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ISTRUZIONE "IL SERVIZIO DELL'AUTORITÀ E L'OBBEDIENZA"

Ultimo Aggiornamento: 09/07/2011 15:55
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09/07/2011 15:54
 
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TERZA PARTE

IN MISSIONE


« Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi »
(Gv 20,21)

In missione con tutto il proprio essere, come Gesù, il Signore

23. Il Signore Gesù ci fa comprendere, con la sua stessa forma di vita, che missione e obbedienza si appartengono reciprocamente. Nei Vangeli Gesù si presenta sempre come “il mandato dal Padre a fare la sua volontà” (cf. Gv 5,36-38; 6,38-40; 7,16-18); Egli compie sempre le cose che sono gradite al Padre. Si può dire che tutta la vita di Gesù è missione del Padre. Egli è la missione del Padre.

Come il Verbo è venuto in missione incarnandosi in una umanità che si è lasciata totalmente assumere, così noi collaboriamo alla missione di Cristo e gli permettiamo di portarla a pieno compimento soprattutto accogliendo Lui, rendendoci spazio della sua presenza e, quindi, continuazione della sua vita nella storia, per dare agli altri la possibilità di incontrarlo.

Considerando che Cristo, nella sua vita e nella sua opera, è stato l'amen (cf. Ap 3,14), il sì (cf. 2 Cor 1,20) perfetto detto al Padre, e che dire sì significa semplicemente obbedire, è impossibile pensare alla missione se non in relazione all'obbedienza. Vivere la missione implica sempre l'essere mandati, e ciò comporta il riferimento sia a colui che invia sia al contenuto della missione da svolgere. Per questo senza riferimento all'obbedienza lo stesso termine missione diventa difficilmente comprensibile e si espone al rischio di essere ridotto a qualcosa che fa riferimento solo a se stessi. Vi è sempre il pericolo di ridurre la missione ad una professione da compiere in vista della propria realizzazione e, dunque, da gestire più o meno in proprio.

In missione per servire

24. Nei suoi Esercizi spirituali S'ant'Ignazio di Loyola scrive che il Signore chiama tutti e dice: « Chi vuol venire con me deve lavorare con me, perché seguendomi nella fatica e nella sofferenza, mi segua anche nella gloria ».65 La missione deve misurarsi, oggi come ieri, con notevoli difficoltà, che possono essere affrontate solo con la grazia che viene dal Signore, nella consapevolezza, umile e forte, di essere inviati da Lui e di poter, proprio per questo, contare sul suo aiuto.

Grazie all'obbedienza si ha la certezza di servire il Signore, di essere « servi e serve del Signore », nel proprio agire e nel proprio soffrire. Tale certezza è fonte di impegno incondizionato, di fedeltà tenace, di serenità interiore, di servizio disinteressato, di dedizione delle migliori energie. « Chi obbedisce ha la garanzia di essere davvero in missione, alla sequela del Signore e non alla rincorsa dei propri desideri o delle proprie aspettative. E così è possibile sapersi condotti dallo Spirito del Signore e sostenuti, anche in mezzo a grandi difficoltà, dalla sua mano sicura (cf. At 20,22) ».66

Si è in missione quando, lungi dall'inseguire la propria affermazione, si è in primo luogo condotti dal desiderio di compiere l'adorabile volontà di Dio. Tale desiderio è l'anima dell'orazione (« Venga il tuo Regno, sia fatta la tua volontà ») e la forza dell'apostolo. La missione richiede l'impegno di tutte le doti e di tutti i talenti umani, i quali concorrono alla salvezza quando sono immessi nel fiume della volontà di Dio, che porta le cose che passano nell'oceano delle realtà eterne, dove Dio, sconfinata felicità, sarà tutto in tutti (cf. 1 Cor 15,28).

Autorità e missione

25. Tutto ciò implica che si riconosca all'autorità un compito importante nei confronti della missione, nella fedeltà al proprio carisma. Compito non semplice, né esente da difficoltà ed equivoci. In passato il rischio poteva venire da un'autorità orientata prevalentemente verso la gestione delle opere, con il pericolo di trascurare le persone; oggi, invece, il rischio può venire dal timore eccessivo, da parte dell'autorità, di urtare le suscettibilità personali, o da una frammentazione di competenze e responsabilità che indebolisce la convergenza verso l'obiettivo comune e vanifica lo stesso ruolo dell'autorità.

Questa, tuttavia non è responsabile soltanto dell'animazione della comunità, ma ha pure una funzione di coordinamento delle varie competenze in ordine alla missione, nel rispetto dei ruoli e secondo le norme interne dell'Istituto. Se l'autorità non può (e non deve) fare tutto, è però responsabile ultima del tutto.67

Molteplici sono le sfide che il momento presente pone all'autorità di fronte al compito di coordinare le energie in vista della missione. Anche qui si elencano alcuni compiti ritenuti importanti nel servizio dell'autorità. Essa:

a) Incoraggia ad assumere le responsabilità e le rispetta quando assunte

Ad alcuni le responsabilità possono suscitare un senso di timore. È quindi necessario che l'autorità trasmetta ai propri collaboratori la fortezza cristiana e il coraggio nell'affrontare le difficoltà, superando paure e atteggiamenti rinunciatari.

Sarà sua premura il condividere non solo le informazioni ma anche le responsabilità, impegnandosi poi a rispettare ciascuno nella propria giusta autonomia. Ciò comporta da parte dell'autorità un paziente lavoro di coordinamento e, da parte della persona consacrata, la sincera disponibilità a collaborare.

L'autorità deve “esserci” quando occorre, per favorire nei membri della comunità il senso dell'interdipendenza, lontana tanto dalla dipendenza infantile quanto dall'indipendenza autosufficiente. Tutto ciò è frutto di quella libertà interiore che consente ad ognuno di lavorare e collaborare, di sostituire ed essere sostituito, di essere protagonista e di dare il proprio apporto anche stando nelle retrovie.

Chi esercita il servizio dell'autorità si guarderà dal cedere alla tentazione dell'autosufficienza personale, dal credere cioè che tutto dipenda da lui o da lei, e che non sia così importante e utile favorire la partecipazione corale comunitaria, poiché è meglio fare un passo assieme che due (o anche più) da soli.

b) Invita ad affrontare le diversità in spirito di comunione

I rapidi cambi culturali in corso non solo provocano trasformazioni strutturali che hanno riflessi sulle attività e sulla missione, ma possono dar luogo a tensioni all'interno delle comunità, dove diversi tipi di formazione culturale o spirituale orientano a dare letture diverse dei segni dei tempi e quindi a proporre progetti differenti, non sempre conciliabili. Tali situazioni possono essere più frequenti oggi rispetto al passato, poiché cresce il numero delle comunità costituite da persone che provengono da diverse etnie o culture e si accentuano le differenze generazionali. L'autorità è chiamata a servire con spirito di comunione anche queste comunità composite, aiutandole ad offrire, in un mondo segnato da molte divisioni, la testimonianza che è possibile vivere assieme ed amarsi anche se diversi. Dovrà allora tener fermi alcuni principi teorico-pratici:

– ricordare che, nello spirito del vangelo, il conflitto di idee non diviene mai conflitto di persone;

– richiamare che la pluralità di prospettive favorisce l'approfondimento delle questioni;

– favorire la comunicazione, così che il libero scambio di idee chiarisca le posizioni e faccia emergere il contributo positivo di ciascuno;

– aiutare a liberarsi dall'egocentrismo e dall'etnocentrismo, che tendono a riversare sugli altri le cause dei mali, per arrivare ad una mutua comprensione;

– rendere consapevoli che l'ideale non è quello di avere una comunità senza conflitti, ma una comunità che accetta di affrontare le proprie tensioni per risolverle positivamente, cercando soluzioni che non ignorino nessuno dei valori a cui è necessario fare riferimento.

c) Mantiene l'equilibrio tra le varie dimensioni della vita consacrata

Queste, infatti, possono entrare in tensione tra di loro. L'autorità deve vegliare perché l'unità di vita sia salva e di fatto venga rispettato il più possibile l'equilibrio tra tempo dedicato alla preghiera e tempo dedicato al lavoro, tra individuo e comunità, tra impegno e riposo, tra attenzione alla vita comune e attenzione al mondo e alla Chiesa, tra formazione personale e formazione comunitaria.68

Uno degli equilibri più delicati è quello tra comunità e missione, tra vita ad intra e vita ad extra.69 Dato che normalmente l'urgenza delle cose da fare può indurre a trascurare le cose che riguardano la comunità, e che sempre più spesso si è oggi chiamati a operare come singoli, è opportuno che siano rispettate alcune regole irrinunciabili, che garantiscano al tempo stesso uno spirito di fraternità nella comunità apostolica e una sensibilità apostolica nella vita fraterna.

Sarà importante che l'autorità sia garante di queste regole e ricordi a tutti e ad ognuno che quando una persona della comunità è in missione, o compie un qualsiasi servizio apostolico, anche se opera da sola agisce sempre in nome dell'Istituto o della comunità; anzi, opera grazie alla comunità. Spesso, infatti, se essa può svolgere quella determinata attività è perché qualcuno della comunità ha dato il suo tempo per lei, o l'ha consigliata, o le ha trasmesso un certo spirito; spesso, inoltre, chi rimane in comunità sostituisce in certi lavori di casa la persona impegnata fuori, o prega per lei, o la sostiene con la propria fedeltà.

E allora è doveroso non solo che l'apostolo ne sia profondamente grato, ma resti strettamente unito alla propria comunità in tutto quello che fa; che non se ne appropri e si sforzi ad ogni costo di camminare insieme, aspettando, se necessario, chi procede più lentamente, valorizzando l'apporto d'ognuno, condividendo il più possibile gioie e fatiche, intuizioni e incertezze, perché tutti sentano come proprio l'apostolato d'ogni altro, senza invidie e gelosie. L'apostolo sia certo che, per quanto donerà di sé alla comunità, non pareggerà mai il conto con quello che da essa ha ricevuto e sta ricevendo.

d) Ha un cuore misericordioso

San Francesco d'Assisi, in una commovente lettera ad un ministro/ superiore, dava le seguenti istruzioni circa eventuali debolezze personali dei suoi frati: « E in questo voglio conoscere se tu ami il Signore e ami me servo suo e tuo, se farai questo, e cioè: che non ci sia mai alcun frate al mondo, che abbia peccato quanto poteva peccare, il quale, dopo aver visto i tuoi occhi, se ne torni via senza il tuo perdono misericordioso, se egli lo chiede; e se non chiedesse misericordia, chiedi tu a lui se vuole misericordia. E se, in seguito, mille volte peccasse davanti ai tuoi occhi, amalo più di me per questo: che tu possa attirarlo al Signore; e abbi sempre misericordia di tali fratelli ».70

L'autorità è chiamata a sviluppare una pedagogia del perdono e della misericordia, ad essere cioè strumento dell'amore di Dio che accoglie, corregge e rilancia sempre una nuova possibilità per il fratello o la sorella che sbagliano e cadono in peccato. Soprattutto dovrà ricordare che senza la speranza del perdono la persona stenta a riprendere il suo cammino e tende inevitabilmente ad aggiungere male a male e cadute a cadute. La prospettiva della misericordia, invece, afferma che Dio è capace di trarre un percorso di bene anche dalle situazioni di peccato.71 Si adoperi, dunque, l'autorità perché tutta la comunità apprenda questo stile misericordioso.

e) Ha il senso della giustizia

Se l'invito di san Francesco d'Assisi a perdonare il fratello che pecca può essere considerato una preziosa regola generale, si deve riconoscere che ci possono essere dei comportamenti, nei membri di alcune fraternità di consacrati, che ledono gravemente il prossimo e che implicano una responsabilità nei confronti di persone esterne alla comunità e nei confronti della stessa istituzione cui appartengono. Se occorre comprensione verso le colpe dei singoli, è anche necessario avere un rigoroso senso di responsabilità e carità verso coloro che eventualmente sono stati danneggiati dal comportamento scorretto di qualche persona consacrata.

Colui o colei che sbaglia sappia che deve rispondere personalmente delle conseguenze dei suoi atti. La comprensione verso il confratello non può escludere la giustizia, specie nei confronti di persone indifese e vittime di abusi. Accettare di riconoscere il proprio male, e assumersene la responsabilità e le conseguenze, è già parte di un cammino di misericordia: come per Israele che si allontana dal Signore, l'accettare le conseguenze del male (è il caso dell'esperienza dell'esilio) è il primo modo di riprendere il cammino di conversione e di riscoprire più profondamente il proprio rapporto con Lui.

f) Promuove la collaborazione con i laici

La crescente collaborazione con i laici nelle opere e attività condotte da persone consacrate pone sia alla comunità che all'autorità nuove domande, che esigono nuove risposte. « La partecipazione dei laici non raramente porta inattesi e fecondi approfondimenti di alcuni aspetti del carisma », dato che i laici sono invitati ad offrire « alle famiglie religiose il prezioso contributo della loro secolarità e del loro specifico servizio ».72

È stato opportunamente ricordato che, per raggiungere l'obiettivo di una mutua collaborazione tra religiosi e laici, « è necessario avere comunità religiose con una chiara identità carismatica, assimilata e vissuta, in grado cioè di trasmetterla anche agli altri con disponibilità alla condivisione: comunità religiose con un'intensa spiritualità e dall'entusiasta missionarietà per comunicare il medesimo spirito e il medesimo slancio evangelizzatore; comunità religiose che sappiano animare e incoraggiare i laici a condividere il carisma del proprio Istituto, secondo la loro indole secolare e secondo il loro diverso stile di vita, invitandoli a scoprire nuove forme di attualizzare lo stesso carisma e missione. Così la comunità religiosa può diventare un centro di irradiazione, di forza spirituale, di animazione, dove i diversi apporti contribuiscono alla costruzione del corpo di Cristo che è la Chiesa ».73

È necessario, inoltre, che sia ben definita la mappa delle competenze e responsabilità, tanto dei laici che dei religiosi, come pure degli organismi intermedi (Consigli di amministrazione e simili). In tutto ciò chi presiede alla comunità dei consacrati ha un ruolo insostituibile.

Le difficili obbedienze

26. Nello svolgimento concreto della missione, alcune obbedienze possono presentarsi particolarmente difficili, dal momento che le prospettive o le modalità dell'azione apostolica o diaconale possono essere percepite e pensate in maniere diverse. Di fronte a certe obbedienze difficili, all'apparenza addirittura “assurde”, può sorgere la tentazione della sfiducia e persino dell'abbandono: vale la pena continuare? Non posso realizzare meglio le mie idee in un altro contesto? Perché logorarsi in contrasti sterili?

Già san Benedetto affrontava la questione di una obbedienza « molto gravosa, o addirittura impossibile ad eseguirsi »; e san Francesco d'Assisi considerava il caso in cui « il suddito vede cose migliori e più utili alla sua anima di quelle che gli ordina il prelato [il superiore] ». Il Padre del monachesimo risponde chiedendo un dialogo libero, aperto, umile e fiducioso tra monaco e abate; alla fine però, se richiesto, il monaco « obbedisca per amore di Dio e confidando nel suo aiuto ».74 Il Santo di Assisi invita ad attuare un'“obbedienza caritativa”, in cui il frate sacrifica volontariamente le sue vedute ed esegue il comando richiesto, perché in questo modo « soddisfa a Dio e al prossimo »;75 e vede un”'obbedienza perfetta” là dove, pur non potendo obbedire perché gli viene comandato « qualcosa contro la sua anima », il religioso non rompe l'unità con il superiore e la comunità, pronto anche a sopportare persecuzioni a causa di ciò. « Infatti – osserva san Francesco – chi sostiene la persecuzione piuttosto che volersi separare dai suoi fratelli, rimane veramente nella perfetta obbedienza, poiché offre la sua anima per i suoi fratelli ». 76 Ci viene così ricordato che l'amore e la comunione rappresentano valori supremi, ai quali sottostanno anche l'esercizio dell'autorità e dell'obbedienza.

Si deve riconoscere che è comprensibile, da una parte, un certo attaccamento a idee e convinzioni personali, frutto di riflessione o di esperienza e maturate nel tempo, ed è anche cosa buona cercare di difenderle e portarle avanti, sempre nella prospettiva del Regno, in un dialogo schietto e costruttivo. D'altra parte, non va dimenticato che il modello è sempre Gesù di Nazareth, il quale anche nella passione chiese a Dio di compiere la sua volontà di Padre, né si tirò indietro di fronte alla morte di croce (cf. Eb 5,7-9).

La persona consacrata, quando le viene richiesto di rinunciare alle proprie idee o ai propri progetti, può sperimentare smarrimento e senso di rifiuto dell'autorità, o avvertire dentro di sé « forti grida e lacrime » (Eb 5,7) e l'implorazione che passi l'amaro calice. Ma quello è anche il momento in cui affidarsi al Padre perché si compia la sua volontà e per poter così partecipare attivamente, con tutto se stesso, alla missione di Cristo « per la vita del mondo » (Gv 6,51).

È nel pronunciare questi difficili “sì” che si può comprendere fino in fondo il senso dell'obbedienza come supremo atto di libertà, espresso in un totale e fiducioso abbandono di sé a Cristo, Figlio liberamente obbediente al Padre; e si può comprendere il senso della missione come offerta obbediente di se stessi, che attira la benedizione dell'Altissimo: « Io ti benedirò con ogni benedizione.... (E) saranno benedette tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce » (Gn 22,17.18). In quella benedizione la persona consacrata obbediente sa che ritroverà tutto quello che ha lasciato con il sacrificio del suo distacco; in quella benedizione è nascosta anche la piena realizzazione della sua stessa umanità (cf. Gv 12,25).

Obbedienza e obiezione di coscienza

27. Può sorgere qui un interrogativo: ci possono essere situazioni in cui la coscienza personale sembra non permettere di seguire le indicazioni date dall'autorità? Può avvenire, insomma, che il consacrato debba dichiarare, in relazione alle norme o ai suoi superiori: « Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini » (At 5,29)? È il caso della cosiddetta obiezione di coscienza, di cui parlò già Paolo VI,77 e che va colta nel suo autentico significato.

Se è vero che la coscienza è il luogo ove risuona la voce di Dio che ci indica come comportarci, è anche vero che occorre imparare ad ascoltare questa voce con grande attenzione per saperla riconoscere e distinguere da altre voci. Non bisogna infatti confondere questa voce con quelle che emergono da un soggettivismo che ignora o trascura le fonti e i criteri irrinunciabili e vincolanti nella formazione del giudizio di coscienza: « è il “cuore” convertito al Signore e all'amore del bene la sorgente dei giudizi veri della coscienza »,78 e « la libertà della coscienza non è mai libertà “dalla” verità, ma sempre e solo “nella” verità ».79

La persona consacrata dovrà dunque riflettere a lungo prima di concludere che non l'obbedienza ricevuta, ma quanto avverte dentro di sé rappresenta la volontà di Dio. Dovrà ricordare, inoltre, che la legge della mediazione va tenuta presente in tutti i casi, guardandosi dall'assumere decisioni gravi senza alcun confronto e verifica. Rimane certo indiscutibile che ciò che conta è arrivare a conoscere e a compiere la volontà di Dio, ma dovrebbe essere altrettanto indiscutibile che la persona consacrata si è impegnata con voto a cogliere questa santa volontà attraverso determinate mediazioni. Dire che ciò che conta è la volontà di Dio, non le mediazioni, e rifiutarle, o accettarle solo a piacimento, può togliere significato al proprio voto e svuotare la propria vita di una sua caratteristica essenziale.

Di conseguenza, « fatta eccezione per un ordine che fosse manifestamente contrario alla legge di Dio e alle costituzioni dell'Istituto, o che implicasse un male grave e certo – nel qual caso l'obbligo dell'obbedienza non esiste –, le decisioni dei superiori riguardano un campo in cui la valutazione del bene migliore può variare secondo i punti di vista. Il voler concludere, dal fatto che un ordine dato appaia oggettivamente meno buono, che esso è illegittimo e contrario alla coscienza, significherebbe misconoscere, in maniera poco realistica, l'oscurità e l'ambivalenza di non poche realtà umane. Inoltre il rifiuto di obbedienza porta con sé un danno spesso grave, per il bene comune. Un religioso non dovrebbe ammettere facilmente che ci sia contraddizione tra il giudizio della sua coscienza e quello del suo superiore. Questa situazione eccezionale qualche volta comporterà un'autentica sofferenza interiore sull'esempio di Cristo stesso che “imparò l'obbedienza dalle cose che patì” (Eb 5,8) ».80

La difficile autorità

28. Ma anche l'autorità può cadere nello scoraggiamento e nel disincanto: di fronte alle resistenze di alcune persone o comunità, di fronte a certe questioni che sembrano irrisolvibili, può sorgere la tentazione di lasciar perdere e di considerare inutile ogni sforzo per migliorare la situazione. Si profila, allora, il pericolo di diventare gestori della routine, rassegnati alla mediocrità, inibiti ad intervenire, privi del coraggio di additare le mete dell'autentica vita consacrata e correndo il rischio di smarrire l'amore delle origini e il desiderio di testimoniarlo.

Quando l'esercizio dell'autorità pesa e si fa difficile, è bene ricordare che il Signore Gesù considera tale compito un atto d'amore verso di Lui (« Simone di Giovanni, mi ami tu? »: Gv 21,16); e diviene salutare il riascoltare le parole di Paolo: « Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, solleciti per le necessità dei fratelli » (Rm 12,12-13).

Il silenzioso travaglio interiore che accompagna la fedeltà al proprio compito, segnato talora dalla solitudine e dall'incomprensione di coloro ai quali ci si dona, diviene via di santificazione personale e mediazione di salvezza per le persone a causa delle quali si soffre.

Obbedienti fino alla fine

29. Se la vita del credente è tutta una ricerca di Dio, allora ogni giorno dell'esistenza diviene un continuo apprendimento dell'arte di ascoltare la sua voce per eseguire la sua volontà. Si tratta, certo, di una scuola impegnativa, quasi una lotta tra quell'io che tende ad essere padrone di sé e della sua storia e quel Dio che è “il Signore” di ogni storia; scuola in cui si apprende a fidarsi così tanto di Dio e della sua paternità, da porre fiducia anche negli uomini suoi figli e nostri fratelli. Cresce così la certezza che il Padre non abbandona mai, nemmeno nel momento in cui è necessario affidare la cura della propria vita alle mani di fratelli, nei quali occorre riconoscere il segno della sua presenza e la mediazione della sua volontà.

Con un atto d'obbedienza, sia pur inconsapevole, siamo venuti alla vita, accogliendo quella Volontà buona che ci ha preferiti alla non esistenza. Concluderemo il cammino con un altro atto d'obbedienza, che vorremmo il più possibile cosciente e libero, ma soprattutto espressione di abbandono verso quel Padre buono che ci chiamerà definitivamente a sé, nel suo regno di luce infinita, ove avrà termine la nostra ricerca, e i nostri occhi lo vedranno, in una domenica senza fine. Allora saremo pienamente obbedienti e realizzati, poiché diremo per sempre sì a quell'Amore che ci ha costituiti per essere felici con Lui e in Lui.

Una preghiera dell'autorità

30. « O buon pastore, Gesù, pastore buono, pastore clemente, pastore affabile, un pastore povero e misero alza il suo grido verso di te, un pastore debole, e inesperto e inutile, e tuttavia un pastore, quale che sia, delle tue pecore.

« Insegna a me tuo servo, o Signore, insegnami ti prego, per il tuo Spirito Santo, come possa servire i miei fratelli e spendermi per loro. Dammi, o Signore, per la tua grazia ineffabile, di saper sopportare con pazienza le loro debolezze, di saper condividere con benevolenza le loro sofferenze, e aiutarli con discrezione. Alla scuola del tuo Spirito possa imparare a consolare chi è triste, a rafforzare i pusillanimi, a rialzare chi è caduto, ad essere debole con i deboli, ad indignarmi con chi patisce scandalo, a farmi tutto a tutti per salvare tutti. Metti sulla mia bocca parole vere e giuste e gradevoli, così che essi siano edificati nella fede, nella speranza e nella carità, nella castità e nell'umiltà, nella pazienza e nell'obbedienza, nel fervore dello spirito e nello slancio del cuore.

« Li affido alle tue sante mani e alla tua tenera provvidenza, perché nessuno li rapisca dalla tua mano né dalla mano del tuo servo al quale li hai affidati, ma possano perseverare con gioia nel santo proposito e, perseverando, ottengano la vita eterna, con il tuo aiuto, o dolcissimo nostro Signore, che vivi e regni per tutti i secoli dei secoli. Amen ».81

Preghiera a Maria

31. O dolce e santa Vergine Maria, Tu all'annuncio dell'angelo, con la tua obbedienza credente e interrogante, ci hai dato Cristo. A Cana Tu hai mostrato, con il tuo cuore attento, come agire con responsabilità. Tu non hai atteso passivamente l'intervento del Figlio tuo, ma lo hai prevenuto, rendendolo consapevole delle necessità e prendendo, con discreta autorità, l'iniziativa di inviare a Lui i servi.

Ai piedi della croce, l'obbedienza ha fatto di Te la Madre della Chiesa e dei credenti, mentre nel Cenacolo ogni discepolo ha riconosciuto in Te la dolce autorità dell'amore e del servizio.

Aiutaci a comprendere che ogni vera autorità nella Chiesa e nella vita consacrata ha il suo fondamento nell'essere docili alla volontà di Dio e che ognuno di noi diviene, di fatto, autorità per gli altri con la propria vita vissuta in obbedienza a Dio.

O Madre clemente e pia, « Tu che hai fatto la volontà del Padre, pronta nell'obbedienza », 82 rendi la nostra vita attenta alla Parola, fedele nella sequela di Gesù Signore e Servo nella luce e con la forza dello Spirito Santo, gioiosa nella comunione fraterna, generosa nella missione, sollecita nel servizio ai poveri, protesa verso il giorno in cui l'obbedienza della fede sfocerà nella festa dell'Amore senza fine.

Il 5 maggio 2008, il Santo Padre ha approvato la presente Istruzione della Congregazione per gli istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica e ne ha ordinato la pubblicazione.

Roma, 11 maggio 2008, Solennità della Pentecoste.

Franc Card. Rodé, C.M.
Prefetto

+ Gianfranco A. Gardin, OFM Conv.
Segretario
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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