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La difesa della vera LIBERTA' DELL'UOMO contro le tesi dei manichei e pelagiani

Ultimo Aggiornamento: 04/06/2011 09:57
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04/06/2011 09:29
 
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PARTE PRIMA
AGOSTINO FILOSOFO E TEOLOGO DELLA LIBERTA'


Non dispiaccia questo titolo. E' così. Lo vedremo subito. Agostino difese la libertà contro i manichei, contro i fatalisti, nonostante la prescienza divina (contro Cicerone che la negava per salvare la libertà). La difese con le armi della ragione e con quelle della fede, la libertà di scelta e la libertà cristiana (o dal male); sostenne che la libertà non consiste nel posse peccare e lesse la storia umana in chiave di libertà, dall'inizio della creazione al termine escatologico della beatitudine. Ma cominciò male. Cominciò coll'aderire ai manichei, i quali, negando la responsabilità personale dell'uomo nel peccato, negavano la libertà 1. Vediamo anzitutto questo punto di partenza.

CAPITOLO PRIMO

DIFESA DELLA LIBERTÀ CONTRO I MANICHEI


Si sa che la soluzione manichea del problema del male era fondata sulla teoria metafisica dei due princìpi coeterni e contrari. Il dualismo metafisico diventava necessariamente dualismo antropologico.

1. Antropologia manichea

Due i princìpi metafisici, due le anime nell'uomo, una buona e una cattiva, in perpetuo conflitto fra loro. La vittoria dell'una o dell'altra è la vittoria del principio del bene o del principio del male operanti nell'uomo. In questa visione antropologica non poteva esserci posto, e non c'era di fatto, per la responsabilità personale, cioè per la libertà.
Ecco come Agostino riassume questa dottrina recensendo il De duabus animabus: ammettono due anime, " delle quali dicono che una è parte di Dio, l'altra è parte della gente delle tenebre, non creata da Dio e a Dio coeterna. Le due anime, una buona e l'altra cattiva, così asseriscono, appartengono insieme allo stesso uomo: quella cattiva è propria della carne la quale proviene dalla gente delle tenebre; quella buona invece dalla parte avventizia di Dio che ha ingaggiato la lotta contro la gente delle tenebre. Così le due anime si sono mescolate insieme. Di conseguenza tutto il bene che l'uomo compie l'attribuiscono all'anima buona, tutto il male all'anima cattiva " 2.
Nel De haeresibus dopo qualche anno conferma: " L'origine dei peccati non l'attribuiscono al libero arbitrio della volontà ma alla sostanza della gente avversa... La concupiscenza carnale per cui la carne ha desideri contrari allo spirito ( Gal 5,17) non ammettono che sia un'infermità derivante in noi dalla natura viziata nel primo uomo, ma che sia una sostanza contraria che aderisce a noi in modo che quando ne siamo liberati e purificati, venga separata da noi e viva nella sua natura anch'essa immortale. Asseriscono, poi, che queste due anime o due menti, una buona e l'altra cattiva, vengono in conflitto tra loro nell'unico uomo... " 3.
Nel De duabus animabus contra manichaeos concludendo esprime la convinzione che l'opposizione tra l'anima buona e l'anima cattiva rappresenti il nucleo centrale del manicheismo, quello da cui dipende il suo essere, o il buon essere. " Smettano ormai di sostenere e d'insegnare quei due generi di anime, l'uno da cui non procede nulla di male, l'altro da cui non procede nulla di bene ". Il determinismo psicologico non poteva essere espresso più efficacemente: da una solo il bene, dall'altra solo il male. E continua: " Se lo faranno, cesseranno certamente di essere manichei, poiché tutta quella sètta si basa su questa bicipite o piuttosto precipite distinzione di anime " 4.
Si può aggiungere un testo significativo tratto da un discorso al popolo, dove parlando degli eletti manichei dice: " Ma chi sono questi eletti? Sono gente che, se le vai a dire che ha peccato, subito la senti pronunziare, a sua discolpa, parole empie, peggiori e più sacrileghe di quelle che usano gli altri. Dicono: Non ho peccato io, ha peccato il popolo delle tenebre. Ma chi è questo popolo delle tenebre? Un popolo che fece guerra a Dio. E allora? Quando tu pecchi, pecca questo popolo? Certamente, rispondono, e ciò in quanto io sono mescolato con esso " 5.
Non c'è bisogno di esporre più a lungo la dottrina manichea. Basta quanto si è detto per capire l'atteggiamento, che qui interessa, di Agostino, il quale prima accettò e poi, faticosamente, si liberò da un determinismo tanto insidioso; insidioso perché comodo anche se, insieme, distruttivo; comodo per il fatto che liberava l'uomo dalla responsabilità del peccato; distruttivo, per il fatto che, privandolo della parte più profonda e più nobile di sé, la libertà - " lo maggior don che Dio fesse creando " (Dante) -, lo riduceva ad un automa, ad un campo di battaglie non sue, ma che si combattevano in lui.

2. Agostino accetta l'antropologia manichea

Può sembrare strano, ma è così: Agostino accettò questa dottrina. Ecco le sue parole: " Ero tuttora del parere che non siamo noi a peccare, ma un'altra, chissà poi quale natura pecca in noi. Lusingava la mia superbia l'essere estraneo alla colpa, il non dovermi confessare autore dei miei peccati affinché tu guarissi la mia anima rea di peccato contro di te. Preferivo scusarla accusando un'entità ignota, posta in me stesso senza essere me stesso " 6.
" Ero tuttora del parere... ". Questa dottrina l'aveva accettata sin dall'inizio. L'angosciosa domanda: unde malum? su cui i manichei intessevano il loro insegnamento e la loro propaganda, che l'aveva tormentato molto nella sua adolescenza e che lo gettò, stanco di cercare, nelle loro braccia 7, riguardava non solo il male che l'uomo soffre, ma anche - e forse principalmente - il male che l'uomo fa. Per liberarlo dalla consapevolezza di questo male, la risposta manichea era seducente. Se anche non credeva che fosse vera, Agostino volle che lo fosse. " Finii per approvare qualsiasi cosa dicessero, non perché capissi che era vero, ma perché desideravo che lo fosse " 8. Accettarla fu facile, difficile il liberarsene.

3. Si libera dall'antropologia manichea

Faticosamente, ma se ne libera. Come? Attraverso una constatazione interiore, l'esperienza personale. Egli avverte, prima timidamente e poi con fermezza, che quando vuole o non vuole è lui a volere, non un altro. " Una cosa mi sollevava verso la tua luce: la consapevolezza di possedere una volontà non meno di una vita. In ogni atto di consenso o rifiuto ero certissimo di essere io, non un altro, a consentire o rifiutare; e qui era la causa del mio peccato, lo vedevo sempre meglio " 9.
Siamo agli inizi d'una salutare constatazione. Presto diventerà certezza. Quando, poco dopo, lotterà con se stesso per prendere una difficile decisione (quella di abbandonare ogni speranza terrena, anche la speranza di formarsi una famiglia), e sente in sé un terribile conflitto tra la volontà nuova che vuol sovrastare la volontà vecchia ma non riesce perché non lo vuole completamente, scrive: " Io, mentre stavo deliberando per entrare finalmente al servizio del Signore Dio mio, come da tempo avevo progettato di fare, ero io a volere, io a non volere, ero io e io. Né pienamente volevo, né pienamente non volevo. Da questo fatto nasceva la lotta con me stesso, la scissione di me stesso, scissione che, se avveniva contro la mia volontà, non dimostrava però l'esistenza di un'anima estranea, bensì il castigo della mia " 10. La lotta tra la carne e lo spirito ( Gal 5,17) non ha una causa ontologica come volevano i manichei - presenza di due anime o due nature nell'uomo -, ma una causa teologica (peccato originale) e una psicologica (tendenza al male e volontà di bene). Agostino lo ridirà mille volte durante la controversia pelagiana 11.
Dopo questa dura esperienza personale si comprende perché egli, parlando al suo popolo, insista tanto sulla responsabilità personale nei confronti del peccato. Chi pecca non deve cercare scuse, ma deve dire soltanto: " Dio mi ha creato con il libero arbitrio: se ho peccato, io ho peccato... io, io, non il fato, non la fortuna, non il diavolo... " 12. E altrove quasi con le stesse parole: " Il peccatore che si converte a Dio e vuol lodarlo dice: Ho peccato io, non la sorte, non il fato, non il popolo delle tenebre " 13.

4. Combatte l'antropologia manichea

L'azione che Agostino intraprese per chiarire ai manichei, suoi antichi correligionari, le nuove convinzioni che aveva acquisito cominciò molto presto e non durò poco. Cominciò qui a Roma, continuò a Tagaste, terminò ad Ippona verso il 400. Per l'argomento che qui ci riguarda le opere principali sono: il De libero arbitrio e il De duabus animabus contra manichaeos.
1) Il libero arbitrio. Nella prima, cominciata qui a Roma e terminata 14 a Ippona, la tesi di fondo è questa: il male deriva dal libero arbitrio. Si tratta del male che l'uomo fa, non di quello che subisce 15. Anche questo deriva dal libero arbitrio, ma da quello del primo uomo. Il discorso diverrebbe più lungo. Agostino lo farà contro i pelagiani 16. Qui ha in vista il male che l'uomo fa peccando, una questione che lo turbava già prima che incontrasse i manichei 17. Questo dipende dal libero arbitrio, non da una natura contraria, presente nell'uomo. Ragione: altrimenti Dio non potrebbe giudicarlo giustamente. " Le azioni malvagie sono punite dalla giustizia di Dio. Ma non sarebbero punite giustamente se non fossero compiute con un atto di libera volontà " 18, cioè liberamente. Si noti questa ragione: essa tornerà fino al termine della sua vita in tutta la controversia sulla grazia 19. Posta questa ragione, l'opera è tutta intenta a definire la natura della libertà e la natura del peccato, che restano tali nonostante la prescienza di Dio e le passioni dell'uomo.
La libertà è nella volontà come un " cardine " che le permette di volgersi da una parte o dall'altra. Infatti " se il movimento con cui la volontà si volge qua e là non fosse volontario e posto in nostro potere, non si dovrebbe approvare l'uomo quando torce verso l'alto il perno, per così dire, del volere e non si dovrebbe rimproverare, quando lo torce verso il basso " 20.
Nel testo citato c'è un'equazione che va messa in rilievo: se l'atto non fosse volontario e se non fosse in nostra positus potestate. Questo vuol dire che l'atto volontario o libero e atto in nostro potere dicono la stessa cosa. Ora un atto è in nostro potere quando lo poniamo se lo vogliamo, non lo poniamo se non lo vogliamo. Non è in nostro potere nisi quod cum volumus facimus 21. Concetto questo che Agostino ripete in un'importante opera della controversia pelagiana, il De spiritu et littera: " Si dice che ciascuno ha in potere ciò che fa se vuole e non fa se non vuole " 22.
La libertà dunque suppone il dominio dei propri atti, suppone la scelta, la decisione, l'autodeterminazione. Anzi volontà e libertà coincidono. Infatti " nulla è tanto in nostro potere quanto la stessa volontà " 23. " Perciò la nostra volontà non sarebbe volontà se non fosse in nostro potere. Effettivamente perché è in nostro potere, è per noi libera " 24.
Conforme alla nozione della libertà è la nozione del peccato. Non è peccato fare ciò che non si può evitare. Ecco il ragionamento agostiniano: " Non si può ragionevolmente imputare un peccato, se non a chi pecca. Quindi ragionevolmente si imputa soltanto a chi vuole " 25. " Qualunque sia la causa della volontà, se non è possibile resisterle, si cede ad essa senza peccato; se è possibile, non le si ceda e non si peccherà. Ma forse può ingannare un incauto? Dunque si guardi per non essere ingannato. Ma ha tanto potere d'ingannare che proprio non è possibile guardarsene? Se è così, non si danno peccati. Non si pecca in condizioni che è assolutamente impossibile evitare " 26.
Di questi testi si serviranno i pelagiani contro lo stesso Agostino, ma questi risponde e spiega. Qui si tratta del peccato personale, non di quello originale che è insieme peccato e pena del peccato, né, difendendo la libertà, si nega la necessità della grazia 27.
2) Le due anime contro i manichei. L'opera fu scritta, ad Ippona, da Agostino appena sacerdote. Prende in esame, direttamente, la tesi manichea delle due anime. Vi ritroviamo la stessa ragione per la difesa della libertà: il giudizio divino che condannerebbe ingiustamente chi non ha peccato. " Tutti ammettono che le anime cattive vengono condannate giustamente, mentre verrebbero condannate ingiustamente quelle che non hanno peccato " 28. Vi troviamo altresì la stessa nozione della libertà e del peccato.
Ecco la prima: " La volontà è un movimento dell'animo, esente da ogni costrizione, per non perdere o per acquistare qualcosa " 29. Esente da ogni costrizione: è il punto essenziale. Non si può insieme volere e non volere; perciò dove c'è la costrizione non c'è il volere ma il non volere, che è il suo opposto. Volere per costrizione o volere invitus è un non senso, un volere senza volere. Mentre " chiunque agisce volontariamente, agisce senza costrizione, e chiunque è esente da costrizione o agisce volontariamente o non agisce affatto " 30.
Ecco la seconda: " Il peccato è la volontà di ritenere e di conseguire ciò che la giustizia vieta e da cui ci si può liberamente astenere. Benché se non c'è la libertà, non c'è la volontà " 31. Per confermare questa sua definizione si appella al consenso del genere umano. Continua infatti: " Non è questo forse che cantano i pastori sui monti, i poeti nei teatri, gli indotti nei circoli, i dotti nelle biblioteche, i vescovi nei luoghi sacri, il genere umano nell'orbe terrestre? " 32.

Si noti di nuovo l'identificazione tra libertà e volontarietà. Nella definizione riportata Agostino ha voluto inserire il primo termine invece del secondo per offrire un'idea più facile perché meno sottile: malui grossius quam scrupolosius definire 33. Ma questa identificazione pone qualche problema di cui parlerò in seguito 34. Per ora basti ricordare che la nozione della libertà, legata essenzialmente a quella di responsabilità e perciò di giustizia, Agostino la difenderà non solo contro i manichei, ma anche nel bel mezzo della controversia pelagiana. Questa volta con argomenti non più filosofici ma teologici. Lo vedremo. Intanto è utile e importante vedere come l'abbia difesa contro il fatalismo, tanto diffuso negli ambienti culturali del tempo, e non solo allora.

CAPITOLO SECONDO

DIFESA DELLA LIBERTA' CONTRO IL FATALISMO


Il fatalismo è un'altra forma di negazione della libertà, diversa da quella dei manichei ma non meno grave; anzi, occorre dire, più grave, perché, se quella toglieva la responsabilità al singolo per attribuirla al principio cattivo, questa la toglieva all'universo per sottomettere la totalità dei fatti a una causa inflessibile che tutto determina: l'uomo, il cosmo, gli dèi. Una dottrina ampia e complessa che occupava lo spazio che nell'insegnamento cristiano è occupato dalla Provvidenza.
I trattati De fato sono numerosi nella letteratura greco - romana e non c'è bisogno di ricordarli qui 1. Tra essi quello di Cicerone, più vicino ad Agostino. Questi non poteva non intervenire, e intervenne; non solo per una ragione teorica - egli aveva fatto della Provvidenza, in cui sempre credette 2, il punto focale del suo pensiero -, ma anche per una ragione personale: in gioventù era stato vittima d'una forma di fatalismo, quello astrologico, cui aderì e da cui si liberò. Vediamo dunque per primo questo aspetto.

1. Fatalismo astrologico

Un particolare non molto conosciuto dell'animo del giovane Agostino è la sua fiducia nelle previsioni degli astrologhi o, com'egli dice, dei " matematici ". Questi, studiando gli influssi stellari sul mondo e sull'uomo, predicevano il futuro e negavano di fatto la libertà umana, in particolare la responsabilità nel peccato. " Dicevano: Dal cielo ti viene la causa inevitabile del peccato, e: E' opera di Venere, oppure di Saturno, oppure di Marte; evidentemente per rendere l'uomo senza colpa " 3. La loro dottrina, così spiega Agostino al popolo, altro non è che una difesa del peccato. " Sarai adultero, perché tale hai Venere, sarai omicida perché tale hai Marte. Marte dunque è omicida, non tu; Venere è adultera, non tu " 4.
Nella Città di Dio parla lungamente di questa concezione deterministica, che trasferisce alle stelle le sorti e le responsabilità degli uomini, ne ricorda le diverse espressioni, ne confuta le affermazioni. Quando gli uomini sentono parlare di fato " lo intendono secondo l'accezione comune come l'influsso della posizione degli astri quale si determina al momento della nascita o del concepimento " 5. Osserva poi che, " secondo l'opinione di uomini non mediocremente dotti, le stelle sono segni più che cause degli avvenimenti, quasi un linguaggio che annuncia il futuro, non lo realizza. I 'matematici' però - continua -, non intendono questo, e non dicono: Questa posizione di Marte indica un omicidio, ma: Commette un omicidio " 6. L'opinione qui ricordata era stata di Plotino, il quale, distinguendo tra annunzio e realizzazione, voleva mettere in salvo la libertà umana 7.
Ma da giovane Agostino non conosceva queste sottigliezze filosofiche: la sua adesione alle previsioni degli astrologhi fu piena e tenace. Pur decisamente avverso alle pratiche degli aruspici, i quali con sacrifici di animali proclamavano di assicurare il futuro 8, non desisteva dal consultare gli astrologhi che predicevano il futuro senza praticare sacrifici o pregare spiriti 9.
Da questa fiducia non lo ritrassero né le amabili esortazioni del dotto e nobilissimo Vindiciano che, quale proconsole, a Cartagine gli aveva messa sul capo la corona vinta nelle gare poetiche, né le amichevoli derisioni di Nebridio. Più di tutto valeva per lui l'autorità di quegli autori, né del resto, aggiunge, " avevo trovato ancora una prova certa, quale cercavo, che mi mostrasse senza ambiguità come le predizioni degli astrologhi consultati predicessero il vero per fortuna o sorte, non per l'arte di osservare le stelle " 10.
Questa ragione la troverà a Milano dopo una conversazione con l'amico Firmino, educato nelle arti liberali e buon parlatore, ma anche solerte nel consultare gli astrologhi e ricercatore avido di responsi. Era andato a trovare Agostino perché gli traesse l'oroscopo su certi suoi interessi. Agostino fece qualche previsione e poi disse che ormai era pressoché convinto della ridicola vanità di quelle pratiche. Firmino allora gli raccontò quanto era accaduto a suo padre e ad alcuni suoi amici grandi cultori, anch'essi, di astrologia; cioè degli oroscopi che avevano tratto su due bambini, nati nello stesso istante, uno da una padrona l'altro da una schiava; oroscopi uguali, data la simultaneità della nascita, ma che riuscirono fallaci perché la sorte dei due fu molto diversa.
Questa narrazione, data l'autorità del narrante, fece cadere ogni esitazione in Agostino e lo indusse a tirare questa conclusione: " I responsi veritieri ricavati dall'osservazione delle costellazioni non derivano dall'arte, ma dalla sorte; i falsi non da ignoranza dell'arte, ma da inganno della sorte " 11.
Si confermò nell'avversione a quelle ridicole vanità, cercò di dissuaderne l'amico che ne era ancora impigliato e si diede a studiare tutta la faccenda per essere in grado di rispondere alle obiezioni dei cultori di astrologia che non si davano facilmente per vinti. Studiò in particolare il caso dei gemelli 12, un caso classico per tutti gli oppositori di quella falsa scienza 13. Per il pensatore cristiano c'era l'esempio biblico di Esaù e Giacobbe, due gemelli che ebbero sorte tanto diversa. Agostino vi ricorre ogni volta che deve confutare quest'errore tanto superstizioso e pur tanto diffuso.
Oltre che nelle Confessioni, delle quali si è detto, lo confuta nelle Diverse 83 questioni 14, nella Dottrina cristiana 15, nella Genesi alla lettera 16 e, più a lungo, nella Città di Dio 17 e nella Epistola 246. Dovunque lo bolla come " un grande errore e una grande pazzia " 18, adduce in contrario l'esempio dei gemelli e ne ricorda le disastrose conseguenze per la vita etica dell'uomo. Perciò " quanto concerne i fati e tutte le sottigliezze quasi da documenazioni sperimentali dell'astrologia che chiamano apotelesmata 19, respingiamolo totalmente come alieno dall'integrità della nostra fede " 20. Ed enumera, nella Genesi alla lettera, quattro ragioni: 1) toglie la ragione stessa della nostra preghiera; 2) sopprime la giusta punizione della colpa; 3) afferma che gli uomini soli siano sottomessi agli astri; 4) tira, data l'impossibilità di precisare il momento della nascita, conclusioni senza fondamento 21.

Nella Città di Dio la confutazione diventa più lunga perché la tesi da dimostrare è più impegnativa. Si trattava della causa della grandezza dell'Impero romano. Agostino afferma che questa grandezza non fu " né fortuita né fatale, secondo la terminologia di coloro che consideravano fortuiti gli eventi che non hanno alcuna causa e non provengono da un ordinamento razionale, fatali quegli eventi che per deterministica necessità di un ordinamento si verificano indipendentemente dal volere di Dio e degli uomini. Al contrario gli imperi umani sono determinati direttamente dalla divina Provvidenza " 22. Occorreva perciò respingere tanto l'assoluta contingenza o il caso, quanto l'assoluta necessità o il fato. In quanto al fato, prima di tutto quello di origine stellare. Agostino ne descrive la natura, ricorda alcuni autori che ne hanno parlato - il famoso medico Ippocrate, Posidonio di Apamea, Nigidio il Figulo, Cicerone - ne mostra le vanità e le disastrose conseguenze, ne adduce gli argomenti in contrario - tra questi quello dei gemelli 23 - e ne conclude: " Dopo queste considerazioni si può fondatamente pensare che i molti responsi stranamente veri degli astrologhi sono dovuti all'occulta suggestione di spiriti del male... e non all'arte di leggere e scrutare l'oroscopo, che non esiste " 24.
Questa conclusione, se si prescinde dall'accenno alla suggestione degli spiriti del male - forse ha preferito questa spiegazione perché l'altra, quella della causa fortuita, gli presentava altri problemi -, contiene l'ultimo giudizio di Agostino sull'astrologia come arte divinatoria: non esiste. Vi era peró un altro fatalismo che occorreva prendere in considerazione: non più quello degli astrologhi, ma quello dei filosofi.

2. Fatalismo filosofico

E' quello non più legato alla posizione degli astri, ma " alla serie e alla connessione di tutte le cause per cui accade tutto ciò che accade " 25. Non più dunque la dipendenza dagli astri, ma il nesso ordinato di tutti i fenomeni che assoggetta alla necessità e determina tutte le cose. Un fatalismo molto presente nella filosofia antica - e non solo in quella -, che raggiunse la forma coerente e rigida - così si ritiene - nello stoicismo con la dottrina dell'ananke e con l'amor fati di cui la prima rappresenta la connessione necessitante delle cause, il secondo l'atteggiamento dell'uomo sapiente.
Agostino, che conosce gli stoici ed è molto contrario a diverse loro dottrine (alla nozione delle passioni 26, all'uguaglianza dei peccati 27, alla nozione della beatitudine 28 ), su questo argomento dà un'interpretazione benevola. Egli ritiene che essi attribuiscano l'ordine e il nesso delle cause al volere e al potere di Dio; perciò non trova necessario polemizzare su una controversia di parole 29. Poco prima aveva scritto: " se qualcuno chiama fato il volere e il potere di Dio, sententiam teneat, linguam corrigat " 30. Non vuole usare la parola fato, ma vuole discutere sul contenuto. A lui basta che l'ordine delle cause venga attribuito a Dio " del quale si ritiene con fede veracissima ed ottima che conosca tutte le cose prima che avvengano, che nulla lasci fuori dell'ordine e che da lui dipendono tutti i poteri, ma non il volere di tutti " 31. Con quest'ultimo inciso Agostino ribadisce una importante distinzione tra potere, che viene da Dio, e volere che, se ha per oggetto il male, non viene da Dio, ma solo dall'uomo. Tornerò subito sull'argomento, perché vi tornerà lo stesso Agostino.
Per dimostrare che gli stoici ascrivono al sommo Dio la connessione delle cause, cita le parole di Seneca, quelle celebri: ducunt volentem fata, nolentem trahunt, che nel contesto vengono riferite al " sommo padre e dominatore dell'alto cielo " 32. Cita altresì le parole di Omero, ricordate e tradotte da Cicerone: " lo spirito degli uomini è come la luce con cui Giove padre illumina la terra feconda " 33. Citando queste parole i filosofi dichiararono apertamente " la loro dottrina sul destino, perché consideravano Giove come il sommo Dio da cui, secondo loro, dipende la connessione dei destini " 34. Difatti " gli stoici si affaticarono per esimere dalla necessità delle cause alcune realtà. Fra quelle che considerarono libere dalla necessità hanno posto anche le nostre volontà perché non sarebbero libere se fossero soggette alla necessità " 35.
Agostino distingue, poi, le cause fortuite, quelle naturali, quelle volontarie; le prime sono, sì, cause ma nascoste (da qui il nome di caso o fortuna), le seconde sono necessitanti ma non sono sottratte alla volontà di Dio " perché egli è autore e principio di ogni natura ", le ultime - le cause volontarie - " sono o di Dio o degli angeli o degli uomini... ". " Quando parlo della volontà degli angeli, intendo tanto di quelli buoni che chiamiamo semplicemente angeli di Dio, come di quelli cattivi che chiamiamo angeli del diavolo o anche demoni. Altrettanto si dica degli uomini tanto dei buoni come dei cattivi " 36.

Sempre sollecito di salvare il sommo potere di Dio e la libertà dell'uomo (e degli angeli) Agostino conclude: " Nella volontà di Dio è il sommo potere, il quale aiuta le volontà buone degli spiriti creati, giudica le cattive, le ordina tutte - bonas voluntates adiuvat, malas iudicat, omnes ordinat - e ad alcune concede i poteri ad altre no ". Ripete qui, e spiega, il principio ricordato sopra che esime dalla causalità di Dio le volontà cattive. " Dio come è creatore di tutte le nature, così è datore di tutti gli influssi causali, ma non di tutti i voleri. Il volere cattivo infatti non è da lui perché è contro la natura che è da lui " 37. Avremo occasione di ricordare e di illustrare questo fondamentale principio agostiniano che illumina tutta la non facile dottrina della predestinazione e della grazia 38. Intanto vediamo la difesa della libertà contro un'altra forma di fatalismo o determinismo, quello teologico.

3. Fatalismo (o determinismo) teologico

Intendo per fatalismo o determinismo teologico quello che deriverebbe secondo alcuni, che poi non sono pochi, dalla prescienza divina, nella quale tutto è presente, anche il futuro delle nostre libere azioni. Come dunque libere se determinate? La difficoltà è ovvia; sa proporla e la propone chiunque, anche l'uomo della strada. Agostino non poteva ignorarla. La propone infatti e la risolve nel Libero arbitrio e nella Città di Dio, ivi in sede teorica, qui in sede storica; ivi dialogando con Evodio che rappresenta, per così dire, l'uomo della strada, qui confutando Cicerone, il quale, per salvare la libertà dell'uomo, non aveva trovato di meglio che negare la prescienza divina.
1) Ecco, nel Libero arbitrio, la difficoltà di Evodio: " Non veggo ancora in che modo non si escludano questi due termini: la prescienza divina dei nostri peccati e il nostro libero arbitrio nel peccare. Dobbiamo infatti innegabilmente ammettere che Dio è giusto e previdente. Ma vorrei sapere con quale giustizia punisca peccati che si commettono per necessità, o come non per necessità si verifichino eventi di cui ha prescienza che avvengano, o come non si debba imputare al Creatore tutto ciò che nella sua creatura avviene per necessità " 39.
La difficoltà di fondo è chiara: libertà e prescienza divina appaiono inconciliabili. Dunque la seconda toglie la prima. Ma se non c'è la libertà, come può esserci la giustizia quando Dio giudica il peccatore? Di nuovo una conclusione che esprime una preoccupazione dominante di Agostino e una tesi di fondo della sua antropologia: se l'uomo non è libero, non può essere giudicato giustamente. Il discorso tornerà a proposito della condanna dei reprobi. Ma per ora ascoltiamo la risposta alla difficoltà di Evodio.
Agostino osserva prima di tutto che prescienza non vuol dire costrizione. Infatti se per ipotesi uno sapesse con certezza ciò che farà un altro nel futuro, questi non sarebbe determinato a farlo dalla prescienza dell'altro. " Come dunque non sono opposti questi due termini, che tu per tua prescienza sai ciò che un altro compirà con la propria volontà, così Dio, sebbene non costringe nessuno a peccare, prevede però coloro che per propria volontà peccheranno " 40.
Ma perché non si pensasse che il ragionamento partiva da un'ipotesi impossibile, porta per esempio la memoria. Dice: " Come tu con la tua memoria non determini che si siano avverati gli avvenimenti passati, così Dio con la sua prescienza non determina che si debbano avverare gli eventi futuri. E come tu ricordi alcune azioni che hai compiute, così Dio ha prescienza di tutte le cose, di cui è autore, ma non è autore di tutte le cose, di cui ha prescienza " 41.
La conclusione non poteva essere che questa: " Perché dunque Dio non dovrebbe punire con la giustizia le azioni che non ha condizionato con la prescienza? Pertanto quorum non est malus auctor, iustus est ultor: è giusto punitore di tutte le azioni di cui non è ingiusto autore " 42.
Ma prima di passare alla Città di Dio, dove non si tratta più di una difficoltà accademica ma di una difficoltà storica, vale la pena di mettere in rilievo un'espressione su cui bisognerà tornare perché ci ritorna il nostro dottore: Dio ha la prescienza di tutte le cose di cui è autore, ma non è autore di tutte le cose di cui ha la prescienza. Si tratta, come si vede, della distinzione tra predestinazione e prescienza, per cui la seconda può essere, e di fatto è, quando v'è di mezzo il peccato, senza la prima: distinzione fondamentale per capire la dottrina agostiniana della grazia e che molti critici dimenticano o, peggio ancora, accusano il vescovo d'Ippona di averla ignorata dando occasione ad interpretazioni errate della sua dottrina 43. Ma per ora andiamo avanti e vediamolo difendere insieme libertà e prescienza contro Cicerone.

2) Cicerone è un deciso avversario del fatalismo e combatte contro gli stoici, ma ritiene che nessun argomento è valido contro di loro se non si elimina la divinazione, e con ciò la conoscenza del futuro e la prescienza di Dio. Agostino, che conosce bene le opere di Cicerone, attinge al De fato, al De divinatione e al De natura deorum 44. Ne conclude che egli " combatte apertamente la prescienza del futuro. E, come sembra, tutto il suo impegno consiste nel non ammettere il fato per non negare la libera volontà. Pensa infatti che data la premessa della conoscenza del futuro si ha la conclusione assolutamente innegabile dell'esistenza del fato " 45.
Al filosofo di Arpino premeva difendere la libertà, senza la quale, osserva giustamente: " omnis humana vita subvertitur, tutta la vita umana viene sconvolta, è inutile fare le leggi, è inutile usare punizioni e lodi, rimproveri e consigli e contro ogni giustizia sono stabiliti premi per i buoni e pene per i cattivi " 46.
Agostino è d'accordo nella difesa della libertà, ma non nella negazione della prescienza divina: il dilemma posto da Cicerone non è un dilemma. Negare a Dio la prescienza del futuro è lo stesso che negare l'esistenza di Dio: un Dio senza prescienza non è Dio 47. Ma l'esistenza di Dio non si può ragionevolmente negare, né a Dio si può negare la prescienza del futuro, come pure non si può negare, senza misconoscere un fatto di esperienza ed accettare disastrose conseguenze, la libertà dell'uomo. Cicerone ha voluto rendere gli uomini liberi, bene; ma li ha resi sacrileghi, e qui sta il male: dum vult facere liberos, fecit sacrilegos 48. Resta dunque il dovere di non scegliere, trasformando il falso dilemma ciceroniano in un vero binomio cristiano: libertà e prescienza. " Una coscienza religiosa sceglie l'uno e l'altro, ammette l'uno e l'altro, mediante la pietà fedele afferma l'uno e l'altro. E come? " 49. Agostino risponde dimostrando che le ragioni di Cicerone sono false e che, perciò, libertà e prescienza non sono inconciliabili. " Noi - dice egli - sosteniamo che Dio conosce tutte le cose prima che avvengano e che noi facciamo con la nostra volontà tutte le azioni che abbiamo coscienza e conoscenza di fare soltanto perché lo vogliamo... Non neghiamo però la serie delle cause in cui la volontà di Dio ha il massimo potere... " 50, ma affermiamo, riassumo le parole agostiniane, che nella serie delle cause ci sono anche quelle della libera decisione dell'uomo. L'ho ricordato sopra. Ecco le parole conclusive del nostro dottore: " Se davanti a Dio è certo l'ordine di tutte le cause, non ne segue che nulla è in potere dell'arbitrio della nostra volontà. Anche le nostre volontà rientrano nell'ordine delle cause che sono certe davanti a Dio e sono contenute nella sua prescienza, perché anche le nostre volontà sono causa di azioni umane. Così egli che ha avuto prescienza delle cause di tutti gli avvenimenti non ha potuto certamente non conoscere in quelle cause anche la nostra volontà di cui sapeva per prescienza che sarebbe stata causa delle nostre azioni " 51.

Ritroviamo l'Agostino del De libero arbitrio, con l'aggiunta che qui si trattava di combattere con un " uomo eccellente e dotto che molto e con competenza si preoccupava per la vita umana " 52. Anche il vescovo d'Ippona ne era preoccupato, ma non lo era meno di affermare la prescienza di Dio. " Noi cristiani - scrive - accettiamo l'uno e l'altro, affermiamo per fede e ragione l'uno e l'altro, la prescienza per credere bene, l'arbitrio per vivere bene ".
Il dilemma dunque è trasformato in binomio. " Non sia mai che noi, per salvare il libero volere, neghiamo la prescienza di Dio con il cui aiuto siamo o saremo liberi ". Non sono inutili le leggi, i premi e i castighi, non inutili le preghiere per ottenere ciò che Dio ha previsto di concedere; anzi influiscono molto, perché Dio ha previsto che avrebbero influito.
In quanto poi al peccato, che è sempre l'argomento più difficile perché richiama la giustizia di Dio che lo giudica e lo punisce, ecco l'affermazione e la spiegazione di Agostino: " L'uomo non pecca perché Dio ha conosciuto per prescienza che avrebbe peccato. Anzi è innegabile che pecca, quando pecca, perché Dio, la cui prescienza non può fallire, non ha conosciuto per prescienza che il fato o la fortuna o qualcos'altro di simile, ma che proprio l'uomo avrebbe peccato. Se l'uomo non vuole, certamente non pecca, ma se non vorrà peccare, anche questo Dio ha conosciuto per prescienza " 53.
In questo modo il vescovo d'Ippona combatte contro il fatalismo in difesa della libertà e contro la miscredenza in difesa della prescienza divina. Vale la pena di osservare che l'opposizione tra l'una e l'altra non fu solo Cicerone a vederla; la vide nei tempi moderni anche Lutero. E, contrariamente a quanto aveva fatto Agostino, anche Lutero scelse. Ma, da uomo religioso qual era, non scelse la libertà contro la prescienza, ma la prescienza contro la libertà 54, tornando a una forma di fatalismo o determinismo teologico che il vescovo d'Ippona aveva tanto combattuto.

4. Strana sorte di Agostino

La sorte strana è questa: un uomo come lui, che aveva difeso con tanta convinzione e tenacia la libertà umana contro ogni forma di fatalismo, e non solo nella controversia manichea, ma anche nel bel mezzo di quella pelagiana 55, è accusato di fatalismo. Ad accusarlo furono i pelagiani e i semipelagiani, e sono i moderni critici. Perché? Per la sua dottrina della grazia, in particolare per la difesa della gratuità di essa. L'affermazione che la salvezza è un dono di Dio è parsa a molti un ritorno al fatalismo. Così i pelagiani sostennero che Agostino difendeva il fato sotto il nome di grazia: sub nomine gratiae ita fatum asserunt... 56. Enunziarono poi l'affato: si compie per fato ciò che non si compie per merito. " E' vostra, non nostra, la sentenza - scrive Agostino - fato fieri quod merito non fit " 57. La stessa accusa, e in sostanza per la stessa ragione, presso i semipelagiani 58. La stessa presso i moderni critici 59. Altri poi, i predestinaziani, hanno preso per buone queste accuse e le hanno trasformate in lodi.
Ma non è questo il momento d'intrattenerci sul tema indicato. Basta averlo accennato, per offrire al lettore l'opportunità di avere subito un'idea di ciò che è capitato al dottore della grazia. E' utile invece continuare a seguirlo nella difesa della libertà. Fin qui ha difeso una verità, che è insieme di fede e di ragione, con le armi della ragione. Vediamo ora come la difenda con quelle della fede, cioè della Scrittura, trasformandosi da filosofo in teologo della libertà.



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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04/06/2011 09:31
 
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CAPITOLO TERZO

LA LIBERTA' DI SCELTA


Nel forte della controversia pelagiana, lungi dal negare la libertà per difendere la grazia, come spesso e, bisogna pur dirlo, con tanta superficialità si afferma ripetendo pari pari le accuse dei pelagiani, Agostino diventa il teologo della libertà, non solo della libertà dal male o libertà cristiana, di cui è convinto assertore e inesauribile cantore, ma anche della libertà di scelta, quella che aveva difeso contro i manichei e contro il fatalismo: la grazia che dona la prima, non toglie la seconda. Parliamo dunque di questa. Non faccia meraviglia il cambiamento di argomentazione: erano cambiati gli interlocutori. Questi ammettevano la Scrittura e ne accettavano l'autorità. Era dunque metodologicamente esatto e polemicamente efficace combattere non più con le armi della ragione, ma con quelle della Scrittura. Del resto, parlando a cristiani, Agostino voleva far capire che, difendendo la libertà e la grazia, non diceva nulla di suo, ma attingeva esclusivamente alla fonte della Rivelazione.

1. L'utrumque o il grande binomio.

Fin dall'inizio della controversia pelagiana imposta il problema sui termini fissi di libertà e grazia. Questa impostazione non fu più cambiata, anzi fu continuamente ribadita e chiarita. L'insegna dunque della sua dottrina è l'utrumque che tante volte ripete. Studiamola alla luce di quest'insegna e non sbaglieremo ad interpretarla. Come nella questione della libertà e della prescienza non scelse, ma affermò l'una e l'altra, dimostrando poi che non sono inconciliabili, così qui afferma l'una e l'altra - libertà e grazia - e indica poi, sia pure con grande modestia data la profondità dell'argomento, la via per vederne, in qualche modo, la conciliabilità. Di questa si parlerà a suo luogo nelle pagine seguenti 1. Qui interessa prima di tutto esaminare le due tesi di fondo. Parliamo innanzitutto della libertà. Forse ci stupiremo dell'insistenza di Agostino. Ma egli prevedeva o sentiva le difficoltà degli avversari. Del resto, anche senza di essi non avrebbe taciuto; non poteva infatti tacere di una verità fondamentale e insostituibile dell'antropologia umana e dell'economia della salvezza.
L'utrumque si trova già nella celebre preghiera delle Confessioni: Da quod iubes, et iube quod vis 2 che tanto dispiacque a Pelagio 3. V'è in essa l'espressione breve ed efficacissima della necessità della grazia e della disponibilità dell'uomo a compiere i divini comandamenti.

Nelle prime opere antipelagiane ribadisce questo concetto e ne indica il fondamento biblico. Vale la pena di riportare un lungo passo del Castigo e perdono dei peccati, che tra le prime è la prima. Vi s'insiste insieme sui comandi che Dio dà all'uomo e sulla preghiera dell'uomo che implora la grazia per osservarli: col comando Dio interpella la volontà dell'uomo, con la preghiera l'uomo ricorre alla misericordia di Dio. " Quando Dio ci comanda: Convertitevi a me e io mi convertirò a voi, e noi gli diciamo: Convertici, o Dio, nostro Salvatore, convertici Dio degli eserciti, che altro diciamo se non: 'Dona quello che comandi'? Quando comanda: Cercate di capire, o insensati del popolo, e noi gli diciamo: Dammi l'intelligenza perché io capisca la tua legge, che altro gli diciamo, se non: 'Dona quello che comandi'? Quando comanda: Non andare dietro alle tue concupiscenze, e noi gli diciamo: Sappiamo che nessuno può essere continente se Dio non glielo concede, che altro diciamo se non: 'Dona quello che comandi'? Quando comanda: Praticate la giustizia, e noi gli diciamo: Ammaestrami nella tua giustizia, che altro gli diciamo se non: 'Dona quello che comandi'? " 4.
Quasi a conclusione di questo ricamo biblico sul da quod iubes, e iube quod vis, un commento molto opportuno alle parole del Salmo: Dio è nostro aiuto ( Ps 61,9): " Non può essere aiutato se non chi si prova a fare qualcosa anche da sé. Dio infatti non opera in noi la nostra salvezza come se fossimo delle pietre insensibili o dei viventi alla cui natura egli non abbia dato la ragione e la volontà " 5. L'esempio, efficacissimo, illumina e conferma l'insegnamento: Dio ha dato all'uomo la libera volontà e, nel condurlo alla salvezza, tiene conto di questo suo dono.

La preghiera delle Confessioni - ad Agostino gli stava proprio a cuore per la sua brevità ed efficacia - torna nella seconda opera della controversia pelagiana, lo Spirito e la lettera, dove si discorre a lungo della legge delle opere che comanda (lettera) e della legge della fede che implora la grazia di fare quello che viene comandato (spirito). " Dove la legge delle opere impera minacciando, la legge della fede impera credendo... Perciò con la legge delle opere Dio dice: 'Fa' quello che comando', con la legge della fede si dice a Dio: Da' quello che comandi. Infatti la legge comanda perché la fede ammonisca l'uomo su ciò che deve fare, di modo che colui che riceve il comando, se non può ancora fare, sappia a chi chiedere... " 6.
Ma perché nessuno pensi che questo binomio - libertà e grazia - sia stato enunciato solo nelle prime opere antipelagiane e fatto cadere poi, ecco tre opere che coprono l'ultimo periodo della vita di Agostino, dal 400 alla morte. Si tratta della Risposta alle lettere di Petiliano, delle Ritrattazioni (426-427) e dell' Opera incompiuta contro Giuliano (429-430). Dice nella prima, dopo aver ricordato la difficoltà di conciliare la libera scelta dell'uomo e l'azione divina con cui il Padre trae gli uomini al Figlio: " Eppure utrumque verum est " 7.
L' utrumque torna nelle Ritrattazioni, dove corregge un suo errore giovanile circa l'inizio della fede. Vi ribadisce ciò che aveva difeso apertamente in tante opere. Sia il credere che l'operar bene sono nostri e di Dio, di Dio per la grazia, nostri per il libero arbitrio: utrumque ergo nostrum est propter arbitrium voluntatis et utrumque tamen datum est propter spiritum fidei et caritatis 8.
Quest' utrumque rivelatore ritorna nell'opera che la morte non gli permise di portare a termine. Scrive: " Utrumque verum est e che Dio prepari i vasi per la gloria (cf. Rom 9,23) e che questi vasi preparino se stessi. Infatti perché l'uomo operi, Dio opera, per la ragione che l'uomo ama perché Dio lo ha amato per primo (1 Gv 4,19) " 9. Nell'altra opera scritta poco prima dell'Opera incompiuta, che è, poi, quella più profonda e più difficile di quante ne ha scritte sulla grazia, se non ricorre materialmente l'utrumque, ricorre il senso. Scrive: " I figli di Dio vengono mossi dallo Spirito di Dio ( Rom 8,14), perché agiscano, non perché da parte loro non facciano nulla " 10.

2. La libertà nella Scrittura

Il grande binomio, libertà e grazia, tante volte ripetuto da Agostino prima della controversia pelagiana e dopo, nasceva da una profonda convinzione filosofico-teologica. Perché la convinzione teologica trovasse lo spazio per esprimersi ci voleva un'occasione. Questa gliela offrirono i monaci di Adrumeto; questi, letta la famosa lettera 194, ne conclusero che tra libertà e grazia non c'è possibilità di conciliazione, occorreva scegliere. Essi, manco a dirlo, sceglievano la libertà 11. Agostino lo seppe e rispose, dando, con maggiore ampiezza di quanto non avesse fatto fino allora, le ragioni bibliche del binomio che gli stava a cuore o, per usare ancora una volta la sua espressione preferita, dell' utrumque, e inviò il libro a quei monaci.
La visione teologica agostiniana appare già dal titolo: De gratia et libero arbitrio. Non poteva essere più significativo, precisamente come quello di molti anni prima: De natura et gratia, che dimostrava, contro Pelagio, che aveva scritto il De natura, quale dovesse essere l'atteggiamento del cristiano: non scegliere, ma abbracciare in una visione unitaria l'una e l'altra verità, perché l'una e l'altra ci è stata rivelata da Dio.
Per ciò che riguarda la libertà, ecco la tesi e gli argomenti di Agostino.
1. La tesi. Il Signore " ci ha rivelato per mezzo delle sue sante Scritture che c'è nell'uomo il libero arbitrio della volontà. In qual maniera poi lo abbia rivelato, ve lo ricordo non con le mie parole umane, ma con quelle divine " 12. La tesi è chiara: non meno chiaro il metodo. Parlando a cristiani, Agostino non si attarda ad usare argomenti di ragione ma si appella immediatamente alla fede: chi crede non potrà negarli. Farà lo stesso poco dopo per l'altra verità di fondo, la grazia. " Fin qui, carissimi, abbiamo provato con le testimonianze citate sopra dalle sante Scritture che per vivere bene ed agire rettamente c'è nell'uomo il libero arbitrio della volontà; ma adesso vediamo anche quali siano le testimonianze divine sulla grazia di Dio, senza la quale nulla di buono possiamo compiere " 13.
2. Gli argomenti. Vediamo gli argomenti della prima tesi. Si possono ridurre a tre: 1) le affermazioni esplicite sulla libertà dell'uomo; 2) i precetti della legge che la suppongono e l'includono; 3) il giudizio divino che non s'intenderebbe senza che ci fosse in noi la responsabilità nel compiere il bene e il male.

1) Per le affermazioni esplicite viene citato il celebre passo dell' Ecclesiastico (Siracide) 15, 11-18, dove nel bel mezzo si dice: " Il Signore creò l'uomo all'inizio e lo lasciò in mano del proprio consiglio. Se vorrai, osserverai ciò che ti viene prescritto e la completa fedeltà a ciò che a lui piace ". Questo testo biblico è commentato con le seguenti parole: " Ecco che vediamo espresso nella maniera più lampante il libero arbitrio della volontà umana " 14.
2) L'argomento tratto dai precetti divini è preceduto da questa premessa che, attraverso interrogativi retorici, ne indica la conclusione. " E che significa il fatto che Dio ordina in tanti passi di osservare e compiere tutti i suoi precetti? Come lo può ordinare, se non c'è il libero arbitrio e quel beato di cui il Salmo dice che la sua volontà fu nella legge del Signore, non chiarisce forse abbastanza che l'uomo perdura di propria volontà nella legge di Dio? " 15. Dopo questa premessa il nostro dottore cita una lunga serie di testi - oltre venti - in cui Dio si rivolge all'uomo interpellando la sua volontà con la formula imperativa: non volere... non vogliate, o condizionale: chi vuole... se vuoi... 16.
Al termine questo commento: " Quando si dice: non voler fare questo e non fare quello, e quando negli ammonimenti divini a fare o non fare qualcosa si richiede l'opera della volontà, il libero arbitrio risulta sufficientemente dimostrato. Nessuno dunque, quando pecca, accusi Dio nel suo cuore, ma ciascuno incolpi se stesso; e quando compie un atto secondo Dio, non ne escluda la propria volontà " 17.
Spiega poi per quale scopo vengono dati i comandamenti divini, affinché, cioè, nessuno porti la scusa dell'ignoranza e questa, in ogni caso, non abbia altra ragione se non la volontà di non apprendere per non agire bene (Rom 12,21); cita ancora un testo dell'Apostolo: Non ti lasciar vincere dal male, ma vinci il male con il bene (Rom 12,21), e conclude: " Appunto se a uno è detto: Non voler essere vinto, si fa richiamo senza dubbio all'arbitrio della sua volontà. Infatti volere e non volere appartengono alla volontà dell'individuo " 18.
3) La terza ragione, dedotta dal giudizio di Dio, nell'opera che sto commentando viene accennata qua e là, mentre la si trova esposta apertamente in una lettera che la precede e la riguarda. Agostino, come fa per molti altri problemi, riduce la questione della libertà e della grazia ad un motivo cristologico: Cristo è salvatore e giudice. Scrive ai monaci di Adrumeto: " Innanzitutto il Signore Gesù, come sta scritto nel Vangelo dell'apostolo Giovanni, è venuto non per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato da lui. Ma in seguito, come scrive l'apostolo Paolo: Dio giudicherà il mondo e lo giudicherà quando verrà a giudicare i vivi ed i morti, come confessa tutta la Chiesa nel Simbolo. Se, dunque, non c'è la grazia di Dio, in qual modo Dio salverà il mondo? E se non c'è il libero arbitrio, in qual modo giudicherà il mondo? " 19. Non c'è bisogno di ricordare che questo pensiero del giudizio di Dio dominava l'animo di Agostino: Dio è giusto e non può condannare nessuno se non ha commesso liberamente il male.

3. La risposta ai pelagiani

Sul tema della libertà - la libertà di scelta - Agostino ebbe una forte polemica con i pelagiani. Questi ponevano al centro del loro sistema la difesa della libertà 20. Come emblema della loro dottrina si possono prendere queste parole che furono contestate a Pelagio dal sinodo di Diospoli in Palestina: Tutti sono governati dalla propria volontà. Pelagio rispose: " Questo l'ho detto per il libero arbitrio, al quale Dio presta il suo aiuto nello scegliere il bene. Quando invece l'uomo pecca, sua è la colpa, dotato com'è di libero arbitrio ". I vescovi approvarono la risposta. Agostino commenta: " Chi infatti condannerebbe o negherebbe il libero arbitrio, se insieme ad esso si sostiene l'aiuto di Dio? " 21. Ma il modo col quale i pelagiani ammettevano l'aiuto di Dio era parziale e insufficiente. Il dottore della grazia precisa: non basta parlare di aiuto divino o di grazia solo a proposito della creazione, della rivelazione e della remissione dei peccati; occorre parlarne anche in un quarto modo, a proposito cioè dei peccati da evitare. Infatti senza l'aiuto di Dio non si possono evitare i peccati 22.
Questa dottrina i pelagiani non vogliono accettarla e passano al contrattacco accusando Agostino di negare la libertà. Questi risponde energicamente: " Ma chi di noi dice che col peccato del primo uomo è perito il libero arbitrio del genere umano? La libertà certo è perita per mezzo del peccato, ma quella che ci fu in paradiso, cioè quella di avere la giustizia e l'immortalità. Perciò la natura umana ha bisogno della grazia secondo le parole del Signore: Se il Figlio vi libererà, allora sarete veramente liberi (Gv 8,36) " 23. Anche dopo il peccato e nonostante il peccato il libero arbitrio dell'uomo resta. Né la grazia si oppone ad esso, ma lo libera perché possa operare la giustizia e raggiungere la salvezza. Anche nel forte della polemica a favore della grazia non dimentica mai l'altro polo del problema: la libertà.
Possiamo concludere questo importante argomento sul grande binomio che egli tenne sempre strettamente unito come un'esigenza fondamentale della ragione e della fede, con le parole della lettera ad Ilario siracusano, dove scrive, a proposito della libertà e della grazia: " L'arbitrio della volontà non viene tolto per il fatto che viene aiutato, ma viene aiutato proprio perché non viene tolto: Neque enim voluntatis arbitrium ideo tollitur, quia iuvatur; sed ideo iuvatur, quia non tollitur " 24. Queste parole riassumono e fissano in modo epigrafico una dottrina costantemente ritenuta e chiaramente proposta. Da esse si può giudicare se abbia ragione lo Jaspers, che pur ha scritto belle cose su Agostino, quando dice che " la sua dottrina della libera volontà finisce quasi per spegnersi interamente nella dottrina della grazia " 25.

4. Ma allora perché?

A questo punto non ci si può non fermare un momento per fare una riflessione. Se la dottrina agostiniana è questa - e i testi riportati dicono chiaramente che è questa - come si è potuto ripetere con tanta frequenza, e con parole anche più forti dello Jaspers, che Agostino difendendo la grazia ha finito per negare la libertà?
La domanda è legittima, ma la risposta non è facile. Non lo è, perché le ragioni sono molte, e riguardano sia la storia dell'agostinismo sia il testo agostiniano. L'agostinismo ha una storia, come tutti sanno, molto singolare, dovendo registrare interpretazioni da destra e da sinistra: le accuse dei pelagiani e le lodi dei predestinaziani, ripetute, le une e le altre, dai moderni.
Ma per restare al testo agostiniano e confermare sia pure sommariamente un'affermazione fatta all'inizio di questo argomento e ripetuta qui sotto forma appunto di questione, si può dire che le ragioni di questo fenomeno singolare e grave si possono ridurre a tre:
1) l'insistenza su la libertà cristiana, di cui il nostro dottore parlò a lungo e sempre con l'entusiasmo d'un innamorato;
2) la natura della libertà di scelta le cui radici sono nascoste nel profondo del nostro essere;
3) la difficoltà di comprendere la grazia, la quale toccando le soglie del mistero richiede, per essere compresa, non solo l'acume teologico e l'assiduo studio della Scrittura, ma anche l'umiltà della mente e l'assiduità della preghiera.
L'argomento tornerà nelle pagine seguenti. Qui si può dire brevemente così:
1) l'insistenza di Agostino sulla libertà dal male o libertà cristiana, che indubbiamente nel quadro dei suoi pensieri sta al primo piano, ha potuto far dimenticare ad alcuni e portarli a non vedere, che nel sottofondo fosse presente, sempre supposta e di quando in quando esposta, la libertà di scelta, tanto più che questa nelle discussioni posteriori, quelle scolastiche e moderne, è diventata prevalente e ha portato chi scrive o legge a identificare libertà e libertà di scelta;
2) la libertà di scelta richiede il concorso dell'intelletto e della volontà, va soggetta all'influsso delle passioni ed è destinata alla beata necessitas del non posse peccare: tutte questioni che sono ben lungi dall'essere a tutti chiare;
3) la grazia opera negli ingranaggi della libertà umana, interiormente, profondamente. Nella convinzione di Agostino, Dio ha in potere la nostra volontà più di quanto non l'abbiamo in potere noi stessi e, avendola creata, opera in essa dal di dentro, con tanta soavità da volgerla al bene quando vuole e come vuole, senza violarne peraltro la natura. Dico: al bene, perché al male purtroppo la volontà si volge da se stessa. Ora quest'azione di Dio tocca le soglie del mistero. E' più facile la soluzione di chi, come Giuliano, considera la volontà " emancipata " da Dio; più facile, ma difforme, metafisicamente e religiosamente, dalla verità 26.
Le pagine che seguono cercheranno di chiarire il significato e il valore di queste ragioni. Comincerò dalla prima.

CAPITOLO QUARTO

LA LIBERTA' DAL MALE, O LA LIBERTA' CRISTIANA


Diciamo subito che se Agostino, attingendo alla luce della ragione e della fede, difende con fermezza la libertà di scelta come un postulato essenziale della persona umana, parla più a lungo, con insistenza e passione, di un'altra libertà, quella che ci viene da Cristo, la libertà dal male. Ne parla più a lungo per ragioni pastorali, per ragioni polemiche, per ragioni esperienziali. Infatti: 1) occorreva insistervi presso il popolo cristiano perché imparasse ad amare, a cercare, a invocare questa preziosa libertà che prelude a quella suprema e definitiva dei tempi escatologici, assicura il pacifico sviluppo della persona umana e anima la preghiera con l'ultima petizione del Padre nostro: ma liberaci dal male; 2) contro i pelagiani poi, che negavano la necessità della grazia per evitare il peccato, occorreva insistere sulla schiavitù che proviene dal peccato e dalla concupiscenza disordinata e sul male della morte: da questi mali può liberarci solo la grazia di Cristo; 3) il ricordo della dura servitus 1 che aveva sofferto in gioventù quando, scoperta la verità attraverso la fede cattolica, voleva dedicarsi totalmente alla ricerca della sapienza: questa circostanza rendeva più efficace, se ce ne fosse stato bisogno, il suo insegnamento colorendolo con la luce della sua esperienza.
Parliamo dunque di quest'aspetto essenziale dell'opera redentrice di Cristo della quale Agostino sentì il dovere di esporre e chiarire e difendere la necessità, la centralità, l'insostituibilità.

1. Questione semantica

Prima di tutto si pone una questione semantica: l'uso dei termini liberum arbitrium e libertas. Si è visto sopra che Agostino, rispondendo ad una accusa dei pelagiani, distingue tra l'uno e l'altro termine, attribuendo il primo al potere che la volontà ha nei propri atti, il secondo al possesso della giustizia e dell'immortalità. Vale la pena di ripetere le sue parole. " Chi di noi dice che col peccato del primo uomo il libero arbitrio è perito dal genere umano? La libertà, certo, è perita col peccato, ma quella che l'uomo ebbe in paradiso, quella di avere la piena giustizia congiunta all'immortalità " 2. La distinzione semantica sarebbe stata preziosa se Agostino vi fosse restato fedele. Ma purtroppo questo non è avvenuto.
Vi resta fedele, per esempio, quando, esponendo la visione universale della storia umana, parla di libertas minor e di libertas maior 3, o parla della libertà necessaria per vincere gli errori, i terrori, gli amori di questo mondo 4, o afferma che " la prima libertà è quella di esser privi di peccati gravi (crimina) " 5, o enuncia il principio generale che dopo il peccato la vera libertà ci viene dalla grazia 6, o sostiene che la libertà perfetta è quella che importa la desideranda necessitas di volere il bene e di non poter non volerlo 7, o ricorda che l'immutabile libertà dell'uomo è quella di voler essere beati 8.
Invece non vi resta fedele altre volte quando usa il termine liberum arbitrium mentre ci si aspetterebbe libertas. Primum liberum arbitrium posse non peccare, novissimum non posse peccare 9. In questo caso non si può risolvere la questione sul piano semantico: occorre ricorrere a quello contenutistico, che non presenta del resto grosse difficoltà, almeno per chi legge tutti i testi di Agostino e vuole, come si è detto cominciando, concordarli tra loro.

2. L'insegnamento biblico

In questo come negli altri argomenti teologici Agostino prende l'avvio dalla Scrittura e ad essa si richiama di continuo per controllare le affermazioni e i giudizi. Sulla libertà i testi principali che cita e commenta sono tre: 1) Gv 8,32: cognoscetis veritatem, et veritas liberabit vos 10; 2) Gv 8,36: Si vos Filius liberaverit, vere liberi eritis 11; 3) Mt 6,13: l'ultima petizione del Padre nostro: sed libera nos a malo 12.
Sul primo testo vale la pena di citare, in parte almeno, un commento agostiniano: " Il premio [per chi rimane fedele alla parola di Cristo] qual è? Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi. O premio! Conoscerete la verità. Forse dirà qualcuno: e che mi giova conoscere la verità? E' la verità a farvi liberi. Se non vi attrae la verità, vi attragga la libertà... Essere liberato vuol dire propriamente essere reso libero; come salvato, fatto salvo; sanato, reso sano... Nella lingua greca questo significato è più evidente e non può essere inteso in un altro modo. Perché sappiate che non può essere inteso in un altro modo, [sentite] che cosa rispondono i giudei alle parole del Signore: Noi non abbiamo mai servito a nessuno, come tu dici: la verità vi farà liberi? Cioè, come puoi dire a noi: la verità vi farà liberi, se noi non abbiamo mai servito a nessuno? " 13. La verità che libera non vuol dire soltanto, dunque, osserva Agostino, la verità che ci scampa da un pericolo, ma che da servi che eravamo ci fa liberi.
Sul secondo testo giova ricordare una polemica con Giuliano. Questi replica al testo agostiniano riportato sopra 14 e interpreta il liberabit vos come liberazione dai peccati commessi personalmente, che costituiscono l'unica servitù dell'uomo. Agostino controreplica intendendo il qui facit peccatum (non qui fecit come leggeva Giuliano) servus est peccati in un senso più universale includendo in esso anche la servitù dalle passioni disordinate e quindi intende in senso più universale la liberazione che ci viene da Cristo 15.
Sul terzo testo val la pena di osservare che il nostro dottore nell'ampio quadro della vita spirituale che traccia mettendo in relazione beatitudini, doni dello Spirito Santo e petizione del Padre nostro 16, ravvicina il libera nos a malo alla sapienza, che è il più alto dei doni di Dio, e alla beatitudine della pace, che è la più alta delle beatitudini 17. La liberazione dal male coincide con la giustificazione ed ha lo stesso raggio d'azione: dalla Chiesa peregrinante alla Chiesa escatologica 18, quando " la creazione... [sarà] liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio " (Rom 8,21).

3. Le sei grandi libertà cristiane

L'ampio discorso che Agostino fa sulla libertà cristiana si può ridurre a sei temi fondamentali: la libertà dall'errore, dal peccato, dal disordine delle passioni, dalla legge, dalla morte, dal tempo. Queste sei libertà vengono elargite agli uomini - soggetti appunto all'errore, al peccato, alle passioni, alla legge, alla morte e al tempo - dai doni divini della fede, della giustificazione, della grazia adiuvante, dell'amore, della risurrezione, dell'eternità.
Sei libertà che il vescovo d'Ippona, capace ed amante delle grandi sintesi, riduce ad una sola, a quella dell'amore: lex libertatis, lex caritatis 19. Ora il cuore di tutta la Scrittura è per Agostino l'amore 20. Perciò la libertà cristiana altro non è che la libertà dell'amore: libertas caritatis 21: quando l'amore sarà pieno e perfetto, sarà piena e perfetta anche la libertà.
Il panorama qui riassunto è immenso. Esso induce a meditare lungamente sulla redenzione di Cristo e sui frutti che ne derivano all'umanità. Agostino vi meditò molto e ne ridisse i risultati nei suoi scritti; vi meditò e ne scrisse per molte ragioni: teologiche, polemiche e mistiche, ed anche filosofiche. Egli, anche come filosofo, non sa capire la storia dell'umanità senza l'influsso negativo del peccato e l'influsso positivo della redenzione di Cristo 22. Giova seguirlo su questo campo, sia pur brevemente.
1) La libertà dall'errore. La libertà di errare è da lui considerata come la peggiore morte dell'anima: Quae peior mors animae - esclama - quam libertas erroris? 23. Questa interrogazione retorica esprime con efficacia la triste esperienza dell'errore che egli stesso aveva fatto fuori della fede cattolica. Questa esperienza ne fece l'assertore convinto e indefesso dell'utilità della fede. Ma prima di tutto gli suggerì l'affermazione di fondo: la nostra libertà è questa: essere soggetti alla verità. Alla luminosa affermazione fanno seguito le prove, quella biblica con la citazione di Io 8, 31 - 32 e quella filosofica con la nozione della beatitudine che non può essere vera se non è sicura. " La stessa Verità, che è anche Uomo in dialogo con gli uomini, ha detto a coloro che lo credono: Se rimarrete nella mia parola, sarete veramente miei discepoli e conoscerete la verità e la verità vi libererà. L'anima infatti non gode di un bene con libertà, se non ne gode con sicurezza. Ora non si è sicuri di quei beni che si possono perdere indipendentemente dalla volontà " 24.
Per quel principio e per queste ragioni la difesa dell'utilità della fede diventava obbligatoria e naturale. Il vescovo d'Ippona la intraprese subito dopo la conversione 25 e, appena all'inizio del suo sacerdozio, scrisse un'opera dal titolo significativo e programmatico: L'utilità del credere. La fede è utile per tutti, anche per il filosofo. Essa è la fortezza inespugnabile che assicura e difende chiunque dalla molteplicità degli errori 26, è il nido dove mettiamo le penne per poter volare con sicurezza verso gli orizzonti del vero 27, è la medicina che sana l'occhio dello spirito perché possa fissarsi nelle verità più alte 28, è l'accorciatoia che permette di conoscere presto, senza grande sforzo e senza errori, quelle verità essenziali che sono indispensabili affinché l'uomo possa condurre una vita sapiente 29.

2) La libertà dal peccato. E', insieme alla liberazione dall'errore, la grande libertà che proviene da Cristo. Prima libertas - esclama Agostino parlando al popolo - est carere criminibus 30. Inutile ricordare che qui crimina sta per " peccati gravi ", cioè quei peccati che escludono dal regno di Dio, dei quali parla l'Apostolo in Gal 5,19 - 21 31. L'insistenza su questa libertà è pari alla profonda convinzione che gli veniva dall'esperienza personale e dalle parole del Vangelo ricordate sopra: Omnis qui facit peccatum, servus est peccati (Gv 8,34). " Oh, miserabile schiavitù! - esclama Agostino - Accade che uomini schiavi di duri padroni chiedano di essere venduti, non per non avere più padrone, ma almeno per cambiarlo. Che farà chi è schiavo del peccato?...La cattiva coscienza non può fuggire da se stessa...Ricorriamo tutti a Cristo, invochiamo contro il peccato l'intervento di Dio liberatore, chiediamo di essere venduti, ma per essere ricomprati con il suo sangue " 32. Non c'è bisogno di dire che per Agostino il peccato è vera alienazione dell'uomo e che l'uomo non si ritrova se non trovando Dio.
La liberazione dal peccato avviene per opera di Colui che non ha conosciuto il peccato: " Solo il Signore ci può liberare da questa schiavitù: egli che non la subì, ce ne libera; perché egli è l'unico che è venuto in questa carne senza peccato " 33; avviene nella giustificazione nella quale la remissione dei peccati è " piena e totale ", " piena e perfetta " 34 e l'uomo da servo del peccato diventa servo della giustizia: liber peccati, servus iustitiae 35. Ma mentre la remissione dei peccati è totale ed immediata, il rinnovamento interiore è vero e reale in quanto viene restaurata l'immagine di Dio nell'anima e operata la " deificazione " attraverso l'inabitazione dello Spirito Santo; è vero e reale, ma non perfetto: la nostra giustizia qui in terra è sempre imperfetta, la pretesa pelagiana dell'impeccantia non è conforme all'insegnamento della Scrittura 36. Perciò abbiamo bisogno di un'altra libertà.
3) Libertà dalle passioni disordinate. Questo bisogno deriva dal fatto che la nostra giustificazione, se è immediata in quanto alla remissione dei peccati, è progressiva in quanto al rinnovamento interiore 37. Resta infatti la lotta tra la carne e lo spirito, resta la infirmitas (la iniquitas è stata rimessa nel battesimo), che dev'essere curata per tutta la vita, restano le passioni disordinate che devono essere ricondotte all'ordine, affinché l'uomo possa vivere nella giustizia. Si sa, e Agostino lo afferma perentoriamente, solo il giusto è libero: solus iustus est liber 38. Perciò la libertà cresce col crescere della giustizia che qui vuol dire rettitudine morale, santità, ordine.

Dice parlando al suo popolo, dopo aver ricordato i crimini o peccati gravi quali l'omicidio, l'adulterio, la fornicazione, il furto, ecc.: " Quando uno comincia a non avere questi crimini (e nessun cristiano deve averli), comincia a levare il capo verso la libertà; ma questo non è che l'inizio della libertà, non la libertà perfetta. Perché, domanderà qualcuno, non è la libertà perfetta? Perché sento nelle mie membra un'altra legge in conflitto con la legge della mia ragione ". E subito dopo: " Libertà parziale, parziale schiavitù: non ancora completa, non ancora pura, non ancora piena è la libertà, perché ancora non siamo nell'eternità. In parte conserviamo la debolezza, e in parte abbiamo raggiunto la libertà ". E poi ancora: " Siamo liberi, in quanto ci dilettiamo nella legge di Dio: è la libertà che ci procura questo diletto; dilectio enim delectat " 39.
Questa libertà s'identifica con la sanità dell'anima: ipsa sanitas est vera libertas, s'identifica, cioè, con l'equilibrio interiore che permette all'uomo di dominare le sue passioni e di farle rientrare nell'ordine. Perciò " la libera volontà sarà tanto più libera quanto più sarà sana e tanto più sana quanto più sarà sottomessa alla misericordia e alla grazia divina " 40.
Inutile dire che questa progressiva libertà è opera dell'uomo, ma è prima di tutto e soprattutto, opera della grazia adiuvante della cui necessità ha tanto scritto Agostino nella controversia pelagiana 41. Quella controversia egli la sostenne, e senza risparmio di tempo e di energie, non solo per conservare integro l'insegnamento della fede, ma anche per difendere la libertà dell'uomo, quella vera.
4) La libertà dalla legge. E' un tema caro a S. Paolo. Agostino, grande studioso delle lettere paoline, non poteva ignorarlo. Lo tratta infatti e con grande compiacenza. Scrive a proposito della giustificazione: " Giustificati gratuitamente per la sua grazia (Rom 3,24). Dunque non giustificati per la legge, non giustificati per la propria volontà, ma giustificati gratuitamente per la sua grazia. Non che ciò avvenga senza la nostra volontà, ma la nostra volontà si dimostra inferma davanti alla legge, perché la grazia guarisca la volontà, e la volontà guarita osservi la legge, non più soggetta alla legge, né bisognosa della legge " 42. Non bisognosa della legge: è l'eco delle parole della lettera prima a Timoteo: la legge non è fatta per il giusto, parole che Agostino commenta spesso 43. Spiega: " Non è lo stesso essere nella legge o sotto la legge; colui che è nella legge, opera in conformità ad essa; chi è sotto la legge, è costretto a muoversi secondo essa. Il primo è libero, il secondo è servo. Di conseguenza una cosa è la legge scritta e imposta al suddito, un'altra la legge accolta nell'anima da colui che non ha bisogno del precetto scritto " 44.

In un'opera tra le prime, scritta da presbitero, chiarisce che questa libertà - la libertà dalla legge - è propria di chi non vive più la propria vita, ma la vita di Cristo, ed è, come l'apostolo Paolo, in alto nella perfezione. Scrive infatti: " La legge non è posta per il giusto, cioè non gli è imposta quasi fosse sopra di lui. In realtà il giusto è nella legge piuttosto che sotto la legge, perché non vive di se stesso per il cui freno è imposta la legge. Per dir così, egli vive in qualche modo con la stessa legge quando vive giustamente con l'amore della giustizia e gode non del bene proprio e transitorio, ma del bene comune e stabile ". Porta l'esempio di S. Paolo che diceva di sé: Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me (Gal 2,20), cui pertanto non si poteva imporre la legge, e conclude: " Chi oserebbe imporre la legge a Cristo che vive in Paolo? " 45.
In un'opera della maturità più brevemente: " La legge è buona... ma non è fatta per il giusto, perché questi non ha bisogno della lettera che l'atterrisca dato che si diletta della stessa giustizia " 46. Questa preziosa libertà, propria dei cristiani perfetti che hanno trasformato il dovere in bisogno e son divenuti legge a se stessi, è la preparazione di un'altra libertà che non è meno preziosa, che anzi, sotto l'aspetto teologico, lo è molto più.
5) La libertà dalla morte. Questo argomento ha tanta ampiezza e profondità che un breve accenno non può che impoverirlo. Si tratta della grande verità, vanto dei cristiani, della risurrezione. Agostino ne ha parlato molto, come catechista che spiega il Simbolo della fede al suo popolo 47, come pastore che commenta i grandi misteri cristiani 48, come teologo che precisa e illustra l'oggetto proprio del domma 49, come filosofo e apologeta che risponde alle difficoltà e difende l'insegnamento cristiano 50.
Qui basti l'enunziazione generale nei confronti della libertà: " La libertà piena e perfetta, dono del Signore che ha detto: Se il Figlio vi libererà, allora sarete veramente liberi (Gv 8,36), ci sarà quando non ci saranno più nemici, quando sarà distrutta l'ultima nemica che è la morte (1 Cor 15,26) " 51. La libertà piena dunque è la vittoria sulla morte.

Questo non vuol dire che lo spirito la raggiunge quando si sarà liberato dal corpo, come volevano i platonici, particolarmente Porfirio col suo sbandierato omne corpus fugiendum - contro questa opinione Agostino combatte con somma energia 52 -, ma vuol dire che sarà pienamente libero solo quando, nella risurrezione, si sarà rivestito non più del corpo corruttibile, quello che ne appesantisce il volo, bensì del corpo incorruttibile, il quale, anche se corpo, essendo spirituale e perciò docile ai suoi voleri, ne asseconda e ne perfeziona ogni movimento 53.
A questa sublime libertà ne va congiunta un'altra, l'ultima, la più alta.
6) La libertà dal tempo. Congiunta alla libertà dalla morte, ne è il compimento. Cristo, Verbo del Padre, è entrato nel tempo per rendere eterni coloro che vivevano nel tempo. " O Verbo - esclama Agostino dopo aver confrontato tempo ed eternità - o Verbo che esisti prima di ogni tempo, per mezzo del quale furono fatti i tempi, eppure nato nel tempo perché sei tu la vita eterna che chiami gli uomini viventi nel tempo e li rendi eterni " 54. Li rendi eterni. Proprio così. Quale libertà sia questa, lo intende, sia pure nel barlume della ragione e della fede, chiunque sente il logorio del tempo, che risucchia ed annulla la vita, e ne geme. Che cos'è appunto la vita nel tempo? Una voce tra due grandi silenzi, tra il silenzio del passato che non è più e il silenzio dell'avvenire che non è ancora 55. Vivere nel tempo è un continuo morire. Solo l'eternità è vita. Qual è dunque la via per vivere senza morire? Trascendere il tempo: ut ergo et tu sis trascende tempus. Ma chi può trascenderlo senza il Cristo? 56 " Dobbiamo dunque amare Colui per mezzo del quale fu creato il tempo, se vogliamo essere liberati dal tempo e immersi nell'eternità, dove non ci sarà più alcun movimento temporale " 57. Chi vuol sapere quanto Agostino abbia amato questa libertà, legga il molto che ha scritto sul tempo 58.
Dal poco che si è detto appare chiaro che il vescovo d'Ippona fu della libertà cristiana un cantore innamorato e un teologo acuto. Se si vuole una conferma, la si può trovare nella visione della storia.

4. La storia vista in chiave di libertà

Essa si svolge, come ho già accennato, tra la libertas minor e la libertas maior ed ha per oggetto il peccato, le passioni (disordinate), la morte, secondo che potevano non esserci, non possono non esserci, non potranno esserci. Tre momenti essenziali senza i quali non si comprende la storia.
All'inizio dei tempi l'uomo ebbe una grande libertà anche se non somma. Essa consisteva essenzialmente in tre invidiabili poteri: 1) poter non peccare; 2) poter non avere passioni ribelli alla ragione; 3) poter non morire.
Col peccato di Adamo, incommensurabilmente grande, seguì la perdita di quei poteri e di quella libertà. L'uomo per giusto giudizio di Dio si ritrovò con tre mali: 1) il non poter agire bene (in ordine alla salvezza); 2) il non poter non sentire il disordine delle passioni; 3) il non poter non morire. Della libertà che aveva ricevuto non restava che l'ombra. Ma Cristo è venuto per restituirla, anzi per portare l'uomo " oltre l'antico onor " sia pure, come si è accennato, col metodo della progressività.
Perciò alla fine dei tempi l'uomo riavrà nel Cristo una libertà maggiore, quella somma, cioè: 1) il non poter peccare; 2) il non poter sentire passioni disordinate; 3) il non poter morire.
I testi agostiniani più sintetici sono due. " La prima libertà del volere era poter non peccare; l'ultima sarà molto maggiore: non poter peccare. La prima immortalità era poter non morire; l'ultima sarà molto maggiore: non poter morire. La prima potestà della perseveranza era poter non abbandonare il bene; l'ultima felicità della perseveranza sarà non poter abbandonare il bene " 59. " Come la prima immortalità, che l'uomo perdette peccando, fu poter non morire, così il primo libero arbitrio fu di poter non peccare, l'ultimo di non poter peccare. Sarà infatti inamissibile la volontà del bene e dell'equità, com'è inamissibile quella della felicità... Dunque quella città [celeste] avrà una volontà libera, una in tutti e inseparabile in ciascuno; liberata da ogni male e ricolma di ogni bene... " 60.
Non si può negare che la concezione agostiniana della libertà - libertà di scelta e libertà dal male - sia davvero grandiosa e che, penetrando nei tessuti della persona umana e della storia, esprima l'antropologia cristiana nel modo più alto e più bello, ed offra il valido fondamento per ogni altra libertà, compresa quella sociale ed economica. Ma occorre seguirlo ancora. Questa volta non nell'esposizione ma nella difesa della sua concezione.

CAPITOLO QUINTO

LA NATURA DELLA LIBERTA'


Da quanto si è detto or ora sulla libertas minor e sulla libertas maior risulta chiaro che la perdita del posse peccare non è una perdita ma un guadagno: non toglie la libertà, ma la perfeziona, e a tal punto che la rende piena e totale. Ma in che consiste dunque la libertà secondo Agostino? La risposta non può essere che articolata. Certamente, non consiste nel poter peccare e poter non peccare. Questa era l'opinione di Giuliano, cui Agostino risponde per le rime. Ma la questione non è chiusa. Ci si chiede: consiste forse nel potere della volontà di volere o non volere, come si è detto sopra parlando della libertà di scelta, o consiste nel volere il bene con tanta forza e in modo tale da non poterlo non volere?
Anche qui come altrove il nostro dottore è per l'esclusione dei facili aut aut. Alla questione così posta risponde ricusando, ancora una volta, di scegliere. Non ha scelto tra prescienza e libertà, non ha scelto tra libertà e grazia, non sceglie neppure qui: proposta un'importante ( e necessaria) distinzione, sostiene che l'uno e l'altro è vero: è libertà il potere di volere e non volere, ma è anche libertà il volere il bene senza il potere di non volerlo. Anzi questa è la forma più alta ed ultima della libertà perché pienamente conforme alla natura stessa della volontà, la quale, creata per amare il bene, non può non trovare la sua perfezione nel volerlo in modo pieno, totale, irreversibile.

1. La libertà non consiste nella possibilità di peccare o di non peccare

Era la nozione che ne dava ripetutamente Giuliano. Ecco le sue parole: " La libertà dell'arbitrio, con la quale l'uomo è emancipato da Dio, consiste nella possibilità di commettere il peccato o di astenersi dal peccare " 1. Giuliano v'insiste: " L'uomo non poteva esser capace del proprio bene, se non fosse stato capace anche del male " 2. In questa definizione Agostino trova due gravi difetti.
Il primo riguarda il particolare dell'uomo che con il libero arbitrio sarebbe emancipato da Dio. Egli osserva: " Dici l'uomo emancipato da Dio, e non ti rendi conto che con l'emancipazione si ottiene che l'emancipato non appartenga alla famiglia del padre " 3. Osservazione breve ma significativa. Il libero arbitrio non rende l'uomo estraneo a Dio, indipendente dalla sua azione o, peggio ancora, in concorrenza con essa. La concezione agostiniana della libertà e quella di Giuliano erano davvero molto lontane. Questo fatto rendeva incomprensibile il discorso sulla grazia. Lo vedremo nelle pagine seguenti.
Il secondo grave difetto toccava la definizione stessa della libertà: " T'inganna, gli dice Agostino, la definizione che hai dato del libero arbitrio. Hai detto: 'Il libero arbitrio non è altro che la possibilità di peccare e di non peccare...'. Con questa definizione tu togli il libero arbitrio a Dio... Inoltre gli stessi santi nel regno di Lui perderebbero, poiché non possono peccare, il libero arbitrio " 4. E altrove: " ...tu ritieni che appartenga alla natura del libero arbitrio potere l'uno e l'altro, cioè peccare e non peccare, e pensi che per questo l'uomo sia stato fatto ad immagine di Dio. Eppure Dio non può l'uno e l'altro. Infatti nessuno, neppure se pazzo, dirà mai che Dio possa peccare, né tu osi dire che Dio non ha il libero arbitrio..., in Dio, che non può peccare, il libero arbitrio è sommo " 5.
La forza dell'argomentazione agostiniana sta nei due esempi addotti: Dio e i beati. Ma hanno valore questi esempi? In che senso Dio è libero? In che senso lo sono i beati? Sulla libertà divina non ci sono né dubbi né difficoltà quando si tratti delle opere ad extra, per esempio l'opera della creazione. Intorno alla creazione si sa che Agostino difese tenacemente e acutamente la creazione nel tempo e la piena libertà di Dio nel creare: Dio ha creato perché ha voluto, e poteva non volere senza per questo diventare mutabile. Lo fece contro i neoplatonici che sostenevano e la creazione ab aeterno e la necessità della creazione. Dio non crea, sentenzia in contrario Agostino, per indigentiae necessitatem, ma per abundantiam beneficentiae 6; e crea liberamente, nel tempo, anzi col tempo. Nella Città di Dio spiega, con profonda intuizione metafisica, come ciò non appaia impossibile anche tenuta presente l'immutabilità divina 7.
Ma la difficoltà nasce dal secondo esempio. In che senso i beati sono liberi? Occorre premettere che contro la beatitudine ciclica proposta dai neoplatonici Agostino difese con forza due affermazioni di fondo: 1) la beatitudine non è vera se non è eterna; 2) i beati non sono beati se non sanno che la beatitudine raggiunta è inamissibile; se invece la beatitudine fosse amissibile ed essi lo ignorassero, la loro beatitudine sarebbe fondata sull'ignoranza, che è un assurdo 8. Ma posti questi due princìpi dov'è la libertà dei beati? Qui per spiegarsi bisognava fare alcune distinzioni.

2. Distinzioni necessarie e importanti

La prima corre tra la libertà di voler essere beati e la libertà di volere il bene per giungere alla beatitudine: quella è congenita all'uomo ed è assolutamente inamissibile, questa no; quella infatti non l'abbiamo perduta neppure col peccato - " la volontà di esser beati non l'abbiamo perduta neppure dopo aver perduto la felicità " 9 -, questa abbiamo bisogno che ci venga restituita dalla grazia di Cristo. " Se cerchiamo il libero arbitrio dell'uomo a lui congenito e assolutamente inamissibile, è quello con il quale tutti vogliono essere beati, anche coloro che non vogliono ciò che conduce alla beatitudine " 10. E poco dopo, insistendo sullo stesso concetto, scrive: " La libertà immutabile della volontà, con la quale l'uomo è stato creato ed è creato, è quella per cui tutti vogliamo essere beati e non possiamo non volerlo; ma questa libertà non basta perché ognuno sia beato, perché non è congenita all'uomo l'immutabile libertà della volontà con la quale voglia e possa agir bene come gli è con genita quella di voler essere beato: questo lo vogliono tutti, anche quelli che non vogliono agire rettamente " 11.
A questa prima distinzione ne segue una seconda che riguarda la libertà del merito e la libertà del premio. E' molto importante. La enuncia il nostro dottore al termine della Città di Dio. " Dio non può peccare per natura, ma la creatura partecipe di Dio, riceve da Lui il non poter peccare. Nel dono divino doveva osservarsi come una graduazione: prima il libero arbitrio con il quale l'uomo potesse non peccare, poi, per ultimo, il libero arbitrio con il quale non potesse peccare; quello per acquistare il merito, questo per ricevere il premio: illud ad comparandum meritum, hoc ad recipiendum praemium " 12. Va osservato che per Agostino tra la libertà del merito e la libertà del premio c'è una profonda differenza: quella richiede il potere di volere e di non volere ed è propria dell'uomo in via verso la beatitudine, questa propria dell'uomo che ha raggiunto la beatitudine. " Si deve ritenere piuttosto - risponde a Giuliano, sempre sul tema della natura della libertà - che l'uomo sia stato creato all'inizio capace del bene e del male, affinché, amando il bene, acquistasse il merito col quale fosse poi capace o del solo bene o del solo male " 13, secondo i debiti fines delle due città.
Alla seconda distinzione se ne aggiunge quindi una terza. Agostino la propone sempre in polemica con Giuliano sulla natura della libertà: riguarda la virtus minor e la virtus maior; distinzione configurata semanticamente a quella di libertas minor e libertas maior che abbiamo visto. Giova riportare le sue parole: " Quando ci sarà concesso di non allontanarci dal Signore perché non potremo non vederlo, neppure allora vivremo senza virtù... Ora non ci sarebbe in noi la virtù altrimenti che in questo modo: non avere la volontà cattiva e avere il potere di averla; ma in merito di questa virtù minore doveva esserci data, come premio, la virtù maggiore, quella di non avere la volontà cattiva e non avere il potere di averla ".
Dopo queste parole Agostino esclama: O desideranda necessitas! 14. Esclamazione che dice da sola quanta importanza egli annettesse a questa libertà definitiva, che è necessità, perché la volontà vuole il bene senza poter volere il male; ma è una necessità sommamente desiderabile, perché con questa l'uomo raggiunge la perfezione ultima, e perciò la libertà piena. " Allora saremo più felicemente liberi - felicius liberi erimus - quando non potremo servire al peccato, come lo stesso Dio; ma noi per sua grazia, Egli invece per sua natura " 15. La nostra libertà dunque è tanto più perfetta quanto più è vicina a quella di Dio: la libertà di volere il bene e il male è una condizione provvisoria, una preparazione a quella con cui potremo volere solo il bene.

3. Alcune considerazioni

Non si può chiudere questo argomento senza fare alcune considerazioni, almeno tre.


1) La prima riguarda la virtù minore a cui è legato il merito. Questo e quella abbracciano tutta la vita presente. Si sa che Agostino difese il merito del giustificato - lo si è detto altrove 16 e si tornerà a dirlo 17 -; ma il merito suppone nella volontà il potere di volere e di non volere, volere il bene e poter non volerlo. Tutto quello che ha detto contro i manichei 18, lo conferma qui contro i pelagiani. Le prime opere devono essere capite, quanto sia necessario, alla luce delle ultime. Ora nell'ultima, anzi nel libro ultimo dell'ultima opera restata incompiuta, il vecchio maestro dice esplicitamente che la virtù minore suppone nella volontà il non volere il male ma unito al potere di volerlo: non dire di no al bene ma essere in grado di dirlo o, in forma positiva, dire di sì col potere di dire di no.
Per usare una distinzione posteriore, si può dire che per acquistare il merito (o il demerito) non basta la libertà dalla coazione; si richiede anche la libertà dalla necessità. Se ne deve concludere che quando Giansenio sostiene che per meritare o demeritare basta la prima libertà e non c'è bisogno della seconda 19, non interpreta rettamente il pensiero agostiniano, anzi, occorre pur dirlo, lo tradisce.La Chiesa condannandone questa affermazione - è la terza delle cinque proposizioni condannate 20 - è restata fedele alla sua propria dottrina e a quella del vescovo d'Ippona.
Se è vero che nelle prime opere questi sembra identificare l'atto libero con quello volontario, ciò dev'essere interpretato, alla luce delle ultime, nel senso che la volontà, non potendo essere interiormente necessitata che dal bene assoluto e beatificante - la desideranda necessitas -, resta sempre, fuori del possesso di quel bene, padrona dei suoi atti, sempre in potere di volere o non volere. La grazia non toglie mai questo potere, ma lo rispetta e lo fa servire con la " liberale soavità " dell'amore 21 al bene della salvezza, cioè al raggiungimento della libertà maggiore, quella ultima e definitiva. La permanenza qui in terra della libertà di scelta è la ragione dell'utrumque su cui tanto insiste Agostino, e di cui si è parlato 22.

2) La seconda osservazione riguarda la nozione della beatitudine che non può essere vera se non è consapevolmente eterna. Questo vuol dire che i beati possiedono il bene beatificante, che è Dio, e lo amano in modo da non poterlo non amare. In caso contrario, cioè se essi, per ipotesi, conservassero il potere di allontanarsi da Dio, si ricadrebbe nel concetto platonico della beatitudine ciclica e, per la legge dei contrari, nella possibilità del ritorno a Dio del diavolo, che era, secondo quanto riteneva Agostino, l'errore di Origene, che la Chiesa, egli dice, ha giustamente riprovato 23. Perciò a Giuliano che insisteva nella sua definizione della libertà - poter peccare e non peccare -, rimprovera che in questo modo egli finisce per rinnovare l'errore di Origene: Origenis nobis instaurabis errorem 24.
Interessante! L' " aristotelico " Giuliano 25 sembra inclinare o aderire addirittura all'opinione platonica della beatitudine ciclica, mentre il " platonico " Agostino, in nome della ragione (e della fede), ne è decisamente contrario e la combatte. Concepisce infatti l'ultima libertà, quella piena e definitiva, come impossibilità di volere il male. Le due nozioni della libertà, e perciò le due antropologie, erano molto lontane. Questa diversità non poteva non influire sulle discussioni intorno alla grazia. Quando Agostino parla di grazia Giuliano intende fato 26: sono agli antipodi. Ma l'opposizione è prima di tutto teologica, non filosofica: l'impossibilità di peccare per i beati è per Agostino una conclusione filosofica, sì, ma è prima di tutto un dato teologico.

3) La terza osservazione infine riguarda le radici metafisiche della peccabilità e dell'impeccabilità: quella deriva dalla creazione dal nulla, questa dal dono della grazia. Non già che l'uomo pecchi perché creato dal nulla (questa era l'affermazione che Giuliano attribuiva ad Agostino e che questi respingeva energicamente), ma può peccare perchè creato dal nulla 27. Infatti perché creato dal nulla, è limitato, mutabile, defettibile, e perciò può peccare. L'impeccabilità pertanto, cioè l'indefettibile determinazione della volontà nel bene, non può essere che un dono della grazia la quale rende la creatura mutabile, l'uomo, partecipe dell'immutabilità divina. Questo tema del passaggio, per dono di grazia, dal mutabile all'immutabile è tanto frequente nel vescovo d'Ippona da rappresentare una sintesi profonda del suo pensiero filosofico, teologico e spirituale 28.

4. Ingranaggi della libertà

Sono delicati. Riguardano l'intelletto e la volontà e prendono in considerazione tutto ciò che influisce sull'uno e sull'altra. Sull'intelletto influisce, negativamente, l'ignoranza, il dubbio, l'incertezza; sulla volontà la debolezza, il timore, le passioni disordinate. " Gli uomini non vogliono fare ciò che è giusto per due ragioni: e perché rimane occulto se sia giusto e perché non è dilettevole ". " Infatti - continua Agostino - fortemente noi vogliamo qualcosa quanto meglio conosciamo la grandezza della sua bontà e quanto più ardentemente ci diletta ". E conclude: " Ignoranza dunque e debolezza sono i vizi che impediscono alla volontà di determinarsi a fare un'opera buona o ad astenersi da un'opera cattiva: Ignorantia igitur et infirmitas vitia sunt, quae impediunt voluntatem " 29.
L'insistenza di Agostino è sul " vizio " della debolezza 30; è soprattutto questa che impedisce all'uomo di volere il bene. " Infatti - scrive il nostro dottore - il libero arbitrio non vale che a peccare 31, se rimane nascosta la via della verità. E quando comincia a non rimanere più nascosto ciò che si deve fare e dove si deve tendere, anche allora, se tutto ciò non arriva altresì a dilettare e a farsi amare, non si agisce, non si esegue, non si vive bene: ...nisi etiam delectet et ametur, non agitur, non suscipitur, non bene vivitur " 32.
Questa insistenza è particolarmente significativa. Essa dice che Agostino, pur richiedendo, com'era ovvio, la conoscenza della verità perché un atto sia libero, mette l'accento sul dominio della volontà la quale opera per amore. Senza l'amore e la dilettazione l'uomo non opera il bene. Nell'atto libero la volontà resta al centro: è la sua decisione che costituisce l'atto buono o cattivo quando questo, si capisce, sia illuminato dalla luce dell'intelletto. Il particolare è degno di nota, perché determina la dottrina della grazia adiuvante, concepita da Agostino soprattutto come inspiratio dilectionis 33.
Infatti su questi ingranaggi della libertà umana scende la grazia; scende al solo scopo di custodirla, rafforzarla, perfezionarla. Lasciato a se stesso il libero arbitrio viene meno e diventa servo del peccato: la grazia non solo lo libera dal peccato, se lo ha commesso - la grazia della giustificazione -, ma lo aiuta a non commetterne: grazia adiuvante, dicevo, o, come diranno gli scolastici, grazia attuale. Scrive Agostino: " Che diventi noto quello che era nascosto e soave quello che non dilettava è dono della grazia di Dio, la quale aiuta le volontà degli uomini " 34.
Questa osservazione ci serve da ponte per passare, senza soluzione di continuità, dal tema della libertà, della quale Agostino, come si è detto cominciando, è filosofo e teologo insieme, al tema della grazia, della quale è, per antonomasia, il dottore.

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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04/06/2011 09:33
 
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PARTE SECONDA
IL TEOLOGO DELLA GRAZIA


Se la libertà è il primo grande tema della salvezza, ad esso occorre aggiungere il secondo: la grazia. Della grazia - e precisamente della sua natura propria e della necessità -, si è parlato a lungo nell'Introduzione generale al vol. XVII; ma si è avvertito anche in quel luogo che il discorso non era terminato. Infatti restavano ancora due aspetti da dover prendere in considerazione, quelli che toccano più da vicino e investono direttamente proprio la libertà: l'efficacia dell'azione divina e la gratuità del dono della salvezza. Parleremo qui dell'uno e dell'altro: l'uno e l'altro occupano il centro della controversia pelagiana e ne decidono le sorti.

I

L'EFFICACIA DIVINA DELLA GRAZIA

Questo argomento, tra i più difficili della teologia, per non lasciar fuori nessuna delle preoccupazioni dominanti del vescovo d'Ippona può essere articolato così: fondamento biblico e liturgico dell'azione divina della grazia, significato dell'espressione agostiniana: voluntas Dei semper invicta est, potere di Dio sulla libertà dell'uomo, rapporto tra grazia e libertà, prospettiva di conciliazione tra l'una e l'altra. Per illustrare meglio, poi, il pensiero agostiniano si può fare un accenno ai diversi sistemi scolastici che, in un modo o in un altro, si richiamano a lui.

CAPITOLO PRIMO

FONDAMENTO BIBLICO E LITURGICO DELL'AZIONE DIVINA DELLA GRAZIA

Come al solito Agostino si appella alla Scrittura, di cui vuol essere un interprete fedele, e, dopo la Scrittura, alla liturgia.


1. Scrittura

I testi biblici li raccoglie come in un manipolo insuperabile in un passo fortemente polemico che giova rileggere 1. I principali sono: Ez 11,19 e 36,26 - 27; Gen 32,40; Gv 6,44. 66; Prov 8,14; Fil 2,13; e soprattutto, per quanto riguarda la frequenza, un passo dei Proverbi secondo la traduzione dei Settanta: praeparatur voluntas a Domino (Prov 8,35 sec. LXX).
Scrive del primo testo: " Se Dio non potesse togliere anche la durezza del cuore, non direbbe per mezzo del Profeta: Toglierò loro il cuore di pietra e darò loro un cuore di carne (Ez 11,19), parole che l'Apostolo interpreta del Nuovo Testamento (2 Cor 3, 2 - 3) " 2. Su questo testo torna quando espone la nozione della grazia efficace, quella appunto che toglie la durezza del cuore: " Quando dunque il Padre viene interiormente ascoltato e istruisce perché [chi ascolta] venga al Figlio, toglie il cuore di pietra e dà il cuore di carne come aveva promesso per mezzo della predicazione del profeta " 3.
Sulle altre parole di Ezechiele, più esplicite e più forti, Agostino fonda una delle sintesi più significative della sua concezione dei rapporti tra grazia e libertà. Scrive: " E' certo che siamo noi a fare, quando facciamo; ma è Lui a fare sì che noi facciamo, fornendo forze efficacissime alla volontà; infatti è Lui che dice: Farò sì che camminiate nelle mie leggi e osserviate e adempiate i miei precetti. Quando dice: Farò sì che voi facciate, che altro dice se non questo: Vi toglierò il cuore di pietra, con il quale non facevate, e vi darò un cuore di carne, con il quale facciate? E queste parole non significano forse: Vi toglierò il cuore duro, con il quale non facevate, e vi darò un cuore obbediente con il quale facciate? " 4.
Il testo di Giovanni: Nessuno può venire a me se non lo attira il Padre (Gv 6,44), insieme all'altro che viene poco dopo: ...se non gli è concesso dal Padre mio (Gv 6,65), costituisce il suo cavallo di battaglia e crea in lui la convinzione che la nozione della grazia che attira gli uomini a Cristo appartiene all'insegnamento cattolico, insegnamento che non si può negare senza cessare di essere cristiani. " La grazia non solo rivela la sapienza ma la fa pure amare; la grazia che non fa solo opera suasiva per quanto è buono, ma fa anche opera persuasiva. Non di tutti è infatti la fede tra coloro che ascoltano il Signore promettere per mezzo delle Scritture il regno dei cieli, o non con tutti riesce ad essere persuasiva l'opera suasiva che li invita ad andare da Colui che dice: Venite a me, voi tutti che siete affaticati. Di quali poi sia la fede e quali siano quelli che si lasciano persuadere ad andare da lui, l'ha ben indicato lui stesso là dove dice: Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che lo ha mandato. E poco dopo, parlando di coloro che non credevano, dichiara: Vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre mio. Questa è la grazia che Pelagio deve riconoscere, se vuole non solo chiamarsi cristiano, ma anche essere cristiano " 5.
Un altro testo fondamentale da cui Agostino trae la dottrina della grazia che non esercita solo un'opera suasiva sulla volontà, ma anche un'opera persuasiva, cioè fa volere il bene, è quello della Lettera ai Romani 8, 14: quicumque spiritu Dei aguntur, ii sunt filii Dei. Basti tra i tanti un solo commento. Rispondendo alla proposizione contestata a Pelagio: tutti sono governati dalla propria volontà, nota la profonda diversità tra queste parole e quelle dell'Apostolo, e scrive: " Certamente essere portati è più che essere governati: chi è governato agisce anche lui in qualche modo e viene governato proprio perché agisca in modo buono; chi invece è portato è quasi impossibile capire che faccia anch'egli qualcosa. Tuttavia è così tanto quello che la grazia del Salvatore presta alle nostre volontà che l'Apostolo non esita a dire: Tutti quelli che sono portati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio " 6. E tira una conclusione essenziale per la pietà cristiana, egli che nella teologia mai cessa di vedere in prospettiva la pietà. La conclusione è questa: " E nulla di meglio può fare in noi la volontà libera che lasciarsi portare da Colui che non può agire male e dopo che l'ha fatto non dubiti che a farlo è stata aiutata da Colui al quale si dice in un salmo: O mio Dio, la tua misericordia mi preverrà " 7.
Un ultimo testo - mi fermo solo ad alcuni - è quello, tra tutti il più forte, della Lettera ai Filippesi 2,13: E' Dio che suscita in noi il volere e l'operare secondo i suoi benevoli disegni. Ecco il commento agostiniano nel quale, come in quello riportato poco sopra, si mette in rilievo insieme la libertà e l'efficacia della grazia: " E' certo che siamo noi a volere, quando vogliamo; ma a fare sì che vogliamo il bene è Lui, e appunto di Lui è detto quello che ho riportato sopra: La volontà è preparata dal Signore; ed anche: Dal Signore saranno diretti i passi dell'uomo, e l'uomo vorrà seguire la sua via; e poi: E' Dio che opera in voi il volere " 8.

2. La liturgia

Sul potere dell'azione divina nella volontà dell'uomo tornerò nelle pagine seguenti, qui occorre indicare un'altra fonte della teologia agostiniana: la liturgia. Non fa meraviglia: è una fonte cui ricorre in tutta la controversia pelagiana. Sulla difficile questione del peccato originale argomenta insistentemente, lo si è visto, dalla verità del battesimo amministrato ai bambini (sacramento e rito 9); allo stesso modo sul tema della grazia argomenta dalle preghiere della Chiesa. La Chiesa prega, e pregando mostra e professa la sua fede. Non tace dunque nelle sue preghiere anche quando tace nei suoi discorsi. Quest'acuta osservazione la troviamo in una delle ultime opere. Parlando di quelli che non comprendono la dottrina sulla grazia perché non sono in grado di seguirne le discussioni, scrive: " ...magari però badassero di più a ripetere quelle preghiere che la Chiesa ha sempre custodito dai suoi inizi e sempre custodirà finché abbia fine ogni vita temporale! Infatti su questa verità che ora contro i nuovi eretici siamo costretti non solo a ricordare ma anche a custodire e difendere con vigore, la Chiesa non ha mai taciuto nelle sue preghiere, anche se in alcuni periodi, quando nessun avversario ve la costringeva, non ritenne opportuno esporla in discorsi. Quando infatti non si è pregato nella Chiesa per gli infedeli e i suoi nemici, perché credessero? " 10.
Infatti " se Dio non trasforma quelli che non vogliono in gente che invece vuole - si non facit volentes ex nolentibus -, perché mai la Chiesa prega secondo il precetto del Signore per i suoi persecutori? (Mt 5,44) ". Aggiunge l'argomento patristico: " Anche il santo Cipriano volle che s'intendesse così la nostra invocazione: Sia fatta la tua volontà...; cioè, sia fatta in coloro che gli hanno creduto e che sono come il cielo, così come anche in quelli che non credono e quindi sono ancora terra "; e conclude: " Che cosa dunque preghiamo per coloro che non vogliono credere se non che Dio operi in essi anche il volere?...Egli (l'Apostolo) prega per i non credenti, e che cosa prega se non che credano? " 11.

Rispondendo ai pelagiani aveva detto non meno fortemente: " Noi dunque preghiamo non solo per coloro che non vogliono, ma anche per coloro che resistono e si oppongono. Che cosa chiediamo allora se non che da nolenti diventino volenti, da dissenzienti diventino consenzienti, da nemici diventino amici? A chi lo chiediamo se non a Colui del quale è scritto: Dal Signore è preparata la volontà? " 12.
Anzi, si direbbe che questo solo argomento gli basta. Interessante il caso del monaco (?) cartaginese Vitale. Questi si trovava d'accordo con la linea dottrinale di quel gruppo di monaci adrumetani dei quali si è parlato 13: la grazia è la legge divina, la sua azione segue, non precede la decisione della volontà 14. Agostino gli risponde sviluppando l'argomento della preghiera: " Se dici questo, contraddici alle nostre preghiere.

Ma allora afferma con tutta chiarezza che non dobbiamo pregare per coloro ai quali predichiamo il Vangelo, affinché credano, ma dobbiamo solo predicarlo. Tira fuori i tuoi argomenti contro le preghiere della Chiesa e quando ascolti il vescovo che dall'altare esorta il popolo di Dio a pregare per gli infedeli, affinché Dio li converta alla fede, e per i catecumeni, affinché ispiri loro il desiderio della rigenerazione, e per i fedeli affinché, mediante la sua grazia, siano perseveranti nella fede cristiana abbracciata, volgi pure in ridicolo espressioni così sante e di' che non metti in pratica le esortazioni del vescovo, che cioè tu non preghi per gli infedeli, affinché Dio li renda fedeli " 15. Insiste, poi, su questo argomento spiegando le petizioni del Padre nostro - Orationem Dominicam nosti... -, e conclude: " Dunque la nostra preghiera rivolta a Dio per loro [ gli avversari della fede] affinché abbraccino con la fede la verità rivelata, da essi impugnata, sarebbe un'azione inutile e finta anziché sincera, se non fosse opera della grazia convertire alla stessa fede la volontà di coloro che l'avversano. Sarebbe ugualmente un' azione inutile e finta, anziché sincera, rendere a Dio molte grazie quando alcuni di essi abbracciano la fede, se non fosse Lui a compiere in loro questo effetto " 16. Gli riassume infine in 12 brevi proposizioni l'insegnamento intorno alla grazia, si dichiara disposto ad intervenire di nuovo se trovasse su di esse qualche difficoltà, ma non può fare a meno di richiamarlo di nuovo al tema della preghiera chiedendogli non senza ironia: Numquid et orare prohibebis Ecclesiam pro infidelibus ut sint fideles?... 17.

3. Esempio di S. Paolo

Scrittura e liturgia sono dunque le due fonti agostiniane della dottrina teologica sull'azione della grazia che suscita in noi il volere e l'operare. Ad esse occorre aggiungere l'esempio d'un fatto centrale nella storia della Chiesa: la conversione di S. Paolo. Agostino v'insiste non solo per dimostrare, come vedremo, la gratuità del dono della grazia - prima della conversione Paolo aveva grandi meriti ma cattivi: merita eius erant magna, sed mala 18 -, ma anche l'efficacia: era persecutore e divenne apostolo. Bisogna dire che l'esempio fu ben scelto.
A Giuliano che, in difesa della sua concezione della libertà con la quale l'uomo è " emancipato " da Dio, sosteneva che nessuno dev'essere revocato dalla propria intenzione (cattiva) con un'azione necessitante della grazia, Agostino, lasciando cadere per il momento quel ulla necessitate che nascondeva l'incomprensione del problema da parte dell'avversario, gli risponde con l'esempio di S. Paolo: " ...perché l'apostolo Paolo, ancora Saulo, fremente di strage e sitibondo di sangue, viene richiamato dalla sua pessima intenzione con la violenta cecità del corpo e la terribile voce venuta dall'alto e abbattuto il persecutore viene costituito il futuro predicatore, più degli altri generoso nella fatica, di quel Vangelo che combatteva? ". A tale domanda non c'è altra risposta che questa: la grazia. Perciò Agostino conclude ammonendo: Agnosce gratiam 19.
Questa grazia riconobbero i primi fedeli, i quali, conosciuta la conversione di Saulo - colui che un tempo ci perseguitava, adesso annuncia la fede che un tempo cercava di distruggere -, glorificavano Dio a mio riguardo (Gal 1,24). " Perché mai, spiega Agostino, glorificavano Dio, se non era stato Dio a convertire il cuore di Paolo con la bontà della sua grazia...? " 20.
Inutile dire che pur insistendo sull'azione della grazia nella conversione dell'Apostolo, Agostino non dimentica ma rileva la presenza della libertà in Paolo, dico evidentemente della libertà di scelta. Vale la pena di riportare un passo dal De gratia et libero arbitrio. " Allora, se aveva questo merito nel male [perseguitare la Chiesa di Dio], gli fu reso bene per male; perciò prosegue col dire: Ma per grazia di Dio sono quello che sono. E per mostrare anche il libero arbitrio aggiunge poi: e la sua grazia in me non fu vana, ma mi sono adoperato più di tutti loro. Questo libero arbitrio dell'individuo egli lo sprona anche negli altri dicendo: Vi esortiamo a non ricevere invano la grazia di Dio. Ma in qual maniera li potrebbe esortare a questo, se ricevendo la grazia perdessero la propria volontà? " 21.
Ma di questo si è detto sopra a proposito del grande binomio 22. Qui la conversione di Paolo c'interessa per un'altra ragione, perché c'introduce in un argomento dei più difficili e più misteriosi (o forse il più difficile e più misterioso) di tutta la dottrina sulla grazia, argomento che costituiva, per di più, il contrasto profondo e pressoché irriducibile tra la mentalità pelagiana e quella agostiniana. Dire che quella era aristotelica, questa platonica, significa spostare inutilmente il discorso. La questione che interessava Agostino era teologica, non filosofica. E se per Giuliano era prima di tutto filosofica, questo era il suo grande errore che il vescovo d'Ippona non cessava di rimproverargli.

CAPITOLO SECONDO

IL POTERE DI DIO SULLA LIBERA VOLONTA' DELL'UOMO


Per trattare il difficile argomento è utile sgombrare il campo da facili quanto false interpretazioni, per proporre, poi, quella che ritengo conforme ai testi agostiniani. Il lettore vedrà se sia conforme anche all'insegnamento biblico e alla sana filosofia. Illustrerò pertanto due punti essenziali: 1) la volontà di Dio, che Agostino dichiara di essere sempre invitta, non riguarda la libera decisione della volontà umana, ma il piano generale della provvidenza divina, la quale fa rientrare nell'ordine chi se ne è liberamente allontanato; 2) la grazia, salva la libertà dell'uomo, può cambiare chiunque da nolente in volente, come avvenne appunto nella conversione di Paolo e, aggiungiamo noi, di Agostino. Vediamo il primo punto.

1. " Voluntas Dei semper invicta est "

Queste parole sono letteralmente di Agostino - le scrive nel De spiritu et littera 1 e nell'Enchiridion 2 -, e rispondono, senza dubbio, al suo pensiero generale; ma non hanno il significato che spesso viene loro attribuito. V'è chi ritiene che esse contengano la dottrina della irresistibilità della grazia, che sarebbe propria del vescovo d'Ippona, e perciò la negazione della libertà. Questa fu l'opinione di Giansenio 3 ed è l'opinione, anche oggi, di quanti leggono gli scritti del vescovo d'Ippona con gli occhi del vescovo d'Ypres. Tra questi c'è qualcuno che spiega benevolmente la cosa; press'a poco così: Agostino, fattosi assertore dei diritti di Dio, particolarmente del primato assoluto della volontà divina, si è lasciato tanto trasportare da questo nobile intento da sacrificare la libertà dell'uomo. Infatti, dicono, se la volontà divina è sempre invitta, quale posto può restare per il libero arbitrio? La risposta è evidente: nessuno; ma è anche evidente l'errore d'interpretazione.
Che dire? Una cosa semplicissima: questa o simili espressioni nulla hanno a che fare con la dottrina della grazia - e quindi con la sua irresistibilità o meno -, ma riguardano solo la dottrina generale della Provvidenza, la quale non può essere eliminata dal libero arbitrio di cui gli angeli e gli uomini sono stati dotati.
Quelle espressioni vogliono dire soltanto che Dio fa rientrare nell'ordine coloro che, peccando, se ne sono allontanati. Essi, se agiscono contro la volontà di Dio, si allontanano dall'ordine da Lui voluto, che è l'ordine dell'amore, ma entrano loro malgrado nell'ordine della giustizia, la quale, punendo il colpevole, ristabilisce l'ordine violato. La volontà divina non è invitta contro la libera scelta della volontà umana, ma è invitta nonostante questa libera scelta. " Quando [gli uomini] fanno ciò che Dio non vuole, Dio fa di loro quello che vuole " 4. L'uomo (e l'angelo) non può sfuggire alle leggi della Provvidenza, che sono due: amore e giustizia. Chi ricusa l'uno incappa nell'altra. Nelle opere divine non può esserci che l'ordine, o quello stabilito o quello riparato.

Che il significato delle parole suddette sia questo, appare chiaramente dal contesto in cui vengono inserite. " Usando male del libero arbitrio, gli infedeli che non credono al Vangelo agiscono certo contro la volontà di Dio, ma non per questo vincono contro di essa: piuttosto privano se stessi di un grande e sommo bene e si condannano a mali punitivi, destinati come sono a sperimentare nei castighi la potenza di Colui del quale hanno disprezzato la misericordia nei doni. Così la volontà di Dio rimane sempre invitta. Sarebbe vinta, invece, se Dio non trovasse che fare dei suoi disprezzatori o se questi potessero sfuggire in qualche modo a ciò che Dio ha stabilito per essi " 5.
Si tratta dunque dell'ordine dell'universo su cui Agostino ha scritto tante splendide pagine. Eccone una: " Poiché tutte le sostanze sono buone per natura, viene onorato il lodevole ordinamento che regna in esse, ma ne viene condannato il colpevole sovvertimento. L'anima tuttavia, pur usando male delle cose create, non può eludere l'ordinamento stabilito dal Creatore, poiché se essa fa cattivo uso delle cose buone, Egli fa buon uso anche delle cattive; essa quindi, usando male le cose buone, diviene cattiva, mentre Egli rimane sempre buono usando ordinatamente anche le cose cattive. Mi spiego: chi si mette fuori dell'ordine mediante l'ingiustizia dei peccati, è fatto rientrare nell'ordine mediante la giustizia dei castighi " 6.
Quello che è detto qui viene enunziato altrove con un principio generale caro al vescovo d'Ippona: " Dio, come è creatore ottimo di tutte le nature buone, così è ordinatore giustissimo di tutte le volontà cattive, di modo che quando tali volontà usano male le nature buone, Egli usa bene anche le volontà cattive " 7.
Non c'è bisogno d'insistervi. E' chiaro che quando Agostino parla della forza invitta della volontà divina non propone altro che una regola generale del governo di Dio nel mondo, regola che sta alla base dell'ordine, il quale è l'esigenza suprema delle opere del Creatore. Le parole ricordate richiamano solo due grandi verità: 1) l'uomo non farebbe nulla contro la volontà di Dio se Dio non lo permettesse: di tale principio parlerò a suo luogo 8; 2) l'uomo che, trasgredendo la legge divina, ricusa l'amore di Dio, non può sfuggire alla giustizia di Lui. Del contrasto tra la libera decisione dell'uomo e l'invincibile volontà di Dio Agostino non parla: ne parlano alcuni suoi interpreti; perché non si sa. Vedere due doni divini, libero arbitrio e grazia - uno di Dio creatore, l'altro di Dio salvatore -, in termini di contrasto o di concorrenza, non è agostiniano ma pelagiano. Non si può leggere Agostino con gli occhi di Pelagio; occorre leggerlo - l'ho detto, ma è bene ripeterlo -, con gli occhi suoi. Non v'è dubbio che il vescovo d'Ippona parli molto del primato della grazia sulla volontà e lo difenda, ma lo fa in un altro contesto, con altre sfumature, non come vittoria di Dio contro l'uomo, ma come vittoria dell'uomo, con l'aiuto di Dio, contro il male che è il tarlo che rode la sua libertà. Vediamolo, ricordando un principio che Agostino enuncia, approfondisce ed illustra.

2. Dio può convertire in volente qualunque infedele o peccatore nolente senza lederne la libertà

Il chiarimento di questo principio può essere articolato in tre proposizioni di fondo. Giova esaminarle, tutte e tre, in una visione sinottica perché appartengono allo stesso principio e lo rendono comprensibile.
1) la prima è questa: Dio non salva le sue creature contro la loro volontà. Dio ci ha creato senza il nostro consenso, ma non ci salva senza la nostra volontà. Conosciamo tutti un celebre aforisma agostiniano: Qui fecit te sine te, non te iustificat sine te. Ergo fecit nescientem, iustificat volentem. Questa conclusione suppone una premessa che vale la pena ricordare: è contenuta nello stesso discorso, allo stesso paragrafo. Dice Agostino al suo popolo: " Dio opera in noi, ma non tuttavia come se fossimo addormentati, non come se noi non fossimo nulla, non come se noi non volessimo. Senza la tua volontà non sarà in te la giustizia di Dio. Certamente la tua volontà è tua, la giustizia di Dio è di Dio: la giustizia di Dio può essere senza la tua volontà, ma non può essere in te fuori dalla tua volontà " 9.
In queste parole, come nell'effato che le conclude, viene espressa la legge fondamentale che distingue la creazione dalla salvezza. Dio ha creato l'uomo senza di lui - e come mai questi poteva dare il suo consenso alla creazione se ancora non era? -, ma, avendolo dotato di libero arbitrio, non lo conduce alla salvezza contro la sua volontà. Il libero arbitrio, dono della creazione, entra negli ingranaggi della salvezza e ne diventa un elemento se non primario certo essenziale.
2) La seconda proposizione enuncia appunto il primato della grazia e si può esprimere così: Dio può, quando vuole, cambiare la volontà dell'uomo da nolente a volente. Il nostro dottore ripete molte volte questa affermazione e, senza mezzi termini, tratta da insipiente chi la nega 10. L'insistenza dipende dalle accuse dei pelagiani che vedevano in essa la negazione della libertà e l'ammissione del fatalismo. Esaminiamo alcuni testi.
Molto espressivo quello dell'Enchiridion. Scrive: " Chi dunque sarà tanto empiamente folle da dire che Dio non possa convertire in bene le volontà cattive degli uomini, quelle che vuole, quando vuole, dove vuole? ". E aggiunge: " Ma quando lo fa, lo fa per misericordia; quando non lo fa, non lo fa per [giusto] giudizio " 11. Non meno espressivo quello che abbiamo visto sopra tratto dalla liturgia della preghiera 12. Come pure quello dell' Opus imperfectum contra Iulianum che suona così: " Dio suscita il volere nell'animo degli uomini, non perché credano nolenti, cosa sommamente assurda, ma perché diventino da nolenti volenti "; ciò opera " attraverso le sue imperscrutabili vie " 13.
Il fondamento di queste affermazioni è insieme biblico, liturgico e metafisico. Del primo e del secondo ho parlato sopra 14. Per il terzo basterà citare un testo di una delle ultime opere: Dio agisce, dice Agostino, interiormente, tiene in mano i cuori e li muove, e, per mezzo della volontà che opera in loro, li attira. Infatti " Dio ha in suo potere le volontà degli uomini più di quanto gli uomini non le abbiano essi stessi: magis habet in potestate voluntates hominum quam ipsi suas " 15. Questa ragione riposa sulla presenza di Dio nell'uomo, che è più profonda di quanto l'uomo non sia a se stesso. Intimior intimo meo 16. A questa profonda presenza non sfugge il libero arbitrio 17.
Giuliano aveva del libero arbitrio un'altra opinione e la difendeva, egli pure, con la Sacra Scrittura. Si riferiva in particolare a Mt 23,37: Gerusalemme, Gerusalemme,...quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come la gallina raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, e non hai voluto, insistendo su quel: e non hai voluto, quasi che la libera volontà dell'uomo ponga un limite invalicabile all'azione divina. " Infatti, continua Giuliano, dopo queste parole non è scritto: ma li raccolsi contro tua volontà, bensì: la vostra casa vi sarà lasciata deserta, per dimostrare che erano giustamente puniti per l'opera cattiva, ma che dalla loro intenzione [cattiva] non dovevano essere revocati ulla necessitate ". Ho ricordato quest'ultimo particolare sopra a proposito della conversione di S. Paolo 18.

Agostino risponde ribadendo il principio generale: " Lungi da noi il pensare che l'intelligenza dell'Onnipotente che tutto conosce in precedenza sia impedita dall'uomo ". Distingue poi tra due certezze, quella che riguarda la volontà di Gerusalemme contraria alla volontà di Dio e quella riguardante la volontà di Dio che raccoglie in Gerusalemme i figli che vuole. " Come è certo - dice - che Gerusalemme non volle che i suoi figli fossero raccolti da Dio, così è certo che Dio, contro la volontà di Gerusalemme, raccolse tutti quelli che volle. Dio infatti - continua Agostino - chiama, come disse l'uomo di Dio Ambrogio 19, coloro che si degna chiamare e dà, a chi vuole, un animo religioso " 20.
E' certo dunque per il vescovo d'Ippona che Dio permette che si compiano molte cose contro la sua volontà, ma è certo altresì che la volontà divina può cambiare chiunque da nolente in volente. Lo può, e senza lederne la libertà. Ecco pertanto la terza proposizione che egli ha cura d'illustrare.
3) L'azione della grazia quando converte il nolente in volente non lede la sua libertà. La ragione è semplicissima: sarebbe assurdo pensare il contrario, cioè che uno creda non volendo credere. Dio opera nell'animo degli uomini non ut nolentes credant, quod absurdissime dicitur... 21. Perché ognuno evitasse questo assurdo, egli lancia un'affermazione che suona solenne come un aforisma: nemo credit invitus 22. Questo aforisma, applicato alla giustificazione, diventa: nemo iustus invitus 23; applicato all'azione della grazia con la quale il Padre celeste attrae gli uomini a Cristo diventa: nemo venit invitus 24; applicato alla bontà in generale suona: nemo bonus invitus 25.
Agostino non poteva essere né più insistente né più efficace: nessuno può credere o essere giustificato o essere attratto a Cristo o essere buono contro la sua volontà; e questo " per la contraddizion che nol consente " 26. La grazia dunque non costringe nessuno a volere il bene, non cogit velle bonum. Giuliano lo pensava e lo attribuiva ad Agostino. Questi gli risponde: " Come tu possa dire che colui la cui volontà, secondo il nostro insegnamento, viene preparata dal Signore, diventi buono perché costretto a volere il bene (è tua questa affermazione, non nostra: noi siamo ben lungi dal dirlo), lo veda la tua alta intelligenza. Infatti, se la volontà è costretta non vuole; e che cosa c'è di più assurdo che dire: si può volere il bene non volendolo? " 27.
Il praeparatur voluntas a Domino, a cui ci si riferisce, è il testo riassuntivo, tante volte citato, di tanti testi biblici sulla grazia 28. Qui si dice in tutte lettere che questa grazia, la quale porta l'uomo a volere effettivamente il bene, non toglie la libertà (di scelta), ma la volge al bene senza violarne la natura. Come? Lo vedremo fra poco. Per ora basti aver riaffermato un principio essenziale e fondamentale della dottrina agostiniana sulla grazia, da cui è aliena la tesi della irresistibilità. Questa, affermata da Giansenio e ripetuta da alcuni moderni, non appartiene alla visione teologica di Agostino, ma all'accusa di Giuliano che la distorce. Agostino respinge puntualmente l'accusa; ma non mancano interpreti che commettono di nuovo l'errore di cercare la dottrina del vescovo d'Ippona non nelle sue affermazioni e nelle ragioni che le suffragano, bensì nelle accuse dell'avversario. Se questo è un metodo interpretativo giusto, lo giudichi il lettore.

3. " Indeclinabiliter et insuperabiliter "

Ma codesti interpreti, questa volta, sembrano trovare una giustificazione in alcune espressioni dello stesso Agostino. Sono celebri due avverbi del De corrept. et gr.: " Si è prestato soccorso alla debolezza della volontà umana così che essa sia mossa dalla grazia divina indeclinabiliter et insuperabiliter " 29. In questi due avverbi Giansenio trovò il suo cavallo di battaglia. E con lui altri, ieri e oggi. Ma essi non hanno il significato che viene loro attribuito bensì, letti nel testo e nel contesto, uno diverso. Non si tratta dell'insuperabilità della grazia nei confronti della volontà, quasi volontà e grazia fossero due termini antitetici - questa era la concezione pelagiana -, ma si tratta della volontà che, sostenuta dalla grazia, opera senza deviare dalle vie del bene (indeclinabiliter) e senza essere superata dalle forze del male (insuperabiliter), opera cioè in piena libertà. Della libertà infatti si tratta nel testo e nel contesto, non della natura della grazia. Non c'è bisogno pertanto di togliere di mezzo, arbitrariamente, quell'insuperabiliter quasi significasse, fuori d'ogni dubbio, l'irresistibilità della grazia e favorisse, perciò, le conclusioni gianseniste 30. Non c'è bisogno di toglierlo, basta capirlo. Esso, questo avverbio contestato, riguarda solo la volontà, che, fortificata dalla grazia, diventa vincitrice contro " tutti gli amori, i terrori, gli errori di questo mondo " 31 raggiungendo quella forza e quella libertà che è propria dei santi, in particolare dei martiri. Questa è l'interpretazione che esigono il testo e il contesto sia prossimo che remoto.
Infatti il testo continua: " ...e perciò, benché debole, la volontà non viene meno e non è vinta da nessuna avversità " 32.
Il contesto immediato mette a confronto Adamo, che era forte e tuttavia peccó, e gli uomini dopo il peccato, che sono deboli, e tuttavia ricevono la grazia di essere fortissimi nel volere il bene e nel non volere il male. " A chi era fortissimo [Dio] lasciò e permise di fare quello che volesse; per i deboli ebbe cura che grazie al suo dono invincibilmente volessero ciò che è bene e invincibilmente non volessero abbandonarlo " 33.
Il contesto più remoto insiste in questa forza del volere. " Quando [Cristo] ha pregato che la fede di Pietro non venisse meno, che cos'altro ha pregato se non che avesse nella fede una volontà assolutamente libera, invitta, perseverante? " 34. C'è, poi, tutta la dottrina esposta sopra sulla libertà di scelta 35, che è necessaria per il merito 36 e che permane anche sotto l'influsso della grazia che porta l'uomo a volere efficacemente il bene 37, dottrina troppo vasta e profonda e troppe volte ripetuta per pensare che Agostino possa contraddirla con un solo... avverbio.
Ma come la grazia operi nella volontà in modo da darle la forza di vincere tutte le tentazioni e non toglierle il potere di volere e non volere, senza il quale non potrebbe meritare pur volendo e operando il bene, è un argomento diverso, un argomento più profondo e più difficile di cui parleremo subito.

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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04/06/2011 09:46
 
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CAPITOLO TERZO

RAPPORTO TRA GRAZIA E LIBERTA'


Questo rapporto costituisce uno dei più grossi problemi della teologia. Riguarda la libertà di scelta di cui il libero arbitrio dell'uomo (e dell'angelo) è dotato 1 e l'azione divina della grazia che lo conduce infallibilmente ma liberamente alla salvezza, cioè gli dona la libertà dal male senza togliergli la libertà più profonda di volere e non volere. Per trattare questo problema senza deviare da una parte o dall'altra occorrono acume teologico, conoscenza biblica, umiltà e preghiera 2. In possesso di queste qualità in modo altissimo, Agostino fu il teologo che meglio vide il problema, che ne fissò i termini e ne indicò, con grande modestia, le soluzioni. La controversia pelagiana, pur con i suoi pericoli continui di radicalizzazione, gliene offrì l'occasione opportuna.

1. Difficoltà del problema

Prima di tutto vide il problema e le sue difficoltà. Lo vide, lo sentì, lo ridisse: prima della controversia pelagiana e poi all'inizio, alla metà, alla fine di questa. Prima della controversia pelagiana, precisamente in quella donatista, verso il 400, dice a Petiliano che citava il testo di Gv 6,44: " Se ti proponessi la questione come Dio Padre attragga al Figlio gli uomini che ha lasciato alla decisione del loro libero arbitrio, forse la scioglieresti con difficoltà. Infatti come attrae se lascia che ognuno elegga ciò che vuole? Eppure l'una e l'altra cosa è vera - utrumque verum est - ma questo pochi sono in grado di penetrarlo con l'intelletto " 3.
Iniziata la controversia pelagiana, fin dalla prima opera osserva: " L'armonia tra grazia e libero arbitrio butta violentemente nell'ansia ciascuno di noi che ne cerca la soluzione, per il timore che il tono della nostra difesa della grazia ci faccia apparire come negatori del libero arbitrio e viceversa il tono della nostra affermazione del libero arbitrio ci faccia giudicare ingrati alla grazia di Dio per superba empietà " 4.
Qualche anno appresso, precisamente nel 418, dopo la condanna del pelagianesimo da parte di Papa Zosimo, avvenuta in quell'anno, scrive: " Questo problema nel quale si tratta dei rapporti tra l'arbitrio della volontà e la grazia di Dio è talmente difficile a dipanarsi che, quando si difende il libero arbitrio, sembra negata la grazia e, quando viceversa si asserisce la grazia, si crede portato via il libero arbitrio " 5.
Verso la fine della controversia (e della sua vita) ritorna sull'argomento della difficoltà del problema. All'inizio del De gratia et libero arbitrio, scritto appunto per fissarne i termini, ribadisce la quaestionis obscuritas e tesse su questo motivo tutto il libro di cui raccomanda l'assidua lettura: Repetite assidue librum istum 6. E nelle lettere che accompagnano il libro, non solo parla della " difficilissima questione " ma aggiunge che essa è " comprensibile solo a pochi ", concludendone che chi ha suscitato tante discussioni nel monastero (di Adrumeto) o non ha capito egli stesso o non è stato capito 7.

Prima di continuare, vale la pena di fare una riflessione: chi ha costantemente presente la difficoltà del problema, mostra di non negare nessuno dei termini che lo compongono, né libertà né grazia. E' fin troppo evidente che, negando uno di essi, qualunque sia, o grazia o libertà, il problema sparisce. Non lo avevano infatti i pelagiani e non lo avranno i predestinaziani: lo aveva invece Agostino perché passava in mezzo tra gli uni e gli altri, percorrendo sempre il difficile, ma l'unico giusto, veritatis medium 8.
Il problema dunque c'è e non è facile risolverlo. Non resta che accogliere il solenne e grave ammonimento del vescovo d'Ippona, quello di tener fermi i due capi della catena anche se non si riesce a percepire l'anello che li tiene uniti. Abbiamo visto sopra la sua insistenza sull' utrumque o grande binomio 9. Raccogliamo qui le parole estreme del libro che fu scritto per difenderlo e illustrarlo. Alla raccomandazione: Repetite assidue librum istum, segue l'ammonimento: " e se comprendete ringraziate Dio; nei punti in cui non comprendete, pregate di comprendere: il Signore infatti vi concederà l'intelligenza. Ricordate che sta scritto: Se qualcuno di voi manca della sapienza, la chieda a Dio, che dà a tutti in abbondanza e non rimprovera, e gli sarà data. Questa appunto è la sapienza che discende dall'alto " 10.
Ma Agostino era troppo teologo per fermarsi solo a questo ammonimento. Per quanto sia importante, esso da solo non basta. Anzi, se restasse solo, entrerebbe in collisione con l'altro notissimo principio: intellectum valde ama 11, e porterebbe la teologia verso posizioni fideiste che il nostro dottore decisamente respinge. Egli vuol capire la sua fede. Pertanto, come ha cercato di penetrare la natura della libertà - lo abbiamo visto sopra 12 -, così vuol capire quella ancor più difficile della grazia. Seguiamolo in questo arduo cammino.

2. Natura della grazia efficace o " auxilium quo "

Agostino parla insistentemente e prevalentemente, anche se non esclusivamente, della grazia che conduce l'uomo di fatto, nonostante la sua debolezza, a compiere il bene e ad evitare il male. Come? Praebendo vires efficacissimas voluntati 13. Queste forze sono tanto efficaci che la volontà vuole invincibilmente il bene e invincibilmente non vuole il male. L'iterazione dell'avverbio invictissime - invictissime quod bonum est vellent et hoc deserere invictissime nollent 14 -, dice non la necessità dell'atto, ma l'infallibile certezza con la quale la volontà, superando ogni ostacolo, vuole il bene e s'avvia verso quella beata libertà in forza della quale non potrà più volere il male.
Questa grazia efficace dunque:
1) è la grazia congrua, cioè quella che si adatta alle disposizioni dell'uomo, che sono pur esse dono di Dio, in tal modo da indurlo a seguire la chiamata dall'Alto. L'espressione ricorre nella risposta a Simpliciano, un'opera molto importante per gli inizi della dottrina agostiniana della grazia, e ricorre nel contesto della vocazione ed elezione divina. Parlando agli eletti dice infatti che sono eletti qui congruenter vocati; spiegando poi quel congruenter vocati, continua: quos ita vocat, quomodo eis vocari aptum est ut vocantem sequantur. L'aptum est diventa subito dopo: " quomodo scit ei congruere ut vocantem non respuat " 15. Questa espressione ricorre agli inizi della teologia sulla grazia e a proposito della chiamata secondo il consiglio divino, e bisogna registrarla, tanto più che nel De dono perseverantiae, una delle ultime opere, si parlerà di congrua suis mentibus... verba vel signa 16;
2) è la grazia che non solo esercita un'azione suasiva, ma anche un'azione persuasiva, la quale, secondo le parole del profeta Ezechiele, fa che noi facciamo: faciam ut faciatis 17. Perciò è la grazia che non viene respinta da nessuno per quanto duro di cuore: ideo quippe tribuitur, ut cordis duritia primitus auferatur 18;
3) è la grazia che non solo dà il posse, ma anche il velle: " per mezzo di questa grazia di Dio, che ci aiuta a ricevere il bene e a conservarlo con perseveranza, non solo possiamo quello che vogliamo, ma anche vogliamo quello che possiamo " 19. Di conseguenza non è solo l'aiuto senza il quale non possiamo operare, ma l'aiuto con il quale operiamo di fatto: auxilium quo 20;
4) è, per riprendere l'importante discorso su gli ingranaggi della libertà 21 nei quali l'azione divina entra profondamente operando in essi dal di dentro, la " scienza certa " e la " dilettazione vittrice " 22. Le due espressioni meritano un'attenzione particolare perché sono i cardini della nozione agostiniana della grazia.
a) Scientia certa. La nozione della " scienza certa " come dono della grazia adiuvante non era facile. Vediamo come la dipana Agostino. La conoscenza di ciò che si deve fare è, come si è visto 23, condizione necessaria per operare il bene. Ma quale dev'essere questa conoscenza perché entri nel concetto della grazia operante? Certamente non ogni conoscenza basta. Non basta, per esempio, la conoscenza puramente teorica, quella che, secondo la Scrittura, è " la scienza che gonfia " (1 Cor 8,1). I pelagiani si fermavano a questa, cioè alla conoscenza con la quale Dio ci mostra e ci rivela per mezzo della legge ciò che dobbiamo fare.

Agostino lo sa e lo ripete 24, ma afferma con fermezza che la pura conoscenza della legge non è sufficiente affinché l'uomo operi il bene. Non appartiene perciò a quella grazia interiore che la Scrittura richiede di ammettere. Ci vuole, sì, la scienza, ma quella che Dio insegna interiormente, della quale parla S. Giovanni nel Vangelo: Sta scritto: e tutti saranno ammaestrati da Dio (Is 54,13; Ger 31,33 s.). Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me (Gv 6,45). " Pertanto - commenta Agostino - quando Dio insegna non per mezzo della lettera della legge, ma per mezzo della grazia dello Spirito, insegna in tal modo che chiunque ha imparato non solo veda con l'intelligenza ciò che gli è stato insegnato, ma anche lo brami con la volontà e lo compia perfettamente con l'attività " 25.
Ne segue che " la scienza certa " non è solo l'esclusione dell'errore, ma anche la fuga del dubbio, dell'incertezza, dell'esitazione; in altre parole, è la presenza della verità alla mente e l'adesione ferma della mente alla verità. Ora una tale fermezza non può essere senza un amore almeno iniziale e senza l'attrazione della volontà ad operare quel bene che la scienza propone.
Agostino, che non ama discutere sulle parole, rispondendo ai pelagiani - direttamente al Pro libero arbitrio di Pelagio 26 - che chiamavano grazia la dottrina, si esprime così: " Se questa grazia si deve chiamare dottrina, si chiami pure così, ma in modo da credere che sia Dio ad infonderla più profondamente e più interiormente con ineffabile soavità nell'animo umano, non solo attraverso l'opera di coloro che piantano ed irrigano all'esterno, ma anche con il suo intervento diretto che dà occultamente il suo incremento, così che questa grazia non additi semplicemente la verità, ma somministri anche la carità " 27.
Si noti in questo testo il " più profondamente " (altius), il " più interiormente " (interius) e " con ineffabile soavità " (cum ineffabili suavitate) che dicono chiaramente che la " scienza certa " non è solo conoscenza nozionale, ma nozionale e sperimentale insieme, cioè una conoscenza amorosa che diventa convinzione profonda nell'intelletto, proposito nella volontà, gioia nel cuore, e quindi forza iniziale per compiere il bene conosciuto. Per questo, parlando dell'attrazione del Padre (Gv 6,44), può dire che essa avviene attraverso la rivelazione del Figlio fatta dal Padre: Ista revelatio, ipsa est attractio 28.
b) Dilettazione vittrice. Se non che la " scienza certa " non basta a spiegare la grazia efficace. Occorre anche la " dilettazione vittrice ". La ragione è stata esposta sopra parlando degli ingranaggi della libertà. Infatti due sono gli ostacoli che impediscono il compimento del bene: la ignorantia e la infirmitas; due perciò gli scopi della grazia: togliere l'ignoranza e sostenere la debolezza; due di conseguenza le componenti essenziali della sua natura: la scienza e la dilettazione. E se la scienza dev'essere certa, la dilettazione dev'essere vittrice.

L'espressione delectatio victrix è stata usata ed abusata dagli interpreti. Non discutiamo di parole. Dirò appresso che amore, dilezione, dilettazione, gaudio esprimono per Agostino, sia pure con sfumature diverse, la stessa cosa. " Dilettazione vittrice " si può tradurre bene, senza mutarne affatto il significato, con " amore vittorioso "; vittorioso contro tutti gli ostacoli che impediscono alla volontà di volere ed operare il bene. E siccome la infirmitas è più grave nell'uomo che l' ignorantia - su questo punto l'antropologia agostiniana non ha dubbi -, Agostino insiste di più, parlando della grazia adiuvante, nella ispirazione dell'amore. E' restata celebre la definizione: inspiratio dilectionis, ut cognita sancto amore faciamus. Questa, aggiunge Agostino, è propriamente la grazia 29. La definizione agostiniana si richiama evidentemente al testo di S. Paolo, tante volte citato: " L'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato " (Rom 5, 5). Su questo testo si gioca, per Agostino, tutta la controversia tra pelagiani e cattolici circa l'aiuto della grazia. Ma di questo dopo 30.
Qui occorre osservare che quest'amore, per diventare vittorioso, deve superare tutti gli ostacoli, che non sono pochi né piccoli, e non sono in tutti gli stessi, né in tutti esercitano la stessa resistenza, anche se rientrano tutti nel denominatore comune di ignorantia e infirmitas. Esso, quest'amore, appare in sommo grado nei martiri, i quali hanno la forza suprema - e quindi la suprema libertà - di resistere a tutte le minacce, anche a quelle delle sofferenze più atroci e della morte.
A questo punto bisognerebbe parlare dei gradi dell'amore, che per Agostino sono quattro - incipiente, progrediente, intenso, perfetto 31 - e s'inseriscono molto bene nel discorso sulla grazia; come pure delle passioni disordinate - superbia, avarizia, cupidigia 32 - fino alla dura servitus delle abitudini cattive e inveterate 33, ma il discorso è lungo e non può essere fatto qui. Qui giova insistere su alcune importanti distinzioni circa la grazia adiuvante, che Agostino fa e che spesso o vengono disattese o comprese male.

3. Distinzione sulla natura della grazia adiuvante

Quattro soprattutto richiamano la nostra attenzione: grazia suasiva e persuasiva, grazia operante e cooperante, grazia preveniente e susseguente, grazia che dà il potere - auxilium sine quo non - e grazia che dà anche il volere: auxilium quo.
1) Grazia suasiva e persuasiva
Agostino usa implicitamente questa distinzione fin dalle prime riflessioni sulla grazia. Nel De diversis quaestionibus ad Simplicianum, di cui è nota l'importanza in materia, scrive a proposito dell'uomo ostinato nell'incredulità: " Chi dirà mai che anche all'Onnipotente sia mancato il modo di persuaderlo a credere? " 34. Lo stesso principio in maniera anche più generale in una lettera recentemente pubblicata: " Chi mai, se non è assolutamente lontano dal vero, oserà pensare o credere che Dio voglia persuadere qualcosa e non lo possa? Dunque - conclude rivolto all'interlocutore - ti persuaderà quando voglia, ...e perché lo faccia dev'essere pregato da me ma in modo che anche tu venga esortato... " 35.
La distinzione tra suadere e persuadere viene proposta più attentamente in un'opera tra le più importanti sulla grazia, dove si dice: " Dio con le suggestioni da noi avvertite (visorum suasionibus) fa sì che noi vogliamo e vediamo sia dall'esterno attraverso le esortazioni evangeliche... sia dall'interno dove non è in potere di nessuno scegliere che cosa gli venga in mente... Quando Dio dunque agisce in questi modi con l'anima razionale perché essa gli creda, (e non può infatti l'anima credere a nulla con il libero arbitrio senza un'azione suasiva o una vocazione che le presenti qualcosa a cui credere), certamente Dio produce nell'uomo anche la stessa volontà di credere, e la sua misericordia ci previene in tutto ". Toccando poi il mistero della predestinazione si esprime brevemente così: " Se poi qualcuno a questo punto vuole costringerci a scrutare il profondo arcano per cui con uno l'azione suasiva riesce ad essere persuasiva e con un altro no, due sole verità mi si presentano adesso con le quali mi piace rispondere: O profondità della ricchezza! e: C'è forse ingiustizia da parte di Dio? Se questa risposta a qualcuno dispiace, cerchi persone che ne sappiano di più, ma stia ben attento a non incappare in persone che solo presumano di saperne di più " 36.
Torneremo su questo testo. Qui si vuole sottolineare soltanto l' ita suadeatur ut persuadeatur, due verbi che indicano molto bene due modi diversi di agire della grazia, quello suasivo rivolto, come vedemmo, a tutti 37 e quello persuasivo che è usato verso gli eletti.
Lo stesso problema con le stesse parole viene proposto in un'opera non più degli inizi ma del bel mezzo della controversia pelagiana. Agostino è alle prese con Pelagio e vuole che riconosca finalmente la grazia che attira di fatto gli uomini a Cristo. " Noi vogliamo da Pelagio una buona volta il riconoscimento di quella grazia che non solo promette la grandezza della gloria futura, ma la fa pure credere e sperare; la grazia che non solo rivela la sapienza, ma la fa pure amare; la grazia che non solo fa opera suasiva per quanto è buono, ma fa anche opera persuasiva (nec solum suadetur quod bonum est - questa era l'espressione di Pelagio -, verum et persuadetur). Non di tutti infatti è la fede tra coloro che ascoltano il Signore promettere per mezzo delle Scritture il regno dei cieli, e non con tutti diventa persuasiva l'opera suasiva (aut omnibus persuadetur quibuscumque suadetur) che li invita ad andare da colui che dice: Venite a me, voi tutti che siete affaticati. Di quali poi sia la fede e quali siano quelli che si lasciano persuadere ad andare da lui, l'ha ben indicato lui stesso là dove dice: Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato. E poco dopo, parlando di coloro che non credevano, dichiara: Vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre mio ". E conclude con parole molto severe che abbiamo già ascoltate: " Questa è la grazia che Pelagio deve riconoscere, se vuole non solo chiamarsi cristiano, ma anche essere cristiano " 38.

Ho insistito su questa distinzione perché essa indica meglio delle altre la natura dell'azione divina e la libera cooperazione dell'uomo che essa richiama. Infatti se facessimo una considerazione semantica, troveremmo che suadere vuol dire consigliare, invitare, esortare 39; persuadere consigliare con successo, convincere, indurre all'azione. Se poi dalla semantica passiamo al contenuto, Agostino, identificando il persuadere con il " trarre " o il " dare " di San Giovanni, vuol indicare con questa espressione la grazia che dà il volere e l'agire; mentre il suadere è anch'essa una grazia e una grazia anche interiore - sive extrinsecus... sive intrinsecus -, ma non connota l'operare, e quindi non connota la fede e la perseveranza. Le due espressioni sono scelte apposta per indicare che la grazia non esclude la libera cooperazione della volontà. Nel De spiritu et littera viene notato esplicitamente e ripetutamente: consentire vel dissentire propriae voluntatis est 40.
Che poi la distinzione debba essere estesa non solo alla fede, ma anche alla perseveranza, e quindi alla salvezza, appare chiaro dal fatto che viene applicata alla predestinazione: il testo del De spiritu et littera è troppo chiaro per dubitarne. Non si può intendere dunque il persuadere solo sulla linea intellettuale, e, di riflesso, neppure il suadere: nell'un caso come nell'altro si tratta di un'azione anche interiore che importa l'illuminazione e l'infusione dell'amore come risulta da altre distinzioni. Che il termine suasio sia usato per indicare la correzione del superiore 41 o l'istigazione del demonio 42 non vuol dire che, applicato alla grazia, indichi solo una suggestione esterna. Esaminiamo altre distinzioni.
2) Grazia operante e cooperante
L'altra parimenti importante è quella tra grazia operante e grazia cooperante. Semanticamente deriva dalla Scrittura che parla di Dio il quale opera in noi e coopera con noi - vengono citati due testi: Fil 2,13 e Rom 8,28 43 -; contenutisticamente trova l'espressione più completa nel De gr. et lib. arb. Giova rileggerne il testo: " E chi aveva cominciato a dare questa carità, benché ancora piccola - si riferisce a Pietro che assicura: Darò per te la mia vita (Gv 13,37) - se non Colui che prepara la volontà, e cooperando porta a termine quello che operando ha iniziato? Perché è proprio lui che dando l'inizio opera affinché noi vogliamo, e poi nel portare a termine coopera con coloro che già vogliono... Dunque Egli fa sì che noi vogliamo senza bisogno di noi; ma quando vogliamo, e vogliamo in maniera tale da agire, coopera con noi. Tuttavia senza di lui che opera affinché noi vogliamo o coopera quando vogliamo, noi non siamo validi a nessuna delle buone opere della pietà " 44.
Il testo citato ha quanto serve per essere compreso nel giusto senso. Dio comincia l'opera della salvezza operando in noi senza di noi il buon volere, secondo l'espressione della Scrittura tante volte ripetuta: praeparatur voluntas a Domino (Prov 8,35 sec. LXX) - infatti l'inizio della fede proviene da Dio (è questa la tesi di tutto il De praedestinatione sanctorum) -; ma anche noi operiamo cooperando alla grazia: " operiamo certamente anche noi, ma operiamo cooperando con Dio che opera prevenendoci con la sua misericordia " 45: cooperiamo perché la carità da piccola diventi grande, perché passi all'azione, perché superi le difficoltà, perché sia perseverante.
A questa distinzione ne va congiunta, quasi con lo stesso significato, un'altra.

3) Grazia preveniente e susseguente
Anche questa deriva semanticamente dalla Scrittura. I testi citati sono abitualmente due: Ps 58,11: Dio mio, la tua misericordia mi previene; e Ps 22,6: La tua misericordia mi seguirà per tutti i giorni della mia vita. Il contenuto è quello dell'altra: Dio comincia, ma non abbandona la sua creatura; comincia e continua l'opera, suscitando la nostra cooperazione fino alla salvezza. " Ci previene per guarirci e anche ci seguirà perché da sani diventiamo pure vigorosi, ci previene per chiamarci e ci seguirà per glorificarci, ci previene perché viviamo piamente e ci seguirà perché viviamo con lui eternamente, essendo certo che senza di lui non possiamo far nulla " 46. E in un discorso al popolo sul Natale: " Chi potrebbe avere in suo potere il volere e l'operare il bene, se con la sua grazia non ci aiuta a poter fare il bene Colui che chiamandoci ci concede di volerlo? In ogni caso infatti la sua misericordia ci previene: ci ha chiamati quando ancora non volevamo e ci ha concesso d'impetrare di poter compiere quanto ora vogliamo " 47.
Ma è un'altra la distinzione più difficile, perché più discussa, da Giansenio fino ai nostri giorni 48.
4) " Auxilium sine quo non " e " auxilium quo "
La ragione sta nel fatto che è stata caricata, a mio parere, di un significato che non ha. Vediamola in sé, senza preoccupazione delle discussioni posteriori, anzi escludendole affatto come un ostacolo per l'intelligenza del testo agostiniano. Non applichiamo dunque ad essa lo schema scolastico di grazia sufficiente e grazia efficace, né quello delle due economie della grazia.
La distinzione di due aiuti ricorre per la prima volta nel De gestis Pelagii, ma non è ancora quella che qui c'interessa.
Si tratta dell'aiuto senza il quale una cosa non si può fare e dell'aiuto senza il quale una cosa si può fare lo stesso, anche se più difficilmente. Scrive: " ...gli aiuti sono di due specie. Alcuni sono tali che senza di essi non si può ottenere ciò per cui aiutano: per esempio senza nave nessuno naviga, senza voce nessuno parla, senza piedi nessuno cammina, senza luce nessuno vede, e molti altri fatti simili, fra i quali anche questo: Nessuno vive rettamente senza la grazia di Dio. Altri mezzi, al contrario, ci aiutano così che anche senza di essi resta possibile ottenere per altro verso il risultato per cui cerchiamo tali mezzi, come negli esempi già ricordati da me: le trebbie per battere le messi, il pedagogo per accompagnare i ragazzi, una medicina preparata dalla scienza umana per recuperare la salute, e tutti gli altri mezzi di tal genere " 49.
La grazia, come si dice esplicitamente in questo testo, appartiene al primo genere di aiuto, non al secondo.

A Pelagio che aveva scritto nel Pro libero arbitrio che la grazia viene data perché gli uomini possano fare più facilmente ciò che viene comandato loro di fare per mezzo del libero arbitrio, risponde: " Togli più facilmente, e il senso non solo sarà pieno ma anche sano...; aggiungendo invece più facilmente si suggerisce in sordina che il compimento dell'opera buona è possibile anche senza la grazia di Dio. E' l'idea riprovata da Colui che dice: Senza di me non potete far nulla " 50.
Ma la grazia non è solo l'aiuto senza il quale non si può vivere rettamente, ma anche l'aiuto con il quale di fatto si vive rettamente. Questa ulteriore distinzione, molto importante perché include il concetto della grazia efficace, viene proposta e spiegata nel De correptione et gratia. Rileggiamo il celebre testo: " Del pari bisogna distinguere gli aiuti stessi. Una cosa è l'aiuto senza il quale non avviene qualcosa, e un'altra cosa l'aiuto per mezzo del quale qualcosa avviene. Infatti senza alimenti non possiamo vivere, ma tuttavia quando ci siano gli alimenti, non sarà per essi che vivrà chi vuole morire. Dunque l'aiuto degli alimenti è quello senza il quale non avviene, non quello per mezzo del quale avviene che viviamo. Invece quando sia data la beatitudine che l'uomo non possiede, egli diviene subito beato. Infatti è non solo un aiuto senza il quale non avviene, ma anche per mezzo del quale avviene ciò per cui è dato. Perciò esso è sia un aiuto per mezzo del quale qualcosa avviene, sia un aiuto senza il quale qualcosa non avviene; se la beatitudine è stata data all'uomo, subito egli diviene beato, e se non gli è mai stata data, non lo sarà mai " 51.

Il testo agostiniano letto in se stesso non sembra essere oscuro. Che cosa vuol dire Agostino? Questo solo: Adamo ebbe la grazia del poter non peccare - grazia necessaria, altrimenti il suo peccato sarebbe stato imputabile a Dio 52 -, ma peccò: questo il dato rivelato. Dunque ebbe l'auxilium sine quo non ma non ebbe l'auxilium quo, altrimenti non avrebbe peccato ma avrebbe perseverato nella giustizia ricevuta. Molti, dopo Adamo, e lo stesso Adamo dopo il peccato 53, per mezzo della grazia di Cristo e nonostante le ferite di quel primo peccato, compiono il bene, vi perseverano e si salvano: ecco l'altro dato rivelato. Dunque quelli che si salvano ricevono l'auxilium quo, cioè l'aiuto con il quale giungono di fatto alla salvezza.
Ma perché allora tante discussioni? Si può rispondere in generale così: perché il testo agostiniano è stato letto in chiave scolastica - si pensi alle interminate e interminabili discussioni sul de auxiliis - e per di più qualcuno, come Giansenio, lo ha letto in funzione antiscolastica. Più in particolare si è voluto sapere 1) se nell'auxilium quo c'è inclusa la grazia intrinsecamente efficace - opinione di molti - o solo estrinsicamente (attraverso la scienza divina), opinione di altri; 2) se l'oggetto dell'auxilium quo è solo la perseveranza finale o anche ogni opera buona; 3) se esso indica e determina la differenza tra l'economia della grazia prima e dopo il peccato: prima avrebbe operato solo la grazia sufficiente, dopo solo la grazia efficace e irresistibile, come voleva Giansenio.
Come si vede, viene chiesta al testo agostiniano la soluzione di problemi che non sono agostiniani. Applicare ad esso lo schema scolastico della grazia sufficiente ed efficace o, peggio ancora, quello giansenista della diversa economia della grazia prima e dopo il peccato - resistibile la prima, irresistibile la seconda - significa imbarcarsi in discussioni senza fine e senza esito, perchè si forza il testo agostiniano a dire ciò che non dice. Lo stesso va osservato sulla natura intrinseca o solo estrinseca della grazia efficace. Agostino cammina per la sua strada: chi vuol seguirlo deve studiare quale essa sia, non imporgli la propria. Forse sarà più utile imparare da lui la grande lezione del senso del mistero di cui fu maestro, sempre ma soprattutto in questo problema che ci tocca tanto da vicino.

4. Senso profondo del mistero

Il vescovo d'Ippona dunque insiste sulla necessità di ammettere la grazia efficace: è un punto fermo. Ma sostiene anche, dall'altra parte, che dev'essere fatta salva la libertà dell'uomo, senza la quale non si può meritare presso Dio, né si possono compiere opere buone: è l'altro punto fermo. Lo abbiamo visto a sufficienza e, forse, più che a sufficienza. Posti questi due punti fermi, che reggono e guidano o, in ogni caso, devono reggere e guidare tutte le discussioni sull'argomento, egli si arresta di fronte al mistero e ne scruta, con umiltà ed amore, la profondità. Se è sicuro sul fatto (i punti fermi), è cauto sul modo. Che libertà e grazia efficace cooperino insieme è certo. Ma come? La questione è difficilissima e pochi la capiscono. Agostino non attenua ma accentua il mistero.
Come? Miris modis, risponde. Trahitur miris modis ut velit; " è attirato, ut velit, da Colui che sa operare interiormente negli stessi cuori degli uomini, non perché gli uomini, ciò che non può essere, credano contro la loro volontà - non ut homines, quod fieri non potest, nolentes credant -, ma perché diventino volenti da nolenti che erano " 54. Se s'insiste sulla stessa domanda, risponde: Interna et occulta, mirabili et ineffabili potestate 55. Se s'insiste ancora, risponde ancora, con altre parole, allo stesso modo: per investigabiles vias suas 56.
Ma Agostino non è uomo da lasciare i problemi insoluti. Su di essi si china, invece, per scrutare le profondità e illuminarli, per quanto è possibile, con la luce dell'intellegibilità. Sul mistero trinitario scrisse la grande opera del De Trinitate che non contiene solo l'esposizione e la difesa, ma anche l'illustrazione del domma, che si fonda sull'uomo immagine di Dio - Trinità. L'uomo studiato da vicino nella sua struttura interiore ci aiuta a capire un poco il modello secondo cui fu creato. Sulla Incarnazione - altro grande mistero che richiamò sempre, dopo la conversione, la sua attenzione e ricerca - se non scrisse un'opera 57, non mancò d'approfondire la rivelazione e di indicare nell'unione tra l'anima e il corpo, che è l'uomo, un esempio che aiuta a capire l'unione delle due nature nell'unica persona di Cristo 58.
Altrettanto si deve dire del mistero della grazia e della libertà, anche se la sua premura principale, a causa della controversia, fu quella di stabilirne i termini, non mancò di aiutare gli umili a capire fin dove è possibile l'intima natura e il modo di conciliare le due verità. Questo modo lo trovò, ancora una volta, nell'uomo e in quello che c'è di più profondo in lui: l'amore.
Non ci resta dunque che vedere come, attraverso l'amore, Agostino si studi d'illustrare il grande mistero della libertà e della grazia, trovando in questa, che è appunto amore, la salvaguardia di quella.

CAPITOLO QUARTO

LIBERALIS SUAVITAS AMORIS


Non si può scrivere qui un trattato sulla filosofia e sulla teologia dell'amore in Agostino, tema profondo e immenso, anzi centrale non meno di quelli dell'essere e dell'illuminazione, e forse di più, almeno per alcuni aspetti. Non sarà inutile però dirne qualcosa che aiuti a capire il " difficilissimo " problema che qui c'interessa. Lo farò toccando prevalentemente tre punti: l'amore centro della vita spirituale, l'amore fonte di libertà, l'amore garanzia di certezza.

1. L'amore centro della vita spirituale

Il lettore non si aspetti un discorso sulla fenomenologia dell'amore. Di questa Agostino ha parlato molto a proposito dell'amicizia 1 e anche della concupiscenza o amore disordinato 2. Ma qui non è il caso d'imboccare quella strada. Qui si vuol dire soltanto che filosoficamente e teologicamente considerato l'amore è al centro dello spirito umano ed è il cuore del mistero della grazia che salva.
1) Riduzione all'amore di tutta l'attività umana
Si sa che nella vita dell'uomo e nella storia dell'umanità egli riduce tutto all'amore: le passioni, le virtù, le due città, la grazia, la perfezione, i doni dello Spirito Santo, l'insegnamento della Scrittura, la bontà, la libertà, la volontà. E' inutile dire che l'amore è sempre in profonda simbiosi con la verità. Lo spirito umano è, pensa ed ama, indissolubilmente. Il verbo interiore secondo la bella definizione agostiniana altro non è che cum amore notitia. " Ecco perché, quando lo spirito si conosce e si ama, il suo verbo gli è unito tramite l'amore. E poiché ama la conoscenza e conosce l'amore, il verbo è nell'amore e l'amore nel verbo e tutti e due nello spirito che ama e dice il verbo " 3. Questa immanenza della conoscenza nell'amore e dell'amore nella conoscenza permette ad Agostino di parlare del primato dell'amore senza cadere nel volontarismo e può enunziare il celebre aforisma: " ama e fai ciò che vuoi " 4.
Le passioni dunque si riducono all'amore. Infatti " l'amore che brama avere ciò che ama è cupidigia, quello invece che possiede e si rallegra è letizia, se fugge ciò che lo contraria è timore, se avverte che questo lo colpisce è tristezza. Queste passioni sono cattive se l'amore è cattivo, buone se è buono " 5.
All'amore riconduce le virtù morali che altro non sono se non una modulazione dell'unica molla profonda dell'amore. " La temperanza è l'amore che si offre integro alla persona che ama, la fortezza l'amore che tollera tutto facilmente per la persona amata, la giustizia l'amore che serve solo all'amato e perciò domina rettamente tutto il resto, la prudenza l'amore che sceglie con sagacità e distingue le cose da cui è aiutata da quelle che lo impediscono ". Si tratta evidentemente, spiega, dell'amore di Dio, perché la virtù non è altro che " il sommo amore di Dio " 6 o, come dice altrove, l'ordo amoris 7.
All'amore la storia dell'umanità, divisa, in forza dell'amore appunto, in due città: " Due amori han creato due città, la città terrena l'amore di sé... la città celeste l'amore di Dio " 8, o, come dice in un altro luogo, la città terrena l'amore " privato ", la città celeste l'amore " sociale " 9, indicando con questi due aggettivi tutto l'abisso che corre tra l'egoismo e la carità.
All'amore la grazia della salvezza concepita come inspiratio dilectionis 10, " sine qua nemo pie vivit et cum qua nemo nisi pie vivit "; un dono tanto prezioso che rende buono e pio chi le possiede e senza il quale nessuno, per quante qualità abbia, può essere pio e buono. Su di esso dunque si gioca tutta la controversia pelagiana. " Da dove negli uomini - si chiede Agostino - la carità di Dio e del prossimo se non da Dio stesso? Infatti, se non proviene da Dio ma dagli uomini, hanno partita vinta i pelagiani; se invece proviene da Dio abbiamo vinto i pelagiani " 11.
La perfezione cristiana, poi, consiste essenzialmente nella carità e si misura dalla carità, la quale salendo di gradino in gradino - da incipiente diventa progredita, da progredita intensa, da intensa perfetta -, segna il salire della vita cristiana e ne indica l'apice 12; anche i doni dello Spirito Santo hanno la loro sintesi nella carità 13, come pure, più in generale, nella carità si riassume tutto l'insegnamento della Scrittura 14.
Ma Agostino va più a fondo. Vede presente negli abissi dello spirito umano l'amore insieme alla verità. Infatti esso, lo spirito umano, " mai non si ricorda di sé, mai non si conosce (anche se non sempre si pensa), mai non si ama " 15. L'amore è inseparabile dallo spirito umano come la verità, come l'essere, il quale, se è, è necessariamente pensante ed amante. Come non si concepisce intelletto senza la verità che lo informi - è la verità che costituisce l'intelletto nella sua natura e nella sua realtà -, così non si concepisce la volontà senza l'amore del bene, perché è quest'amore che la costituisce nell'essere volontà. Volontà e amore sono una stessa cosa, per cui " la volontà retta è un amore buono, la volontà perversa un amore cattivo " 16.

L'amore dunque non opera dal di fuori ma dal di dentro, come il " peso " nei corpi 17. L'intelletto è partecipe della luce divina, la volontà partecipe dell'eterno amore. Dio, che infondendo l'amore nei cuori, opera interiormente, opera nella natura stessa della volontà senza violarne le strutture, cioè fa in modo che il movimento e il peso verso il bene già presente nel profondo dello spirito superi ogni ostacolo e passi dall'amore siziente all'amore fruente.
2) Questioni semantiche
A questo punto vale la pena fermare per un istante l'attenzione sulla varietà, in questo argomento, del linguaggio agostiniano. Volontà, amore, dilezione, dilettazione, gioia, gusto, fruizione, soavità. Ecco alcuni termini che Agostino usa parlando della grazia e che gioverebbe studiare con particolare attenzione. Non essendo possibile farlo, bastino alcune indicazioni.
Agostino identifica la volontà con l'amore: " lo spirito umano è così costituito che mai non si ricorda di sé, mai non s'intende, mai non si ama " 18; identifica, contro l'opinione di altri (sembra di Origene), l'amore con la dilezione: " l'amore non significa se non la dilezione o la carità " 19, e parla pertanto indifferentemente di volontà o amore o dilezione: " la volontà, o l'amore o la dilezione, che è la volontà in tutta la sua forza, perché la nostra volontà, che fa parte della natura del nostro essere, secondo che è sollecitata o incontra degli oggetti che l'attraggono o la respingono, prova delle affezioni differenti " 20.
La dilezione poi genera la dilettazione 21, e questa la compiacenza nella legge di Dio, il gusto, la soavità, la gioia, il godimento o fruizione. La dilettazione non è qualcosa di diverso dalla volontà e dall'amore, come sembrò considerarla Giansenio, ma è la volontà stessa o l'amore che aderendo fortemente al bene supera ogni ostacolo contrario e diventa vittorioso, diventa la delectatio victrix 22, concetto su cui si è tanto equivocato.
Tutto pertanto si riduce all'amore. Giova leggere per intero il testo de La città di Dio: " La volontà retta è amore buono, la volontà perversa amore cattivo. Quindi l'amore che aspira ad avere ciò che ama è avidità, quello invece che possiede e si rallegra è letizia; se fugge da ciò che lo contraria è timore; se avverte ciò che lo colpisce è tristezza. Questi sentimenti sono cattivi se è cattivo l'amore, buoni se l'amore è buono " 23.
Sarebbe lungo qui definire la nozione dei singoli effetti psicologici che accompagnano la dilettazione (soavità, gusto, gioia, godimento, fruizione); dirò subito che uno di essi, la soavità, è fondamentale per capire l'azione della grazia, che è insieme efficace e " liberale ".

2. L'amore fonte di libertà

Il discorso fatto finora è preludio a quello che segue. Agostino, dopo aver ricondotto tutta l'attività umana all'amore, indica nell'amore la via per conciliare insieme la libertà e l'attrazione operante di Dio o, come noi siamo soliti dire, la libertà e la grazia efficace; indicando così la soluzione del problema " difficilissimo e a pochi intelligibile ".
L'indicazione ci viene a proposito del commento alla parola più forte insieme e più profonda che S. Giovanni usa nei riguardi della grazia operante: nisi Pater qui misit me traxerit eum (Gv 6,44). Agostino ne nota la fortezza: Non dixit: duxerit; sed traxerit 24: Non ha detto: se il Padre mio non lo conduce, ma se non l'attira. In questa forte parola prevede che i lettori trovino una difficoltà, e ammonisce: Noli te cogitare invitum trahi; trahitur animus et amore 25: non pensare di essere attratto contro la tua volontà: l'animo è attratto anche dall'amore. Dove, insieme alla difficoltà, c'è anche la soluzione. L'amore, essendo atto essenziale della volontà, non può essere mai contro la volontà: chi agisce amando, non agisce mai contro la sua volontà. Difficoltà e soluzione vengono riproposte ed esplicitate subito dopo. Dice Agostino: " Non dobbiamo temere il giudizio di quanti stanno a pesare le parole, ma sono incapaci d'intendere le cose di Dio; i quali, di fronte a questa affermazione del Vangelo, potrebbero dirci: quomodo voluntate credo, si trahor? ". Prima di sentire la risposta, cerchiamo di capire la difficoltà. Il quomodo voluntate credo, si trahor? significa qui: come credo di mia propria volontà, di mia iniziativa, liberamente, senza costrizione, se vengo attratto? O in forma negativa: come non credo contro voglia - l'oratore aveva detto poco prima: nolite cogitare invitum trahi -, se vengo attratto? Inutile dire che Agostino imposta il problema della libertà della fede di cui aveva parlato poco prima concludendo che l'uomo può far molte cose non volendo, ma: credere non potest nisi volens 26. E' il nemo credit invitus di cui abbiamo parlato 27. Questo problema gli viene riproposto dalle parole evangeliche che sembrano metterlo in forse.
Quale la risposta? Ecco le sue parole: Ego dico: parum est voluntate, etiam voluptate traheris 28. Parole chiare e oscure insieme. Che cosa vogliono dire? Non certamente che la voluntas e la voluptas sono due forze parallele che portano a Cristo anche se la prima è insufficiente; ma piuttosto che non basta parlare di volontà se non si parla anche di " voluttà " o piacere. E' il piacere infatti che muove la volontà e opera l'attrazione. " E' poco parlare di volontà, quando non si parli anche, a proposito di attrazione, di piacere. Che significa - continua Agostino - essere attratti dal piacere? Metti il tuo piacere nel Signore, ed egli soddisferà i desideri del tuo cuore. Esiste anche un piacere del cuore, per cui esso gusta il pane celeste ".
Lo conferma la citazione di Virgilio: " Se il poeta ha potuto dire: Ciascuno è attratto dal suo piacere, non dalla necessità ma dal piacere, non dalla costrizione ma dal diletto; a maggior ragione possiamo dire che si sente attratto da Cristo l'uomo che trova il suo diletto nella verità, nella beatitudine, nella giustizia, nella vita eterna, in tutto ciò, insomma, che è Cristo " 29.
L'attrazione del Padre non viola, dunque, la libertà perché opera attraverso l'amore. Ora l'amore, muovendo dal di dentro, secondo la natura stessa della volontà, non si oppone ma s'identifica con la libertà. E' libero solo chi agisce per amore; per amore, non per timore: questo non allarga ma restringe gli sforzi della libertà. Infatti la libertà esclude il timore 30. Perciò " le opere buone debbono esser fatte non per timore ma per amore, non per paura della pena ma per la dilettazione della giustizia. Ipsa est enim vera et sana libertas " 31.
A questo proposito il nostro autore ha creduto bene di coniare un principio: liber facit qui libens facit 32: agisce con libertà chi agisce con amore. La conseguenza è che la legge dell'amore è la legge della libertà: lex caritatis lex libertatis 33.
Vale la pena di riportare un testo anche se lungo nel quale Agostino difende e dimostra che la grazia non toglie ma conferma la libertà dell'arbitrio. " Per la legge si ha la cognizione del peccato, per la fede l'interpretazione della grazia contro il peccato, per la grazia la sanazione dell'anima dal vizio del peccato, per la sanazione dell'anima la libertà dell'arbitrio, per il libero arbitrio l'amore della giustizia, per l'amore della giustizia l'osservanza della legge. Come dunque la legge non si elimina, ma si conferma per la fede, perché la fede impetra la grazia di poter praticare la legge, così il libero arbitrio non si elimina per la grazia, ma si conferma, perché la grazia risana la volontà con la quale si ami liberamente la giustizia " 34.
Per approfondire il principio del liber facit qui libens facit Agostino insiste sulla suavitas frutto della grazia e origine della libertà, coniando anche qui un'espressione che può essere presa come emblematica della sua dottrina sulla grazia operante e cooperante: la liberalis suavitas amoris 35; la soavità dell'amore che genera la libertà.
Commentando le parole del Salmo 118,103 (Quanto sono dolci al mio palato le tue parole; sono alla mia bocca più gradite del miele), scrive: " Questa è la soavità che Dio dona perché la nostra terra produca il suo frutto; perché, cioè, noi operiamo il bene veramente bene; non quindi per paura di mali temporali ma per l'attrattiva che possiede in se stesso il bene spirituale " 36.
Altrove, parlando sempre al popolo: " Credi e vieni; ama e sei attratto... è dolce, è soave: la stessa soavità ti attrae; ipsa suavitas te trahit " 37. E nelle opere dommatiche la stessa dottrina: Dio opera interiormente affinché " cum ineffabili suavitate credatur " 38.

Dalla soavità la libertà: gli angeli servono Dio con libertà; ma perché con libertà? perché con soavità: liberaliter, quia suaviter 39. Gli esempi soccorrono la teoria: sono celebri quelli delle noci o del ramo verde. " Tu mostri alla pecora un ramo verde, e l'attrai. Mostri delle noci ad un bambino e questo viene attratto: egli corre dove si sente attratto; è attratto da ciò che ama, senza che subisca alcuna costrizione; è il suo cuore che rimane avvinto " 40. Dal sensibile Agostino sale al mondo dello spirito: " Ora se queste cose, che appartengono ai gusti e ai piaceri terreni, esercitano tanta attrattiva su coloro che amano non appena vengono loro mostrate - poiché veramente 'ciascuno è attratto dal suo piacere' -, quale attrattiva eserciterà il Cristo rivelato dal Padre? Che cosa desidera l'anima più ardentemente della verità? " 41.
Non v'è dubbio: è l'amore, la dilettazione, la soavità che assicurano la libertà dell'uomo attratto dalla grazia. Ma ne assicurano anche l'efficacia effettiva? E' quello che vedremo.

3. L'amore fonte d'infallibile efficacia

L'amore non è solo la chiave per capire la libertà dell'uomo che risponde all'azione della grazia, ma la chiave altresì per capire l'infallibilità dell'azione divina. L'insegnamento agostiniano si può riassumere come in un climax in tre affermazioni.
La prima è questa: ancorché conosciamo ciò che dobbiamo fare, nisi etiam delectet et ametur, non agitur, non suscipitur, non bene vivitur 42.
La seconda, non meno importante, è quest'altra: " Tanto più fortemente noi vogliamo qualcosa quanto meglio conosciamo la grandezza della sua bontà e quanto più ardentemente ci diletta " 43.
La terza, infine, la più forte, è quest'altra ancora: Quod amplius nos delectat, secundum id operemur necesse est 44.
La conseguenza è che l'amore, rendendo leggera ogni cosa pesante e dolce ogni cosa amara, assicura il raggiungimento del fine. Esempio classico il martire. Sul martirio Agostino ha parole di profonda teologia e di alta mistica. Eccone un esempio: " I martiri sono i veri e perfetti amanti della giustizia... [il martire] ama, arde, bolle, calpesta tutto ciò che diletta, e passa; si appressa alle cose aspre, orrende, truculente, minac ciose, le calpesta, le spezza, e passa ". " Oh amare, oh andare, oh perire a sé, oh pervenire a Dio! " 45. Queste parole e queste esclamazioni dicono tutta l'ammirazione e l'entusiasmo di Agostino per la fortezza dei martiri e la sua profonda convinzione che davvero omnia vincit amor.
Si può ricordare anche a questo proposito l'esempio della conversione di Agostino stesso. Dopo la drammatica lotta tra la carne e lo spirito, tra gli ideali puramente terreni e quelli altamente sapienziali descritta nel libro VIII delle Confessioni, dopo la lettura d'un passo di San Paolo, scrive: Statim... quasi luce securitatis infusa cordi meo omnes dubitationes tenebrae diffugerunt 46. Fu quella luce di sicurezza che determinò la sua conversione.




Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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04/06/2011 09:48
 
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II

LA GRATUITA' DELLA GRAZIA


Abbiamo seguito Agostino mentre affrontava il difficile tema della libertà dell'uomo e dell'azione divina della grazia; seguiamolo mentre approfondisce l'altro aspetto di questo mistero: la gratuità della grazia, così spesso inculcata dalla Scrittura, soprattutto da S. Paolo, e così cara al vescovo d'Ippona che vede in essa il segno della misericordia divina che non ha limiti.
Anche qui come altrove cominceremo con l'indicare il fondamento biblico a cui il nostro dottore si richiama e a cui vuol restare fedele, anche se spesso quel fondamento offre non piccole difficoltà alla ragione umana; poi indicheremo la dottrina pelagiana e la risposta agostiniana; illustreremo inoltre i tre punti della gratuità della grazia: la giustificazione, l'inizio della fede, la perseveranza finale; come conseguenza di questa gratuità tratteremo la dottrina agostiniana del merito; infine vedremo come Agostino passi incolume tra il " vanto " del giusto e le " scuse " del peccatore, il primo - il " vanto " - escluso dalla grazia, le altre - le " scuse " - non ammesse dalla responsabilità umana nel peccato.

CAPITOLO QUINTO

FONDAMENTO BIBLICO DEL DONO GRATUITO DELLA GRAZIA


Cominciamo da qui, perché da qui comincia Agostino. I testi biblici in proposito sono molti, e si può esser certi che il nostro dottore li ha raccolti tutti. Non solo, ma li ha commentati e ha fatto leva su di essi per difendere contro i pelagiani un aspetto essenziale della grazia: la gratuità.

1. Romani 9, 10-29 nella risposta a Simpliciano

Cominciò appena vescovo con la risposta a Simpliciano, successore di Ambrogio. Simpliciano, succeduto nell'episcopato al suo figlio spirituale 1, scrisse ad Agostino, alla cui conversione aveva molto contribuito 2, per proporgli alcuni dubbi sull'interpretazione della Scrittura. Due di essi riguardavano la Lettera ai Romani, dei quali il secondo verteva sulla pericope 9, 10- 29, cioè sull'elezione divina e sul dono gratuito della fede, questione quanto mai oscura e difficile. Il giovane vescovo d'Ippona 3 che venerava Simpliciano come un " padre " 4, nonostante le difficoltà dell'argomento, si fece un dovere di rispondere. Rispose infatti intessendo il suo discorso su questo principio: " Prima di tutto terrò presente, per consultarla, l'intenzione dell'Apostolo che appare lungo tutta la lettera. L'intenzione è questa: nessuno si glori delle proprie opere; de operum meritis nemo glorietur " 5.
Seguendo questa intenzione e tenendo presente tutta la pericope paolina ed altri passi scritturistici, come la Lettera agli Efesini, la interpreta senza esitazione, anche se dopo lunga indagine, secondo l'assoluta gratuità della grazia che precede tutte le buone opere: le precede attraverso il dono della fede. Osserva che i giudaizzanti, i quali volevano sottomettere i cristiani ai riti giudaici, " non capivano che proprio perché la grazia è evangelica, non è dovuta alle opere, altrimenti la grazia non è più grazia (Rom 11,6) ". La prima grazia è dunque quella della fede: " l'uomo comincia a percepire la grazia da quando comincia a credere a Dio "; questa è minore nei catecumeni, maggiore nei battezzati 6. Esempio di questa elezione divina che dona la fede è Giacobbe che Dio preferì ad Esaù (Rom 9, 10-13), elezione assolutamente gratuita, perché non dipende dalla volontà né dagli sforzi dell'uomo, ma da Dio che usa misericordia (Rom 9,16), cioè dipende dal disegno divino fondato sull'elezione (Rom 9,11): " Perció - commenta Agostino - non è il disegno divino che rimane fermo secondo l'elezione, ma è l'elezione che proviene dal disegno divino: ex proposito electio. Questo disegno è un disegno di misericordia che elargisce il dono della fede prima di ogni merito: ante omne meritum est gratia, poiché Cristo è morto per gli empi " 7.

A questo punto Agostino prende le difese di Esaù. " C'è una questione - scrive - che ci angustia sommamente ed è questa: perché la misericordia non è stata usata nei riguardi di Esaù? " 8. Dov'è una condizione uguale, perché una sorte tanto diversa? Né si può dire che Esaù sia stato " riprovato " perché Dio nella sua prescienza ha previsto la cattiva volontà di lui. Infatti " se per la prescienza di Dio della futura cattiva volontà di Esaù, perché non dire che Giacobbe fu 'approvato' per la prescienza della sua buona volontà futura? " 9. Del resto " chi può dire che all'Onnipotente manchi la maniera di persuadere chiunque perché creda? " 10. Resta dunque da vedere se, quando Dio abbandona (deserit) non chiamando quomodo scit ei congruere ut vocantem non respuat 11, non sia già una pena derivante da un giusto giudizio per quanto occulto 12.
Prima di seguire Agostino in questa faticosa ricerca giova ricordare un passo delle Ritrattazioni. Recensendo quest'opera che stiamo esaminando, dice a proposito della nostra questione: " Nella soluzione di tale questione si è faticato a favore del libero arbitrio della volontà umana, ma vinse la grazia di Dio: vicit gratia Dei " 13. Chi legge attentamente quanto scrisse nella risposta a Simpliciano, non può non essere d'accordo. Faticò molto per trovare una ragione che riponesse nella volontà dell'uomo la distinzione tra gli eletti e i non eletti. Prima di allora - come dirò subito - l'aveva trovata nella volontà di credere e di non credere, ora si accorge che era impossibile: l'Apostolo gli sbarrava la strada. Gliela sbarrava non solo con quella tagliente domanda della 1 Cor 4,7: Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto?; ma anche con le forti parole della pericope della Lettera ai Romani 9,18: Dio usa misericordia con chi vuole e indurisce chi vuole, col conseguente esempio del vasaio che è padrone di fare con la medesima pasta (massa) un vaso per uso nobile e uno per uso volgare (Rom 9,21). Agostino spiega che Dio non indurisce infondendo la malizia, ma non impartendo la misericordia, non spingendo a peccare ma abbandonando l'uomo a se stesso 14. Ma questo non toglie la profondità del mistero. E' chiaro in ogni caso che la distinzione tra " reprobi " e " approvati " sta nell'imperscrutabile disegno di Dio, di fronte al quale l'uomo non può non ricordarsi della sua condizione di uomo peccatore. O uomo, tu chi sei per disputare con Dio? (Rom 9,20).
La luce che può rischiarare e rasserenare un poco la mente umana è una sola: la certezza - una certezza incrollabile che dobbiamo ritenere con fermezza assoluta 15 -, che non c'è iniquità presso Dio 16. Dio non avversa nelle sue creature se non il peccato 17. Ora il genere umano è diventato in Adamo una " massa " di peccato: una quaedam massa peccati 18, cui è dovuta la pena meritata. Questa pena Dio per misericordia la condona a chi vuole, ed aequitate occultissima la esige da chi vuole. Questa divina economia dimostra due cose: " ciò che dobbiamo temere affinché attraverso il timore ognuno si converta a Dio con pietà, e i ringraziamenti senza fine che dobbiamo alla misericordia divina, la quale dimostra nella pena degli uni qual è il dono che fa agli altri " 19. Noterà il lettore questa conclusione pastorale, che è lo scopo ultimo a cui mirano tutte le indagini, anche le più profonde, di Agostino. Ne segue dunque che i " reprobi " non possono che incolpare se stessi, gli " approvati " non possono che rendere grazie a Dio, e così qui gloriatur in Domino glorietur (1 Cor 1,31), che era appunto l'intenzione dell'Apostolo in tutta la pericope.

2. Un cambiamento che Agostino riconosce e confessa.

Ho detto sopra che, studiando la pericope paolina - Rom 9, 10-29 - per rispondere a Simpliciano, quello che sarà il dottore della grazia si accorse che stava commettendo un errore circa la grazia, cioè l'errore di credere che l'inizio della fede derivasse dall'uomo, e quindi dall'uomo il merito cui faceva seguito il dono della giustificazione e delle opere buone.
Si sa che molto si è insistito e molto s'insiste sui cambiamenti del pensiero agostiniano. Giuliano pretese che il vescovo d'Ippona avesse cambiato opinione circa il peccato originale. Alcuni moderni, come il Turmel, il Buonaiuti e il Gross, lo seguono e gli danno ragione 20. Agostino, appellandosi alle sue opere, anche a quelle giovanili, protestò fortemente, affermando di non aver cambiato opinione su questo punto 21: la critica deve dargli ragione 22. Sulla grazia invece confessò candidamente il suo errore, indicando il momento in cui lo riconobbe e lo corresse 23. Di esso del resto sono testimonianza alcune opere scritte prima del 397.
Leggiamo nell'Esposizione di alcune proposizioni della lettera ai Romani: " non predestinò se non colui che previde che avrebbe creduto e avrebbe seguito la sua vocazione " 24; e poco dopo: " il credere è nostro, ma operare il bene è di Colui che dà a coloro che credono lo Spirito Santo " 25. Nel ritrattare le Ottantatré diverse questioni, q. 68, sente il bisogno di avvertire, a proposito di alcune sue osservazioni, che " la misericordia di Dio previene la stessa volontà " 26. Sono alcuni esempi 27.
Invece di proseguire, vale la pena di notare che nelle Diverse questioni a Simpliciano Agostino corresse decisamente questa errata convinzione, che da allora in poi sparisce dai suoi scritti, ma non lo disse esplicitamente: lo dirà nelle Ritrattazioni e poi nelle ultime opere, quando nel suo antico errore scoprirà quello dei monaci provenzali, i quali si appellavano alle sue opere ma non si preoccupavano di progredire insieme a lui nella dottrina 28.
A proposito di questo cambiamento è importante notare che in una questione tanto delicata - la electio gratiae - il pensiero agostiniano si è maturato per ragioni bibliche, non per ragioni polemiche, e si è maturato molto tempo prima - 15/16 anni prima - che scoppiasse la controversia pelagiana e 30/31 anni prima che i monaci provenzali si appellassero alla sua antica dottrina e la facessero propria 29.
Ma forse per intendere meglio l'atteggiamento agostiniano è utile distinguere tre momenti: quello della fede semplice, quello della prima riflessione e quello della maturità. Del primo se ne ha una traccia nella preghiera dei Soliloqui, del secondo nei testi ricordati, del terzo nelle Diverse questioni a Simpliciano. Infatti nella preghiera dei Soliloqui, cominciando, prega Dio così:" Concedimi di pregarti bene, poi d'esser fatto degno ch'io sia esaudito, infine che tu mi liberi " 30. E poco appresso: " Comanda ed ordina ciò che vuoi, ti prego, ma guarisci ed apri le mie orecchie affinché possa udire la tua voce. Guarisci ed apri i miei occhi affinché possa vedere i tuoi cenni " 31. Ed ancora: " Se tu abbandoni, si va in rovina; ma tu non abbandoni perché sei il sommo bene che sempre si è raggiunto se si è rettamente cercato; ed ha rettamente cercato chiunque sia stato da te reso capace di cercare rettamente " 32. E' evidente che Agostino, convertito ma ancora catecumeno, ascrive a Dio l'inizio stesso del suo cammino verso di Lui. Del resto in un altro dialogo di Cassiciaco ascrive apertamente alla preghiera di sua madre la sua conversione: " Io credo senza incertezze ed affermo che per le tue preghiere Dio mi ha concesso l'intenzione di non preporre, non volere, non pensare, non amare altro che il raggiungimento della verità. E continuo a credere che per le tue richieste conseguiremo un bene tanto grande cui abbiamo per i tuoi meriti aspirato " 33. Lo stesso pensiero troviamo nel Dono della perseveranza dove parlando delle Confessioni dice: " Se vi ricordate, con il mio racconto [della conversione] mostrai che mi fu concesso di non perire grazie alle lacrime quotidiane e piene di fede di mia madre " 34. Questa coincidenza tra le prime opere del catecumeno e le ultime del vecchio maestro è molto significativa e ci lascia pensare che Agostino non è mai avaro di sorprese.

3. La grazia è, per definizione, gratuita

Ma se qualcuno pensasse che per sostenere la gratuità della grazia il vescovo d'Ippona si riferisce solo alla pericope di Rom 9, 10-19, avrebbe torto. Egli trova e propone tutti i testi paolini, che non sono pochi. Il primo tra essi, e tante volte citato, è preso dalla stessa Lettera ai Romani 11,6, dove l'Apostolo, parlando del tema della " elezione della grazia ", tema tanto caro ad Agostino, commenta: E se lo è per la grazia, non lo è per le opere; altrimenti la grazia non sarebbe più grazia (Rom 11,6). Il dottore della grazia ripete molte volte le parole paoline, fin da quando comincia la polemica con i pelagiani su questo tema della gratuità 35, e spesso le commenta: " Che cos'è la grazia? Un dono gratuito. Qualcosa che viene regalato, non qualcosa che è dovuto. Se essa ti fosse stata dovuta, il dartela avrebbe significato pagarti un debito, non farti una grazia " 36.
Ma non bisogna equivocare, spiega insistentemente Agostino. Dice al suo popolo con ansia pastorale e chiarezza teologica: " Comune a tutti è la natura, non la grazia. Non si deve reputare grazia la natura [ricevuta]; che se la si considera grazia, è perché anch'essa è donata gratuitamente. Difatti non fu l'uomo, che ancora non esisteva, a meritarsi l'esistenza " 37. " Questa è la grazia. Al di là di quella grazia ordinaria e d'indole naturale per cui noi che non esistevamo diventammo uomini ( grazia non meritata perché non esistevamo), al di là di quella grazia, quest'altra è la grazia più grande: essere diventati suo popolo e pecore del suo pascolo, per l'opera del nostro Signore Gesù Cristo " 38. Ed insiste: " Non consideriamo quindi la grazia della creazione della natura umana, grazia comune ai cristiani ed ai pagani. La grazia più grande è questa: non l'essere stati creati uomini ad opera del Verbo, ma l'essere diventati credenti ad opera del Verbo incarnato " 39.
Non si poteva essere né più espliciti né più incisivi. Nella Predestinazione dei Santi la differenza tra natura e grazia viene espressa in chiave di potere ed avere: il potere appartiene alla natura degli uomini, l'avere alla grazia dei fedeli. " Non tutti hanno la fede (2 Thess 3,2), anche se tutti possono averla...In conclusione, poter avere la fede, come poter avere la carità, appartiene alla natura degli uomini: ma avere la fede, come avere la carità, appartiene alla grazia dei fedeli. Pertanto quella natura che ci dà la possibilità di avere la fede, non distingue uomo da uomo; la fede invece distingue il credente dal non credente " 40.
A sigillo di questo attento insegnamento - che distingue tra natura e grazia e considera anche la natura un dono gratuito (dando in questo ragione a Pelagio), ma vuole che non si confonda e che si affermi, oltre alla natura, anche la grazia, riservando questo secondo nome al dono della salvezza a cominciar dalla fede - possono essere prese le parole della Città di Dio dette degli angeli: " Dio era presente in essi costituendo la natura ed elargendo nello stesso tempo la grazia: simul eis et condens naturam et elargiens gratiam " 41.
L'alioquin gratia iam non est gratia come netta affermazione di gratuità torna così frequentemente nelle opere agostiniane che non vale la pena d'insistere nella vana erudizione delle citazioni 42, mentre è molto più importante seguire il nostro dottore nell'ulteriore approfondimento delle Scritture che gli rivelano nuovi orizzonti.

4. La gratuità della grazia ha per fine la gloria di Dio

Tra questi orizzonti, al primo posto, c'è proprio questo: la gloria di Dio. Il testo chiave è tratto di nuovo da S. Paolo, 1 Cor 1, 30-31 cui va congiunto Ef 2, 8-9. I due testi vengono esposti e difesi nella dottrina della grazia. In essi Agostino vede la rivelazione dell'aspetto più profondo del piano divino della salvezza: ogni uomo giusto deve gloriarsi non nella sua giustizia ma nella giustizia di Dio.
In un discorso al popolo prende in esame due testi biblici: 1 Cor 1,31 di cui stiamo parlando e il Sal 70 ,2. Comincia così: " Siamo stati ammoniti dall'Apostolo che chi si gloria si glori nel Signore e a Lui, il Signore, abbiamo cantato: liberami nella tua giustizia e salvami. Questo è dunque gloriarsi nel Signore, gloriarsi non nella propria ma nella giustizia di Dio... ". I due testi diventano poi il filo conduttore di tutto il discorso. Poco dopo infatti ripete le parole dell'Apostolo e commenta: " Nulla è più al sicuro, nulla è più difeso [che gloriarsi nel Signore]. Se puoi, hai che cosa imparare: se ti sarai gloriato nel Signore non sarai confuso... Infatti colui [il salmista] che non diceva: liberami nella mia giustizia, ma liberami nella tua, aveva detto poco prima: in te ho sperato, Signore, non sarò confuso in eterno ". Spiega poi che gloriarsi nel Signore significa gloriarsi in Cristo crocifisso dove sono tutti i tesori della sapienza e della scienza, e conclude ripetendo ancora i due testi biblici che costituiscono il fondamento della speranza cristiana 43.
Non sarà dispiaciuto al lettore se mi sono trattenuto un poco più a lungo su questo discorso: esso dimostra che Agostino pastore ha sempre presenti i grandi princìpi della grazia e sa tirare da essi le conclusioni necessarie per la pietà cristiana a cui tende la sua sollecitudine di pastore. Lo stesso avviene dell'altro passo, molto simile del resto, della Lettera agli Efesini che va spesso congiunto a Tit 3,5. Dopo aver citato le parole agli Efesini, commenta: " Non credere che lo abbia ricevuto meritando, tu che non avresti meritato se non avessi ricevuto: la grazia precede il merito: non la grazia del merito, ma il merito della grazia... ". Poi, rivolto al Signore: " Tu precedi ogni merito affinché i miei meriti seguano i tuoi doni. Senz'altro tu doni gratuitamente, salvi gratuitamente, tu che non trovi nulla [nell'uomo] per salvarlo e trovi molto per condannarlo " 44. E altrove, commentando un salmo, cita il passo paolino e spiega: " Ebbene, guardiamo alla grazia di Dio non solo per averci egli creati ma anche per averci chiamati alla nuova vita... Devi ringraziare il tuo artefice non per la sola creazione; ascolta un altro intervento, che è pure una creazione. Dice: Non per le opere, affinché nessuno se ne vanti (Ef 2,9). Ma colui che dice: Non per le opere, affinché nessuno se ne vanti, che cosa ha affermato prima? Mediante la grazia voi siete stati salvati attraverso la fede e questo non per opera vostra. Parole dell'Apostolo, non mie. Mediante la grazia siete stati salvati attraverso la fede e questo (cioè l'essere stati salvati attraverso la fede) non per opera vostra. In effetti la semplice menzione della grazia lasciava intendere che non era per opera vostra, ma per escludere ogni altra interpretazione si degnò parlare più apertamente. Dammi un'anima in grado di capire: egli ha detto tutto. Siete stati salvati mediante la grazia. Sentendo la parola grazia intendi gratis. E se gratis, tu non vi hai apportato nulla, non hai meritato nulla, poiché se si fosse trattato d'una qualche ricompensa accordata a meriti [precedenti], non sarebbe stata una grazia ma, appunto, un compenso. Dice: Mediante la grazia siete stati salvati attraverso la fede. Spiegaci un po' queste tue parole in una maniera più chiara a motivo di certi presuntuosi, di certi tipi che cercano di lusingare se stessi e misconoscendo la giustizia di Dio vogliono affermare una loro propria giustizia. Ascolta lo stesso concetto con parole più chiare. Dice: E questo, cioè che siete stati salvati mediante la grazia, non è per opera vostra ma è dono di Dio. Ma potrebbe darsi che anche noi abbiamo fatto qualcosa per meritare i doni di Dio. Dice: Non è dalle opere affinché nessuno se ne glori. E allora? Non siamo noi ad operare il bene? Certo che lo operiamo. Ma come? Con la forza di colui che opera in noi. Con la fede infatti noi facciamo spazio nel nostro cuore a colui che in noi e per nostro mezzo opera il bene. Ascolta in qual maniera tu operi il bene. Di lui infatti siamo fattura, creati in Cristo Gesù per le opere buone, nelle quali dobbiamo camminare (Ef 2, 8-10) " 45.
La lunga citazione, appunto perché lunga, non ha bisogno di commenti per chi vuol conoscere l'aderenza di Agostino, dottore della grazia, alla Bibbia. Nei tre versicoli della Lettera agli Efesini egli trova il fondamento di tre verità che entrano nei tessuti del dono della grazia e del mistero della predestinazione:
1) la nostra salvezza proviene dalla fede, non dalle opere,
2) non proviene dalle opere perché nessuno se ne glori,
3) come uomini nuovi siamo fattura di Dio, creati in Cristo nelle opere buone. Le nostre opere buone, spiega altrove Agostino, non negano la libertà ma suppongono la grazia.
Il ne quis glorietur (Ef 2,9) o (in positivo) qui gloriatur, in Domino glorietur (1 Cor 1,31), se ricorrono spesso negli scritti agostiniani - i testi riportati sopra non sono che un saggio -, nelle ultime opere, quelle sulla questione semipelagiana, che è appunto la questione della gratuità della grazia, assumono un compito decisivo e fondante. In un passo chiave - su di esso, per la sua importanza, tornerò a lungo nella Introduzione all'opera 46 -, dirà che tutta la ragione del grande mistero della predestinazione sta proprio in questo: Dio ha voluto dimostrare che nessuno deve gloriarsi in se stesso: ogni bocca dev'essere ostruita (Rom 3,19) - solo il silenzio adorante di fronte ai giudizi di Dio -, e chi vuol gloriarsi si glori nel Signore 47.
Agostino insiste su questo testo, e non solo su esso, ma su tutta la pericope: 1 Cor 1, 29-31, ripetendo con l'Apostolo le ragioni del piano divino: " Per estirpare completamente la superbia (si noti il motivo spirituale che s'inserisce in quello teologico), piacque a Dio che nessuna carne si gloriasse davanti a lui, cioè nessun uomo. Ma di che cosa non si deve gloriare la carne davanti a lui se non dei propri meriti? E certo meriti poteva averne, ma li ha perduti; e li ha perduti con lo stesso mezzo con cui avrebbe potuto averli, cioè con il libero arbitrio. Per questo non resta a coloro che devono essere liberati nient'altro che la grazia di colui che li libera. Così dunque nessuna carne si glori di fronte a lui " 48.
E' inutile dire che questi testi, e altri di cui è ricco S. Paolo, tornano spesso nelle opere predette e costituiscono la teologia biblica che Agostino va esponendo sull'assoluta gratuità della grazia.
Potremmo fermarci qui, ma giova ricordare esplicitamente un testo che per lui fu il più convincente e lascia pensosi anche noi (1 Cor 4,7), un testo che merita comunque tutta l'attenzione per l'influsso che ha esercitato nella dottrina della grazia.

5. " Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? "

Applicato, come faceva Agostino e come facevano molti al suo tempo 49, al piano spirituale della grazia, il testo paolino aveva un significato profondo e un grosso vantaggio. Conteneva infatti tre verità insieme:
1) l'uomo non ha ragione di gloriarsi in se stesso;
2) non ha ragione perché tutto ciò che possiede lo ha ricevuto da Dio;
3) è Dio che distingue tra uomo e uomo e non è l'uomo con le sue qualità.
Chi ti distingue? Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l'hai ricevuto, perché te ne glori come se non lo avessi ricevuto? (1 Cor 4,7).
Della forza di questo testo per radicare in lui la convinzione dell'assoluta gratuità della grazia, Agostino parla due volte: nelle Ritrattazioni e nella Predestinazione dei Santi.
Nella prima opera lo cita a proposito dell'approfondimento della dottrina dell'Apostolo e del cambiamento di opinione di cui si è detto. " Si è faticato per il libero arbitrio della volontà umana, ma vinse la grazia di Dio ". L'ho ricordato sopra. Ma Agostino continua: " non si poté arrivare se non a capire (ed ammettere) quanto con chiarissima verità disse l'Apostolo ". E cita 1 Cor 4,7. Aggiunge poi la testimonianza di S. Cipriano: " Anche il martire Cipriano, volendo dimostrare tutto questo [cioè quello detto dall'Apostolo nel luogo citato], lo definì con lo stesso titolo [della sua esposizione] dicendo: 'Non dobbiamo gloriarci di nulla, perché nulla è nostro' " 50.
Nella Predestinazione dei Santi non solo riporta tutto il testo delle Ritrattazioni 51, ma dichiara apertamente, per ben due volte, che si era convinto di essere nell'errore " principalmente con questo passo [dell'Apostolo] " 52. A confermare la sua convinzione soccorreva, come si è visto, la testimonianza di Cipriano. Ne riporterò il testo un poco appresso.
Intanto vale la pena di notare la parte singolare di questo testo paolino nelle ultime controversie sulla grazia. Ai monaci di Adrumeto faceva buon gioco per confermare la loro opinione sulla inutilità della correzione fraterna 53; a quelli della Provenza faceva difficoltà per la loro dottrina sull'inizio della fede, difficoltà che superavano facendo un'eccezione alla sua universalità 54. Agostino risponde agli uni e agli altri, conservando al testo biblico il suo significato universale e profondo. Lo vedremo meglio in seguito attraverso la polemica coi pelagiani e semipelagiani.

CAPITOLO SESTO

DOTTRINA PELAGIANA E RISPOSTA AGOSTINIANA


RAgostino aveva scritto molte opere contro i pelagiani sul peccato originale, la impeccantia, la necessità della grazia, la redenzione, quando s'incontrò con un altro aspetto del loro insegnamento, gravemente lesivo, non meno degli altri, della dottrina cattolica: la dipendenza della grazia dai nostri meriti.

1. Pelagio e i pelagiani

Recensendo gli Atti del sinodo aveva trovato questa proposizione, tratta da un'opera di Celestio, discepolo di Pelagio, e contestata al maestro: la grazia di Dio viene data secondo i nostri meriti. Pelagio non riconobbe per sua questa proposizione e la condannò 1, ma poi dichiarò di suo: " Noi... diciamo che Dio dona tutte le grazie a chi è degno di riceverle " 2. Queste parole rendono Agostino perplesso e lo inducono a raccogliere in poche pagine gli argomenti biblici a favore dell'assoluta gratuità della grazia, compresa la grazia della fede, servendosi soprattutto di Paolo, il quale proclamava altamente con l'esempio e la dottrina che non chi è degno riceve la grazia, ma è la grazia che rende l'uomo degno di ricevere il premio e pertanto i meriti dell'uomo sono doni di Dio 3.
A questo punto si poneva il problema del vero pensiero di Pelagio. Agostino, esaminando le opere da lui scritte dopo il sinodo di Diospoli, lo studierà per ciò che riguarda il peccato originale, la natura e la necessità della grazia, tirandone conclusioni negative circa la sincerità dell'autore 4; ma non ci sono opere che studino il problema sotto l'aspetto della grazia che precede ogni merito umano. Ma forse non ce n'era bisogno. Ad Agostino divenne sempre più chiaro che se non Pelagio - lasciamo da parte questa precisazione storica -, almeno i pelagiani facevano dipendere la grazia dai meriti dell'uomo.
Poco dopo gli Atti di Pelagio scrisse la celebre lettera 194 5 per dimostrare la gratuità della grazia. Dando ai monaci di Adrumeto, che vi avevano trovato difficoltà, la chiave interpretativa, dice loro: " Sappiate che quella lettera fu scritta contro i nuovi eretici pelagiani. Questi affermano che la grazia ci viene largita nella misura dei nostri meriti, cosa questa che induce uno a vantarsi non già nel Signore, ma in se stesso, vale a dire nell'uomo, e non affatto nel Signore. Orbene, è proprio questo che è vietato dall'Apostolo " 6.
Qualche anno dopo, nei libri Contro le due lettere dei Pelagiani, non solo appare chiara la dottrina che questi difendevano, ma troviamo anche l'argomento con cui intendevano sostenerla. Questo era di natura strettamente polemica e consisteva nell'accusare di fatalismo chi difendeva il contrario: Sub nomine gratiae fatum asserunt 7, perché, sostenevano, fato fit quod merito non fit 8. Nello stesso tempo appare negli scritti agostiniani la gratuità della grazia come una delle tre grandi verità che la Chiesa cattolica difendeva contro i pelagiani 9.
Non fa dunque meraviglia di trovare nelle ultime opere queste affermazioni: " Quando [i pelagiani] che non sono difensori ma esaltatori e distruttori del libero arbitrio, vengono convinti che la grazia, che ci viene data per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo, non è né la conoscenza della legge divina, né la natura, né la sola remissione dei peccati - si noti questa precisazione agostiniana che dimostra come il dottore della grazia conoscesse bene i tre sensi secondo i quali i pelagiani parlano di grazia - ... essi si volgono a quest'altra tesi: si sforzano di dimostrare con ogni mezzo che la grazia di Dio è concessa secondo i nostri meriti. Essi dicono:'Anche se essa non è concessa secondo il merito delle opere buone, perché è per mezzo di essa che operiamo bene, tuttavia è concessa secondo il merito della volontà buona; infatti la volontà buona di colui che prega precede la grazia e prima ancora c'è stata la volontà di colui che crede: la grazia di Dio che esaudisce segue secondo questi meriti' " 10.
Secondo il metodo allora frequente e dopo, Agostino non cita la fonte precisa di queste parole, ma chi conosce la sua scrupolosità nell'informarsi sulle dottrine che prende a confronto e sull'attenzione che usa per riportarle con esattezza, non può dubitare che questo era l'insegnamento non dirò di Pelagio, ma certamente dei pelagiani 11. Del resto non molto tempo dopo sarà informato da Prospero e Ilario che qualcosa di poco diverso veniva difeso dai monaci provenzali 12.

2. Risposta di Agostino

In ogni modo Agostino s'impegna a rispondere con tutte le risorse del suo arsenale teologico, convinto che si tratti di una delle grandi verità della fede - l'ho detto sopra e lo ripeterò più ampiamente altrove 13 - che costituiscono il fondamento della pietà cristiana. Giova ripetere, anche se superfluo, che quella della pietà era la preoccupazione dominante di Agostino vescovo, che è un grande teologo ma è, prima di tutto, un pastore. Le sue argomentazioni abbracciano tutto il panorama teologico: sono bibliche, liturgiche, patristiche e particolarmente, in questo caso, cristologiche.
1) Le argomentazioni bibliche - mai si dirà abbastanza che le argomentazioni agostiniane sono soprattutto bibliche: la sua teologia è in primo luogo una teologia biblica -, le argomentazioni bibliche, dico, le ho ricordate sopra sia pure a modo di saggio. Qui giova forse riassumerle con un testo tratto da una lettera ai monaci di Adrumeto. Scrive: " Poiché l'uomo carnale gonfio di vanità, sentendosi dire: Chi ti separa, alla domanda dell'Apostolo potrebbe a parole o col pensiero rispondere:'Ciò che mi separa è la mia fede, è la mia preghiera, è la mia giustizia', subito l'Apostolo replica a simili idee e dice: Ma che cosa hai tu che non hai ricevuto? Se poi l'hai ricevuto, perché mai ti vanti come se non lo avessi ricevuto? E' proprio così che si vantano di quello che hanno, come se non l'avessero ricevuto, coloro che credono d'essere giustificati da se stessi e perciò ripongono la propria gloria in se stessi e non nel Signore " 14. Poco dopo, dell'affermazione pelagiana secondo la quale la grazia ci viene data a misura dei nostri meriti, dirà in modo secco e perentorio: omnino falsissimum est 15.
2) Conosciamo pure in sostanza l'argomentazione liturgica. Sappiamo che la liturgia è un luogo preferito del suo insegnamento teologico tanto nella fase espositiva quanto in quella polemica: lo è di fatto nella dottrina del peccato originale con la liturgia del battesimo 16, lo è in quella a favore dell'imperfezione della nostra giustizia contro l'impeccantia di Pelagio 17, lo è in quella della necessità della grazia 18, in quella dell'efficacia della grazia 19, lo diventa anche in questa della gratuità. Il fondo dell'argomentazione è il principio non enunziato ma applicato continuamente da lui: lex orandi legem statuit credendi 20.
Se il peccatore chiede a Dio la conversione, l'incredulo la fede, il giusto la perseveranza, se la Chiesa chiede a Dio che il peccatore si converta, l'infedele creda, il giusto perseveri, vuol dire che conversione, fede e perseveranza sono doni di Dio. Lo vedremo più in particolare tra poco.
2) Intanto giova dedicare un accenno all'argomentazione patristica. Agostino non sentì il bisogno di svolgerla, come fece per esempio con il peccato originale 21. La ragione, a mio parere, sta nel fatto che, a differenza del peccato originale, non ci si appellò in contrario alla testimonianza dei Padri, come appunto sul peccato originale Giuliano, che giunse ad accusare Agostino di novità. Si può aggiungere un'altra ragione: gli argomenti biblici e liturgici gli parvero tanto copiosi ed efficaci che non era necessario indagare sulla fede della Chiesa del passato, la quale aveva sempre predicato la gratuità della grazia, se non con le parole, certamente con la preghiera. Ecco un testo del Dono della perseveranza degno di attenzione. Si riferisce a quelli che sono più lenti e più deboli a capire le dispute teologiche e dice loro di badare di più " a ripetere quelle preghiere che la Chiesa ha sempre custodito dai suoi inizi e sempre custodirà finché abbia fine ogni vita temporale! Infatti su questa verità che ora contro i nuovi eretici siamo costretti non solo a ricordare ma anche a custodire e a difendere con vigore, la Chiesa non ha mai taciuto nelle sue preghiere, anche se in alcuni periodi, quando nessun avversario ve la costringeva, non ritenne opportuno esporla in discorsi " 22.
L'argomento patristico si riduce pertanto a ben poco: a un testo tante volte ripetuto di Cipriano 23, ad uno di Ambrogio 24 e a un terzo di Gregorio Nazianzeno 25. Poco, si dirà, ma dopo le ragioni addotte, comprensibile.
4) Ma dove l'argomentazione agostiniana si estende con particolare compiacenza e con profonda convinzione d'irrefragabilità è sull'aspetto cristologico della grazia, aspetto che ne proclama altamente la gratuità. Chi vuol capire il pensiero di Agostino deve fermarsi a considerare questo argomento che riassume tutti gli altri.
Prima di tutto si deve dire che esso percorre tutta la controversia pelagiana, dalla prima opera all'ultima. Scrive nella prima: Cristo uomo, " così unito con il Verbo di Dio tanto che in forza di questa unione il solo ed unico soggetto fosse insieme figlio di Dio e figlio dell'uomo, non ottenne ciò per i meriti precedenti della sua volontà " 26. Scrive nell'ultima: " La grazia dalla quale gli uomini che rinascono in Cristo sono fatti giusti è la medesima per la quale è nato Cristo, l'uomo giusto ". E poco prima aveva chiesto al suo avversario: " Dimmi, di grazia, con quali opere l'uomo Cristo Gesù meritò questo [di essere Figlio di Dio]; osa garrire per quale divina giustizia lo meritò Egli solo, o, se non osi, confessa finalmente che la grazia viene concessa senza meriti " 27.
Tra queste due opere il discorso su Cristo uomo, esemplare e causa dell'assoluta gratuità della nostra giustificazione, torna ad ogni momento, nei libri, nelle lettere, nei discorsi. Ne parla riferendosi alla grazia in genere e alla predestinazione in particolare. Della predestinazione appresso 28, qui mi sia lecito fermarmi un poco sulla grazia in generale.
Nel De civitate Dei, parlando a Porfirio perché intendessero i suoi discepoli, indica nel Cristo il sommo modello della grazia: summum exemplum gratiae. " Se tu avessi riconosciuto la grazia mediante il Signor nostro Gesù Cristo e la sua incarnazione, con cui ha assunto l'anima e il corpo dell'uomo, avresti potuto scorgere che vi è un sublime modello di grazia ". E poco dopo: " La grazia di Dio non poteva esser fatta valere in una forma più gratuita di quella per cui lo stesso Figlio di Dio, rimanendo in sé fuori del divenire, ha assunto l'uomo e ha dato agli uomini lo Spirito del suo amore con la mediazione dell'uomo " 29.
Nella nota e splendida lettera sulla presenza di Dio, dopo aver parlato " della singolare assunzione dell'umanità in virtù della quale Cristo è divenuto una sola persona col Verbo ", osserva: " Singolare è quindi l'azione [del Verbo] di assumere [la natura umana] e non può essere assolutamente comune ad alcun uomo quanto si voglia eminente per sapienza e per santità. In essa abbiamo una prova assai evidente della grazia di Dio ". Insistendo poi su questo concetto si domanda: " Ora, chi sarebbe tanto sacrilego da osare di affermare che un'anima, col solo libero arbitrio, possa fare in modo di essere un secondo Cristo? In qual modo quindi una sola anima avrebbe potuto meritare, mediante il dono del libero arbitrio comune a tutti gli uomini e proprio della natura umana, di appartenere alla persona del Verbo unigenito senza averlo ottenuto per un privilegio singolare della grazia? " 30.
Parlando al popolo espone la stessa dottrina, anzi, preoccupato di essere chiaro e incisivo, trova spesso, come in questo caso, le formule più brevi e più efficaci. Dice, per esempio: " Per quanto riguarda l'assunzione della stessa natura umana, tutto è grazia, grazia singolare, grazia perfetta: tota gratia, singularis gratia, perfecta gratia ". E aggiunge: " Togli la grazia [dell'assunzione nella persona del Verbo], che cosa sarebbe Cristo se non un uomo, se non quello che sei tu? " 31.
Commentando S. Giovanni dice: " Benché la natura umana non fa parte della natura divina, tuttavia appartiene alla persona dell'unigenito Figlio di Dio per grazia, e per una tale grazia di cui non si può concepire una maggiore né uguale. Nessun merito ha preceduto quell'assunzione e tutti hanno avuto origine da essa " 32.
Ma i testi che mi paiono più luminosi sono due 33. Mi limito a riportare in parte il primo, nel quale, dopo aver proposto una delle sue felicissime formule del mistero dell'incarnazione per cui Cristo è l'utrumque unus, commenta: " Qui viene raccomandata la grazia di Dio, in maniera grandissima ed evidentissima. Infatti che cosa la natura umana ha meritato nell'uomo Cristo per essere assunta in modo singolare nell'unità della persona dell'unico Figlio di Dio? Quale buona volontà, quale desiderio di buoni propositi, quali opere buone precedettero con le quali quest'uomo meritasse di diventare una sola persona con Dio? Forse che prima fu uomo e questo singolare beneficio gli è stato concesso per aver singolarmente meritato presso Dio? No davvero. Da quando cominciò ad essere uomo, non cominciò ad essere altro se non il Figlio di Dio " 34.
Non c'è bisogno di dire che tutto il ragionamento di Agostino, che con tanta profondità e chiarezza non si trova prima di lui, si fonda su tre grandi verità riguardanti la cristologia. Esse sono:
1) la chiara e perfetta nozione del mistero del Verbo incarnato, per cui c'è una sola persona in Cristo: una persona in utroque natura 35;
2) l'impossibilità che l'uomo Cristo potesse in qualche modo meritare l'ineffabile grazia che ricevette, quella di essere una sola persona col Verbo, perché cominciò ad esistere nel momento stesso dell'incarnazione;
3) il Cristo totale, modello e causa della salvezza degli uomini. Dio ha scelto gli uomini per la salvezza in unione a Cristo, anzi, per dir tutto e meglio, in Lui, con Lui, per Lui, e con un solo volere, una sola scelta, un solo decreto.
Ci torneremo a proposito della predestinazione della quale Cristo è il praeclarissimum lumen, ma intanto vale la pena di fare un'osservazione: la dottrina della grazia dipende tutta, per Agostino, dalla visione cristologica della teologia. Avendo posto al centro della teologia questa visione, ne ha tirato poi, senza esitazione, le conseguenze ultime per la dottrina della grazia. Chiave dunque di tutta la dottrina agostiniana della grazia è Cristo, causa, modello e fine della nostra salvezza.



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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04/06/2011 09:53
 
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CAPITOLO SETTIMO

I DONI DELLA SALVEZZA


Lasciando da parte, sia pure con rammarico, il tema cristologico, così caro ad Agostino e ad ognuno che studi il tema che qui c'interessa, vediamo più in particolare i doni della salvezza, affinché la tesi generale della gratuità della grazia appaia in tutto il suo illuminante significato. Il " dottore della grazia ", del resto, non poté limitarsi alla difesa della tesi generale, ma dové scendere, per ragioni polemiche, nei particolari: la giustificazione, l'inizio della fede, la perseveranza finale. Giova seguirlo in questo laborioso ricamo di una dottrina tanto essenziale per la fede quanto insostituibile per la pietà.

1. La giustificazione

Ho esposto altrove le prerogative della giustificazione messe in rilievo dal nostro dottore: l'interiorità, la progressività, la gratuità 1. Le tre prerogative mostrano:
1) le ricchezze interiori della giustificazione: la remissione dei peccati, che è tota et plena, plena et perfecta, la giustizia di Dio con la quale Dio rende giusto l'uomo, la carità che lo Spirito Santo diffonde nei cuori, la deificazione;
2) il cammino della perfezione cristiana che esclude le colpe che impediscono l'ingresso nel regno di Dio, ma non include l'impeccantia, tanto cara a Pelagio, cioè quella perfezione che non renda più necessario il dimitte nobis debita nostra;
3) la misericordia divina che, senza meriti, dona all'uomo la giustificazione e lo conduce alla salvezza escatologica dove, oltre la remissione dei peccati, ci sarà la pienezza della giustificazione.
Qui interessa questo terzo punto e, in particolare, l'inciso: senza meriti. Ma forse il lettore preferisce rileggere nel luogo indicato le pagine dedicate all'argomento. Qui dunque dirò solo, riassumendo, che tutta la preoccupazione di Agostino fu quella di mettere in rilievo il gratis dell'Apostolo: iustificati gratis, gratuitamente, cioè senza meriti precedenti. Vedremo appresso la questione dei meriti; qui interessa capire quel gratuitamente.
Spiegandolo al popolo dice: " Perché grazia? Perché è data gratuitamente. Perché è data gratuitamente? Perché non l'hanno preceduta i tuoi meriti, ma i doni di Dio hanno prevenuto te. Gloria dunque a Colui che ci libera. Tutti infatti hanno peccato e hanno bisogno della gloria di Dio ". Trasferendo poi sul piano esistenziale della pietà questa stupenda dottrina, continua, citando le parole della Scrittura e inserendo le sue: " In te dunque, Signore, ho sperato, non in me; che io non sia confuso in eterno, perché spero in Colui che non confonde. Nella tua giustizia liberami e salvami: poiché non hai trovato in me la giustizia, liberami nella tua; cioè mi liberi quel che mi giustifica, che trasforma l'empio in pio, l'iniquo in giusto, il cieco in veggente, che rialza chi cade, che rallegra chi piange. Questo mi libera, non io. Nella tua giustizia liberami e salvami " 2.
Altrove, e per innumerevoli volte, la stessa insistente affermazione: " giustificati gratuitamente dal sangue di Cristo ", " gratuitamente, cioè per grazia. Infatti non è grazia, se non è gratuita. Poiché niente di buono avevamo compiuto prima, per meritarci tali doni; a maggior ragione, proprio perché non senza motivo ci sarebbe stata inflitta la pena, gratuitamente ci è stato offerto il beneficio. Da parte nostra non avevamo meritato precedentemente nulla, se non di dover essere condannati. Egli, invece, non per nostra giustizia ma per sua misericordia ci ha salvato nel lavacro della rigenerazione. Questa è, dico, la gloria di Dio; e questa i cieli hanno narrato. Questa è, ripeto, gloria di Dio, non tua " 3.
L'uomo giusto può gloriarsi, ma nel Signore, secondo il precetto dell'Apostolo: chi si gloria, si glori nel Signore (1 Cor 1,31). Su questo tema, tanto caro alla teologia e alla spiritualità agostiniana, si veda il commento nel Sermone 160.

2. L'inizio della fede

Difendendo la gratuità della giustificazione, Agostino non poteva non insistere sulla gratuità della fede, che ne è il principio e il fondamento. Il discorso agostiniano sulla fede è ampio, impegnato, determinante. Qui non si tratta della natura e della necessità della fede, che pur sono due tesi fondamentali, l'una nei riguardi della ragione, l'altra nei riguardi della salvezza. La prima infatti, la natura, investe le relazioni tra fede e ragione, sulle quali il vescovo d'Ippona - che aveva superato il razionalismo, che respinge la fede, per abbracciare la fede che non respinge ma invoca la ragione - ha scritto molto. Motto delle sue molte pagine può essere l'affermazione: habet et fides oculos suos 4 e testo l'aureo libretto L'utilità del credere. La seconda invece si può riassumere nel principio: nessuno è stato, è o sarà mai giusto senza la fede 5; principio che ripete senza posa.
Qui interessa la fede come dono. Questa tesi l'aveva ribadita tante volte: era una delle tre grandi verità che la Chiesa cattolica difendeva contro i pelagiani 6. Ma verso la fine della vita ebbe la sorpresa di sentire che i monaci provenzali distinguevano tra inizio della fede e aumento della medesima, attribuendo l'inizio all'uomo, l'aumento a Dio 7. Avvertì in questa distinzione un modo sottile di reintrodurre la tesi cara ai pelagiani 8 e quello stesso errore nel quale egli era caduto per alcun tempo e che aveva scoperto e corretto all'inizio dell'episcopato 9.
Si rimise pertanto al lavoro e scrisse la Predestinazione dei santi. Dice fin dall'inizio: " Dunque in primo luogo dobbiamo dimostrare che la fede che ci fa cristiani è un dono di Dio, sempre che riusciamo a dimostrarlo con precisione maggiore di quanto abbiamo già fatto in tanti e tanti volumi. Ecco la tesi che noi, a quanto vedo, dobbiamo controbattere; secondo i dissenzienti le testimonianze divine che abbiamo utilizzato su questo argomento servono a farci conoscere che la fede in sé e per sé dipende da noi stessi, ma il suo accrescimento lo riceviamo da Dio, come se la fede non ci fosse donata proprio da lui, ma Egli ce l'accrescesse semplicemente per questo merito: che l'inizio è partito da noi ". Osserva, poi, che con questo insegnamento si resta nell'errore pelagiano: " In definitiva non ci si distacca da quell'opinione:'la grazia di Dio viene data secondo i nostri meriti' che Pelagio stesso, nel sinodo episcopale di Palestina, fu costretto a condannare, come attestano gli Atti. Non apparter rebbe cioè alla grazia di Dio il fatto che cominciamo a credere, ma piuttosto l'aggiunta di fede che per quel merito ci viene fornita, in modo che crediamo più pienamente e perfettamente. Quindi saremo noi a dare per primi a Dio l'inizio della fede, affinché ci sia reso in ricompensa l'accrescimento di essa e quanto altro con la fede possiamo chiedere " 10.
Dopo questa impostazione del problema, tutto il libro si svolge nella dimostrazione della tesi proposta: l'inizio stesso della fede, cioè il primo movimento di conversione dell'animo a Dio, è un dono di Dio; è Dio infatti, non l'uomo, che comincia l'opera della salvezza. L'argomentazione è lunga e molteplice: biblica, liturgica, patristica, teologica.
Tutti o quasi tutti i testi biblici sono chiamati a raccolta e schierati in battaglia tanto da costituire un ampio panorama di teologia biblica, la quale, fuori di ogni dubbio, dimostra che la Scrittura insegna che la nostra fede, anche il suo inizio, è un dono di Dio. Lo schieramento biblico comincia con Rom 11,35-36, continua con 2 Cor 3,5; con 1 Cor 4,7; con Gv 6,44; con Ez 11,19; ecc. ecc., e conclude: " Quando dunque il Padre interiormente è udito ed insegna a venire al Figlio, strappa il cuore di pietra e dà un cuore di carne, come promise con le parole del Profeta " 11.
Dopo l'argomento biblico Agostino affronta quello liturgico che, come si sa, ha tanta parte nella dottrina della grazia. Ecco le sue parole a proposito della preghiera della Chiesa per gli infedeli e i persecutori: " Che cosa dunque preghiamo per coloro che non vogliono credere se non che Dio operi in essi anche il volere? E' dei Giudei certo che l'Apostolo dice: Fratelli, la brama del mio cuore e la mia preghiera a Dio è per la loro salvezza. Egli prega per i non credenti, e che cosa prega se non che credano? Infatti essi non potranno conseguire la salvezza in altra maniera. Se dunque la fede di chi prega previene la grazia di Dio, sarà forse vero che la fede previene la grazia anche in coloro per cui si prega che credano? Ma è proprio questo che si prega per essi, affinché a chi non crede, cioè non ha la fede, la fede sia donata " 12.

L'argomento patristico è ridotto al minimo: una citazione di Cipriano, bella ma isolata. Agostino non sentì il bisogno d'indagare il pensiero dei Padri su questo argomento come aveva fatto per il peccato originale 13, e ne spiega la ragione: " ma quale bisogno c'è che noi andiamo a frugare nelle loro opere, dato che prima che sorgesse l'eresia pelagiana non avevano la necessità di sprofondarsi in questa difficile questione per risolverla? Però naturalmente l'avrebbero fatto se fossero stati costretti a rispondere a simili individui. Il risultato è che in alcuni punti dei loro scritti accennano brevemente e di passaggio alla loro opinione sulla grazia di Dio; si trattengono invece sugli argomenti intorno ai quali si svolgeva allora la lotta contro i nemici della Chiesa ". Ma non omette di aggiungere l'immancabile argomento della preghiera: " Quale fosse la forza della grazia di Dio era indicato semplicemente nel continuo ricorso alle preghiere; infatti non s'implorerebbe da Dio di adempiere le cose che Egli ordina di fare, se l'adempierle non fosse un suo dono " 14.
E' invece ampio e smagliante l'argomento teologico tratto dall'incarnazione del Verbo, che è il summum exemplum gratiae. Ne ho parlato nel capitolo precedente, il discorso tornerà appresso a proposito della predestinazione 15, non c'è bisogno di ripeterlo qui. Basti dire che questo costante riferimento cristologico è veramente il segreto della dottrina agostiniana sulla grazia, sulla grazia in genere e, qui, sull'inizio della fede 16. Il bell'argomento termina con queste solenni parole: Humana hic merita conticescant. E continua: " Chiunque troverà nel nostro Capo dei meriti che abbiano preceduto la sua singolare generazione, questi ricerchi anche in noi, sue membra, dei meriti che abbiano preceduto il moltiplicarsi in noi della rigenerazione " 17.

3. La perseveranza finale

Tra i doni della salvezza, quello che costituisce il coronamento di tutti gli altri, è la perseveranza finale. E' la perseveranza che assicura la salvezza e la rende definitiva, indefettibile. I monaci provenzali sostenevano che la perseveranza dipende solo dall'uomo e che Dio, prevedendo nella sua prescienza la perseveranza nel bene, lo predestina alla vita eterna 18. Agostino sostiene che è un dono di Dio. Ne aveva scritto a lungo e molto esaurientemente nella Correzione e grazia 19, ma vi torna sopra per chiarire, approfondire, difendere quella che ritiene, con assoluta certezza, la dottrina cattolica. Aggiunge perciò un altro libro a quello precedente. La tesi che sostiene è questa: " Noi sosteniamo che la perseveranza con la quale si persevera in Cristo fino alla fine è un dono di Dio, e intendo parlare della fine che pone termine a questa vita, che è la sola nella quale esista il pericolo di cadere " 20.
Che la perseveranza finale sia un dono di Dio, anzi un grande dono di Dio - magnum Dei munus 21 - lo aveva dimostrato, come ho detto, nell'opera scritta poco prima sulla Correzione e grazia; lo aveva dimostrato col suo solito metodo della tessitura dei testi biblici da cui scaturisce l'autentico insegnamento della Scrittura.
Ricordiamo alcuni di questi testi. Il primo è la preghiera di Cristo perché non venisse meno la fede di Pietro (Lc 22,32); Agostino commenta: con questa preghiera " che altro chiese se non la perseveranza finale? " 22; infatti non chiese altro se non che avesse nella fede una volontà " liberissima, fortissima, invittissima, perseverantissima " 23. Un altro testo è quello di S. Paolo che prega per i fedeli perché Dio, che ha cominciato in loro l'opera buona, la porti a compimento fino al giorno di Cristo Gesù (Fil 1,3-6). Agostino commenta: con queste parole " che altro promette dalla misericordia divina se non la perseveranza nel bene sino alla fine? " 24.
Un testo ancora di S. Paolo: l'inno degli eletti (Rom 8,31-39), che esprime, commenta anche qui Agostino, la forza del dono della perseveranza 25. In ultimo il testo biblico contestato dai monaci provenzali 26: Fu rapito, perché la malizia non ne mutasse i sentimenti o l'inganno non ne traviasse l'animo (Sap 4, 11). Agostino lo cita nella Correzione e grazia 27, vi torna sopra nella Predestinazione dei Santi 28, e vi accenna ancora nel Dono della perseveranza 29. Egli conosce i dubbi sull'autore e la canonicità del libro della Sapienza 30, ma la canonicità la ritiene con fermezza per l'autorità della Chiesa 31 e la lunga tradizione dei Padri 32. Il testo pertanto conserva il suo valore scritturistico. In ogni caso il suo contenuto è incontestabile. Ogni cristiano sa che, se il giusto muore nella giustizia, avrà la vita eterna; se invece cessa di essere giusto e muore nel peccato andrà in perdizione. Ora il momento della morte non sta nelle nostre ma nelle mani di Dio. Dio dunque, disponendo che il giusto muoia prima di cadere in peccato, gli elargisce il dono ineffabile della perseveranza finale. Non altro che questo dice il testo biblico, della cui appartenenza ad un libro canonico non si deve discutere, del cui contenuto meno ancora 33.
A questo punto stava la dimostrazione, quando Agostino cominciò a dettare il Dono della perseveranza, dove, fin dall'inizio, impostò ancora una volta con estrema chiarezza la tesi ricordata sopra. Per confermarla non ripete quanto aveva detto altrove sull'insegnamento biblico, ma insiste sull'argomento della preghiera.

Seguendo Cipriano commenta il Padre nostro in chiave di perseveranza - è infatti la perseveranza nel bene che il giusto chiede a Dio ripetendo la preghiera del Signore 34 -, e conclude: " Se anche non ci fossero altre testimonianze, questa orazione domenicale basterebbe da sola alla causa della grazia che noi sosteniamo, perché nulla essa ci ha lasciato in cui ci possiamo gloriare come fosse nostro. In realtà anche il fatto di non allontanarci dal Signore l'orazione dimostra che non viene concesso se non da Dio, poiché dichiara che a Dio dev'essere chiesto " 35.
La forza dell'argomentazione è sempre la stessa: non si chiede a Dio ciò che si sa che non viene donato da Dio ma è riposto nel potere dell'uomo, come non si ringrazia di ciò che si sa che non è stato donato da Dio. Ecco le sue forti parole: " E poi, perché si dovrebbe chiedere a Dio questa perseveranza se non è concessa da lui? Non sarebbe forse una richiesta beffarda, se si pregasse dal Signore quello che si sa che Egli non concede, e che quindi, se non è lui a concederlo, è in potestà degli uomini? Così pure sarebbe una beffa e non un rendimento di grazie se si rendesse grazie a Dio di una cosa che Egli non ha donato né compiuto ". Ne tira infine questa severa conclusione: " Ma quello che ho detto sopra 36 lo ripeto qui: Non ingannatevi, dice l'Apostolo, non ci si può prendere gioco di Dio " (Gal 6,7) 37.
Perciò la Chiesa non ha bisogno di tante discussioni in proposito: consideri le sue preghiere e tiri le conclusioni. " Dunque su questo argomento la Chiesa non indugi in laboriose disputazioni, ma attenda alle sue preghiere quotidiane. Essa prega affinché gli infedeli credano: allora è Dio che converte alla fede. Essa prega perché i credenti perseverino: allora è Dio che dona la perseveranza fino alla fine " 38. La trattazione termina con un nuovo riferimento veramente stupendo al motivo cristologico: Cristo causa e modello della grazia 39.
Il discorso agostiniano sulla gratuità della grazia che, come si è visto, si apre a raggiera ed include tutta la vita cristiana dal primo sbocciare dell'amore per mezzo della fede fino all'amore giustificante e all'amore perseverante - tre doni della misericordia che salva -, si chiude o, per dir meglio, si perfeziona e si riapre con due raccomandazioni di fondo: una alla preghiera e un'altra alla fiducia. La perseveranza finale è un dono che non possiamo meritare, ma possiamo e dobbiamo ottenere con la preghiera: Hoc Dei donum suppliciter emereri potest, poiché Dio ha stabilito " di dare alcuni doni anche a chi non prega, come l'inizio della fede; altri soltanto a chi prega, come la perseveranza finale " 40. Alla preghiera vanno congiunte la fiducia e l'abbandono totale a Dio, che sono fonte della nostra sicurezza: Tutiores vivimus si totum Deo damus 41.
Ma di questo più diffusamente al termine della introduzione 42. Qui, per completare il panorama agostiniano, occorre parlare di un altro argomento che sembra opposto a quello trattato finora, eppur necessario.

CAPITOLO OTTAVO

IL MERITO


E' il discorso del merito. Dopo quanto si è detto sui doni della salvezza, sembra superfluo farne uno sul merito. E lo sarebbe in realtà se il nostro dottore non lo avesse fatto egli stesso più volte e a lungo e con grande impegno, non solo per escludere che la grazia venga concessa secondo i meriti, ma anche per chiarire la nozione stessa del merito e sciogliere i problemi che pone. Del resto basta riandare alla storia della teologia per vedere quante discussioni ha suscitato. E spesso, se non sempre, legate al nome di Agostino 1. Il problema lo pone la stessa Scrittura che il nostro dottore, come al solito, si studia di concordare con se stessa 2. Vediamo dunque sia il problema cha la soluzione, e poi vedremo se questa non ponga a noi qualche problema ulteriore.

1. Le due verità della Scrittura

Nei riguardi della vita eterna vi sono nella Scrittura due serie di testi che esprimono due verità apparentemente contrarie: una serie che proclama la vita eterna una grazia, l'altra che la proclama una mercede. Grazia e mercede. Si sa quanto i concetti siano diversi. Come conciliarli? Ecco il problema.
Agostino ha raccolto i testi della prima serie e ne ha fatto il supporto biblico della grande tesi difesa contro i pelagiani: la grazia non ci viene concessa secondo i nostri meriti; perciò la vita eterna è un dono. Ne ho parlato lungamente sopra 3. Ma l'insistenza sulla grazia non fa dimenticare i testi biblici sulla mercede. Il nostro dottore non li occulta, anzi li raccoglie e li schiera in battaglia. Due soprattutto. Ambedue dell'Apostolo che ha tanto parlato della grazia: Rom 2,6: Dio renderà a ciascuno secondo le sue opere - si sa che queste parole sono l'eco di quelle di Gesù nel Vangelo (Mt 16,27) - e di quelle della 2 Tim 4,8: mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà. V'è poi tante volte ricordata nel Vangelo l'idea della mercede (Mt 5,12: Lc 6,23); vi sono le parabole degli operai e dei talenti (Mt 20,1-16; 25,14-30); v'è l'ultimo giudizio che sarà tenuto sulle opere di misericordia (Mt 25,31-46), a cui Agostino si riferisce di continuo 4.
Più in generale si può dire che nel panorama dottrinale agos tiniano il ricorso alla necessità delle opere e quindi al conseguimento della mercede promessa è legato in particolare ad un libro, a un testo biblico, ad un'esortazione pastorale. Il libro ha per titolo La fede e le opere. Lo scrisse all'inizio della controversia pelagiana dopo Il castigo e il perdono dei peccati e Lo spirito e la lettera 5, le prime due opere antipelagiane e le più importanti, lo scrisse per rispondere a quelli che sostenevano che per raggiungere la vita eterna bastava la sola fede 6. Il testo biblico è quello della fede quae per dilectionem operatur (Gal 5,6) che il nostro dottore cita in continuazione; mentre l'esortazione pastorale si può riassumere in questo aforisma: Si vis sustinere laborem, attende mercedem 7, o in quest'altro ancora più forte: " Esercitati nelle opere, lavora nella vigna; finito il giorno, chiedi la mercede: finito die, pete mercedem " 8.
Non v'è dubbio che Agostino vede ed urge i due aspetti del problema: grazia e mercede. Non solo li vede, ma mette in rilievo il problema che ne deriva e ne propone la soluzione. Scrive in una delle ultime opere, La grazia e il libero arbitrio: " Da ciò nasce un problema non trascurabile, la cui soluzione dev'essere ricercata con l'intervento del Signore. Se infatti la vita eterna viene data in ricompensa delle opere buone, come dice la Scrittura in maniera estremamente chiara: Dio renderà a ciascuno secondo le sue opere, in qual maniera la vita eterna può essere grazia, dato che la grazia non è assegnata in ricompensa alle opere, ma viene conferita gratuitamente? ". E dopo aver riportato alcuni testi paolini che escludono la mercede quando si tratta di grazia (Rom 4,4; 11,5-6), incalza: " Dunque la vita eterna come può essere una grazia, se si acquista in seguito alle opere? O forse non è la vita eterna che l'Apostolo chiama grazia? Al contrario, egli si è espresso in una maniera che l'identificazione non si può negare; e non c'è bisogno nemmeno di un acuto intenditore, ma soltanto di uno che dia ascolto attentamente " 9.

2. La soluzione: " meritum... gratuitum "

Dopo la chiara posizione del problema ecco la soluzione agostiniana, non meno chiara: " Una tale questione non mi sembra che si possa sciogliere in nessun modo, se non intendendo che anche le nostre stesse opere buone, alle quali si conferisce la vita eterna, appartengono alla grazia di Dio " 10. Dimostra lungamente, testi della Scrittura alla mano, questa affermazione, e conclude: " Pertanto, o carissimi, se la nostra vita buona altro non è che grazia di Dio, senza dubbio anche la vita eterna, che viene data in contraccambio alla vita buona, è grazia di Dio; ed essa pure viene data gratuitamente, perché è stata data gratuitamente la vita buona per la quale quella eterna viene concessa ". Spiegando poi l'espressione giovannea di gratia pro gratia (Gv 1,16), termina così: " Ma questa vita buona per cui viene concessa, è semplicemente grazia; in definitiva questa vita eterna che viene concessa per essa, poiché di essa è premio, è grazia per grazia, come una ricompensa che contraccambia la giustizia. E così si dimostra vero, perché è vero, che Dio renderà a ciascuno secondo le sue opere (Rom 2,6) " 11.
Da questa soluzione nasce l'effato ripetuto molte volte, con vera compiacenza, dal dottore della grazia: Dio, coronando i tuoi meriti, non corona che i suoi doni; effato che ne La grazia e il libero arbitrio, dove problema e soluzione sono proposti esplicitamente, suona così: " Se dunque i tuoi meriti nel bene sono doni di Dio, Dio non corona i tuoi meriti come tuoi meriti, ma come suoi doni " 12. Nella stessa opera, parlando della corona di giustizia che l'apostolo Paolo attendeva, se ne esce in queste interrogazioni che hanno una straordinaria forza persuasiva: " A chi il giudice giusto renderebbe la corona, se il Padre misericordioso non avesse donato la grazia? E come ci sarebbe questa corona della giustizia, se non l'avesse preceduta la grazia che giustifica l'empio? In qual modo si renderebbe come dovuta la corona, se prima la grazia non fosse stata donata come gratuita? " 13.
Ma si avrebbe torto a credere che questa dottrina sui meriti che sono, sì, meriti, ma anche doni della grazia, il vescovo d'Ippona l'abbia maturata gli ultimi anni della sua vita o comunque durante la controversia pelagiana. La troviamo invece, sostanzialmente, nella prima opera in cui approfondì il tema della grazia 14, di cui ho detto sopra 15. La troviamo con la stessa formula delle opere posteriori, nelle Confessioni, per esempio, ove leggiamo: " Chi enumera innanzi a te i suoi veri meriti, che altro ti enumera se non i tuoi doni? " 16. Con la controversia pelagiana questa o formule simili diventano, com'era naturale, più frequenti sia nei libri che nelle lettere che nei discorsi.

Per i libri basti il più volte citato su La grazia e il libero arbitrio. Per le lettere vanno menzionate la celebre 194 e l'altra, meno celebre ma non meno importante, a Paolino di Nola, la 186: nella prima c'è la formula che ho ricordato or ora: " quando Dio corona i nostri meriti non corona altro che i suoi doni " 17; nella seconda c'è una formula semanticamente ancora più felice, quella di merito gratuito: ipsum hominis meritum donum est gratuitum 18. Nei discorsi poi l'insistenza è continua e le formule le stesse 19. Qualche volta prendono un tono più tagliente, come questo: " Dio ti dice: Discuti bene i tuoi meriti, vedrai che sono miei doni " 20. Infine nel commento ai Salmi il testo biblico offre l'occasione di tornare spesso nell'argomento. Un esempio sono le parole del Salmo 102,4: qui coronat te in miseratione et misericordia 21. La ragione di questa insistenza è sempre la stessa, quella che ho ricordato sopra: impedire che l'uomo si glori in se stesso e non in Dio. " Non vantare in alcun modo i tuoi meriti, perchè anche questi tuoi meriti sono doni suoi " 22. " Tuoi sono i peccati, i meriti sono di Dio. A te si deve il castigo; quando invece ti viene dato il premio, Dio corona i doni suoi, non i meriti tuoi " 23.

3. Meriti e giustificazione

Questa dottrina, che riassume, come si è detto, i due aspetti dell'insegnamento biblico, ha per fondamento tutta la dottrina della grazia. Il merito dunque non precede ma segue la grazia, la grazia, dico, che dona la fede e dona la giustificazione. E' la giustificazione, dono di Dio, che costituisce il fondamento del merito: lo fonda, non lo esclude. Ecco un testo breve e perentorio: " I giusti, allora, non hanno merito alcuno? Sicuro che ne hanno, poiché sono giusti, ma non ne hanno avuto alcuno per diventare tali, essendolo divenuti quando sono stati giustificati, come dice l'Apostolo: Sono stati giustificati senza alcun merito precedente e solo per la grazia di lui (Rom 3,24) " 24.
Non ci sono dunque meriti prima della giustificazione, ci sono - e debbono esserci - dopo. E sono meriti certi, perchè legati alla promessa di Dio. Parlando ai fedeli, dopo aver detto che " Dio si è fatto nostro debitore non accettando qualcosa da noi, ma promettendo ciò che gli è piaciuto ", Agostino suggerisce loro di chiedere a Dio il compimento delle sue promesse con queste coraggiose parole: " Rendi ciò che hai promesso, perché abbiamo fatto ciò che hai comandato ". Ma aggiunge subito: " E questo lo hai fatto tu, perché hai aiutato coloro che faticavano " 25. Le parole di questo brano oratorio, soprattutto le prime, sembrano aliene dal dottore della grazia, eppure sono sue. Il discorso poi dev'essere inserito tra quelli pronunciati nel forte della controversia pelagiana 26. Un caso di contraddittorietà? No, un caso, un altro, di sintesi. Il discorso è tutto dedicato a esaltare i doni di Dio: predestinazione, vocazione, giustificazione, glorificazione, ma anche il merito che il giusto acquista presso Dio, per la promessa di Dio, operando il bene. E' la corona iustitiae fondata sul dono della misericordia, di cui si è detto poco sopra.
Altre volte mette a fondamento dei meriti il dono della fede: " ...quel dono da cui partono tutti gli altri doni che si dicono ricevuti da noi per nostro merito, e cioè il dono della fede, lo riceviamo senza nostro merito " 27. Altrove scrive contro i pelagiani: " Non mi resta dunque che attribuire... la stessa fede, che costoro esaltano, non già alla volontà dell'uomo né ad alcun merito precedente, perché da essa hanno origine tutti i meriti buoni, nessuno escluso... " 28.
In uno splendido discorso dommatico sulla fede e le opere o più precisamente " della grazia di Dio e della nostra giustificazione " 29 - si sa che nessuno è tanto dottore come Agostino quando parla - fra i tanti memorabili effati espone anche questo: " Non presumere di conseguire il Regno per la tua giustizia, e non presumere della misericordia di Dio per peccare " 30. Parole cui seguono come spiegazione queste altre: " Nessuno vanti le sue opere prima della fede, nessuno sia pigro nel compiere le buone opere dopo che ha ricevuto la fede. Dio dunque concede il perdono a tutti gli empi, e li giustifica con la fede " 31.

In realtà il testo parla delle opere buone e non, direttamente, delle opere meritorie. Ma si applica molto bene anche a queste. Solo che esso pone due problemi: sulle opere buone, quello della possibilità dell'uomo di compierle senza la fede, di cui ho parlato altrove 32, e sulle opere meritorie, se hanno per fondamento la fede e la giustificazione, di cui è utile fare un cenno qui.
I testi sulla fede ricordati sopra sembrano supporre che basti la fede per meritare davanti a Dio e non sia necessaria la giustificazione come dicono altri testi. Occorre concordare Agostino con se stesso. Non è difficile. Egli intende la fede quae per dilectionem operatur (Gal 5,6) e quindi, parlando dei meriti, non la distingue dalla giustificazione. Tanto è vero che il lungo e bel discorso da cui son tratte le ultime espressioni ha per argomento, come ho detto, la grazia di Dio e la giustificazione.


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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04/06/2011 09:55
 
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CAPITOLO NONO

TRA IL " VANTO " DEL GIUSTO " E LE SCUSE " DEL PECCATORE:
PEROCCUPAZIONI PASTORALI


Né il giusto deve vantarsi della sua giustizia, né il peccatore scusarsi del suo peccato. Passare incolumi in questa strettoia non era facile, ma era pur necessario; necessario per il teologo, più necessario per il pastore. Si sa che il vescovo d'Ippona, quando fa il teologo, pensa sempre al pastore. Non è mai un teologo da tavolino, mai uno " scolastico ".
Ho detto nelle pagine precedenti e in molte altre come egli abbia tenuto stretti, in forma di binomi, termini che sembravano e sembrano dilemmatici, da quelli più generali - ragione e fede, Dio e l'uomo, libertà e prescienza divina - a quelli più vicini al nostro argomento: natura e grazia, grazia e libertà, dono e mercede. Ci resta di vedere l'ultimo binomio, che sembra un dilemma, forse il più difficile, che tocca il fondo della controversia pelagiana, la quale aveva - occorre ricordarlo - una prospettiva eminentemente pratica, pastorale.
Pelagio infatti era tutto preoccupato di togliere al peccatore ogni scusa. Una preoccupazione dunque da saggio moralista che sferza vizi e promuove le virtù. Per questo scopo aveva scritto il De natura. Di quest'opera dice Agostino nella risposta: " Ho letto di corsa, ma non con scarsa attenzione, e da cima a fondo, il libro che mi avete mandato... Ho visto nel libro un uomo acceso di zelo ardentissimo contro coloro che, invece d'accusare nei propri peccati la volontà umana, cercano piuttosto di scusarla, accusando la natura umana " 1.
Il vescovo d'Ippona invece era tutto preoccupato di togliere al giusto ogni motivo di vanto. Due parallele dunque? Un dialogo in cui ognuno non faceva che ripetere i suoi argomenti? No. E la ragione sta in questo: mentre Pelagio, volendo indurre il peccatore a riconoscere il suo peccato, dimenticava la grazia o la riconduceva alla stessa natura dotata di libero arbitrio - per questo il nostro dottore chiama il suo zelo poco illuminato: non secundum scientiam (Rom 10,2) -, Agostino non dimenticava l'altra parte del problema: toglieva, sì, al giusto ogni motivo di vanto, ma non offriva al peccatore motivi di scusa. In conclusione: la visione di Pelagio, come quella di tutti coloro che hanno suscitato eresie nella Chiesa - Ario, Nestorio, Lutero -, era unilaterale, quella di Agostino no: egli vedeva i due aspetti del problema e li riaffermava e li riconduceva all'unità mediante la sintesi che cerca e trova il veritatis medium. Vediamo come.

1. Il problema

La difficoltà è ovvia: ognuno la vede. Se i peccati sono dell'uomo, perché i meriti sono di Dio? Eppure abbiamo inteso il nostro dottore riaffermare drasticamente l'uno e l'altro: " i peccati sono tuoi, i meriti sono di Dio " 2. Se è giusto che siano dell'uomo i peccati, perché non attribuire ad esso anche i meriti? Era la conclusione dei pelagiani, i quali, facendo perno sul libero arbitrio, attribuivano appunto all'uomo il merito per potergli attribuire, senza possibilità di replica, anche la responsabilità del peccato. Nessuno vorrà dire che mancassero di logica. Nelle parole di Agostino, ricordate or ora, abbiamo colto la preoccupazione dominante di Pelagio. Nel sinodo di Diospoli gli fu contestata questa proposizione: Tutti sono governati dalla propria volontà. Pelagio si difese con queste parole: " Questo l'ho detto per il libero arbitrio, al quale Dio presta il suo aiuto nello scegliere il bene. Quando invece l'uomo pecca, sua è la colpa, dotato com'è di libero arbitrio " 3. La cura e l'attenzione di Pelagio erano tutte raccolte su quest'ultima affermazione. Perciò sosteneva l' impeccantia, negava la necessità della grazia, insegnava - se non lui, certamente i suoi - che la grazia segue non precede i meriti 4. La linea dottrinale era logica e chiara: se è propria dell'uomo la colpa quando pecca, è proprio dell'uomo il merito quando opera il bene.
Al lato opposto la conclusione opposta: se di Dio è il merito, perché non attribuire a Dio anche la colpa, liberando l'uomo dalla scomoda responsabilità del peccato? La conclusione, come si sa, la tiravano i manichei, dei quali il giovane Agostino aveva accettato la dottrina 5.
Egli dunque, ritornato alla fede cattolica e diventatone per dovere di ministero e per impegno pastorale difensore, non si trovò solo di fronte ad insegnamenti diversi della Scrittura che bisognava pur riconoscere e concordare, ma anche di fronte a correnti diverse di pensiero, una apertamente opposta alla Chiesa, un'altra sorta dentro di essa. E' facile immaginare quale fu il suo atteggiamento; duplice: riaffermare i due insegnamenti biblici e mostrare come non fossero inconciliabili tra loro. Questo esigevano le sue convinzioni teologiche e le sue responsabilità pastorali. Infatti, solo accettando insieme i due insegnamenti, quello che esclude il " vanto " del giusto e quello che esclude a sua volta le " scuse " del peccatore, i fedeli possono vivere una vita autenticamente morale e cristiana. Se per assicurare la responsabilità del peccatore nel peccato si dovesse indurre il cristiano a considerare merito proprio l'essere stato giustificato e il vivere nella giustizia, non solo si negherebbe una verità fondamentale della fede ma si fomenterebbe anche il detestable vizio dell'orgoglio, che è la negazione di ogni religione. Se poi, al contrario, per dare a Dio la gloria delle opere buone che l'uomo compie, si dovesse attribuirgli anche i peccati che questi commette, si negherebbe sia la giustizia divina che l'ordine morale.

2. I due termini del problema

Agostino dunque riafferma energicamente i due termini del problema. Lo abbiamo visto sopra sia nella difesa contro i manichei della responsabilità del peccatore nel suo peccato 6, sia nella difesa contro i pelagiani del dono della grazia che impedisce all'uomo di gloriarsi delle opere buone 7. Forse non è inutile ricordare alcune espressioni, tra le più drastiche e le più forti, di questa duplice difesa.
Ecco le parole che suggerisce al peccatore nei riguardi del proprio peccato. Non cerchi scuse, gli dice, ma dica soltanto: " Dio mi ha creato con il libero arbitrio: se ho peccato, io ho peccato... io, io; non il fato, non la fortuna, non il diavolo, perché neppure esso mi ha costretto, ma io ho acconsentito a chi tentava di persuadermi " 8. Queste parole non ricorrono una volta sola nei discorsi agostiniani 9. Non c'è bisogno, poi, ricordare né la dura esperienza personale di Agostino descritta drammaticamente nelle Confessioni 10, né le opere, tra le prime, come Il libero arbitrio e Le due anime contro i manichei.
Per quanto riguarda le opere buone, che sono, sì, frutto del libero arbitrio, ma prima di tutto e soprattutto della grazia, basta ricordare l'insistenza e la compiacenza con le quali ripete le parole di Cipriano: Non dobbiamo gloriarci di nulla, perché nulla è nostro 11.
Per stringere, poi, più da vicino le due affermazioni, oltre le parole citate poco sopra - " i peccati sono tuoi, i meriti sono di Dio " 12 - si possono ricordare queste altre: " Per volontà propria cade chi cade, per volontà di Dio sta in piedi chi sta in piedi: Voluntate sua cadit, qui cadit; et voluntate Dei stat, qui stat " 13, e queste altre ancora, scritte in una lettera a Firmo, scoperta e pubblicata di recente: " Se ubbidisci ai veri e salutari precetti [del Signore] è opera della sua grazia, se non ubbidisci è tua colpa: veris salubribusque praeceptis si obtemperes, eius est gratiae, si non obtemperes tuae culpae " 14.
A questo punto urge sapere quale via di conciliazione indichi il vescovo d'Ippona a queste due affermazioni tanto fra loro contrastanti e tanto spesso ricordate a distanza ravvicinata quasi a metterne in rilievo, con la forza dell'antitesi, il contrasto.

3. La soluzione

La soluzione la trova nella creaturalità dell'uomo e nella sua mutabilità. Vale la pena di riportare un testo, anche se un po' lungo, della prima opera scritta contro i pelagiani. " A peccare non veniamo aiutati da Dio, ma senza essere aiutati da Dio non possiamo fare quello che è giusto o adempiere in pieno la legge della giustizia ". E aggiunge un esempio chiarificatore: " Come infatti l'occhio corporale non è aiutato dalla luce perché chiudendosi si distolga e si allontani da lei, ma per vedere viene aiutato dalla luce e non può vedere se la luce non l'aiuta, così Dio, che è la luce dell'uomo interiore, aiuta l'intuito della nostra mente perché operiamo alcunché di buono, non secondo la nostra giustizia, ma secondo la sua. Viceversa allontanarci da Dio dipende da noi: allora seguiamo i desideri della carne, allora acconsentiamo alla concupiscenza della carne per atti illeciti. Dio dunque ci aiuta, se convertiti a lui; ci abbandona, se convertiti ad altro ". Ma aggiunge concludendo e riassumendo gran parte della dottrina della grazia: " Ma ci aiuta pure perché ci convertiamo a lui: un aiuto che certamente questa luce terrena non presta agli occhi del corpo " 15.
Chi poi volesse trovare la radice metafisica della dottrina illustrata qui con un esempio, dovrebbe riferirsi alla Città di Dio. Tutti sanno con quanto impegno filosofico-teologico sia stata scritta quest'opera. In essa ricorda ancora una volta il luminoso principio della salvezza che quando s'incontra nelle opere agostiniane - e si trova moltissime volte 16 - bisogna metterlo in rilievo, perché molti pensano che non sia suo, mentre è suo ed è fondamentale. Il principio è questo: " L'anima non abbandona Dio perché è stata abbandonata da Lui, ma al contrario: è abbandonata perché ha abbandonato; non v'è dubbio che la sua volontà è la prima nei confronti del male mentre è prima nei confronti del bene la volontà del suo creatore, sia nel crearla dal nulla, sia nel rianimarla quando si era perduta nel cadere " 17. Ne segue dunque che quando la volontà pecca, la colpa è sua, quando opera il bene è dono di Dio.

La stessa idea viene ribadita e approfondita altrove, là dove raccomanda alla " città celeste, pellegrina sulla terra ", d'imparare a non riporre la sua fiducia nel proprio libero arbitrio che può allontanarsi dal bene, ma nell'invocare il nome del Signore. Ed eccone la ragione metafisica. " La volontà infatti, nella sua natura, creata buona da Dio buono, ma mutabile... in quanto tratta dal nulla, può anche allontanarsi dal bene per fare il male, e ciò lo compie [solo] il libero arbitrio, e può allontanarsi dal male e fare il bene, e questo non è possibile senza l'aiuto di Dio " 18.
Ho sottolineato le parole su cui vorrei richiamare l'attenzione del lettore, perché contengono, a mio giudizio, la radice della soluzione agostiniana. L'uomo ha di suo l'essere creato dal nulla, e quindi la limitazione, la mutabilità, la defettibilità da cui deriva per necessaria conseguenza la possibilità (la possibilità, non la necessità) della defezione dal bene, ché questo è il peccato. Scrive in una delle ultime opere: " Ci si chiede [dai manichei] - Agostino aveva ripetuto ancora una volta che tutte le cose sono buone - allora da dove l'origine del male? Rispondiamo: dal bene, ma non dal sommo, immutabile Bene. Il male è derivato dai beni inferiori e mutevoli... La natura è la stessa sostanza capace di bontà o di malizia. E' capace di bontà per la partecipazione al Bene da cui è stata fatta; è capace invece di malizia non per la partecipazione al male, ma per la privazione di un bene. In altre parole, la natura acquisisce un male non in quanto si mescola ad una natura che è un male - nessuna natura infatti in quanto tale è male -, bensì in quanto deflette dalla natura che è sommo ed immutabile Bene, e questo perché non da essa è stata tratta, ma dal nulla. Se non fosse mutevole, d'altronde, la natura non potrebbe neppure avere la cattiva volontà. La natura, in verità, non avrebbe potuto essere mutevole se fosse derivata direttamente da Dio e non fosse stata tratta dal nulla. Per questo, Dio creatore delle nature è creatore di cose buone; la loro spontanea defezione dal bene indica non da chi sono state create, ma da che cosa sono state tratte. E questo non è un qualche cosa perché è assolutamente nulla " 19.
Peccando dunque la volontà indica non da chi è stata creata, ma da dove è stata creata: questa la ragione perché la volontà può da sola (non senza, si capisce, che Dio la conservi nell'essere) tutto ciò che è negativo, e perché non può compiere il bene, che è positivo, senza l'aiuto di Dio. La metafisica dà conforto all'espressione oratoria: i peccati son tuoi, i meriti sono di Dio 20 e assicura l'unità del pensiero.
Questa stessa filosofia, che gli era sempre presente a causa della controversia manichea, unita ad un testo evangelico che dice: Chi proferisce menzogne parla del suo (Io 8,44) 21, gli suggerirono parole che intese nel vero senso, quello metafisico, sono splendide; prese invece in un senso che non è il loro, quello morale, hanno suscitato timori, distinzioni ed interminabili discussioni 22.
Agostino dunque voleva spiegare al suo popolo che quando l'oratore parla - e si riferiva anche a se stesso -, se dice ciò che viene da Dio, è utile a chi parla e a chi ascolta; le cose invece che vengono dall'uomo non sono che menzogne, perché nessuno ha di suo se non menzogna e peccato.
Ecco quelle parole: Nemo habet de suo nisi mendacium et peccatum. E, spiegando, continua: " Quanto l'uomo possiede di verità e di giustizia, proviene da quella fonte, di cui dobbiamo essere assetati in questo deserto, se vogliamo come da alcune gocce di rugiada esserne irrorati e ristorati durante la nostra peregrinazione, e così non venir meno nel cammino, e pervenire là dove la nostra sete sarà placata e saziata. Se dunque chi proferisce menzogne, parla del suo (il testo evangelico lo aveva citato anche poco prima), chi proferisce la verità, parla di ciò che è di Dio: qui loquitur veritatem de Deo loquitur " 23.
A chi legga queste parole senza preoccupazioni estranee, risulta chiaro che hanno un significato metafisico. Lo confermano il principio di partecipazione che viene esplicitamente ricordato e il testo biblico che fece sempre grande impressione ad Agostino, perché in una maniera incisiva e drastica conferma il principio suddetto e ricorda una grande luminosa verità sull'uomo; sull'uomo che deve salutarmente convincersi di avere da Dio tutto ciò che ha - l'essere, la verità, l'amore 24 - e che non ha di suo se non quanto è negativo: il nulla, la menzogna, il peccato.

Agostino torna spesso sul testo biblico 25 e qualche volta con tanta ricchezza di eloquio, con tanta chiarezza e profondità di pensiero da stupire 26. Del resto egli ne è tanto convinto e ne tira profondamente le conseguenze per se stesso, tanto che, terminando la celebre opera su La Trinità, fa a Dio questa umile, commovente preghiera: " Signore, Dio unico, Dio- Trinità, tutto ciò che ho detto in questi libri di tuo, riconoscilo tu e lo riconoscano i tuoi; se ho detto qualcosa di mio, perdonalo tu, lo perdonino i tuoi. Amen. " 27: se ho detto qualcosa di mio, ho bisogno del tuo perdono e di quello dei tuoi figli. Nulla di più bello, nulla di più profondo!
Eppure l'effato ricordato sopra -- Nemo habet de suo nisi mendacium et peccatum -, che il Concilio Arausicano II fece proprio nel can. 22 il quale parla appunto de iis, quae hominum sunt propria 28, ha dato occasione ad accese quanto inutili discussioni e a ingiustificati timori. Questi sono arrivati fino ai nostri giorni 29.
Chi ne volesse sapere la ragione non la cerchi nel testo agostiniano che, preso nel suo significato metafisico, tanto nel Commento a S. Giovanni, da cui il Concilio l'ha tratto, quanto altrove, è limpido e chiaro; ma la cerchi nelle controversie baiane e gianseniste nelle quali il senso del testo fu trasferito dal piano metafisico a quello morale quasi in esso si trattasse delle capacità naturali dell'uomo di operare il bene senza la grazia. Questo spostamento ha falsato il testo e ha dato occasione a discussioni senza fine e senza conclusioni. E' uno dei tanti incidenti capitati all'agostinismo.
Riportare qui quelle discussioni è inutile. Basta dire che non hanno nulla a che fare col nostro testo. Chi volesse conoscere il pensiero di Agostino sulla questione posta dal giansenismo deve ricorrere ad altri testi 30.
E' fuorviante pertanto citare le proposizioni baiane o gianseniste che insistono nel dire che tutte le opere degli infedeli sono peccati o che il libero arbitrio senza la grazia non vale se non a peccare, quasi per ammonire che le parole agostiniane potrebbero ma non debbono essere intese in quel senso; questo vuol dire che si continua su di un filone interpretativo che non è quello agostiniano ed è senza uscita.
La questione dunque è tutt'altra, e precisamente quella che ci tiene occupati: perché l'uomo debba incolpare sé del peccato e lodare Dio del bene che compie. Agostino chiede la soluzione proprio alle parole evangeliche: de suo loquitur. Se l'uomo non ha di suo che la menzogna - e ogni peccato è menzogna - non può non sentirsi in colpa se pecca, non può non lodare Dio se opera il bene.
Ma è forse meglio, concludendo, rileggere un testo agostiniano, anche se lungo. L'ho già ricordato. " Dice il Vangelo: Chi dice menzogna parla del suo. E ogni peccato è menzogna, poiché tutto quanto è contro la legge e contro la verità è menzogna. Che significa allora: Chi dice menzogna parla del suo? Significa: Chi pecca, pecca usando sue risorse. State attenti alla conclusione opposta! Se chi dice menzogna parla del suo, chi dice verità parla per dono di Dio. Per questo altrove è detto: Solo Dio è verace; ogni uomo è menzognero. Con questa sentenza non ti si dice: Avanti pure! Sei uomo, quindi puoi mentire tranquillamente.

Al contrario ti si dice: Se ti riscontri menzognero renditi conto che sei uomo. E se vuoi essere verace bevi alla fonte della verità, e così usciranno dalla tua bocca parole di Dio e non sarai più menzognero. Siccome da te stesso non puoi avere la verità, non ti resta altro che berla alla sua sorgente ". Aggiunge poi due esempi efficacissimi suggeriti e confermati anch'essi dai testi biblici: " Pensa alla luce. Se te ne allontani tu piombi nelle tenebre. Immagina una pietra. Non appena l'allontani dal calore diventa fredda, poiché non ha un calore suo proprio ma è riscaldata dal sole o dal fuoco. E' chiaro, quindi, che non era una sua risorsa innata ciò che la rendeva calda, ma il suo calore proveniva o dal sole o dal fuoco. Così anche tu, se ti allontanerai da Dio ti raffredderai; se ti avvicinerai a Dio ti riscalderai ". Questa infine la conclusione: " E allora, se è vero che non puoi compiere nulla di buono se non sei illuminato dalla luce di Dio e riscaldato dallo Spirito di Dio, tutte le volte che avrai la consapevolezza di compiere il bene, confessalo a Dio e, per non insuperbirti, di' anche tu ciò che diceva l'Apostolo: Che cosa hai tu che non l'abbia ricevuto? (1 Cor 4,7) 31 ".

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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