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Il Signore degli Anelli

Ultimo Aggiornamento: 20/10/2015 21:07
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Thumbs up Riepiloghiamo il Signore degli Anelli

...per chi volesse comprendere veramente chi è Tolkien e cosa lo spinse a scrivere il Signore degli Anelli.....e come nasce il personaggio di GOLLUM/SMEAGOL dalla doppia personalità (che è il paragone o paradosso fate voi fra il bene e il male che alberga in OGNUNO DI NOI ), suggerisco di leggersi la selezionata raccolta del suo epistolario ai figli: LA REALTA' IN TRASPARENZA..........
Trattasi appunto di una raccolta di lettere familiari che offrono al lettore uno spaccato reale dei sentimenti di Tolkien e della sua esperienza di genitore cristiano atto all'educazione dei 4 figli......

Per comodità mi servirò, liberamente, di due siti che trattano l'argomento, cercando di proporvi una lettura scivolosa, facile e gustosa...Sarà un pò lunga, abbiate la pazienza di leggere fino in fondo, di meno non si poteva fare...

La Storia del Signore degli Anelli era nata, infatti nel clima familiare......Tolkien ne aveva fatto una prima bozza da leggersi esclusivamente in famiglia e fra gli amici, fu attraverso una studentessa che quest'opera finì nelle mani di un editore......dopo essere stata letta anche da C.S.Lewis (autore delle Cronache di Narnia)....

Durante la seconda Guerra mondiale Tolkien scrive al figlio al fronte di avere difficoltà a procedere nella stesura dell'opera, ma aggiunge: "....non credo che scriverei ancora, se non fosse perchè spero che tu lo legga...."

Spiega al figlio la figura sinistra degli orchi e dice: "...Non ci sono veri Uruks, cioè gente resa cattiva per volontà del proprio creatore"...e fa il paragone con la brutalità dell'uomo quando diventa un tiranno....e spiega al figlio: ".....Non puoi combattere il nemico con il suo Anello senza trasformarti anche tu in un nemico......" alludendo al fatto di quanto sia necessario combattere ogni spettro che impedisse al bene di operare e divivere in mezzo ai popoli!

Tolkien spiega che l'Anello simboleggia le catene che a causa del peccato ci rendeno schiavi di un potere che distrugge.... e scrive in questo epistolario: ".....il nocciolo della questione non è tanto nel disordine e nella guerra, ma nella libertà, nella pace, nella vita quotidiana e nei piccoli piaceri resi liberi dall'influenza dell'Anello che impone catene...."

<< Le lettere della raccolta datate fra il '40 ed il '45 sono quasi esclusivamente indirizzate ai figli ed in particolar modo a Christopher; i capitoli del Signore degli Anelli vengono spediti in Sudafrica accompagnati da accoratissime lettere attorno agli argomenti più disparati, ma tutte con un accento paterno commovente, sempre pronte ad elargire giudizi utili spesso attinti dalla dottrina cristiana e da un'intensa esperienza di fede, che qui mostra per la prima volta il suo fervore. Il Signore degli Anelli sembra essere molto influenzato da questa corrispondenza, non solo nelle parti che vengono completate fra il '43 ed il '45 o negli anni successivi; l'esperienza maturata negli anni della guerra ripropone una lettura completa del Signore degli Anelli: Tolkien si è sempre accostato alla composizione della sua opera come un narratore di cose già avvenute piuttosto che un vero autore >>.

Con il precipitare degli eventi, scrive al figlio ancora impegnato nei combattimenti al fronte: "...Tuttavia tu sei la mia carne ed il mio sangue e tieni alto il nostro nome. [...] Il legame tra padre e figlio non è costituito solo dalla consanguineità: ci deve essere un po' di aeternitas. Esiste un posto chiamato "paradiso" dove le opere buone iniziate qui possono venire portate a termine...... "
In queste lettere Tolkien cerca sempre di sollevare il figlio dall'orrorre della guerra sebbene le circostanze avrebbero potuto suggerire soltanto angoscia.... questa serenità attinge direttamente dalla grande fede cristiana di Tolkien, tanto che tutta la lettera è un consiglio a ricordare il proprio angelo custode e un richiamo alla preghiera ed alla letizia; cita infatti il Libro di Exter.... : " ....Conoscerà meno il dolore chi sa molte canzoni o può toccare l'arpa con le sue mani: possiede un dono di gioia (musica e/o versi) datogli da Dio... "

Nelle sue lettere prosegue anche inserendo frasi tratte dalla sua opera: "....Se l'angoscia si potesse vedere, quasi tutto questo mondo ottenebrato sarebbe avvolto da una nuvola densa di vapore scuro, nascosto agli occhi stupiti del cielo...."

Certo....Tolkien inserisce nel Signore degli Anelli non tanto episodi del suo tempo, ma lo spirito e l'aria che si respirava durante quel grande conflitto mondiale, e non si deve paragonare la sintesi del libro nelle vicende storiche della Seconda Guerra Mondiale, la genialità di Tolkien sta nell'aver studiato (e messo poi per scritto specialmente nelle Lettere) per tutti quegli anni lo spirito che aleggiava nel mondo......e soprattutto l'aver fatto prevalere quella speranza lunga e sofferta, fragile ma vincente attraverso Sam e Frodo e il rapproto continuo con Gollum/Smeagol, quasi a richiamare l'attenzione alla voce della coscienza.....

Così scrive Tolkien al figlio:

" ....Tutte le cose e le azioni valgono per se stesse, a parte le loro "cause" ed i loro "effetti". Nessun uomo può giudicare quello che sta veramente accadendo al momento attuale sub specie aeternitatis. Tutto quello che sappiamo, ed anche questo in larga parte per diretta esperienza, è che il male agisce sempre con grande potetnza e successi continui — inutilmente: preparando sempre e solamente il terreno affinché il bene inaspettatamente germogli. Così accade in generale e così accade anche nelle nostre vite. Sebbene Frodo e Sam non sembrino pienamente coscienti di queste parole, soprattutto Sam che è l'eterno e stupido buono, le loro azioni sono suggerite da questa speranza, che nemmeno risiede in loro, ma in Gandalf al quale Frodo obbedisce fidandosi ciecamente; al termine della vicenda spettano a lui le splendide parole: "Si" disse Frodo "Ma ricordi le parole di Gandalf: 'Persino Gollum potrebbe avere ancora qualcosa da fare'? Se non fosse stato per lui, Sam, non avrei distrutto l'Anello. La Missione sarebbe stata vana, proprio alla fine. Quindi, perdoniamolo! La Missione è compiuta, e tutto è passato. Sono felice che tu sia qui con me. Qui, alla fine di ogni cosa, Sam..... "


....trovo stupendo il passo di questa lettera.........

Tra maggio e giugno del 1944 Tolkien spiega in più lettere al figlio il perchè di questa opera e scrive: "...Io sento tra gli altri tuoi dolori (alcuni solo fisici) il desiderio di esprimere i tuoi sentimenti sul bene, sul male, sul bello, sul brutto: di razionalizzarli, di impedire che incancreniscano. Nel mio caso questo desiderio ha generato Morgoth e la Storia degli Gnomi (8 Il Silmarillion).. (...) Così ho optato per l'"evasione": trasformando le altre esperienze in altre forme e in simboli con Morgoth e gli orchi e l'Eldalie (che rappresenta la bellezza e la grazia nella vita e nell'arte) e così via....(...)...Uruk-hai è solo un parto dell'immaginazione. Non ci sono veri Huruk, cioè gente resa cattiva per volontà del loro creatore; e non c'è molta gente così corrotta da non poter essere redenta, la speranza è donata a tutti, è nell'esercizio della personale libertà che vediamo la resa dei conti.. "

Un altro aspetto da approfondire sta in una lettera molto speciale spedita al figlio nell'agosto del 44....Tolkien parte da un episodio accaduto realmente di un bambino che va a Lourdes, ma non viene guarito.....tuttavia mentre è sul treno nel viaggio di ritorno, inizia il prodigio della guarigione......
Tolkien ne rimane colpito e stupito che scrive questo passo un pò lungo, ma vi prego leggetelo.....

" ....la storia del ragazzino con la sua conclusione in apparenza triste e poi l'improvviso inaspettato lieto fine mi ha profondamente commosso [...]. E all'imprvviso mi sono reso conto di cosa si trattasse: proprio quello che avevo cercato di scrivere e spiegare nel saggio sulle fiabe che vorrei tanto che tu avessi letto e che anzi ti manderò. Per questa situazione ho coniato la parola "eucatastrofe": l'improvviso lieto fine di una storia che ti trafigge con una gioia da farti venire le lacrime agli occhi (che io argomentavo essere il sommo risultato che una fiaba possa produrre). E nel saggio esprimo l'opinione che produce questo effetto particolare perché è un'improvvisa visione della Verità, il tuo intero essere legato dalla catena di causa ed effetto, la catena della morte, prova un sollievo improvviso come se un anello di quella catena saltasse.
Si intuisce che così è fatto il Grande Mondo per il quale è fatta la nostra natura.
E concludevo dicendo che la Resurrezione è la più grande "eucatastrofe" possibile nella più grande Fiaba [...]. Naturalmente non voglio dire che i Vangeli raccontano delle fiabe; ma sostengo con forza che raccontano una fiaba: la più grande. L'uomo, narratore, deve essere redento in modo consono alla sua natura: da una storia commovente. Ma dato che il suo Autore è l'artista Supremo e l'autore di tutta la realtà, questa storia è fatta per essere vera anche al primo livello. [...]
Per venire a cose meno importanti: mi resi conto di aver scritto una storia che vale con Lo Hobbit, quando leggendola (dopo che era abbastanza maturata perché me ne staccassi) provai improvvisamente in modo intenso l'emozione "eucatastrofica" all'esclamazione di Bilbo: "Le Aqulie! Stanno arrivando le Aquile!" [...] E nell'ultimo capitolo dell'Anello che ho appena scritto spero che noterai, quando l'avrai ricevuto (sarà presto in viaggio) che la faccia di Frodo diventa livida e Sam si convince che è morto, e proprio quando Sam rinuncia a sperare.... "

direi che è stupendo questo passo del realismo delle fiabe, cioè la capacità di raccontare in modo semplice la dinamica della Verità...... La sorpresa dell'autore è grande nel realizzare questo: per Tolkien diventa chiaro che il suo lavoro non ha ragione di rimanere chiuso nella cerchia familiare se è in grado di suscitare nel lettore la visione del Vero.....La prolissità di un'opera come il Signore degli Anelli ed il Silmarillion (spiega Tolkien in un altra lettera al figlio) parte dunque da una esigenza di realismo : tutti i personaggi con le loro personalità tutto-tondo ed il fiume di pagine in cui queste personalità giocano, non sono scaturiti da un calcolo architettato per rendere efficace l'esposizione di una teoria in forma allegorica. Cosa siano realmente Frodo, Sam, Aragorn, Gandalf e tutti gli altri personaggi lo si può comprendere leggendo in modo vitale il Signore degli Anelli perché questi personaggi sembrano desiderare di uscire dalle pagine cui sono legati per camminare in questo tempo ed in ogni tempo...lo stesso personaggio inquietante di Gollum/Smeagol è la reale inquietudine che ogni uomo si porta dentro e la sua realtà esce dalla fiaba quanto più sappiamo trasformarci in strumento di bene.

Indubbiamente per Tolkien quest'opera scaturisce dalla sua conoscenza del Cristianesimo, fa leggere l'opera a padre R. Murray il quale restando esntusiasta gli spiega come nel racconto vi sia configurata la dottrina della "Grazia"... alchè Tolkien spiega al figlio: " ....Il Signore degli Anelli é fondamentalmente un'opera religiosa e cattolica; all'inizio non ne ero consapevole, lo sono diventato durante la correzione. Questo spiega perché non ho inserito, anzi ho tagliato, praticamente qualsiasi allusione a cose tipo "la religione", oppure culti o pratiche, nel mio mondo immaginario. Perché l'elemento religioso é radicato nella storia e nel simbolismo...(...) ....il "Signore degli Anelli" racconta una storia vera ma non esistente. La questione del rapporto fra quest'opera e la verità é del tutto centrale poiché coinvolge tutto lo sforzo letterario per offrire al lettore la comprensione stessa della Verità.... "

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Naturalmente Tolkien affronta anche delle critiche.......

si tratta di Peter Hastings, manager della libreria cattolica Newman Bookshop. Egli rimane colpito dalla facoltà degli Elfi di reincarnarsi e a questo proposito scrive:
" Dio non ha usato questo espediente per nessuna delle cose create di cui siamo a conoscenza, e mi sembra che questo superi la posizione di un sub-creatore, perché un sub-creatore, quando si occupa dei rapporti fra creatore e creato, dovrebbe usare quei canali che sa che il creatore ha già usato "

Alchè ringraziando per l'osservazione, Tolkien chiarisce :

" .....Naturalmente io ho già preso in considerazione tutti i punti che lei ha sottolineato. [...] l'intera opera dall'inizio alla fine é principalmente legata al problema della Creazione e della sub-creazione (e secondariamente con il secondo problema connesso, quello della morte). [...] la liberazione dai modi conosciuti che il creatore ha già usato é la funzione fondamentale della sub-creazione, un omaggio all'affinità della Sua potenziale capacità di cambiamento, uno dei modi in cui si rivela, come in effetti io dico nel Saggio..... "

Ad un altro lettore risponde: "...Perché io penso che le storie fantastiche abbiano un loro modo di rispecchiare la verità, diverso dall'allegoria, o dalla satira (quando é elevata) o dal realismo, e per alcuni versi più potente. Ma prima di tutto la storia fantastica deve riuscire come racconto, divertire, piacere, e anche commuovere a volte...."

Tolkien si spiega poi più approfonditamente citando da San Paolo di quella "nuova creazione" avvenuta grazie all'Incarazione di Dio attraverso il quale "ecco io vengo e rifaccio nuove tutte le cose!"

Appellandosi alle ultime parole del Padre Nostro, Tolkien spiega ad un lettore la scena di Sam e Frodo e il fallimento di lui, sul Monte Fabo: " ....La catastrofe esemplifica (per un aspetto) le parole familiari: 'Perdona i nostri nemici come noi perdoniamo chi ci ha offeso. Non indurci in tentazione ma liberaci dal male". Continua poi Tolkien: "'Non indurci in tentazione etc...' é la richiesta più dura e meno considerata. L'idea all'interno della mia storia é che ci sono situazioni anormali in cui uno può trovarsi...(...)

....il bene del mondo dipende dal comportamento di un individuo in circostanze che gli richiedono sofferenza e sopportazione oltre la norma. Frodo si trovò in una situazione sacrificale: era "votato al fallimento" non solo l'influenza dell'Anello, ma probabilmente la stessa compagnia di Gollum lungo tutto il viaggio, fanno prevalere in Frodo tutti i limiti di sopportazione. (...) ....non meno importante come Sam non subisce l'inganno di Gollum, anzi, ne intuisce il doppio gioco, ma deve sopportare che il suo amico e "padrone" al quale aveva consegnato tutta la propria fedeltà, non solo non gli crederà, ma lo caccerà via. (...)...."come noi li rimettiamo ai nostri debitori" Sam non porta rancore, la sua fedeltà verso l'amico sarà la vera salvezza per Frodo stesso, egli comprende che l'amico è in pericolo e che non comprende più il peso dell'influenza ingannatrice dalla realtà, comprende che non è più in grado di portare da solo quell'impegno, ma vorrei che si comprendesse l'importanza che Sam non si sostituisce a Frodo, non prende l'Anello, non gli porta via la croce, ma prende Frodo sulle spalle con tutto il suo peso e lo aiuta a portare a compimento la missione. (....)....Sam resta al suo posto e da qui è in lui uno spirito veramente libero che lo porta ad un corpo a corpo con Gollum perchè Frodo possa andare avanti..... "

Ma attenzione, anche nella figura di Sam c'è un fallimento......
Sam rasenta tavolta l'orgoglio e la possessione dell'incarico ricevuto, dice Tolkien: "...Gollum che non fa in tempo a pentirsi a causa dell'interruzione di Sam: questo mi sembra così simile al mondo reale in cui gli strumenti della giusta punizione sono raramente buoni o cattivi per se stessi; e i buoni sono spesso un ostacolo perchè non concedono al cattivo di pentirsi. (....) ....questo non fa di Sam il "cattivo", Gollum aveva avuto più volte la possibilità di salvarsi; se ad un tratto del tragitto egli impara a fidarsi di Frodo, la sfiducia prevale e Gollum prosegue così il suo piano conducendo Frodo nella tana del ragno perchè venga divorato.... "

La debolezza nella pietà esemplificata nella persona di Sam può essere vinta proponendoci di adottare, spiega Tolkien, un duplice metro di giudizio: uno nei nostri riguardi, scrive nella lettera 246: " ...a noi stessi dobbiamo proporre l'ideale assoluto senza compromessi, dato che noi non conosciamo i limiti della nostra forza naturale. [...] Per quanto riguarda gli altri, nei casi in cui sappiamo abbastanza per dare un giudizio , dobbiamo applicare un mertro di giudizo mitigato dalla compassione..."

Tolkien spiega così che la missione per la distruzione dell'Anello, essendo inserita nel disegno di salvezza del mondo, é destinata a fallire solo in apparenza come apparente fu il fallimento della Crocifissione di Cristo. La nobilitazione di Frodo deve passare attraverso questo stretto passaggio (la strada stretta ). La modalità in cui si realizza questa dinamica é perciò di grandissima importanza e qui esplode la cattolicità di Tolkien. La salvezza infatti ha bisogno dell'uomo e della sua vita per realizzarsi nella storia... ...La salvezza chiede all'uomo di ogni tempo di mettersi in gioco, anche quando ci fossero avanti a noi i fallimenti e tutti i limiti umani poichè "Dio non può salvarti senza di te".....e non vi è salvezza senza il coinvolgimento degli altri......scrive infatti Tolkien: " ... a questo punto la salvezza del mondo e la salvezza dello stesso Frodo vengono raggiunte grazie alla sua precedente capacità di perdonare le offese. In qualunque momento una persona prudente avrebbe detto a Frodo che Gollum l'avrebbe tradito e alla fine avrebbe potuto derubarlo. [...]Grazie ad una situazione creata dalla sua precedente capacità di perdonare, Frodo si salva, e viene sollevato dal suo fardello.....
Al poeta W. H. Auden, Tolkien aggiunge:..Sam non aveva ancora oltrepassato il confine del bosco che aveva già aperto gli occhi. Perché se c'é qualcosa in un viaggio di qualunque durata, per me é questo: lo scuotersi da una situazione vegetativa di sofferenza passiva e senza scopo ....."

Tolkien inoltre considera il viaggio nella sua interezza, andata e ritorno, ed il ritorno non é meno importante dell'andata perché ha il compito di restituire alla quotidianità quanto vissuto nell'eccezionalità, cioè: colui che vive una forte esperienza e mette a dura prova la propria fede in questo viaggio di andata, non può al suo ritorno rivivere come aveva vissuto prima di partire..... in questa occasione si scova un'ultima debolezza; Tolkien la spiega citando le parole di Frodo nel finale (lettera 246):

"...Anche se venissi nella Contea, non mi sembrerebbe più la stessa, perché io non sono più lo stesso'. Questa in realtà é una tentazione delle Tenebre, un'ultma scintilla di orgoglio: il desiderio di poter tornare come 'eroe' non soddisfatto di essere stato un puro strumento del Bene. Ed era mescolata con un'altra tentazione, più oscura e tuttavia (in un certo senso) più giustificata, perché comunque lo si spiegasse lui di fatto non aveva gettato l'Anello con un gesto deliberato: era tentato di rimpiangere la sua distruzione e di desiderarlo ancora 'È andato per sempre, e adesso tutto é buio e vuoto' disse non appena si svegliò dalla malattia del 1420... "

Così per Tolkien il mondo viene salvato dalla PROVVIDENZA che agisce attraverso la pietà esercitata nei momenti dell'errore realizzandosi in "situazioni sacrificali"....che si riscontrano sia nella composizione di questa Compgania fatta da uomini fragili, ma che hanno fede e sperano contro ogni speranza. Non si vuole qui intendere la provvidenza in senso cristiano ma, come scrive Tolkien: " ....l'unica Persona sempre presente che non é mai assente e mai viene nominata' -in verità ci si riferiva a lui come all' Unico.....(...) Nel Signore degli Anelli il conflitto fondamentale non riguarda la libertà, che tuttavia é compresa. Riguarda Dio, e il diritto che Lui solo ha di ricevere onori divini...[...].....Nella mia storia, come nella realtà che viviamo, non esiste il Male assoluto, se esso può essere sconfitto di conseguenza non può essere assoluto; al contrario solo il Bene è Assoluto ed è questo Bene che viene sempre messo in pericolo dalle scelte degli uomini, tuttavia essendo questo Bene l'Essere in assoluto, a Lui il diritto di suscitare tutte le Compagnie che riterrà opportune per sconfiggere le catene che ad ogni generazione fanno la loro comparsa ingannando gli uomini.... "


Infine uno sguardo alla figura di Gandalf che Tolkien spiega in questo epistolario.......
Gandalf è il maestro EDUCATORE, non è certo "colui" attraverso il quale tutto avviene, ma è l'educatore che conserva il magistero del lieto fine.....Tolkien fa dire a Gandalf sull pietà: " Pietà? È stata la pietà che ha fermato la mano di Bilbo. Pietà e compassione: non colpire senza necessità. Ed é stato ben ricompensato, Frodo. Stai certo che é stato ferito così lievemente dal male e alla fine é riuscito a sfuggirli, perché il suo possesso dell'Anello é iniziato in questo modo. Con pietà...... "

Gandalf rivela così la presenza di quell'Unico che Tolkien non vuole nominare: "Dietro di quello, c'era qualcos'Altro al lavoro, dietro ogni disegno di colui che fece l'anello. Non posso dire di più se non che era stabilito che Bilbo trovasse l'anello, e dal suo facitore "

Possiamo individuare due orizzonti distinti nei quali si manifestano le debolezze di personaggi e razze che Gandalf deve educare e ammaestrare perchè possano affrontare gli eventi: uno é quello, più immanente rispetto al libro, del compimento della missione, mentre l'altro é più ampio perché riguarda il modo di vivere la propria natura umana e genera il problema della Morte ed Immortalità. Per quanto riguarda la pirma sfera già si é detto commentando il comportamento di Sam quali siano i punti deboli che Tolkien individua negli Hobbit. Ma anche gli Uomini (intesi come razza) sono coinvolti attivamente nella Guerra dell'Anello. Di essi abbiamo esempi titanici in Boromir e Denethor. Di quest'ultimo Tolkien dice nella lettera 183:

"..Denethor era contaminato dalla politica: da qui il suo fallimento e la sfiducia in Faramir. L'obiettivo principale per lui era quello di conservare l'assetto politico di Gondor, così com'era, contro un'altra potenza, che era diventata più forte e quindi incuteva timore e doveva essere combattuta per quel motivo più che per il fatto che fosse corrotta e malvagia..."

Nella lettera 181 Tolkien spiega il ruolo della magia e dunque il senso dell'essere stregone, e di Gandalf dice: " Il suo ruolo di "stregone" é il ruolo di angelo e di un messaggero dei Valar o Governatori: aiutare le creature razionali della Terra di Mezzo a resistere a Sauron [...]. Ma dato che secondo questa storia o mitologia il potere [...] é considerato malefico, questi stregoni si incarnano in figure compatibili con la Terra di Mezzo, e così soffrono pene fisiche e spirituali [...]. Il loro peccato principale é quello dell'impazienza, che poteva provocare il desiderio di forzare gli altri verso il loro destino finale positivo, e in queso modo inevitabilmente avrebbero imposto la loro volontà......."

Concludiamo con la parte più delicata: LA MORTE E L'IMMORTALITA'.... ..
lo stesso Tolkien sa di camminare su un campo minato infatti scriverà pochissimo su questo tema nelle sue lettere......
Gandalf muore, ma ritorna o viene mandato a terminare la missione "con poteri ancora maggiori"....
Come interpretarlo?
Gandalf usa il dono dell'immortalità come creatura, di conseguenza questo è assai lontano da Cristo.....
La lettera del 5 novembre 1954 a Padre Murray ci aiuta e ci cautela assieme. Tolkien rivela che il modo con cui viene raccontato il ritorno di Gandalf sia in realtà un "imbroglio" e un "errore" del resto, spiega Tolkien nella lettera, la narrativa aveva le sue necessità, posso dire con serenità che si tratta più di un obbligo legato alla tecnica narratica, che non ad altro!

Tolkien specifica che la morte di Gandalf è reale, non apparente: "...Gandalf morì per davvero, e venne cambiato: questo per me é l'unico vero imbroglio, rappresentare qualcosa che può essere chiamato 'morte' come qualcosa che non fa nessuna differenza...(...) la crisi era diventata troppo grave e richiedeva un rafforzamento del potere. Così Gandalf si sacrifica, il suo sacrificio viene accettato, e fa ritorno più forte di prima...."

Questo "ritorno" comunque non è opera della magia o di Gandalf medesimo....scrive: "...nudo sono stato rimandato indietro, per breve tempo, finché non fosse assunto il mio compito. Mandato indietro da chi, e da dove? Non dalle divinità che si occupano solamente del mondo fisico e del suo tempo; perché lui é passato 'dal pensiero e dal tempo'.. ...(..) morte ed immortalità: il mistero dell'amore per il mondo in una razza destinata a lasciarlo e apparentemente a perderlo; l'angoscia nei cuori di una razza destinata a non lasciarlo, finché il suo intero ciclo nato dal male non sia completo nell'esultanza e nel trionfo del Bene assoluto....." Tolkien non aggiunge altro e ci lascia senza risposta che lascia aperta la strada per ulteriori approfondimenti.


***********************************


Buona meditazione...............

Fraternamente CaterinaLD
__________________
"Se sarete quello che dovete essere, metterete fuoco in Italia e nel mondo intero" (Santa Caterina da Siena)
Fraternamente CaterinaLD

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23/02/2009 18:25
 
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Uno sguardo nel laboratorio fantastico di Tolkien

Alla scoperta della matematica degli elfi


di Andrea Monda

Nella sua produzione epistolare, fortunatamente pubblicata anche in Italia, lo scrittore inglese John Ronald Reuel Tolkien più volte afferma di lavorare ai suoi scritti letterari con "la mentalità dello storico", osservazione alquanto disorientante se si pensa che i suoi racconti più famosi sono ascrivibili al genere epico e fantastico, cosiddetto fantasy che proprio con il suo capolavoro, Il signore degli anelli, nella seconda metà degli anni Cinquanta ha conosciuto un "lancio" nel mercato editoriale che da allora cresce in modo esponenziale di anno in anno. Ma se di "fantasia" si tratta, di quale mentalità storica sta parlando Tolkien?

Le due cose sembrerebbero infatti in contrapposizione, eppure tutti i lettori delle saghe tolkieniane possono testimoniare che uno dei maggiori motivi del fascino di quelle storie sta proprio nella loro perfetta "compaginazione", in altre parole della coerenza, dello spessore e della solidità e quindi credibilità del mondo creato dallo scrittore inglese.

Lo stesso Tolkien nel suo saggio Sulle fiabe (testo tra i più illuminanti del Novecento sul rapporto tra verità, realtà e fantasia nella letteratura) aveva avvertito il rischio di un "sottosviluppo" della fantasia, quando essa viene usata "in maniera superficiale o solo semiseria" restando mera "stravaganza":  "Chiunque erediti lo straordinario strumento del linguaggio umano" scrive Tolkien, che in realtà è stato un raffinato filologo "prestato" alla letteratura "è in grado di dire "sole verde"; molto sono anche capaci di immaginarselo o raffigurarlo.
Ma questo non basta (...)

Costruire un mondo secondario dentro il quale il sole verde risulti credibile, imponendo credenza secondaria, richiederà probabilmente fatica e riflessione, e certamente esigerà una particolare abilità, una sorta di facoltà magica". Di quella magia Tolkien ne aveva da vendere, non è un caso che i suoi libri continuano a essere venduti così tanto in tutto il mondo e tra loro e il resto del fantasy intercorra una distanza qualitativa ancora incolmata.

Non ci sono eredi di Tolkien ma in compenso, ogni tanto, viene pubblicato un testo inedito dello scrittore, "riesumato" da qualche "magazzino" in cui giacciono i tanti tesori dello schivo e scrupoloso inventore degli hobbit. È questo il caso del saggio pubblicato col titolo di La trasmissione del pensiero e la numerazione degli elfi, (Genova, Marietti, 2008, pagine 150, euro 19) che raccoglie in realtà alcuni lunghi articoli che Tolkien scrisse, tra la fine degli anni Cinquanta e quella degli anni Sessanta per la rivista americana "Vinyar Tengwar".


Da un certo punto di vista si tratta di saggi di argomento "tecnico" e per addetti ai lavori ma che pure spiegano molto efficacemente quella "mentalità dello storico" che animava l'autore de Il signore degli anelli. Come già dimostrano le appendici (con tanto di annali, cronologie e genealogie) collocate alla fine del suo capolavoro, Tolkien ha descritto un mondo sin nel più piccolo dettaglio, dalla flora alla fauna, dai costumi ai diversi idiomi delle tante stirpi inventate dalla sua fervida fantasia. Mancavano, a questa raccolta di "dettagli" offerti alla curiosità del lettore, una riflessione sul potere della mente e, più semplicemente, sul sistema di numerazione degli elfi, argomenti che vengono qui affrontati con meticolosità e serietà tutta inglese.
 
Questi lunghi articoli finalmente raccolti per il pubblico italiano permettono di capire ancora più "visivamente" - grazie anche alle illustrazioni di Simona Calavetta - quanto fosse importante per Tolkien il concetto di "sub-creazione":  come aveva osservato Chesterton nel saggio L'uomo eterno, l'essere umano è l'unico animale a essere, al tempo stesso, creatura e creatore. Ogni uomo pro-crea, essendo genitore e crea, anzi sub-crea, precisa Tolkien, essendo artista. La creazione dell'uomo non ha la qualità primaria della creazione di Dio, ma da quella scaturisce:  la creatività artistica è un sublime segno della scintilla divina presente in ogni uomo, e fonte della sua inalienabile dignità.

Questi saggi, in particolare quello sulla trasmissione del pensiero, in cui si legge che gli Elfi e i Valar (una sorta di angeli incarnati, come è raccontato ne Il Silmarillion, l'opera cosmogonica di Tolkien) non violano mai la libertà altrui, al contrario del malvagio Melkor potente nel condizionamento e obnubilamento delle menti degli uomini e degli elfi, sono senz'altro testi "specialistici" che troveranno favore soprattutto nel pubblico dei tolkieniani più edotti e affezionati, ma rivelano in controluce anche tutta la stoffa filosofica, spirituale e religiosa dell'opera di questo grande autore cattolico del Novecento.

Infine, e questo è un aspetto tra i più significativi di questa pubblicazione, è consolante che anche in Italia si stia muovendo qualcosa a livello critico nei confronti di questa letteratura così popolare e, forse per questo, considerata "inferiore":  il saggio in questione infatti è il quarto di una collana di studi tutta dedicata a "Tolkien e dintorni" e quindi, ad esempio, ad altri autori come Clive Staples Lewis, che, nata all'interno della casa editrice Marietti, fa ben sperare rispetto a una recezione seria e "scientifica" di tutto un movimento letterario fino a oggi snobbato e trascurato dalla cosiddetta critica ufficiale.



(©L'Osservatore Romano - 23-24 febbario 2009)
Fraternamente CaterinaLD

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(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Il tema della morte e dell'immortalità nei romanzi dello scrittore britannico

Il canto di Tolkien per gli uomini monchi



Dal libro La falce spezzata. Morte e immortalità in J. R. R. Tolkien (Milano, Marietti, 2009, pagine 320, euro 22) pubblichiamo la sintesi - realizzata dall'autore per il nostro giornale - di uno dei saggi.

di Andrea Monda

"Di che cosa parla?" è la domanda più semplice che si possa fare di fronte a un romanzo. Ma anche più complicata. È la domanda tipica dei lettori giovanissimi, ma se poi l'opera è anche di qualità si rivela la più complessa a cui rispondere:  se il romanzo - e questo vale anche per un film - è un buon romanzo, l'unico modo per rispondere a quella domanda sarebbe raccontarlo; è quando si riesce facilmente a scindere il "messaggio" dalla storia che c'è da preoccuparsi, potrebbe essere il segnale di una loro reciproca fragilità, se messaggio e storia possono vivere da soli, possono facilmente anche morire da soli.

Da questo punto di vista Il Signore degli anelli riceve un'altra conferma della sua raffinata qualità:  alla domanda "di che cosa parla?" non è facile rispondere. Come si può leggere anche negli altri capitoli del presente saggio, è Tolkien stesso che si pone questa domanda per rispondere, a più riprese, sempre allo stesso modo:  della morte e l'immortalità.

In particolare nella lettera che scrive a Rhona Beare il 14 ottobre 1958:  "potrei dire che se il racconto tratta di "qualcosa" (oltre che di se stesso), questo qualcosa non è, come tutti sembrano supporre, il "potere". La ricerca del potere è solo il motivo che mette in moto gli avvenimenti, ed è relativamente poco importante, penso. Il racconto riguarda principalmente la morte, e l'immortalità; e le scappatoie:  la longevità e la memoria".
 
È interessante analizzare quelle che lo scrittore inglese definisce come "scappatoie", la longevità e la memoria. Per Tolkien il suo romanzo tratta essenzialmente "di se stesso", cioè è da prendere sul serio quando dice "ho voluto scrivere una storia avvincente in un'atmosfera e su uno sfondo che io personalmente trovo interessanti".

Non è (solo) il pudore o la modestia che lo spingono a parlare così; è la verità, confermata anche dallo straordinario successo mondiale che ha accompagnato i suoi libri. Di questa storia avvincente il tema centrale non è il potere ma il tema "umano per eccellenza":  la morte e l'immortalità.
A fronte del dilemma, del "bivio" costituito dal binomio "morte/immortalità", l'uomo è portato, istintivamente, naturalmente, a provare angoscia e scappare. Tutto questo, angoscia e fuga, è frutto della confusione creata dal Nemico, cioè della Caduta (altro grande tema sotteso all'intera opera tolkieniana).

Il riferimento diretto qui è quello al racconto biblico e alla dottrina cattolica a cui Tolkien attinge a piene mani, non solo come uomo nella sua vita privata, ma anche inevitabilmente come scrittore.

Le "scappatoie" che interessano a Tolkien sono quelle della memoria e della longevità, che ha voluto rappresentare non solo attraverso l'avvincente trama della storia, ma anche mediante alcune figure, in particolare quelle degli elfi, degli hobbit e dei Numenoreani (gli alleati con Sauron nella seconda Era, Isildur, Denethor e così via fino ad Aragorn, l'ultimo longaevus). Sono tutte figure che corrono il terribile pericolo di "confondere la vera immortalità con la longevità senza limite" ma a tutto questo rispondono altre figure, come quella del citato Aragorn, come quella di Arwen, come quelle degli hobbit Bilbo e Frodo, come Gandalf, i quali riescono, spesso "aiutati" dal misterioso aiuto della Provvidenza, a non cedere alla "scappatoia", ad affrontare la morte accettandola con abnegazione perché essa "non è il Nemico" ma, anzi, un dono del Dio creatore.

In fondo la forza di queste persone che superano la morte accettandola, sta nella loro debolezza. Concludendo questo saggio su Tolkien vorrei, quasi in omaggio allo scrittore-filologo che ha inventato nuove parole come eu-catastrofe e sub-creatore, coniare una nuova parola:  "monchitudine". Con questo nuovo (non bello, l'ammetto) termine voglio indicare la cifra poetica di Tolkien, sottolineare il contenuto più squisitamente tolkieniano della sua letteratura. Tolkien canta il fatto che gli uomini sono monchi.

È una condizione questa che emerge spesso nelle sue storie, soprattutto nei racconti del Silmarillion il cui protagonista si chiama Beren il Monco ma anche nel Signore degli anelli il cui protagonista, Frodo, si trova al termine della storia:  senza un dito (Frodo dalle nove dita, così viene ricordato nelle canzoni) e ferito, apparentemente in maniera inguaribile. Gli hobbit sono i "monchi" per eccellenza:  sono i mezzi-cresciuti come dice Barbalbero, sono i Mezziuomini come li chiamano gli elfi. È evidente la forza anche spirituale di questa immagine, la potenza di questa metafora:  nel cuore del xx secolo che inizia con la morte di Dio e l'avvento del super-uomo preannunciato da Nietzsche, ecco che un oscuro scrittore-filologo di Oxford si mette a cantare l'umile grandezza del mezzo-uomo, dei piccoli hobbit della Terra di Mezzo, che vivono nei buchi, nel terreno perché hanno la virtù più grande, cioè più piccola:  l'umiltà, da humus, terreno.

Tutto è dimezzato in Tolkien, anche la terra è "di mezzo", perché nulla sulla terra è (ancora) compiuto, il compimento è al di là, sta per avvenire, è un avvento che ancora non si è realizzato. Per questo non c'è spazio duraturo nella Terra di Mezzo per la pigra malinconia e quella longevità che è solo un disperato "aggrapparsi al tempo".

Riconoscere la propria costitutiva "monchitudine" vuol dire evitare le strade facili e le scappatoie. Chi non vuole riconoscersi monco, ma si riterrà "compiuto", "a posto", allora sarà inevitabilmente portato a essere forte, tiranno verso gli altri, rimanendo debole verso se stesso, cercando per sé le scorciatoie o le scappatoie, che però si rivelano surrogati del vero cammino, che non conducono se non alla perdizione. Con la sua storia avvincente Tolkien ci vuole dire che chi vorrà indugiare nelle scappatoie della longevità e della memoria, senza aprirsi al futuro con umile speranza, senza cogliere la novità che quotidianamente irrompe nella storia degli uomini, sarà destinato ad un'esistenza di rimpianto nostalgico e di amara disperazione.

Non è mai consigliabile applicare etichette agli scrittori, tantomeno se poi l'etichetta è quella pesante e ingombrante di "profeta"; eppure, al termine di questa breve riflessione sul tema della morte e dell'immortalità (e delle loro scappatoie) viene quasi spontaneo pensare che alcuni aspetti della società contemporanea siano stati inconsapevolmente prefigurati dalle suggestioni presenti tra le righe delle storie inventate da Tolkien, in particolare tutti quegli aspetti, che oggi vengono catalogati sotto il nome di "questioni bioetiche".

Se riflettiamo sulle condizioni attuali della vita biologica degli esseri umani (nel mondo occidentale e sviluppato) si può in effetti pensare che per molti aspetti ci troviamo in una situazione simile a quella della Terra di Mezzo:  oggi, grazie ai grandi progressi della scienza e della tecnica medica, la lunghezza della vita è molto aumentata, le malattie sono state in buona parte debellate e il dolore è stato massicciamente ridotto. Tutto questo ha portato a una rimozione degli ultimi tabù rimasti, il dolore e la morte, che non figurano più all'interno del paesaggio umano quotidiano.
 
Fino ai tempi di Tolkien le guerre, le carestie, le epidemie rendevano la morte e la sofferenza presenti in modo pervasivo nella quotidianità delle famiglie degli uomini. Tolkien muore nel 1973 e da allora i tempi sono cambiati molto e molto velocemente, per rendersene conto è sufficiente riflettere sulle questioni (sociali, giuridiche, etiche) che sono emerse negli ultimi anni relativamente al fine della vita:  eutanasia, accanimento terapeutico, testamento biologico. I segnali sono diversi e anche di segno opposto:  si va da un "aggrapparsi al tempo" rifiutando il fatto della morte - è il caso dell'accanimento terapeutico - a un rimuovere lo scandalo del dolore e dell'angoscia con le pratiche eutanasiche.

Viene da chiedersi se Tolkien, di fronte a tali fenomeni, opposti ma di fatto convergenti verso risultati equivalenti, avrebbe usato il termine escapes, scappatoie. Una società di longevi che rimuovono la morte assomiglia molto al mondo descritto da Tolkien nella sua storia avvincente, una società che, inoltre, dominata da mezzi di comunicazione come ad esempio la televisione, vive sempre di più di passato invece di aprirsi alla novità che la vita reale porta con sé. Non c'è dubbio infatti che la televisione offra ai suoi fruitori uno sguardo retrospettivo su ciò che è già avvenuto e non si contano i programmi autoreferenziali in cui la televisione guarda soltanto dentro se stessa.


(©L'Osservatore Romano - 7 marzo 2010)

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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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La filosofia della provvidenza ne "Il signore degli anelli"

Tolkien e la tessitura degli eventi


Si è svolto a Modena il convegno "Tolkien e la filosofia" organizzato dall'Istituto filosofico di studi tomistici e dall'Associazione romana di studi tolkieniani. Pubblichiamo alcuni stralci della relazione di uno dei maggiori studiosi dello scrittore britannico e, a destra, l'estratto di un intervento durante il dibattito dedicato al tema "Tolkien pensatore cattolico?".

di Tom Shippey

Ne Il signore degli anelli Tolkien non ricorre mai alla parola "provvidenza". D'altra parte, utilizza le parole "fato" e "caso" molte volte. Quindi può sembrare che Tolkien fosse molto più consapevole del fato e del caso che della provvidenza, ma non è vero:  esistono alcuni passaggi in cui l'autore esprime dubbi o permette ai suoi personaggi di farlo sull'esistenza stessa del caso.

Gandalf, per esempio, parlando con Frodo e con Gimli, dopo la Guerra dell'Anello, dice che potremmo definire triste la morte di Dain, il re dei Nani:  "Certo le cose sarebbero potute andare diversamente e molto peggio, ma è stato evitato, perché una sera ho incontrato Torin Oakenshield (...) un incontro casuale, come diciamo nella Terra di mezzo". L'implicazione è che al di fuori della Terra di Mezzo, nelle Terre Immortali, quell'incontro non sarebbe stato considerato affatto un caso. Tutto questo viene suggerito diverse volte altrove.

Ho preso il testo de Il signore degli anelli e ho cercato tutte le espressioni "caso" e ne ho trovate tre. Poi ho provato con "fato" e ne ho trovate due. Ho rinvenuto altre sette espressioni nelle quali le parole caso o fato sono utilizzate per spiegare eventi, ma con il punto interrogativo, come i dubbi di Gandalf o di Bombadil sul fatto che i loro incontri fossero o no veramente avvenuti "per caso".

Tre di queste espressioni mi sembrano particolarmente importanti per la filosofia della provvidenza in Tolkien.
La prima si trova quando Merry e Pippin vengono portati via da Grishnakh, orco al servizio di Sauron, proprio quando i Cavalieri di Rohan attaccano. Grishnakh prende un coltello per ucciderli, ma la freccia di uno dei cavalieri lo colpisce. Quella freccia "è stata lanciata con perizia" oppure è stata guidata dal fato? Non lo sappiamo.

Tuttavia, se non fosse stata "lanciata con perizia", se fosse stata solo un colpo a caso, allora perché dire "guidata"? L'espressione "guidata" implica una guida e una intenzione deliberata. Può essere che anche altre cose in apparenza casuali siano invece intenzioni di qualche forza che non conosciamo.
Questo pensa l'elfo Gildor Iglorion. Incontra Frodo mentre con i suoi amici sta lasciando Shire e mettendo in fuga i Cavalieri Neri.

L'elfo è riluttante a dare a Frodo qualsiasi consiglio perché, come dice:  "Gli elfi hanno i loro problemi e le proprie pene e sono poco interessati agli hobbit o a qualsiasi altra creatura sulla terra. I nostri sentieri si incrociano raramente, per caso o a uno scopo. Quest'incontro dev'essere più che un caso, ma lo scopo non mi è chiaro e temo di dire troppo".

Questo implica di nuovo che l'incontro fra Frodo e Gildor, come quello fra Gandalf e Thorin, non è stato casuale, bensì voluto, ma non da loro. Dunque sono "guidati" da forze sconosciute e, se lo sono loro, lo siamo anche noi? Quando, a Rivendell, Gandalf vede Frodo riprendersi dalla ferita di coltello infertagli dal Cavaliere Nero, dice che è stato fortunato a sopravvivere:  "La fortuna o il fato ti hanno aiutato, per non dire il coraggio. Infatti il tuo cuore è illeso e solo la tua spalla è stata trafitta. E questo perché hai resistito fino allo stremo". Forse il fato ha aiutato Frodo. Tuttavia avrebbe potuto non farlo, se lui non avesse aiutato a sua volta il fato, esercitando il suo libero arbitrio di resistere.

Queste frasi non ci dicono molto né sono chiarissime, ma suggeriscono che ne Il signore degli anelli sono all'opera alcune forze e una di esse, secondo me, è quella che percepiamo come caso, ma che è di fatto il modo in cui opera la provvidenza, quella forza mai menzionata.
È corretto voler vedere nell'opera di Tolkien qualcosa che lo scrittore non menziona nemmeno una volta? Secondo me è implicita in tutta la struttura dei volumi secondo e terzo de Il signore degli anelli. È una struttura molto complessa, si potrebbe anche dire una struttura inutilmente complessa, a meno che non sia lì per richiamare la nostra attenzione su qualcosa.

Innanzitutto, permettetemi di ricordarvi, filosoficamente, cosa dice Filosofia a Boezio sulla provvidenza. Gli spiega che noi umani, in fondo, non siamo in grado di comprendere la natura della provvidenza perché percepiamo le cose a poco a poco, una dopo l'altra e le percepiamo anche come se riguardassero solo noi stessi:  abbiamo una conoscenza solo limitata di ciò che accade al di fuori di ciò che vediamo. Non sappiamo da dove vengono le cose, che si tratti di frecce, di incontri o di altre persone. La Mente Divina non è così. Essa vede ogni cosa che accade, che è accaduta e che accadrà contemporaneamente. Vede le connessioni laddove noi vediamo soltanto eventi slegati tra loro.

Può guidare eventi per sortire risultati che non possiamo prevedere. Può prendere in considerazione le nostre reazioni a quegli eventi per prepararne altri. Boezio utilizza l'immagine della ruota che gira. Al centro non si muove nulla. Alle estremità c'è il cambiamento continuo della Ruota della Fortuna. Re Alfred, traducendo Boezio con molte modifiche in anglosassone, chiarisce proprio questo, affermando che la ruota è la ruota di un carro che poggia su un asse, ha un mozzo, raggi e cerchioni. Siamo tutti sulla ruota, ma siamo lontanissimi dall'asse, che non si muove.

Più lontani si è dall'asse, più ci si sente in balia del caso, o del fato, o della sorte. Tuttavia queste sono solo parole e, per motivi filosofici aggiungerei un altro termine alla lista, ossia "fortuna". Sono tutte parole che servono a esprimere "il modo in cui gli umani percepiscono le azioni della Provvidenza".

Ne Il signore degli anelli Tolkien ci dice questo mostrando persone che non sono in relazione le une con le altre, ma sono sempre influenzate dalle azioni di altri, di cui non sanno nulla. Leggendo il libro, nello stesso tempo osserviamo la percezione limitata dei personaggi e alcuni accenni alla percezione generale della provvidenza. Ciò che chiamiamo "fortuna" è il risultato delle azioni di altre persone. La totalità delle azioni delle altre persone forma un disegno che è stabilito dalla provvidenza. Tuttavia definiamo "fortuna" o "caso", o ancora in anglosassone wyrd, i frammenti che vediamo e dunque la nostra visione parziale di tale disegno. Re Alfred lo ha spiegato con una semplice frase:  "Chiamiamo precognizione di Dio e sua Provvidenza  ciò  che è nella sua mente prima che accada, ma una volta accaduto lo chiamiamo wyrd", ovvero fato o fortuna.

Uno degli esiti narrativi di Tolkien è che, da una parte, il lettore incontra molte sorprese, perché sa ancor meno dei personaggi:  nessuno si aspetta di imbattersi in Merry e Pippin che fumano tranquillamente presso le rovine di Isengard perché l'ultima scena li mostrava guardare giù verso la Valle del Mago con Isengard ancora intatta. Nessuno si aspetta che Gandalf appaia di nuovo da Moria.

Il signore degli anelli quindi fa due cose. Ci mostra le azioni come sono percepite dai personaggi, quando sembrano essere il risultato del caso. Ci mostra anche che sono, invece, gli esiti di catene di decisioni, che formano un modello che possiamo di certo definire provvidenziale. Non c'è alcun dubbio sul libero arbitrio dei personaggi, che devono prendere le loro decisioni senza sapere assolutamente se sono giuste o meno. Aragorn deve farlo continuamente e a un certo punto sembra scoraggiarsi e dice a Legolas:  "Dai la possibilità di scegliere a uno che non sa scegliere. Da quando siamo passati attraverso l'Argonath le mie scelte sono andate male".

Gandalf, però, sottolinea che le cose sono andate inaspettatamente bene, perché "fra loro i nostri nemici hanno macchinato per portare Merry e Pippin con straordinaria velocità, in un attimo, a Fangorn, dove altrimenti non sarebbero mai arrivati". Ci sono molti di questi rinvii, non tutti immediatamente evidenti. Avremmo potuto pensare fosse stata la "fortuna" a salvare Frodo dall'Occhio di Sauron su Amon Hen, ma non è stata la fortuna, è stato Gandalf. Tuttavia lo scopriamo solo sessanta pagine dopo e un lettore poco attento potrebbe perfino non capirlo mai. Il rinvio più importante, secondo me, ma alcuni non sono d'accordo e molti altri non se ne sono mai accorti, deriva dai palantir. Questi ingannano continuamente chi li usa. Prima Sauron, poi Denethor, cercano di indovinare cosa accadrà dopo e programmare di conseguenza le loro azioni. Questo è un errore terribile, come dice Galadriel a Sam dopo aver guardato nel suo Specchio:  "Alcune cose non accadranno mai, anche se coloro che hanno queste visioni devieranno dal loro cammino per farle accadere".

Prendete le vostre decisioni, non cercate di saperne di più della provvidenza. Quest'ultima è risultato di tutte le decisioni, le intesse tra loro nel suo modello provvidenziale. Nessun umano può sapere come andrà perché "perfino i saggi non possono saperlo".

Penso che questa sia una dichiarazione molto chiara, molto più chiara, di fatto, di quella della Filosofia a Boezio, ma essenzialmente identica. Qui il concetto viene espresso con un linguaggio non filosofico, come una storia, non come un'argomentazione, come un insieme di esempi, non come una tesi. Essendo un filologo e non un filosofo trovo gli esempi molto più facili da comprendere del principio generale.

Tolkien non è stato l'unico autore inglese  a  giungere  a  questa  conclusione.
George Eliot, nome d'arte di una donna, nel suo breve romanzo Silas Marner racconta una serie di disastri:  un avaro derubato del suo oro, una fanciulla che si è smarrita, un padre scomparso, un ladro che non viene mai scoperto. È anche degno di osservazione, e ai filologi questo piace molto, che è uno dei pochissimi romanzi inglesi di tutti i tempi in cui nessuno parla un inglese corrente:  parlano tutti una forma o l'altra di dialetto provinciale.

Alla fine, gli eventi non sono riassunti da un narratore istruito, ma da Dolly Varden, una povera donna di campagna che parla solo il suo dialetto. Fa un lungo discorso, che in realtà è sulla provvidenza. "Noi - afferma - vediamo solo parti degli eventi e ci possono sembrare dei disastri, ma, se li vedessimo nel loro insieme, forse non ci sembrerebbero tali".
La cosa ancor più strana nel suo discorso è che si tratta chiaramente di una parafrasi del paragrafo 6 del quarto libro del De consolatione philosophiae, ma, sebbene questo romanzo sia stato studiato, pubblicato e arricchito di note più volte, non credo che i miei colleghi nel campo letterario degli studi inglesi se ne siano mai accorti.

Perché avrebbero dovuto? Boezio scriveva in latino, lingua che non fa parte del programma di studio inglese. Nelle facoltà di inglese non si studia la filosofia.
Ahimé, tutto ciò fa parte della crescente suddivisione in settori degli studi nella moderna università. Tuttavia, senza la filosofia non possiamo sempre comprendere la narrativa; Tolkien, con il suo amico Lewis, è stato uno dei grandi comunicatori di filosofia al mondo moderno, che corre il pericolo di dimenticarla.


(©L'Osservatore Romano - 27 maggio 2010)
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26/05/2010 19:53
 
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Una scintilla che rivela
l'uomo all'uomo


di Andrea Monda

Tolkien ha espresso la sua profonda fede cattolica non solo nella vita privata, ma anche nelle sue opere letterarie e nel suo capolavoro, un romanzo che, come le parabole di Gesù, non parla di Dio direttamente, ma ha "l'elemento religioso radicato nella storia e nel simbolismo". (...) Vorrei chiarire due aspetti:  il primo è che tra l'opera e la vita dell'autore esiste un qualche nesso, un legame che non è mai preciso e definito in modo universale e deterministico ma comunque sussiste; la seconda è che è proprio dello stile del cristiano preferire la narratività alla speculazione astratta.

Sul primo aspetto, relativo al rapporto vita-opera vorrei citare un filosofo, Luigi Pareyson, che nel suo saggio su I problemi attuali dell'estetica, afferma che:  "Nel far arte, l'artista non solo non rinuncia alla propria concezione del mondo, alle proprie convinzioni morali, ai propri intenti utilitari, ma anzi li introduce, implicitamente o esplicitamente, nella propria opera, nella quale essi vengono assunti senza essere negati, e, se l'opera è riuscita, la loro stessa presenza si converte in contributo attivo e intenzionale al suo valore artistico, e la stessa valutazione dell'opera "esige" che se ne tenga conto".

Passiamo oltreoceano e ascoltiamo le parole di Leif Enger, uno degli scrittori americani più interessanti degli ultimi anni che si chiede:  "Non so come sia possibile scrivere un libro senza che la tua fede appaia. (...) La tua fede ha sempre a che fare, io penso, col modo in cui tu vedi il mondo e, dato che il mio modo di vedere le cose è quello cristiano, questo è il modo in cui il mio lavoro va letto. Detto questo però, il mio libro non è un tentativo di fare evangelizzazione. (...) Se qualcuno scrivesse un libro assicurandosi che nessun elemento della sua fede possa entrare nell'opera, che genere di libro sarebbe? Non penso sarebbe un romanzo.

Forse un libro di matematica". Il signore degli anelli non è un libro di matematica, e nemmeno di filosofia. È stato scritto da un uomo il cui modo di vedere le cose era quello cattolico e quindi forse può aiutare leggerlo conoscendo questo "dettaglio", che non è certo un mero dettaglio. Nelle sue numerose e spesso meravigliose lettere io ho letto Tolkien lettore di se stesso che fa una lettura della sua opera, una lettura se vogliamo "dal di dentro", in cui egli stesso racconta la genesi dell'opera mentre la sta componendo. Su tale aspetto ritorno al termine di questo primo intervento, ma adesso voglio sottolinearlo perché "l'epistolario critico" di Tolkien mi è sembrato un tesoro prezioso per entrare nella conoscenza di questo ricchissimo e variegato romanzo.

Il secondo aspetto è relativo al fatto che appunto Tolkien, proprio perché cattolico, è scrittore, narratore, più che pensatore. Non che ci sia un'opposizione tra filosofia e religione, tra fede e ragione, tutt'altro (questo convegno è stato organizzato dall'Istituto che studia il più grande genio dell'Occidente, la vetta più alta a un tempo della filosofia e della teologia), ma il punto è che la religione cristiana è la religione dell'incarnazione e quindi della concretezza ed è basata su un libro sacro, la Bibbia, che in ossequio alla mentalità ebraica fugge da ogni categoria astratta privilegiando la fisicità e il dinamismo dell'azione sulla fissità delle idee.

Di tutte le discipline artistiche forse la letteratura è la più "incarnata" come diceva Flannery O'Connor e quindi non c'è niente da fare ma c'è un legame tra cristianesimo e letteratura. Chesterton citando san Tommaso d'Aquino osservava la vicinanza tra cattolicesimo e romanzo, vicinanza imperniata sull'elemento del libero arbitrio ed è la stessa O'Connor, che si definiva una "tomista zoticona", ad affermare che:  "Non sono scrittrice benché cattolica, ma proprio in quanto cattolica...come cattolica non posso essere meno che artista".

Chesterton osserva che "questa creatura era realmente diversa da tutte le altre:  perché era non solo creatura, ma creatore. Il che non può essere detto se non dell'uomo" e, per arrivare finalmente al nostro Tolkien, è fondamentale per comprendere la sua poetica, la sua dottrina della mito-poiesi e del sub-Creatore per cui:  "Creiamo secondo la legge che così ci ha creati". Per dirla più chiaramente:  l'uomo è creatura di Dio e, come Dio che è creatore, anche lui crea, ma non a livello primario ma secondario, il livello dell'arte. L'artista è dunque un sub-Creatore esercitando la fantasia egli rivela così la scintilla divina che lo inabita e da cui scaturisce la sua più profonda e inalienabile dignità.


(©L'Osservatore Romano - 27 maggio 2010)
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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27/01/2011 00:36
 
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E se gli hobbit fossero santi?


Andrea Monda spiega il significato teologico de “Il Signore degli Anelli”


di Antonio Gaspari

ROMA, lunedì, 29 settembre 2008 (ZENIT.org).- Sarà in libreria a fine novembre, ma il libro “L’Anello e la croce”(Rubbettino), scritto da Andrea Monda, ha già suscitato un notevole interesse.

Il libro si propone esplicitamente di indagare il significato teologico de “Il Signore degli anelli”, cercando di capire chi sono veramente gli hobbit, rispondendo a domande del tipo: e se fossero le nuove figure di eroi che ben si attagliano alle atrocità e ai drammi del XX secolo? E se fossero figure di santi? E se Frodo fosse una figura di Cristo?

Monda, professore e giornalista, che ha già pubblicato nel 2002, insieme a Saverio Simonelli, un volume dal titolo “Tolkien, il signore della fantasia”, è convinto che gli hobbit incarnino “i piccoli che saranno i primi” e gli “umili” del Vangelo ai quali saranno rivelati i segreti del Regno.

Intervistato da ZENIT, Monda ha spiegato che “Il Signore degli Anelli di Tolkien è un libro dal duplice destino: snobbato dalla critica letteraria ufficiale (specialmente in Italia), ha ricevuto dai lettori di tutto il mondo, da oltre cinquant’anni, un successo straordinario che lo ha portato ad essere uno dei libri più letti ed amati”.

Una delle questioni più discusse dai critici e dai lettori in questo mezzo secolo è stata la reale o presunta natura religiosa dell’opera.

Per l’autore de “L’anello e la croce” se da una parte “all’interno del romanzo non si trovano elementi espliciti di religiosità”, dall’altra “la storia stessa raccontata da Tolkien, e i suoi significati, rivelano una sostanza non solo religiosa ma squisitamente cristiana e cattolica”.

Nell’opera di Tolkien, Monda legge la figura messianica in tre personaggi: Aragorn, il re; Gandalf, il profeta; Frodo (che non per nulla è celibe...), il sacerdote.

Quest’ultimo risponde a una missione e obbedisce a una volontà altrui, quella di Gandalf, essendo pronto al sacrificio per salvare gli altri.

E Gollum? Per Monda “l’ambiguo hobbit è come Giuda”, un traditore che però alla fine si trasforma in strumento provvidenziale.

Monda ha raccontato a ZENIT di aver letto “Il Signore degli Anelli” la prima volta nel 1978 e di averlo da allora discusso e commentato in più occasioni. Il libro “L’anello e la croce” nasce dalla tesi di laurea in Scienze Religiose, che ha conseguito presso la Pontificia Università Gregoriana nel 2005.

Alla domanda su come abbia fatto a vedere la teologia in un romanzo di avventura e fantasia, il professor Monda ha sostenuto che “la vita è un’avventura”, e per il cristiano “la vita non è solo lo scorrere del tempo cronologico, biologico, ma è l’accogliere il Dio che viene, l’avvento del Cristo che irrompe nella nostra esistenza e la trasforma. La storia umana non è solo umana”.

“E la fantasia – ha continuato Monda – non è solo una sterile evasione in un mondo immaginario”.

Se la fantasia è quella cosa che la parola stessa indica (dal greco Fòs, luce) allora si capisce che essa “non è ‘evasione’ bensì ‘visione’ e quindi tutto cambia. Con la fantasia l’uomo si rende conto che il mondo non è solo quello che appare, che la realtà non coincide con la verità ma ad essa rinvia, la realtà diventa segno e simbolo”.

In merito alla visione simbolica del romanzo e dei personaggi ideati da Tolkien, Monda è convinto che “Tolkien era uno spirito profondamente religioso e cattolico (e così definisce anche il suo romanzo più famoso), voleva parlare delle cose eterne, non di quelle transeunte, per citarlo direi che lui amava i fulmini e non le lampadine, i cavalli e non le automobili”.

“A lui interessava ciò che ‘resta’, cioè che ‘resiste’. E sapeva che questa è la carità, come dice San Paolo nella lettera ai Corinzi. E allora s’inventa una storia dove l’amicizia e l’amore sono le cose che resistono a tutto, anche alla catastrofe finale che per Tolkien è una eu-catastrofe (è un suo termine): uno sconvolgimento improvviso e violento che però porta il Bene, porta al Bene ed è un segno che nella sua drammatica storia l’uomo non è abbandonato a sé stesso ma è accompagnato sempre dalla luce della grazia di Dio”.

Nel volume, Monda fa una lettura simbolica dei personaggi, Ad esempio il personaggio di Sauron, l’Oscuro Signore, il Satana della storia, viene sconfitto da una piccola compagnia di viandanti, i nove della Compagnia dell’Anello.

“Sauron è uno spirito solitario – ha spiegato Monda – , è uno spirito, cioè non è incarnato, ed è solitario, arroccato nella sua torre nera e superba, chiuso ad ogni tipo di relazione (non a caso è rappresentato da un occhio solo: egli detesta l’alterità) e questo terribile signore della guerra viene sconfitto da alcuni piccoli personaggi, in particolare gli hobbit, che non sono potenti, ma sono uniti da vincoli di amicizia: la Compagnia, da cum-panis, coloro che spezzano il pane insieme”.

“E’ la compagnia-comunione, fatta d’amore e d’amicizia (pur tra mille cedimenti e tradimenti) che vince contro l’arroganza del potere che si erge da solo contro tutti, con volontà di strumentalizzazione nei confronti degli altri”, ha precisato l’autore.

“Gli hobbit – sostiene Monda – sono la più grande invenzione di Tolkien, perché degli eroi, dei cavalieri, dei maghi, dei nani e dei draghi si sapeva già, ma gli hobbit non li conosceva nessuno. Eppure sono loro che permettono il lieto fine della storia”.

Monda ha rilevato che “i pagani non conoscevano il ‘lieto fine’ che non è un’invenzione di Hollywood, ma un contributo dell’avvento del cristianesimo nella storia dell’arte e della cultura dell’Occidente”.

“La storia ha una fine, una fine buona perché la storia ha un fine che è la comunione con Dio, rispondere alla sua chiamata”, ha sottolineato l’autore del saggio su Tolkien.

Monda ha affermato che “gli hobbit collaborano con Dio al raggiungimento di quel fine. Lo fanno con umiltà, senza piena consapevolezza, ma con tenacia. Essi sono gli umili del Magnificat, che saranno esaltati, mentre i ricchi e i potenti saranno rovesciati dai loro troni”.

“E' proprio ciò che accade nel Signore degli Anelli – ha concluso – ; è, se vogliamo, la morale della favola”.


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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Gli hobbit di Tolkien: non eroi ma semi-uomini che salvano il mondo


Un saggio analizza il legame tra le opere dello scrittore britannico e le Sacre Scritture


 

di Luca Marcolivio

ROMA, sabato, 10 dicembre 2011 (ZENIT.org) - Le opere di John R.R. Tolkien hanno conosciuto una diffusione di massa, anche in Italia, soprattutto dopo le riduzioni cinematografiche della trilogia del Signore degli anelli. Relativamente meno nota è la vicenda umana intellettuale del loro autore che, a livello critico-accademico, ha sempre avuto una letteratura piuttosto esigua nel nostro paese.

Un recente significativo contributo è tuttavia quello di Greta Bertani, 41 anni, modenese, che ha recentemente pubblicato Le radici profonde. Tolkien e le Sacre Scritture (Il Cerchio, 2011), suo primo saggio interamente dedicato allo scrittore britannico.

La tesi di fondo dell’opera è la conferma della possibilità di una doppia lettura di Tolkien: se da un lato la modalità espressiva è quella della favola e del mito, ispirati alle leggende del Medioevo anglosassone, dall’altro le fondamenta della narrativa tolkieniana, a partire dal Silmarillion, risiedono nelle fonti della Sapienza Biblica.

Come sottolineato dal giornalista e scrittore Andrea Monda nella prefazione, svariati anni fa alcune statistiche citavano Il Signore degli anelli come il libro più letto del mondo, dopo la Bibbia. Sorvolando sulla fondatezza di questa affermazione il prefatore, appoggiando l’autrice, ritiene che il legame tra l’opera di Tolkien e le Sacre Scritture “ci sia, e anche molto stretto”.

Sono note, dagli elementi biografici e dall’epistolario, la fede e la cultura profondamente cattoliche di Tolkien: un cattolicesimo spiccatamente legato alla tradizione, in acceso antagonismo con la scristianizzazione della modernità.

Nelle sue opere, lo scrittore britannico è coerente al proprio credo e “non teme di utilizzare personaggi e forma narrative della mitologia per esprimere se stesso e la propria fede”, scrive Greta Bertani nell’introduzione al suo saggio.

“Studio le opere di Tolkien sin dall’università – ha raccontato Bertani a Zenit – e mi sono laureata con una tesi su di lui. Intuii da subito le analogie con le Sacre Scritture: ad esempio la morte e il ritorno di Gandalf, il pane elfico che sazia e ristora l’anima, Frodo che, come Abramo, deve lasciare la sua terra”.

Caratteristica degli eroi tolkieniani è, in fin dei conti, quella di non essere affatto degli eroi. In essi è facile riscontrare i limiti e le fragilità degli uomini comuni. “Né Frodo, né Sam sono abili di spada – osserva Bertani – né hanno idea della strada che dovranno percorrere. L’anello li ha strappati alla sicurezza e alla routine della loro quotidianità”.

Come dichiara a Zenit Andrea Monda, gli hobbit sono “pigri, tranquilli, abitudinari e ritualisti; hanno tutti i nostri vizi e vezzi, compreso il pettegolezzo. Più che vivere la vita, la osservano. Manca loro la sete e, come dice Gandalf, chi riconosce di avere ancora sete, ha ancora speranza”.

In Tolkien è profondamente cristiano, inoltre, il “rovesciamento della quest”: al contrario di archetipi letterari come il capitano Acab di Moby Dick o il Faust, mossi dall’orgoglio o dalla vendetta, gli “eroi” tolkieniani “rinunciano alla loro vita per la salvezza degli altri”.

Gli hobbit sono personaggi molto più umani della maggior parte degli eroi della letteratura antica, medioevale e moderna, da Omero in poi: devono fare i conti con la tentazione della conquista del potere e, alla fine, capiscono che rinunciare al potere stesso è un atto ben più eroico.

L’irruzione dell’anello nelle loro vite porterà gli hobbit nel cuore di un’avventura molto più grande di loro, al termine della quale risulteranno vincitori nonostante i loro oggettivi limiti, ad esempio, nelle doti militari.

Ciò che li salva, come per gli apostoli di Cristo, è la loro umiltà e la loro prontezza nel rispondere alla chiamata a salvare il mondo. Il loro punto di forza è anche il non prendersi troppo sul serio: è l’autoironia a salvarli.

L’epilogo del Signore degli Anelli è simile a quello del Vangelo: il male è sconfitto ma continua ad operare. Eppure a salvarci non è stato nessun superuomo nietzschiano e nemmeno un uomo ma dei “semi-uomini”. Proprio come gli hobbit…

È possibile acquistare il libro cliccando su:

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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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10/06/2013 15:10
 
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PAPA FRANCESCO E “IL SIGNORE DEGLI ANELLI”: LA VIA PER LA SALVEZZA

 9 giugno 2013 / In News


Giovanni Paolo II è stato un grande papa condottiero della libertà. Benedetto XVI è stato il vero illuminista – ha inondato di luce razionale illuminata dalla fede – un occidente ottenebrato dall’irrazionalità nichilista.
 Ma né l’uno né l’altro sono stati ascoltati da questa Europa in declino che sembra correre verso il baratro.
 Così – per uno spettacolare colpo di fantasia del Conclave (e dello Spirito Santo) – è arrivato papa Francesco che parla più ai piccoli e ai semplici cristiani che alle élite, alle accademie e ai salotti. Col risultato che le élite non lo capiscono. Esce da tutti i loro schemi mentali.
 Ebbene, per sintonizzarsi con questo pontificato secondo me bisogna leggere “Il Signore degli Anelli” di John R. R. Tolkien. O meglio rileggerlo attraverso l’interpretazione che ne dà un monaco benedettino, Giulio Meiattini, nel libro “La discrezione di Dio”. Interpretazione che ha, sullo sfondo, il libro di Paolo Gulisano, “Tolkien: il mito e la grazia”, opera che ha il merito di mettere a fuoco la cattolicità di Tolkien.
 
OCCIDENTE
 
Padre Meiattini nota che lo scenario  su cui si muovono le vicende narrate dallo scrittore inglese è “quello, storicamente determinato, della crisi contemporanea della civiltà occidentale”, l’epoca di Spengler, Huizinga, Jasper.
 
Tolkien scrisse il suo poema epico negli anni fra le due guerre mondiali, quando imperversavano i due orrendi totalitarismi, nazista e comunista, e nuove minacce planetarie – come l’arma atomica – venivano apparecchiate dalla scienza.
 La Terra di mezzo “possiede alcuni tratti fondamentali del Vecchio Continente, del mondo occidentale europeo” che – in rovina – si trova a dover “fronteggiare un’immensa forza negativa, violenta e distruttrice, che da Est, dalla terra di Mordor, allarga sempre più il suo raggio d’azione”.
 
In questo quadro l’ultimo “baluardo a difesa dell’Occidente” – come scrive Tolkien, è rappresentato dalla fortezza di Minas Tirith, eretta degli uomini di Gondor. E’ ciò che rimane di quello che fu il magnifico regno di Numenor (nome che significa appunto “regno dell’Occidente”).
 Negli anni in cui l’inglese Tolkien scriveva l’Oriente era il luogo dei totalitarismi, dell’orrore e delle ideologie assassine. Proprio perché egli non volle scrivere un poema allegorico a sfondo politico, morale o religioso, ha creato un capolavoro che contiene tutte insieme queste chiavi di lettura.
 Così è attuale anche oggi che la minaccia per l’Europa è cambiata. Infatti nella nostra epoca il tenebroso oriente, la terra di Mordor e l’oscuro Sauron sono impersonati da altre forze. Ma i Sauron di tutte le epoche sono accomunati dalla stessa menzogna: la pretesa di porsi al posto di Dio.
 
LA SPERANZA
 
Per questo – come scrive Gulisano – “Il Signore degli Anelli rappresenta un autentico manuale di sopravvivenza tra gli errori e gli orrori della modernità”.
 Anche oggi del resto sentiamo risuonare l’allarme apocalittico di Denethor, re di Gondor: “L’Occidente soccombe. Avvamperà un enorme incendio e tutto scomparirà”.
 
Qual è dunque – per Tolkien – la via della salvezza? Egli mette sulle labbra del grande e saggio Gandalf  l’intuizione più preziosa: “Le nostre forze sono state appena sufficienti a respingere il primo assalto. Il prossimo sarà più massiccio. Questa guerra è quindi senza speranza, come Denethor aveva intuito. La vittoria non può raggiungersi con le armi”.
 Sembrerebbe un’affermazione disperata, ma poi Gandalf precisa: “Ho detto che la vittoria non si potrà raggiungere con le armi. Spero ancora nella vittoria, ma non nelle armi”.
 E qui c’è la sorpresa, la grande intuizione di Tolkien, che poi è il paradosso cristiano. In chi Gandalf ripone la sua speranza? In un Eroe solitario? In una pattuglia di arditi? In una qualche stregoneria esoterica? In una nuova arma spettacolare e devastante?
 
No, nel giovane Frodo Baggins, uno hobbit, un ragazzino inerme, senza alcun potere, senza alcun sapere, un adolescente buono, semplice e inesperto.
 E’ lui – la creatura meno tentata dall’Anello (metafora del Potere) – che si prenderà il gravoso incarico di avventurarsi nell’orrida terra del nemico e, in cima al monte Fato, gettare l’Anello nel vulcano.
 Quell’Anello va distrutto perché – come dice Gandalf – “se Sauron lo riconquista, il vostro valore è vano e la sua vittoria sarà rapida e totale… se invece l’anello viene distrutto egli soccomberà”.
 
PER VINCERE
 
A prima vista viene da obiettare: perché non usare proprio l’anello di Sauron per sconfiggere lo stesso Sauron? Tolkien mostra che questa è la tentazione di tutti, ma è anche l’inganno più terribile e devastante.
 “La salvezza dell’Occidente” scrive padre Meiattini “non è dunque dipendente dal potere militare o tecnologico, cose in cui Sauron non teme rivali e sulle quali edifica il suo regno, distruttivo contemporaneamente della natura e dei legami umani più veri”.
 
La salvezza è di natura spirituale.
 
“La salvezza” spiega Meiattini “dipende dal solitario cammino di un hobbit debole e inerme che porta, senza cedervi, il peso della tentazione e che alla fine distrugge la tentazione stessa, insieme all’anello che ne è l’oggetto e la fonte, vincendo non per forza propria, ma per un colpo di scena della Grazia”.
 Quella di Frodo, “il Portatore dell’Anello”, è un’autentica Via Crucis, ma – osserva padre Meiattini – “chi sceglie la via della debolezza e della povertà, proprio grazie alla sua totale estraneità ai percorsi storici e mentali dell’autoaffermazione prevaricante del soggetto, sfugge alla presa dell’Occhio e dell’Ombra. Questa è l’unica mossa che Sauron non si aspetterebbe mai, l’unica che lo prenderebbe di sorpresa: che qualcuno decidesse di disfarsi dell’Anello del potere, di distruggerlo, invece di usarlo. Per lui questo sarebbe follia”.
 
E’ precisamente la “follia” cristiana, la “follia” di un Dio onnipotente che si fa uomo e che si lascia crocifiggere.
 Conclude Meiattini: “la vera battaglia che salva l’Occidente, perciò, non è quella che si combatte sotto i bastioni di Minas Tirith, ma la battaglia del cuore, della mente e del corpo che in primo luogo Frodo sostiene per tutti”.
 
IL CAMMINO E LA GRAZIA
 
La sua “progressiva purificazione”, il sostegno della Compagnia dell’Anello, preziosa pur essendo anche i suoi membri soggetti alla caduta e al tradimento, come lui del resto (ma ce ne sono anche puri e fedeli come l’amico Sam), infine certi aiuti come quel cibo degli elfi, il “lembas”, che è una chiara metafora dell’eucarestia, segnano un cammino spirituale che porta il giovane Frodo alla salvezza del suo mondo.
 
Frodo vince non con l’autoaffermazione, ma proprio col sacrificio e la rinuncia. Del resto egli è il vero antieroe.
 Il Novecento (quel Novecento delle ideologie che tanto hanno disprezzato il “piccolo borghese”) si è ubriacato con il culto dell’eroe, del superuomo, del Capo, delle forze storiche (la Classe, la Razza), delle entità divinizzate a cui sacrificare i popoli (il Mercato, lo Stato, il Partito, la Rivoluzione, la Scienza). Da qui è venuta e viene la minaccia e la rovina per la loro “pretesa divina”.
 Invece la salvezza viene dal piccolo e debole uomo singolo, dalla sua silenziosa offerta di sé. Secondo Meiattini “è presente nell’opera di Tolkien una teologia della sostituzione vicaria che lo avvicina ad altri grandi romanzieri cattolici come Bernanos, Mauriac, Gertrude von le Fort”.
 
Vorrei aggiungere che lo avvicina ai santi del Novecento (cito padre Kolbe e padre Pio per tutti). Ma Frodo, il vero eroe del nostro tempo, è anzitutto il simbolo del bistrattato uomo semplice, del singolo, il fante delle due guerre mondiali, il padre di famiglia, l’uomo comune, il piccolo borghese, l’adolescente.
 E’ soprattutto a lui che parla papa Francesco chiamandolo a salvare il mondo. Non con le proprie forze, ma con la Grazia.
 Dice Meiattini: “è la grazia infatti la protagonista invisibile, ma palpabile del Signore degli Anelli”. E’ solo la Grazia che crea eroi veri.
 
Antonio Socci
 
http://www.youtube.com/watch?v=FmjIaWIDtCk
 
Da “Libero”, 9 giugno 2013
 
Vedi Facebook: “Antonio Socci pagina ufficiale”

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copertina libro



Claudio Antonio Testi 
SANTI PAGANI NELLA TERRA DI MEZZO DI TOLKIEN

ISBN: 978887094-881-3
dimensioni: 140 x 210 mm
rilegatura: brossura
collana: Filosofia e Teologia
pagine: 224
anno: 2014

€ 22,00

L’opera di Tolkien è cristiana o pagana? La domanda ha interpellato lettori e studiosi fin dal 1954, anno di pubblicazione del primo volume del Signore degli Anelli.
Ad oggi però, nonostante la notorietà “planetaria” di Tolkien (dovuta anche alle trasposizioni cinematografiche di Peter Jackson) questo importante snodo non è ancora stato affrontato con quella completezza critica che merita un autentico classico della letteratura. Il presente volume è un tentativo in questa direzione.
Dopo un dettagliato esame delle principali interpretazioni italiane ed estere sul tema, viene proposta un’“originale” lettura sintetica che pone in luce l’inesauribile profondità dell’opera tolkieniana. Si vedrà così come Frodo, Gandalf o i Cavalieri di Rohan, pur essendo a tutti gli effetti dei pagani, esemplificano gli aspetti migliori della natura umana, capace di cogliere che oltre i confini del mondo vi è qualcosa «più dei ricordi» (Aragorn ne Il Signore degli Anelli, Appendice A.5).
Corredano il volume una vastissima bibliografia e dettagliati indici e sommari.

Guarda la video presentazione

 


Leggi l´anteprima

Claudio Antonio Testi - nato a Modena nel 1967, è laureato in Filosofia all'Università di Bologna e co-fondatore dell'Istituto Filosofico di Studi Tomistici. Le sue numerose pubblicazioni spaziano da studi esegetici sulla metafisica tomista a scritti di logica formale. Da sempre attento all’opera di Tolkien, ha negli ultimi anni scritto numerosi contributi sul tema e curato molti volumi per la collana «Tolkien e dintorni», della quale è direttore. È stato il primo italiano a vedere pubblicato un suo articolo sulla prestigiosa rivista internazionale «Tolkien Studies». È membro dell´Istituto Filosofico di Studi Tomistici di Modena, presso il quale insegna abitualmente, www.istitutotomistico.it/

Guarda le opere di Claudio Antonio Testi





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