazione della riforma liturgica e trova l’Institutio generalis molto carente — verrà infatti corretta su punti importanti —, ritiene il testo del Novus Ordo Missae al di fuori di qualsiasi sospetto di ordine dottrinale. «Ieri l’altro, 23 luglio 1968, parlando con Mons. Giovanni Benelli [1921-1982], Sostituto alla Segreteria di Stato, mostrai le mie preoccupazioni sulla riforma liturgica che diventa sempre più caotica e aberrante. [...]

«In liturgia ogni parola, ogni gesto traduce un’idea che è un’idea teologica. Dato che attualmente tutta la teologia è in discussione, le teorie correnti fra i teologi avanzati cascano sulla formula e sul rito: con questa conseguenza gravissima, che mentre la discussione teologica resta al livello alto degli uomini di cultura, discesa nella formula e nel rito prende l’avvio per la sua divulgazione nel popolo. [...]

«Quello che però è triste [...] è un dato di fondo, un atteggiamento mentale, una posizione prestabilita, e cioè che molti di coloro che hanno influsso nella riforma, [...], ed altri, non hanno alcun amore, alcuna venerazione per ciò che è stato tramandato. Hanno in partenza disistima contro tutto ciò che c’è attualmente. Una mentalità negativa ingiusta e dannosa. [...]

«A sentire alcuni critici, nel nuovo Ordo Missae e soprattutto nella annessa Institutio generalis ci sarebbero perfino delle eresie: diciamo subito che errori dottrinali non ci sono, né nella Institutio generalis né molto meno nell’Ordo Missae. L’Ordo Missae in particolare è un testo del tutto rifinito e dal punto di vista dottrinale inattaccabile. L’Institutio generalis invece, dal punto di vista della redazione poteva essere più limata, più coordinata cioè nella materia e più precisa nei termini. Scendendo al particolare, l’insistenza sull’idea della cena, che sembra andare a discapito della idea di sacrificio» (Nicola Giampietro O.F.M. Cap., Il Card. Ferdinando Antonelli e gli sviluppi della riforma liturgica dal 1948 al 1970, Studia Anselmiana 121, Pontificio Ateneo S. Anselmo, Roma 1998, pp. 257-260).

(45) Card. F. E. George O.M.I., art. cit., pp. 208-209.

(46) Dario Sabbatucci (1923-2002), voce Rito, in Grande Dizionario Enciclopedico UTET, vol. XVII, raf-sals, UTET, Torino 1990, pp. 549-550 (p. 549).

(47) Ibidem.

(48) Cfr. Cassian Folsom O.S.B., Rite romain ou rites romains, in Autour de la question liturgique avec le Cardinal Ratzinger. Actes des Journées liturgiques de Fontgombault 22-24 Juillet 2001, cit., pp. 67-97.

(49) Cfr. Informativa del Presidente della Federazione Internazionale «Una Voce» [FIUV, dottor Ralf Siebenbürger] sull’incontro avuto col Card. Castrillón il 13 marzo 2004, <www.unavox.it/Documenti/doc0101.htm>.

(50) Card. J. Ratzinger, Bilan et perspectives, in Autour de la question liturgique avec le Cardinal Ratzinger. Actes des Journées liturgiques de Fontgombault 22-24 Juillet 2001, cit., pp. 178-179.

(51) Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1206.

(52) Ibidem.

(53) Cfr. Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla Chiesa «Lumen gentium», del 21-11-1964.

 
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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