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Formazione ANCHE DEI FORMATORI che formeranno i sacerdoti...

Ultimo Aggiornamento: 05/06/2017 09:13
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A colloquio con il segretario generale della Pontificia Opera Missionaria san Pietro Apostolo

La formazione dei formatori priorità dell'Anno sacerdotale


 

di Nicola Gori

Non solo la formazione dei seminaristi ma anche quella degli stessi formatori deve essere una priorità dell'Anno sacerdotale. È quanto afferma, in questa intervista rilasciata al nostro giornale, monsignor Jan Dumon, segretario generale della Pontificia Opera Missionaria di san Pietro Apostolo.

La formazione del clero autoctono è una delle priorità della Pontificia Opera Missionaria di san Pietro Apostolo. Avete promosso delle iniziative particolari in occasione dell'Anno sacerdotale?

Non abbiamo iniziative particolari, nel senso che non organizziamo direttamente degli eventi a livello mondiale. Appoggiamo semmai delle iniziative promosse localmente dai vescovi e dai responsabili dei seminari. Sono essenzialmente convinto che bisogna tradurre in termini di formazione lo scopo dell'Anno sacerdotale.

 Cosa rappresenta questo anno per i seminari nei Paesi in via di sviluppo?

Prima di tutto rappresenta ciò che è per tutta la Chiesa:  una riflessione sui fondamenti del sacerdozio, un aggiornamento dell'impegno a seguire Cristo nel sacerdozio e a essere preti secondo il cuore di Dio. Le iniziative da prendere devono servire per concentrarsi su questo scopo essenziale. Penso che l'espressione "qualità integrale" sia rivelatrice di ciò che rappresenta l'Anno sacerdotale per i seminari. Non si tratta, cioè, semplicemente di preparare un piano di studi per i seminaristi, come è sempre stato; bisogna farlo con la preoccupazione di pensare non solo alla formazione intellettuale, ma anche a quella spirituale, morale e sociale. Credo che l'Anno sacerdotale sia per i vescovi una buona opportunità per concentrarsi sulla qualità della formazione.

Quali sono le principali forme di aiuto che l'Opera eroga ai Paesi di missione?

La formazione per noi è una priorità. Un docente del seminario deve possedere una disciplina e un'arte per guidare i giovani nel loro cammino spirituale e metterli in grado di scoprire ciò che Cristo chiede loro. Deve possedere la dote del discernimento per aiutare il seminarista a diventare un uomo di preghiera, che è cosa differente dal semplice seguire esercizi di pietà. Occorrono, perciò, formatori che accompagnino i giovani in questo cammino. Negli ultimi anni, si nota una maggiore presa di coscienza al riguardo e si organizzano corsi specifici. La formazione è dunque la prima cosa che l'Opera finanzia. Per noi molto importante. Formazione significa anche mettere in grado le diocesi di avere un seminario efficiente. Per questo, cerchiamo di garantire ai vescovi un aiuto costante e sostanziale per le infrastrutture esistenti e per la costruzione di nuovi seminari. Quando si parla di costruzione degli edifici si intende anche mantenimento. Considerando che nei Paesi africani la mancanza di acqua potabile è un grande problema - come lo è il reperimento dell'elettricità - una parte dei nostri finanziamenti si indirizza anche al reperimento di queste risorse. Altri soldi vengono destinati all'acquisto di libri indispensabili per le biblioteche e per l'informatizzazione. Purtroppo, ci sono ancora molti Paesi dove i seminaristi non hanno familiarità con il computer e con internet. Per parlare in termini di bilancio, possiamo dire che la forma principale del nostro intervento è quella del sussidio ordinario, che riguarda il 75 per cento del nostro budget. Riguardo ai seminari maggiori il contributo alle spese generali è di 700 dollari l'anno per ogni seminarista.

Oltre che del clero, l'Opera si occupa anche della formazione dei religiosi?

I religiosi in genere sono di competenza dell'Opera della Propagazione della Fede. C'è però un aspetto sul quale interveniamo:  eroghiamo sussidi per l'anno canonico dei novizi sotto forma di contributo ordinario. Lo inviamo direttamente alle congregazioni religiose per sostenerle nelle spese di formazione dei nuovi membri.

Ritiene necessaria una revisione dei criteri di formazione finora impiegati nei seminari d'Africa e d'Asia?

Sono stato per 17 anni formatore in un seminario maggiore in Congo. Sono convinto che dobbiamo fare ancora un grande lavoro di inculturazione e di contestualizzazione della formazione nei seminari d'Africa e d'Asia. L'inculturazione non va intesa semplicemente come possibilità di utilizzare qualche espressione esteriore nella liturgia, per esempio suonare il tamburo. Penso, invece, si tratti soprattutto di adattarsi meglio alle abitudini di vita di quei Paesi. Non basta imitare meccanicamente l'iter formativo seguito nei seminari in Europa; piuttosto, bisogna cercare ciò che aiuta ad avere preti che siano realmente al servizio del Vangelo nel contesto culturale locale.
In Europa consideriamo normale che il parroco non abbia problemi economici, sia per quanto riguarda l'alloggio, sia per quanto riguarda il necessario per vivere e svolgere la sua attività pastorale. Come si può pensare che in tanti Paesi poveri dell'Africa e dell'Asia, dove non c'è nessun intervento da parte dello Stato, la Chiesa riesca a mantenere i sacerdoti e le sue strutture? È chiaro che il problema di un equilibrio finanziario è molto grande. Non è facile dire alla Chiesa che deve cercare di autofinanziarsi. Come fa a mantenersi in un Paese dove la maggioranza della popolazione ha uno stipendio di due dollari al giorno? Penso che in Europa molti ancora si illudano di risolvere questo problema. D'altra parte, però, non è bene nemmeno avere una Chiesa dipendente in permanenza dagli aiuti internazionali. Di fronte a questa situazione, penso che dobbiamo cercare di formare i giovani a una spiritualità aperta alla disponibilità:  giovani capaci, cioè, di vivere nella dignità e nella gioia anche in situazioni di povertà, ma non di miseria.
Un altro punto su cui lavorare è la necessità di formare alla vita di preghiera, sfruttando la ricchezza della spiritualità esistente nella mentalità e nelle tradizioni africane. È un grande errore pensare che dobbiamo cominciare da zero, perché i popoli dell'Africa e dell'Asia sono in genere molto più religiosi di quelli europei. Hanno un istinto innato al trascendente molto più forte che nell'Europa secolarizzata. A questo proposito vorrei ripetere che troppo spesso la formazione è modellata sull'esperienza europea. Questo è normale, perché il seminario come tale è un'istituzione adottata dalla Chiesa europea dopo il concilio di Trento. Certamente è una cosa buona, ma bisogna aggiornarla continuamente. Penso ci sia ancora un grande lavoro da fare a livello delle Conferenze episcopali regionali, nazionali e continentali.

Crede che l'esempio di san Giovanni Maria Vianney sia applicabile ai seminaristi africani e asiatici?

Lo credo a una condizione:  che sia ben presentata la sua figura, nel suo giusto contesto e dopo aver compiuto un lavoro ermeneutico. È chiaro che non si può trapiantare l'esempio del santo, vissuto nella Francia di tutt'altra epoca, in un altro Paese lontano culturalmente e nel tempo. Se ne possono però mostrare alcuni aspetti che sono validi universalmente:  la sua disponibilità nel seguire la vocazione, la sua insistenza nel raccomandare di accostarsi spesso al sacramento della riconciliazione, la sua dedizione incondizionata ai parrocchiani. Occorre presentare questi aspetti tenendo conto del linguaggio e dei costumi dell'epoca. Sono convinto che nei Paesi di cultura diversa da quella europea si debbano presentare anche altre figure locali di testimoni del Vangelo, affiancandole all'esempio di san Giovanni Maria Vianney. Penso a quanto ha fatto la diocesi di Kinshasa, scegliendo il cardinale Madullah, prima parroco, poi vescovo e cardinale, come modello per il clero. Comunque, la figura del curato d'Ars è molto popolare e vari seminari l'hanno scelto come patrono.


(©L'Osservatore Romano - 2 settembre 2009)

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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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UN PRO MEMORIA AI FORMATORI DEI SEMINARI......


Giovanni Paolo II chiede ai sacerdoti di rispettare la liturgia

Come ricorda il cardinal Castrillón presentando la lettera rivolta loro



CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 18 marzo 2005 (ZENIT.org).- Giovanni Paolo II chiede ai sacerdoti di rispettare le norme liturgiche nella celebrazione dell’Eucaristia, ha spiegato questo venerdì il cardinal Darío Castrillón Hoyos presentando la lettera che il Papa ha rivolto loro in occasione del prossimo Giovedì Santo.

Il Prefetto della Congregazione vaticana per il Clero ha spiegato che il voler utilizzare un linguaggio più popolare nella celebrazione della liturgia non sempre aiuta le persone a comprendere meglio il valore di ciò che si sta vivendo.

In risposta ai giornalisti che gli domandavano a cosa si riferisca la lettera pontificia parlando della “obbedienza” alla quale il sacerdote si impegna nel giorno dell’Ordinazione, e che “è invitato a ribadire nella Messa crismale”, il porporato colombiano ha constatato che “dalla stampa si sa che non mancano abusi nel rito sacro dell'Eucaristia”.

“Debbo dire che anche noi riceviamo delle lettere in cui ci si lamenta perché il rito è stato celebrato in una forma forse meno accurata. Dipende della sensibilità delle persone. Però il Santo Padre ci fa presente a noi sacerdoti che l'Eucaristia è l'azione più sacra che possiamo realizzare”.

Il Cardinale ha quindi ricordato la lettera enciclica "Ecclesia de Eucharistia" recentemente pubblicata da Giovanni Paolo II e incentrata “sulla forma del rito” e “la santità del rito”.

“Poi, la Congregazione per il Culto Divino e i Sacramenti ha scritto una istruzione [“Redemptionis sacramentum”], approvata anche in forma speciale dal Santo Padre, perché c'è il problema che qualche volta per far capire le cose si prende un modo di fare più popolare, perché si crede di capire che il popolo ha bisogno di un linguaggio molto semplice”.

Il porporato colombiano ha quindi raccontato di ricordare alcuni ‘comics’ dove la bambina schernisce la mamma che le parla come se fosse stupida, quando invece non è per nulla così.

“Sempre con grande rispetto alla gerarchia locale, ai Vescovi, che sono l'autorità nelle loro diocesi, il Santo Padre richiede ai sacerdoti di essere obbedienti alle norme che i Vescovi danno, specialmente con riguardo all'Eucaristia”, ha aggiunto.

In un passaggio della sua lettera, il Santo Padre nello spiegare come, nella celebrazione eucaristica e nel suo ministero, il sacerdote debba sentirsi coinvolto nella “auto-donazione di Cristo” sulla Croce, scrive: “Obbedendo per amore, rinunciando magari a legittimi spazi di libertà quando si tratta di aderire all’autorevole discernimento dei Vescovi, il sacerdote attua nella propria carne quel ‘prendete e mangiate’ con cui Cristo, nell’Ultima Cena, affidò se stesso alla Chiesa”.

Il rito sacro, la santità del rito, l'immergersi nel mistero, è una cosa che dobbiamo fare con tutta la santità, anche esterna. Ed è di quello che ci parla il Santo Padre”, ha infine concluso il Cardinale.


Fraternamente CaterinaLD

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19/10/2009 22:04
 
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200 anni fa (1809) nasceva a Piovà d’Asti Guglielmo Massaia. Un missionario da porre accanto a figure come Matteo Ricci e Francesco Saverio. Creato cardinale nel 1884 da Leone XIII, dopo una vita passata tra i Galla in Etiopia, scriveva:

«Ho celebrato la mia ultima Messa a Fekerièghemb davanti al gran crocifisso - (infatti fu cacciato nel 1879 dall’imperatore Johannes IV) - … Voglio che i monaci, rimasti nel Vicariato gallo, dalla consacrazione al Pater assistano sempre la Messa inginocchiati con le braccia distese: essi si immagineranno di trovarsi sul Calvario ai piedi della croce con Maria e come Maria offriranno il sacrificio per gli infedeli». [SM=g1740722] [SM=g1740721]


e dal momento che nella Messa abbiamo la Comunione dei Santi....cominciamo ad interpellarli più spesso....


[SM=g1740717] [SM=g1740720]



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02/11/2009 20:46
 
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A colloquio con il rettore del Pontificio Seminario Romano maggiore sull'Anno sacerdotale

Formatori da formare


di Nicola Gori


La formazione dei formatori nei seminari è la vera urgenza dei nostri tempi. In questo sforzo educativo va riconosciuto un ruolo preminente all'esperienza ecclesiale nel cammino vocazionale. Questo implica il coinvolgimento anche dei laici nella valutazione dei candidati al sacerdozio. Lo sostiene monsignor Giovanni Tani, rettore del Pontificio Seminario Romano maggiore, nell'intervista rilasciata al nostro giornale in occasione dell'Anno sacerdotale.

L'Anno sacerdotale può diventare un'occasione per rivedere i metodi formativi applicati nei seminari?

Credo che i metodi formativi siano costantemente verificati. In questi anni si avverte una forte attenzione, fuori e dentro i seminari, sulla formazione al sacerdozio. L'Anno sacerdotale è certamente una buona occasione per riprendere e approfondire la dottrina sul sacerdozio. Il Papa ha detto che questo anno deve "Aiutare innanzitutto i sacerdoti, e con essi l'intero Popolo di Dio, a riscoprire e rinvigorire la coscienza dello straordinario ed indispensabile dono di grazia che il ministero ordinato rappresenta per chi lo ha ricevuto, per la Chiesa intera e per il mondo, che senza la presenza reale di Cristo sarebbe perduto". Nel nostro seminario, e penso che accada in tutti i seminari, i programmi di quest'anno, a partire dagli esercizi spirituali e dai ritiri mensili, hanno come contenuto la riflessione sul sacerdozio di Cristo, sul sacerdozio comune di tutti i fedeli e sul sacerdozio ministeriale ordinato. Non escludo che da tutto il lavoro di questo anno possa scaturire qualche idea riguardo ai percorsi e ai metodi formativi.

Il Pontificio Seminario Romano è una realtà aperta all'universalità, in quanto accoglie giovani da ogni parte del mondo:  come influisce ciò sulla formazione?

Alcuni vescovi italiani e di altre nazioni mandano i loro alunni al Seminario Romano maggiore, perché ricevano qui la formazione al sacerdozio. Il Seminario Romano fin dalla sua fondazione accoglie alunni da diverse diocesi, dove essi, dopo la formazione, ritornano per svolgervi il ministero. Questa convivenza di alunni romani e non romani è un notevole arricchimento per la nostra comunità; i candidati al sacerdozio mettono insieme e confrontano le varie esperienze, le diverse sensibilità culturali, spirituali ed ecclesiali, creando comunione e completando il loro vissuto particolare che così è valorizzato e, al contempo, relativizzato. Si ha così uno spaccato significativo della universalità della Chiesa. Le varie provenienze si ritrovano immediatamente nella comunione ecclesiale, soprattutto nella celebrazione dell'Eucaristia, nella preghiera, nella venerazione a Maria santissima e nell'obbedienza al Papa.

Il Pontificio Seminario Romano è il seminario della diocesi del Papa:  che cosa comporta in termini di impegno rispetto agli altri?

L'impegno in seminario è risposta alla chiamata di Dio, e questo è vero, indifferentemente, per tutti i seminari. Essere il seminario della diocesi del Papa è un motivo in più per impegnarsi e, quindi, una responsabilità in più. Certo, è anche un dono, che si evidenzia ad esempio nel fatto che il Papa visita la nostra comunità tutti gli anni:  una cosa che ci fa onore e che ci espone anche come il "Seminario del Papa". Se poi qualcosa nella nostra vita non risulta ben fatto è facile che si dica:  "E questo è il seminario del Papa!". Per noi è abbastanza naturale pensare al Papa come ultimo riferimento della nostra realtà di Seminario. Comunque il Papa affida al cardinale vicario per la diocesi di Roma il compito di seguire la nostra vita e di darci le linee principali del progetto formativo.

Ritiene necessario un cambiamento dei criteri di valutazione dei seminaristi?

In questi ultimi decenni, a partire dal concilio vaticano II, si sono precisati molti criteri di valutazione. Giovanni Paolo II nella Pastores dabo vobis ha indicato le quattro aree della formazione:  umana, intellettuale, spirituale, pastorale. L'area umana è stata molto studiata, anche con l'apporto della psicologia e delle altre scienze umane. Non vedo necessari cambiamenti dei criteri di valutazione:  è necessario chiarirli bene e saperli applicare nei singoli casi. Forse va accentuata la dimensione ecclesiale del cammino vocazionale attraverso un'autentica esperienza di Chiesa in cui anche i laici possano dare il loro contributo alla formazione e alla valutazione dei futuri sacerdoti. Va anche capito se questi giovani hanno fatto un vero incontro con Cristo, tale da giustificare una scelta come quella per il sacerdozio. Ciò che vedo come molto importante è che si realizzi una vera attenzione alla singola persona, in un dialogo costante che sappia illuminare, motivare e anche correggere, in una atmosfera di cordialità e di fiducia. Se un seminarista sa mettersi in una situazione del genere, mostra di avere la disposizione fondamentale per una formazione. Certo sono necessari formatori all'altezza del compito educativo:  ritengo che la formazione dei formatori sia uno dei capitoli più urgenti dei seminari, perché anche nei seminari si vive un'"emergenza educativa":  i nostri giovani spesso sono segnati dal soggettivismo, che rende difficile la docilità e la docibilità.

Considera il seminario un'istituzione al passo con i tempi o potrebbero essere possibili altre strutture o modalità per la formazione dei candidati al sacerdozio?

Credo che si possa dire che la formazione al sacerdozio ha una struttura che non si può cambiare ed è la formazione comunitaria, anche perché deve portare a saper vivere in quella "fraternità sacramentale" che è il presbiterio. Il modello cui si fa riferimento è la comunità dei dodici apostoli costituita da Gesù:  "Ne costituì Dodici - che chiamò apostoli - perché stessero con lui e per mandarli a predicare". Questo è il nucleo della formazione al sacerdozio:  attorno a esso si possono trovare delle varianti che corrispondano di più ai tempi e ai luoghi. Ma al momento non vedo alternative valide allo schema di seminario indicato dal concilio vaticano II.

È possibile presentare alle nuove generazioni l'esempio di santità sacerdotale di san Giovanni Maria Vianney senza cadere nella semplice devozione?

Abbiamo accolto molto volentieri l'indicazione del Papa a guardare al curato d'Ars come modello del sacerdote. È vero che la sua vita si è svolta in un contesto culturale molto diverso dal nostro, ma la sua santità mette in luce i valori fondamentali della vita sacerdotale (la preghiera, la dedizione completa, la predicazione semplice ed efficace, la confessione e la direzione spirituale, l'attenzione anche ai bisogni materiali delle persone) e questi colpiscono i seminaristi in modo forte. Lo scorso anno siamo andati ad Ars con gli ordinandi diaconi per gli esercizi spirituali in preparazione all'ordinazione:  sono stati giorni molto belli e intensi. La figura del santo ha favorito in tutti, sacerdoti e seminaristi, un autentico momento spirituale. Quest'anno la nostra comunità sarà accompagnata da una icona con il volto di san Giovanni Maria Vianney e da una sua frase:  "Il sacerdozio è l'amore del Cuore di Gesù".

Secondo lei i recenti scandali che hanno colpito alcuni sacerdoti rilanciati dai mass media hanno influito negativamente sui giovani che vogliono diventare preti? Come ricostruire nell'opinione pubblica l'immagine autentica del presbitero?

Certamente quei fatti continuano a colpire e a far riflettere. Rendono più pensoso e attento il discernimento vocazionale. I giovani lo sanno, ma quando scelgono di entrare in seminario prevale in loro la luce e la bellezza della chiamata; sono a volte gli altri, parenti e conoscenti, a volerli contrastare dicendo che "i preti sono tutti così". A me sembra che l'opinione della gente che frequenta le parrocchie e le comunità, sia nella stragrande maggioranza molto positiva nei confronti dei loro sacerdoti. Per ricostruire l'immagine del prete nell'opinione pubblica non vedo altra strada che far conoscere figure valide di sacerdoti. A noi sacerdoti il compito e la responsabilità di condurre una vita coerente con la nostra vocazione.


(©L'Osservatore Romano - 2- novembre 2009)
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(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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07/11/2009 19:15
 
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Il segretario di Stato alla Conferenza italiana dei superiori maggiori

I religiosi sappiano dire no
alle seduzioni del consumismo


Il primato dell'essere sull'avere, che è la modalità più feconda di autorealizzazione e di creatività. Lo spirito di povertà, che non significa disprezzare i beni ma usarli con discernimento. È l'identikit del consacrato tracciato dal cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato, sabato 7 novembre, nella basilica torinese di Santa Maria Ausiliatrice, durante la celebrazione eucaristica in occasione della 49ª assemblea generale della Conferenza italiana superiori maggiori (Cism) e del 150° anniversario della Congregazione dei salesiani di Don Bosco.

Ai provinciali di vari ordini e congregazioni religiose maschili riuniti nel capoluogo piemontese per riflettere sul tema "Povertà e comunione dei beni in un mondo globalizzato. Per una testimonianza credibile dei consacrati" il porporato ha ricordato che i religiosi "non subiscono passivamente le proposte allettanti di un diffuso consumismo, ma sanno fare a meno delle cose quando queste soffocano i valori del Regno e rendono infruttuoso l'apostolato. La nostra esistenza di consacrati - ha aggiunto - vuole evidenziare la sequela di Cristo nella povertà che è propria degli Apostoli".

Nel santuario mariano al quale egli stesso come salesiano si sente particolarmente legato, il cardinale Bertone ha ribadito che il fondamento della vita dei consacrati è Cristo. "È in forza della sua presenza che ognuno - ha spiegato - realizza una vita di fraternità. Il religioso, la religiosa, devono sempre saper smantellare i meccanismi di difesa e di possessività che rischiano di inaridire una vera comunione fraterna, e tendere a una vita senza calcoli e paure, senza rivendicazioni e grettezze, senza infedeltà e compensazioni".

Al contrario devono essere "disposti a un amore gratuito, pieno di gioia, ricolmo di vitalità, attento e discreto, forte e delicato". Del resto "rinunciare a qualche cosa, o mettere i beni in comune con altri, non significa abbandonare ciò che ci è concesso, né gettare via i doni della vita, significa invece restituire a Dio ciò che abbiamo ricevuto; restituzione che, attraverso la distribuzione, diventa ringraziamento".

Il segretario di Stato ha poi trasmesso ai convegnisti il saluto di Benedetto XVI e il suo incoraggiamento a proseguire con rinnovato slancio la loro "importante opera a servizio della diffusione del Vangelo". Da parte sua il porporato ha aggiunto l'invito a farsi continuatori fedeli degli insegnamenti dei loro fondatori e a lasciarsi guidare anche dall'enciclica Caritas in veritate. "Ciò - ha argomentato - consentirà di vivere e orientare la globalizzazione dell'umanità in termini di relazionalità, di comunione e di condivisione, affinché le coscienze siano sempre ispirate agli ideali evangelici e siano educate con senso di responsabilità alla saggia ricerca del bene comune".

Nel salutare don Alberto Lorenzelli, che oltre ad essere il presidente nazionale del Cism è anche il "padrone di casa" in quanto ispettore della grande Provincia salesiana, il cardinale Bertone si è poi soffermato sull'esempio offerto alla vita consacrata da Don Bosco e dalla sua congregazione. "Il luogo in cui siamo raccolti - ha detto - è proprio quello in cui è stato piantato il seme. Il prossimo mese di dicembre vedrà questa basilica gremita di giovani e adulti per ricordare le origini e l'impegno dei primi che decisero di stare con don Bosco e di dare avvio alla Pia Società di San Francesco di Sales, condividendo e attuando l'intuizione del "sistema preventivo", cercando di formare "buoni cristiani e onesti cittadini". Una missione - ha continuato - fatta di pazienza, di carità, di relazioni interpersonali sincere con tutti ma che ha saputo incidere e infondere nelle coscienze coraggio, fiducia nella Chiesa e nel suo centro unificatore, il Papa".

Definendo la creatività di don Bosco e dei suoi primi discepoli "strabiliante", il segretario di Stato ne ha sottolineato il profondo legame affettivo con la Vergine Maria. Così quando verso il 1862 il fondatore avvertì il bisogno di una chiesa più grande perché i suoi giovani erano divenuti troppo numerosi per quella di San Francesco di Sales, portò a compiento la sua nuova impresa sostenuto da tre impressioni che aveva colto nel suo tempo:  "La presenza manifesta di Maria nel popolo cristiano, i pericoli della Chiesa e le difficoltà del suo tempo".

Ecco perché per don Bosco l'edificazione del tempio mariano "non fu soltanto un lavoro tecnico, una preoccupazione per i progetti, i materiali e i finanziamenti, ma rappresentò una singolare esperienza spirituale e una maturazione della sua mentalità pastorale. L'opera del santuario fece emergere, infatti, nell'attività apostolica salesiana una visione di Chiesa, come popolo di Dio sparso su tutta la terra". Di conseguenza "l'erezione del santuario costituì un momento spiritualmente fecondo che diede l'avvio ad uno stile pastorale fatto di audacia e di fiducia:  saper cominciare con poco, osare molto quando si tratta del bene, andare avanti affidandosi al Signore".

La realizzazione del grande tempio superò dunque l'idea iniziale:  "Da una chiesa per la sua casa, il suo quartiere e la sua congregazione - ha spiegato - all'idea di un santuario, meta di pellegrinaggi, centro di culto e punto di riferimento per una famiglia spirituale". In definitiva si può dire "che don Bosco incominciò la costruzione come direttore di un'opera e la finì come capo carismatico di un grande movimento ancora in germe ma già definito nelle finalità e nei tratti distintivi; la cominciò come sacerdote originario di Torino e la portò a termine come apostolo della Chiesa universale. In pratica passò dalla città al mondo, da apostolo di una diocesi a messaggero e pellegrino del Vangelo oltre i confini diocesani".

Ecco allora l'interrogativo sempre attuale rivolto dal cardinale Bertone ai superiori provinciali presenti:  come dire e comunicare alle nuove generazioni tanta ricchezza? La risposta di don Bosco fu quella di stare in mezzo ai giovani con "espressioni d'amore, d'intuito pedagogico, di doti educative che toccano il giovane nella concretezza della sua vita e della sua situazione esistenziale".

E poi comunicare:  "Con la parola efficace, con lo sguardo penetrante e rivelatore, con scritti semplici - ha concluso - che vanno dritti alla mente e al cuore dei giovani, educandoli alla rettitudine del pensiero, del sentimento e della volontà".


(©L'Osservatore Romano - 8 novembre 2009)

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08/02/2010



Il cardinale Bertone presiede la Messa per i 10 anni della Beatificazione di Pio IX



Benedetto XVI ha voluto manifestare la propria vicinanza spirituale ai fedeli che ieri pomeriggio a Roma, nella Basilica di San Lorenzo fuori le Mura, hanno preso parte alla Messa presieduta dal cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone, per ricordare il decimo anniversario della Beatificazione di Pio IX. Ha affidato al porporato, il Papa, il compito di manifestare i suoi saluti. Nel giorno della memoria liturgica del Pontefice Beato, il cardinale Bertone ha sottolineato il vigore spirituale che ha caratterizzato Papa Pio IX, definito un vero “pastore d’anime”. Il servizio di Tiziana Campisi:

Quello di Pio IX – Giovanni Maria Mastai Ferretti, nato a Senigallia il 13 maggio del 1792 – è stato il Pontificato più longevo, dopo quello di Pietro. Al timone della Chiesa per oltre 31 anni, il Papa beatificato da Giovanni Paolo II nel 2000, è stato protagonista di rilevanti eventi storici, tra i quali la Questione Romana e le grandi riforme dello Stato Pontificio.
 
Come ha ricordato nella sua omelia il cardinale Tarcisio Bertone, Pio IX “rilanciò senza sosta la Chiesa del suo tempo sulla via della missione, in una logica di fedele adesione a Cristo e di docilità al Magistero ecclesiale”. A lui, ha aggiunto il porporato, si deve la convocazione - il 29 giugno del 1868 – del Concilio Ecumenico Vaticano I, la Costituzione dogmatica Dei Filius sulla fede cattolica e la Pastor aeternus sul primato del Pontefice.
 
“Durante il suo Pontificato ebbe attenta cura della formazione del clero – ha detto il cardinale segretario di Stato – e, ancora oggi, è di grande attualità la lettera sulla disciplina del Clero in Irlanda Nemo certe ignorat del 25 marzo 1852, dove fra l’altro si legge: ‘Ognuno di voi sa benissimo quanto sia importante per la Chiesa, soprattutto in tempi tanto avversi, avere ministri idonei, che non possono venire se non da chierici ottimamente formati. Perciò, venerabili fratelli, non desistete mai dal dedicare tutte le vostre cure e i vostri pensieri con indefesso zelo, affinché gli adolescenti chierici, fin dai primi anni, siano tempestivamente educati ad ogni pietà, virtù e spirito ecclesiastico, e siano accuratamente istruiti sia nelle umane lettere, sia nelle più severe discipline, specialmente quelle sacre…’”.
 
Singolare, nella vita di Pio IX, la guarigione, dopo un pellegrinaggio a Loreto, dagli attacchi epilettici causati da un trauma cranico riportato in giovane età dopo una caduta in un torrente. L’allora studente di teologia la attribuì ad una grazia ricevuta e nel corso della sua esistenza fu tanta la devozione alla Madonna, contemplata come “icona di purezza e simbolo della Chiesa pellegrina nel tempo”.
 
“Papa dell’Immacolata” viene anche chiamato Pio IX, ha aggiunto ancora nella sua omelia il cardinale Bertone, poiché, firmando la bolla Ineffabilis Deus l’8 dicembre del 1854, proclamò il dogma dell’Immacolata Concezione.
 
Un Papa “desideroso di promuovere una vita spirituale più intensa – Pio IX – intento soprattutto a praticarla con la vita e con l’esempio, in un cammino di autentica spiritualità e di personale e docile adesione a quel Cristo che lo aveva chiamato a seguirlo”.
 
Amava stare tra la gente, ebbe attenzione per i ragazzi abbandonati, i poveri e gli anziani. Elargì numerose elemosine; vescovo a soli 35 anni, giunto nell’arcidiocesi di Spoleto, impegnò i propri mobili per aiutare i più bisognosi. Fondò istituti per bambini e giovani e ancora ricoveri per la terza età. Credeva molto negli Ordini e nelle Congregazioni religiose; in essi, diceva, “la Chiesa trova aiuto, appoggio e sostegno in ogni maniera”. E non sono da dimenticare i suoi incoraggiamenti alle missioni e all’unità dei cristiani. Attribuiva molta importanza all’Eucaristia quotidiana e in uno dei suoi scritti si legge: “Gesù fa una vita attiva anche dentro il Tabernacolo e pensa, amoroso Pastore, a ravvivare le morte pecorelle, a consolare le afflitte, a regolare tutto il mondo”.
 
Le spoglie del Beato Pio IX sono custodite oggi a Roma nella Basilica di San Lorenzo fuori le Mura, era suo desiderio esservi sepolto per rimanere accanto al suo popolo.


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Pedofilia dei preti?
PIU' CHE UNO STUPRO SI TRATTA DI UN ATTO INCESTUOSO PERCHE' IL SACERDOTE CHE HA UNA POTENZA SPIRITUALE E' CHIAMATO INFATTI "PADRE" DAL MINORE CHE NE RIMANE COINVOLTO
....


a dirlo è il:

Procuratore di Milano: "E' allarme pedofilia
Complicità dei vescovi"

di Luca Fazzo

Roma - Una gerarchia cattolica che tace, copre, insabbia. Che per paura degli scandali non punisce i pret i colpevoli di abusi sessuali. Che li lascia a contatto con i fedeli e con i bambini. Che chiude gli occhi davanti a un fenomeno talmente radicato e devastante da domandarsi se non vi siano uomini che scelgono la strada del sacerdozio proprio per poter avvicinare le loro vittime. È un quadro sconcertante quello dipinto in questa intervista al Giornale dal magistrato che da più tempo in Italia si occupa di abusi sessuali: Pietro Forno, procuratore aggiunto della Repubblica a Milano, capo del pool specializzato in molestie e stupri.

Quanti sacerdoti ha inquisito per reati sessuali?

«La lista, purtroppo, non è corta».

E qual è stato l’atteggiamento delle gerarchie ecclesiastiche?

«Devo dare atto che, una volta iniziate le indagini, non mi sono mai stati messi ostacoli. Però le notizie positive finiscono qui».

In che senso?

«Nel senso che nei tanti anni in cui ho trattato l’argomento non mi è mai, e sottolineo mai, arrivata una sola denuncia né da parte di vescovi, né da parte di singoli preti, e questo è un po’ strano. La magistratura quando arriva a inquisire un sacerdote per questi reati ci deve arrivare da sola, con le sue forze. E lo fa in genere sulla base di denunce di familiari della vittima, che si rivolgono all’autorità giudiziaria dopo che si sono rivolti all’autorità religiosa, e questa non ha fatto assolutamente niente».

Ma i vescovi non hanno l’obbligo di denunciare i preti che sbagliano.

«È vero che non esiste un obbligo formale di denunciada parte dell’autorità ecclesiastica, perché un vescovo non èun pubblico ufficiale. Quindi il vescovo che tace non commette il reato che commetterebbe un preside che tacesse. È anche veroche qualunque cittadino - soprattutto quandoè investito di un’autorità odi un’autorevolezza particolari - quando viene a sapere di un reato per cui si può procedere d’ufficio ha la possibilità di denunciare, e direi il dovere morale. Questo non avviene mai. Mai. È un punto dolente. Noi come magistrati abbiamo l’obbligo di informare l’ordinario diocesano, ovvero il vescovo, quando arrestiamoo chiediamo il rinvio a giudizio di un prete, e lo abbiamo sempre rispettato. Ma il contrario non mi è mai accaduto. Non ho mai ricevuto dalle gerarchie cattoliche una sola denuncia nei confronti di un prete o di un altro sottoposto al controllo vescovile, come un sacrestano, un educatore, un chierichetto».

Perché? Nonsanno quello che accade nelle loro parrocchie? O lo sanno e preferiscono tacere?

«Io sono convinto che loro sappiano molto più di quello che sappiamo noi. Ma c’è un problema a monte, ed è cosa significa l’abuso sessuale da parte di un sacerdote. E qui mi permetto di dire una cosa di cui in questi giorni non si è parlato, nelle tante discussioni sul temadegli abusi sessuali all’interno della Chiesa. Il discorso viene spesso liquidato come un problema di pedofilia. Mail prete che abusa di un bambino è più paragonabile aungenitore incestuoso che a un pedofilo di strada che insidia i bambini ai giardinetti. Bisogna partire da un dato di fatto: il sacerdote ha un enorme potere spirituale, tanto che spesso viene chiamato “padre”, e questo è significativo. Seguardiamo questi episodi in senso non biologico ma spirituale e morale, ci troviamo di fronte più a un abuso incestuoso che a un classico stupro. Ricordo che anche nelle cronache di questi giorni si parla di atti avvenuti in confessionale. E io mi chiedo: perché proprio in confessionale? Perché proprio in quel luogo e in quel momento? Perché è in quel momento che più intensamente il sacerdote si presenta come rappresentante di Dio. È stato condannato a Milano un sacerdote che nel confessare ragazze di quattordici o quindici anni le faceva spogliare e le palpeggiava dicendo “lo vuole Gesù”. Ecco, il concetto del “lo vuole Gesù” è il punto d’arrivo dell’incesto spirituale».

Quali sono le ripercussioni sulle vittime?

«Sono esperienze che marchiano in profondità le vittime per tutta la vita, proprio per le figure da cui provengono. Io ho in mano un documento della Chiesa canadese che negli anni Novanta è stata la prima a fare una indagine interna e ha scoperto che il 5 per cento del clero canadese ha queste tendenze. Il 5 per cento! In quel documento si ricostruiscono le conseguenze devastanti che questi avvenimenti hanno sulle vittime, si ricostruiscono persino i loro percorsi religiosi, e si vede che spesso abbandonano la Chiesa e si formano una immagine di Dio molto simile a quella dei loro abusanti».

Perché sono così numerosi questi casi?

«Io ormai ho un dubbio, e parlo solo di dubbio perché non posso avere riscontri diretti: che ci siano sacerdoti che scelgono di fare i sacerdoti per abusare, perché è oggettivo che nella scelta del sacerdozio c’è un’enorme facilitazione nell’avvicinarele vittime. Eppure compiono tutto il percorso formativo fino a venire messi a contatto con i ragazzi. Questo pone un grosso interrogativo: ma nessuno se n’è accorto prima? Dov’è il discernimento spirituale che dovrebbero esercitare coloro che li scelgono? Non hanno osservato il loro comportamento, le loro tendenze, le modalità con le quali si rapportano ai giovani? E un’ultima domanda: cosa accade all’interno dei seminari?».

Se le cose stanno come le descrive lei, siamo di fronte aunfenomeno di indulgenza, se non di omertà, da parte delle gerarchie. Teme che in fondo questi siano considerati peccati veniali?

«Nessun teologo può avere l’ardire di sostenere che si tratti di un peccato veniale, tanto che questi sono tra i pochi casi per cui il diritto canonico prevede la riduzione allo stato laicale. Eppure nessuno di questi sacerdoti ha mai subito questa punizione. Neanche quello che diceva alle sue vittime “lo vuole Gesù”».

La riduzione allo stato laicale può essere una soluzione estrema. Magari prendono misure più blande.

«Io convengo chela riduzione allo stato laicale sia indubbiamente una sanzione grave, ma di fronte alla gravità di queste cose non credo che si debba essere indulgenti. Invece non solo non vengono cacciati ma accade a volte che non vengano nemmeno messi in condizioni di non nuocere più. Quando hanno queste notizie si limitano a spostarli da una parrocchia all’altra, e così gli permettono di fare altre vittime inconsapevoli, perché quando la piazza è bruciata gli consentono di andare dove non li conoscono».

Come se lo spiega?

«Lo chieda a loro. Non alla Chiesa, ma alla gerarchia ecclesiale. Della Chiesa fanno parte anche i fedeli, e molti di loro - tra cui il sottoscritto - la pensano diversamente. Il problema è la gerarchia. Secondo me non li puniscono perché li hanno scelti loro, educati loro, allevati loro, e quindi si creano dei legami di difesa, di protezione. E c’è soprattutto la paura dello scandalo. Che è una paura poco evangelica, perché il Vangelo dice invece che è necessario che gli scandali avvengano. È una paura poco cristiana, insomma»

Adesso le sembra che qualcosa stia cambiando? Che stiano correndo ai ripari?

«Nel 2000 scrissi su una rivista giuridica che esisteva un problema di pedofilia nella Chiesa, e un sacerdote che va per la maggiore mi replicò negando semplicemente l’esistenza del problema. Adesso quello stesso sacerdote riconosce che questo dramma è reale. Meglio tardi che mai, mi vien da dire. E visto che nelle recenti direttive del Papa è previsto che le diocesi possanorivolgersi a laici per essere aiutate e consigliate nella prevenzione di questi fatti, io sono a disposizione. Qualche idea da suggerirgli ce l’avrei».

 Il Giornale, 1° aprile 2010

i due collegamenti sono:

http://www.ilgiornale.it/interni/procuratore_milano_e_allarme_pedofilia_complicita_vescovi/01-04-2010/articolo-id=434292-page=0-comments=1

http://archiviostorico.corriere.it/2001/maggio/01/Pedofilia_nessuna_omerta__co_7_0105015593.shtml


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Occhi al cielo
dal Blog di Raffaella è stato pubblicato un altro articolo di oggi da dove, dalla Radio Vaticana, si chiede di SMASCHERARE LE CALUNNIE....la mia osservazione in merito è la seguente:


OK. sullo smascherare la calunnia ci sto....un pò meno però in un confronto che voglia ora dare una sorta di colpa a Giovanni Paolo II (un altro capro espiatorio che non può parlare)....e per nulla favorevole ad un continuo stillicidio di notizie accavallate che dal Vaticano giungono ora come "giustificazioni", in altri casi come una sorta di scaricabarili da entrambe le parti: i vescovi accusano Roma, Roma rimanda le accuse di silenzio ai vescovi...

Così non ne usciamo fuori....

Interessante è invece l'articolo, temo passato in sordina forse anche a causa dei tanti inserimenti di noztie, del Procuratore di Milano che raffaella ha pubblicato qui:
http://paparatzinger3-blograffaella.blogspot.com/2010/04/procuratore-di-milano-e-allarme.html
(qui nel forum è riportato sopra all'inizio di questo messaggio)

sarebbe un peccato trascurarlo....
egli sottolinea due aspetti a mio parere importanti per CHIUDERE con gli atti di accusa e rivolgere l'attenzione ad un problema di fondo...

il Procuratore di Milano sottlinea come l'atto di pedofilia di questi sacerdoti non sia un atto circosrcitto allo stupro, ma bensì ALL'INCESTO...
infatti il sacerdote colpevole cosa fa? COME UN PADRE cattura la fiducia del minore, lo inganna, lo circuisce...e come agiscono solitamente LE MADRI? TACCIONO....

i Vescovi spesso, come le madri, HANNO TACIUTO e questo è innegabile mentre da Roma assai più saggiamente si richiedeva loro COLLABORAZIONE con la Giustizia, meno omertà e più azioni dirette a debellare il triste fenomeno...

Il Procuratore di Milano spiega un altro aspetto che direi FONDAMENTALE alla soluzione dell'impicciment, dice:

 «Io ormai ho un dubbio, e parlo solo di dubbio perché non posso avere riscontri diretti: che ci siano sacerdoti che scelgono di fare i sacerdoti per abusare, perché è oggettivo che nella scelta del sacerdozio c’è un’enorme facilitazione nell’avvicinarele vittime. Eppure compiono tutto il percorso formativo fino a venire messi a contatto con i ragazzi. Questo pone un grosso interrogativo: ma nessuno se n’è accorto prima? Dov’è il discernimento spirituale che dovrebbero esercitare coloro che li scelgono? Non hanno osservato il loro comportamento, le loro tendenze, le modalità con le quali si rapportano ai giovani? E un’ultima domanda: cosa accade all’interno dei seminari?».

************

eccolo il nodo dolente: LA FORMAZIONE NEI SEMINARI che da dopo il Concilio è cambiata notevolmente da aver dato spesso adito al dubbio sulla PREPARAZIONE stessa dei sacrdoti che uscendo da li spesso non solo NON conoscono il Catechismo, ma non hanno mai parlato neppure di Satana e delle tentazioni, questo lo disse anche padre Amorth...

Ergo, si ritorni alla formazione dei Sacerdoti con il Giuramento antimodernista di san Pio X e reinsegnando ai sacerdoti il pericolo di Satana con i suoi inganni...ma prima di formare i seminaristi sarà necessario RIFORMARE I FORMATORI!

Aggiungo,  che...naturalmente è onesto sottolineare che la maggiorparte dei preti accusati di pedofilia NON provengono dai seminari del post concilio, in proporzione parliamo di preti ANZIANI ergo, che si sono formati nei seminari di vecchio stampo...

La mia sottolineatura va pertanto in quella frase del Papa nella Lettera alla Chiesa d'Irlanda nella quale egli mette in rilievo come le false interpretazioni date al Concilio anche in tema di etica e morale hanno portato tuttavia ad un nascondimento ancora più perverso di questi casi e che infatti, tali sacerdoti, hanno colpito per la maggiorparte negli anni 60 e 70 e 80, alcuni dagli anni 50....tale tendenza fa comprendere la responsabilità di una FORMAZIONE -s-formata secondo quel clima di liberalizzazione sessuale denunciata per altro da molti attenti sociologi...

Le Jene tempo fa hanno prodotto una serie di servizi sull'argomento, agghiacciante l'intervista ad un ex-prete (italiano), che ha oggi 44/45 anni, abusato dal suo parroco per alcuni anni fino a quando non gli rivelò, a 11 anni (siamo dunque fine anni '70), di voler entrare in seminario...
la persona in questione confessa  così di aver scelto la sua tendenza omosessuale probabilmente collegata ai rapporti subiti e nonostante seminarista EBBE ESPERIENZA OMOSESSUALE a 19 anni e divenne ugualmente prete...

Per sua fortuna poi decise di essere coerente con le sue scelte e chiese al vescovo di essere sospeso e ridotto allo stato laicale, e il vescovo acconsentì ma, dice quest'uomo oggi, egli non fece nulla per questa piaga della pedofilia...da qui la sua convinzione che i preti pedofili sono si condannare ma anche da comprendere nella loro sofferenza e al tempo stesso attribuisce esclusivamente la colpa alla Chiesa, alla gerarchia a tal punto da chiedere lo "sbattezzo"....
Crede in Dio, ma non in quel "Dio" predicato dalla Chiesa...ora si sente omossesualmente appagato e sereno...

Non possiamo allora ignorare le domande del Procuratore di Milano:

 ma (davvero) nessuno se n’è accorto prima? Dov’è il discernimento spirituale che dovrebbero esercitare coloro che li scelgono? Non hanno osservato il loro comportamento, le loro tendenze, le modalità con le quali si rapportano ai giovani, o aggiungo io ora, delle loro tendenze omosessuali? E un’ultima domanda: cosa accade all’interno dei seminarise questo ex prete, ritornando dal pellegrinaggio di Lourdes con il seminario, può tranquillamente andare in un albergo, come ha raccontato lui, e avere esperienze che più si sente di fare?.  Non sarà forse il caso di mettere un pò di attenzione SUI FORMATORI?



Buona  Pasqua!


per ulteriore materiale si clicchi qui:

ATTENZIONE: LETTERA DI BENEDETTO XVI CONTRO GLI ABUSI SESSUALI NELLA CHIESA

Visita straordinaria dei Vescovi Irlandesi e Tedesco dal Pontefice per condannare gli abusi sessuali

Dolce Vicario di Cristo in terra, abbiamo bisogno di Lei! Lettere aperte al Santo Padre

Ottimo intervento di M.Introvigne e Padre Lombardi alla trasmissione di Uno-Mattina

Marcello Pera scrive Lettera aperta contro gli attacchi al Papa ed alla Chiesa per le colpe di pochi sugli abusi sessuali


LA FORMAZIONE DEI PRETI


[Modificato da Caterina63 02/04/2010 15:09]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Urgenza pastorale


Fonte: il Foglio, 13 marzo 2010
di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro


Grazie a Dio, ci sono ancora parroci che, quando li si cerca, si trovano in chiesa, magari in ginocchio davanti al Santissimo oppure a confessare. Sono quei parroci che celebrano la Messa con devozione, consci di offrire sull’altare, a soddisfazione del Padre e per il bene dei fedeli, il sacrificio del Figlio. Sono quei parroci consapevoli del fatto che anche il più indegno dei sacerdoti può compiere ciò che nemmeno centomila battezzati integerrimi possono fare: perdonare un peccato mortale e trasformare il pane e il vino nel corpo e nel sangue di Cristo.
 
Sono quei parroci che, durante l’Anno sacerdotale voluto da Papa Benedetto XVI, non li si è visti per qualche giorno tra canonica, sacrestia e chiesa perché sono andati in pellegrinaggio ad Ars, dipartimento dell’Ain, Francia, 45° e 58’ di latitudine nord, 4° e 49’ di longitudine est e hanno fatto delle coordinate del villaggio a suo tempo affidato al Santo Curato la croce che segna il cuore del loro sacerdozio.
Ma quanti sono?

Il parroco moderno, di solito, si presenta sotto altre spoglie. E’ iperattivo e impegnato altrove. In tipografia per il bollettino parrocchiale, sul cantiere del nuovo oratorio, a controllare le attività della Caritas, a discutere con l’assessore ai Servizi sociali, a passare le carte dell’ennesimo piano pastorale partorito dall’ennesimo ufficio diocesano, a barcamenarsi nelle discussioni del consiglio pastorale. Altrove. Non di rado una vittima del sistema, spesso è anche un onest’uomo. Ma noi fedeli non possiamo accontentarci di parroci che siano solo onest’uomini.

L’abate Giovanni Battista Chautard in un aureo libretto intitolato “L’anima di ogni apostolato” diceva impietosamente:
A sacerdote santo, si dice, corrisponde un popolo fervente; a sacerdote fervente un popolo pio; a sacerdote pio un popolo onesto; a sacerdote onesto un popolo empio”.

Anche i più inguaribili ottimisti devono riconoscere che la crisi pluridecennale in cui si dibatte il cattolicesimo è essenzialmente una crisi del sacerdozio e dei sacerdoti. Un dramma in tre atti. Il primo, andato in scena negli anni successivi al Concilio, è stato accompagnato da clamorosi fenomeni di contestazione e da una imponente emorragia di preti che hanno abbandonato la tonaca. Nel secondo, gli abbandoni sono diminuiti e i fenomeni di dissenso sono andati scemando, lasciando il posto a una diffusa visione burocratica del ruolo del sacerdote, fedele esecutore della linea dettata dal vescovo e insensibile, quando non addirittura refrattario, alla volontà del Papa. Si è così affermata una figura di parroco conservatore nella sua fedeltà incrollabile alla teologia moderna e allo “spirito del Concilio”, ma, proprio per questo, progressista nella sua aperta dissonanza dal magistero e dalla tradizione. Il terzo atto è appena cominciato ed è caratterizzato dall’inesorabile declino numerico dei sacerdoti nella vecchia Europa, cui corrisponde un tremendo “che fare?”.

Molti sostengono che la mancanza di vocazioni sia un fatto che deve essere accettato senza tentare alcuna contromisura. Anzi, dicono, siccome è Dio che manda operai nella vigna, è Lui stesso che decide di rallentare o addirittura estinguere il flusso delle vocazioni. Ragion per cui saremmo di fronte a uno di quei famosi “segni dei tempi” che esigono di “pensare” una chiesa diversa da quella che abbiamo fin qui conosciuto. Tradotto in parole più semplici, bisogna prepararsi a una chiesa senza sacerdoti.

Ma chi nella storia aveva pensato a costruire una chiesa senza preti? Martin Lutero.
L’ombra della protestantizzazione si allunga su non poche diocesi sotto le mentite spoglie dell’emergenza vocazionale. Ecco così fiorire l’idea di parrocchie in cui i laici impegnati, quasi sempre donne, rimpiazzino il prete nelle sue funzioni. Ed ecco attuarsi, come ad esempio nella diocesi di Milano, un complesso piano di accorpamento delle parrocchie sotto il cappello delle comunità pastorali, con la regia di sacerdoti-funzionari di mezza età. Una riforma che in questi mesi sta mettendo tutti d’accordo, nel senso che laici e sacerdoti non ne possono più.

Quello milanese è un laboratorio tanto pericoloso quanto interessante. Chiunque vi si applichi può osservare da vicino il rischio di sgomberare il campo dalla vecchia figura del parroco, che nel diritto canonico ha una sua potestas molto robusta, per sostituirlo con dei preti che appaiono più simili a dei burocrati diocesani. I danni pastorali di una simile impostazione sono evidenti. Il prete che non risiede stabilmente in una comunità non riesce a essere un punto di riferimento per i fedeli.

E, soprattutto, non diventa un modello, anche sul piano antropologico, per i ragazzi e i giovani che sempre meno avranno voglia di diventare come lui e verificare se hanno la vocazione al sacerdozio. Non a caso, nella terra di Ambrogio, si stanno affidando alcuni oratori a degli “animatori” stipendiati. Non a caso, nella diocesi che fu di San Carlo, un parroco può spiegare ai fedeli attoniti che “la domenica, invece di prendere la macchina e andare a Messa in una chiesa vicina, potete riunirvi e leggere insieme il Vangelo”. Il progetto sembra evidente. Siccome ci sono meno preti, si fanno fare più cose ai laici, con la conseguenza che ci saranno sempre meno preti e sempre più laici, finché il sistema progettato per funzionare perfettamente senza preti arriverà a pieno regime. Come sarebbe piaciuto a Lutero.

Ma questo ragionamento, viziato da una conclusione precofenzionata, risulta di conseguenza viziato anche in origine. E’ proprio vero che non esistono vocazioni? Oppure le si va a cercare dove non ci sono? A riprova di questa idea, sta il fatto che, mentre i seminari diocesani si svuotano, molte famiglie religiose di recente fondazione e fortemente incentrate sul sacerdozio cattolico hanno i loro seminari, anche minori, stracolmi. Forse, a voler leggere i “segni dei tempi”, si impara qualcosa dallo svuotarsi dei seminari diocesani. Innanzi tutto che sono un problema. Nessuno sa dire con certezza quale siano gli standard dottrinali comuni ai luoghi in cui si devono vagliare e far crescere le vocazioni.

C’è però un’aneddotica inquietante che racconta di seminaristi costretti a recitare il rosario di nascosto, a non rimanere inginocchiati durante la Messa, a farsi mandare a casa propria riviste di apologetica come Il Timone, ad ascoltare clandestinamente Radio Maria. Per le misteriose vie della Provvidenza, nonostante un simile apparato deformante, ci sono ancora buoni preti cattolici che oggi si affacciano, giovani e freschi di ordinazione, alla loro missione apostolica.

Ma sono fiori nel deserto, perché la crisi è ben più drammatica di quanto si voglia dire.

E' sufficiente una ricognizione della prassi liturgica invalsa in questi anni per rendersene conto. Le Messe domenicali offrono esempi a non finire. Dal prete che, al momento della comunione, si fa da parte e va a dirigere i canti mentre i ministri straordinari dell’eucaristia svolgono ordinariamente ciò che non toccherebbe loro, a quello che alla Messa per la Prima Comunione invita i bambini a recitare la formula di consacrazione assieme a lui, a quello che fa tenere l’omelia alla catechista. E’ il sacerdozio universale, bellezza. Una deriva ormai lontana mille miglia da quanto la Chiesa cattolica ha sempre insegnato. San Tommaso d’Aquino spiega benissimo che il sacerdozio dei fedeli consiste nel “ricevere” da Dio, mentre il sacerdozio ordinato consiste nell’“offrire” a Dio. Ma, una volta oscurato nella teologia l’aspetto sacrificale della Messa, il sacerdote ordinato finisce per essere come un comune fedele.

E’ doloroso portarne le prove, ma non si può raccontare la progressiva scomparsa dei parroci nascondendone i segni. E’ capitato per esempio che, venute a scarseggiare le ostie consacrate per la comunione in una chiesa di un’importante città lombarda, si sia corsi in fretta e furia a prendere delle particole in sacrestia e le si sia mischiate alle altre, quasi che la consacrazione possa avvenire per semplice contatto.
Qui è in gioco il cuore della fede cattolica. Qui ci si balocca con il dogma della presenza reale di corpo, sangue, anima e divinità di Gesù Cristo nell’ostia consacrata a opera del sacerdote.

Sarà brutale, ma senza presenza reale non c’è sacerdozio. Senza la certezza che nell’ostia c’è tutto Gesù Cristo, senza riverenza per quel pane bianco e immacolato, senza sacro timore al cospetto di tanta grandezza, senza dolcezza al cospetto del manifestarsi della Grazia pallida e pura, il sacerdote può solo farsi da parte.
Quando si arriva a questo, si comprende che il vecchio parroco, quello che anche tanti atei ricordano con un certo rispetto o persino un certo affetto, quello che magari metteva soggezione ma era capace di dire la parola giusta al momento giusto, quello che induceva a guardare in Cielo quando si rischiava di affezionarsi troppo alla terra, quel parroco non c’è più.

Non poteva andare diversamente viste le premesse. Quando il 24 ottobre 1967, davanti al Sinodo dei vescovi, si tenne nella Cappella Sistina una celebrazione sperimentale della Messa prodotta dalla riforma postconciliare, l’impressione più diffusa venne riassunta benissimo dai molti che definirono il rito “freddo come una cena luterana”. Col risultato che più della metà dei padri sinodali votò contro o, quanto meno, chiese modifiche sostanziali. Monsignor Annibale Bugnini, artefice della riforma, accusò il colpo, ma non arretrò, anzi. Nel suo libro “La riforma liturgica” spiega quanto inadeguati fossero quei vescovi che non avevano gradito il suo lavoro. In particolare, riserva parole poco benevole per quelli “assillati dal dogma della presenza reale” che, poveri ruderi medievali, “avevano visto con preoccupazione qualche riduzione nei gesti e nelle genuflessioni, l’allungarsi della liturgia della Parola”.

Proprio così, tra i vescovi di santa romana chiesa ce n’erano ancora molti con la fissa della presenza reale di Nostro Signore nell’eucaristia. Levata quella fissa, oggi, in gran parte dei seminari, è considerato chiaro segno di non-vocazione rimanere inginocchiati per il ringraziamento dopo la comunione. Ma se un sacerdote non insegna ai suoi parrocchiani la reverenza per Dio che cos’altro può fare? Se non vuol rimanere con le mani in mano, ecco che insegnerà la reverenza per qualcos’altro: per l’ambiente, per la pace, per i poveri, per le balene in via d’estinzione.

Persino per il dio delle altre religioni: ma non per il proprio. Non è un caso se, nell’udienza generale del 1° luglio 2009, a proposito dell’anno sacerdotale, Papa Benedetto XVI ha detto:
Dopo il Concilio Vaticano II, si è prodotta qua e là l’impressione che nella missione dei sacerdoti in questo nostro tempo, ci fosse qualcosa di più urgente; alcuni pensavano che si dovesse in primo luogo costruire una diversa società”.

Ma non è in un progetto umanitario che trova compimento la vocazione al sacerdozio.

Il sacerdote radica la sua identità nel primato della Grazia divina.
A fronte di tante incertezze e stanchezze anche nell’esercizio del ministero sacerdotale, è urgente il recupero di un giudizio chiaro ed inequivocabile sul primato assoluto della grazia divina, ricordando quanto scrive san Tommaso d’Aquino: ‘Il più piccolo dono della Grazia supera il bene naturale di tutto l’universo’”.

Nell’udienza precedente aveva inoltre spiegato che “in un mondo in cui la visione comune della vita comprende sempre meno il sacro, al posto del quale la funzionalità diviene l’unica decisiva categoria, la concezione cattolica del sacerdozio potrebbe rischiare di perdere la sua naturale considerazione, talora anche all’interno della coscienza ecclesiale”. Perso di vista tutto questo, il destino del parroco è quello di essere uno fra i tanti. A far marciare le cose per bene in parrocchia ci pensa il popolo che, liberato da secoli di oppressione liturgica, può dare finalmente sfogo alla sua democratica creatività. Ma il popolo, quand’anche sia il “popolo di Dio”, una volta abbandonato a se stesso, al massimo riesce a mettere su la Festa dell’Unità, fosse pure la Festa dell’Unità dei cristiani.

E il prete, nella gran parte dei casi cresciuto nella stessa temperie, partecipa con entusiasmo. Poiché l’entusiasmo è l’unico criterio che oggi misura la riuscita di qualsiasi iniziativa ecclesiale, dalla celebrazione della Messa alla raccolta di carta per il Mato Grosso. Se una Messa non è partecipata entusiasticamente, se non è animata entusiasticamente pare quasi non sia valida. Così, ognuno ci mette del suo. C’è chi si affanna nella corsa al microfono per leggere chilometriche preghiere dei fedeli, chi compie gesti simbolici che danno un senso ulteriore alla Messa, chi sale alla ribalta per spiegare che cosa significhino quei gesti simbolici, chi dai gesti simbolici si sente edificato e chi, ma raramente, volta i tacchi dicendo: “Se me lo devi spiegare che razza di simbolo è?”.

Quanto sono lontane le Messe del Curato d’Ars. Quanto lontana la sua concezione del sacerdozio. Quanto lontano il suo essere parroco, responsabile davanti a Dio del destino eterno di ogni anima affidatagli.

Tolto il sacramento dell’Ordine” diceva ai suoi parrocchiani il santo “noi non avremmo il Signore. Chi lo ha riposto là in quel tabernacolo? Il sacerdote. Chi ha accolto la vostra anima al primo entrare nella vita? Il sacerdote. Chi la nutre per darle la forza di compiere il suo pellegrinaggio? Il sacerdote. Chi la preparerà a comparire innanzi a Dio, lavandola per l’ultima volta nel sangue di Gesù Cristo? Il sacerdote, sempre il sacerdote. E se quest’anima viene a morire per il peccato, chi la risusciterà, chi le renderà la calma e la pace? Ancora il sacerdote”. E poi ancora sopraffatto dalla responsabilità di dare a Dio ciò che gli spetta anche per conto altrui: “E’ il prete che continua l’opera della Redenzione sulla terra. Che ci gioverebbe una casa piena d’oro se non ci fosse nessuno che ce ne apre la porta? Il prete possiede la chiave dei tesori celesti, è lui che apre la porta, è lui l’economo del buon Dio, l’amministratore dei suoi beni. Lasciate una parrocchia, per vent’anni, senza prete, vi si adoreranno le bestie

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La formazione dei futuri sacerdoti

Una scelta per sempre



di Lucetta Scaraffia


Dove si può trovare un gruppo numeroso di ragazzi vivi e intelligenti, appassionati del loro lavoro e anticonformisti, ironici e allegri, di quelli che oggi è di moda chiamare "creativi"? Sono sicura che la maggior parte delle persone interrogate risponderebbe che è probabile incontrarli nel mondo dell'informatica, del marketing o della pubblicità, che sono considerati i settori vivaci e trainanti della nostra società. Invece a me è capitato di incontrarli in un seminario di grande tradizione, al Capranica:  l'Almum collegium Capranicense, che è una delle più antiche istituzioni ecclesiastiche preposte alla formazione del clero.

Ragazzi attenti e aperti al nuovo, pronti a cogliere ogni stimolo esterno e a coniugarlo con il sapere formato nel loro percorso di apprendimento, disposti a metterlo in discussione con vivacità. Sì, sono i futuri sacerdoti, quelli che diffonderanno il Vangelo nei prossimi anni, totalmente consapevoli della portata anticonformista della loro scelta. Gran parte della loro vivacità infatti, nasce proprio da questo:  dal pensare e fare cose che la società contemporanea considera superate e prive di interesse, soprattutto per dei giovani. Dal sentirsi, quindi, diversi, un modo di essere che sollecita la loro creatività proprio perché la società non li capisce.

Nessun fare "pretesco", nessun modo di parlare che tenda all'"ecclesialese", quel linguaggio che viene accettato e capito solo da coloro che già stanno dentro la Chiesa, e neppure da tutti. Ma invece occhi franchi, coraggio nel porre questioni e domande - anche su quello che oggi appare il problema del momento, il celibato sacerdotale - e una consapevolezza forte della necessità di inventare stili di comunicazione più efficaci e incisivi di quelli che la Chiesa tende a utilizzare oggi. Insomma, una ricerca del nuovo profonda, sostanziale, di chi sa che non basta usare internet per uscire da schemi logorati nel comunicare. Che si accompagna però a un amore forte e consapevole per la tradizione del pensiero cristiano, per quella ricchezza culturale che la Chiesa custodisce e trasmette fin dalle sue origini.

Insieme, al Capranica, abbiamo parlato molto del problema delle omelie, certo il momento più diretto di confronto fra il sacerdote e i fedeli, che può diventare decisivo per costruire una comunicazione, portando a un colloquio più profondo e personale con il sacerdote, o al contrario che rischia di togliere la voglia di frequentare la chiesa.

Un colloquio con i fedeli che è al centro della loro futura missione, nella consapevolezza che fare il prete significa essere legati a un tipo di rapporto personale, che implica un incontro vero, un contatto concreto con i fedeli - né la messa né i sacramenti si possono trasmettere per internet - in un mondo dove invece prevalgono sempre di più contatti virtuali:  una bella opportunità, quindi, e anche questa in controtendenza.

Alla fine dell'incontro il rettore, monsignor Manicardi, mi ha chiesto quali differenze rilevavo fra questi ragazzi e quelli che frequentano i miei corsi all'università:  in un certo senso nessuna, ho risposto. Ma devo dire che i ragazzi del Capranica hanno occhi più profondi e lasciano trasparire l'equilibrio vero che nasce da una scelta di vita totale e per sempre. E ho fiducia che loro - come tantissimi altri giovani che, in ogni parte del mondo, con passione, si stanno preparando al sacerdozio - saranno capaci di rispondere alla chiamata del Signore:  "Io ti ho posto come luce per le genti, perché tu porti la salvezza sino all'estremità della terra".


(©L'Osservatore Romano - 5 maggio 2010)
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Formazione al sacerdozio, tra secolarismo e modelli di Chiesa

 

 

È sempre rischioso spiegare una situazione sociale a partire da una sola interpretazione. Tuttavia, alcune chiavi aprono più porte di altre. Da molto tempo sono convinto del fatto che la secolarizzazione sia diventata una parola-chiave per pensare oggi le nostre società, ma anche la nostra Chiesa.

La secolarizzazione rappresenta un processo storico molto antico, poiché è nato in Francia a metà del XVIII secolo, prima di estendersi all'insieme delle società moderne. Tuttavia, la secolarizzazione della società varia molto da un paese all'altro.

In Francia e in Belgio, per esempio, essa tende a bandire i segni dell'appartenenza religiosa dalla sfera pubblica e a riportare la fede nella sfera privata. Si osserva la stessa tendenza, ma meno forte, in Spagna, in Portogallo e in Gran Bretagna. Negli Stati Uniti, invece, la secolarizzazione si armonizza facilmente con l'espressione pubblica delle convinzioni religiose: l'abbiamo visto anche in occasione delle ultime elezioni presidenziali.

Da una decina d'anni a questa parte è emerso tra gli specialisti un dibattito molto interessante. Sembrava, fino ad allora, che si dovesse dare per scontato che la secolarizzazione all'europea costituisse la regola e il modello, mentre quella di tipo americano costituisse l'eccezione. Ora invece sono numerosi coloro i quali - Jürgen Habermas per esempio - pensano che è vero l'opposto e che anche nell'Europa post-moderna le religioni svolgeranno un nuovo ruolo sociale.

RICOMINCIARE DAL CATECHISMO

Qualunque sia la forma che ha assunto, la secolarizzazione ha provocato nei nostri paesi un crollo della cultura cristiana. I giovani che si presentano nei nostri seminari non conoscono più niente o quasi della dottrina cattolica, della storia della Chiesa e dei suoi costumi. Questa incultura generalizzata ci obbliga a effettuare delle revisioni importanti nella pratica seguita fino ad ora.

Ne menzionerò due.

Per prima cosa, mi sembra indispensabile prevedere per questi giovani un periodo - un anno o più - di formazione iniziale, di "ricupero", di tipo catechetico e culturale al tempo stesso. I programmi possono essere concepiti in modo diverso, in funzione dei bisogni specifici di ciascun paese. Personalmente, penso a un intero anno dedicato all'assimilazione del Catechismo della Chiesa Cattolica, che si presenta come un compendio molto completo.

In secondo luogo occorrerebbe rivedere i nostri programmi di formazione. I giovani che entrano in seminario sanno di non sapere. Sono umili e desiderosi di assimilare il messaggio della Chiesa. Si può lavorare con loro veramente bene. La loro mancanza di cultura ha questo di positivo: non si portano più dietro i pregiudizi negativi dei loro fratelli maggiori. È una fortuna. Ci troviamo quindi a costruire su una "tabula rasa". Ecco perché sono a favore di una formazione teologica sintetica, organica e che punta all'essenziale.

Questo implica, da parte degli insegnanti e dei formatori, la rinuncia a una formazione iniziale contrassegnata da uno spirito critico - come era stato il caso della mia generazione, per la quale la scoperta della Bibbia e della dottrina è stata contaminata da uno spirito di critica sistematico - e alla tentazione di una specializzazione troppo precoce: precisamente perché manca a questi giovani il background culturale necessario.


Permettetemi di confidarvi alcune domande che mi sorgono in questo momento. Si ha mille volte ragione di voler dare ai futuri sacerdoti una formazione completa e d'alto livello. Come una madre attenta, la Chiesa desidera il meglio per i suoi futuri sacerdoti. Per questo i corsi si sono moltiplicati, ma al punto di appesantire i programmi in un modo a mio parere esagerato.
Avete probabilmente percepito il rischio dello scoraggiamento in molti dei vostri seminaristi.
Chiedo: una prospettiva enciclopedica è forse adatta per questi giovani che non hanno ricevuto alcuna formazione cristiana di base?
Questa prospettiva non ha forse provocato una frammentazione della formazione, un'accumulazione dei corsi e un'impostazione eccessivamente storicizzante?
È davvero necessario, per esempio, dare a dei giovani che non hanno mai imparato il catechismo una formazione approfondita nelle scienze umane, o nelle tecniche di comunicazione?

Consiglierei di scegliere la profondità piuttosto che l'estensione, la sintesi piuttosto che la dispersione nei dettagli, l'architettura piuttosto che la decorazione. Altrettante ragioni mi portano a credere che l'apprendimento della metafisica, per quanto impegnativo, rappresenti la fase preliminare assolutamente indispensabile allo studio della teologia. Quelli che vengono da noi hanno spesso ricevuto una solida formazione scientifica e tecnica - il che è una fortuna - ma la loro mancanza di cultura generale non permette ad essi di entrare con passo deciso nella teologia.


 

DUE GENERAZIONI, DUE MODELLI DI CHIESA


 

In numerose occasioni ho parlato delle generazioni: della mia, di quella che mi ha preceduto, delle generazioni future. È questo, per me, il nodo cruciale della presente situazione. Certo, il passaggio da una generazione all'altra ha sempre posto dei problemi d'adattamento, ma quello che viviamo oggi è assolutamente particolare.

Il tema della secolarizzazione dovrebbe aiutarci, anche qui, a comprendere meglio. Essa ha conosciuto un'accelerazione senza precedenti durante gli anni Sessanta. Per gli uomini della mia generazione, e ancor di più per coloro che mi hanno preceduto, spesso nati e cresciuti in un ambiente cristiano, essa ha costituito una scoperta essenziale, la grande avventura della loro esistenza.

Sono dunque arrivati a interpretare l'"apertura al mondo" invocata dal Concilio Vaticano II come una conversione alla secolarizzazione.

Così di fatto abbiamo vissuto, o persino favorito, un'autosecolarizzazione estremamente potente nella maggior parte delle Chiese occidentali.

Gli esempi abbondano.
I credenti sono pronti a impegnarsi al servizio della pace, della giustizia e delle cause umanitarie, ma credono alla vita eterna?
Le nostre Chiese hanno compiuto un immenso sforzo per rinnovare la catechesi, ma questa stessa catechesi non tende a trascurare le realtà ultime?
Le nostre Chiese si sono imbarcate nella maggior parte dei dibattiti etici del momento, sollecitate dall'opinione pubblica, ma quanto parlano del peccato, della grazia e della vita teologale?
Le nostre Chiese hanno dispiegato felicemente dei tesori d'ingegno per far meglio partecipare i fedeli alla liturgia, ma quest'ultima non ha perso in gran parte il senso del sacro?
Qualcuno può negare che la nostra generazione, forse senza rendersene conto, ha sognato una "Chiesa di puri", una fede purificata da ogni manifestazione religiosa, mettendo in guardia contro ogni manifestazione di devozione popolare come processioni, pellegrinaggi, eccetera?

L'impatto con la secolarizzazione delle nostre società ha trasformato profondamente le nostre Chiese. Potremmo avanzare l'ipotesi che siamo passati da una Chiesa di "appartenenza", nella quale la fede era data dal gruppo di nascita, a una Chiesa di "convinzione", in cui la fede si definisce come una scelta personale e coraggiosa, spesso in opposizione al gruppo di origine. Questo passaggio è stato accompagnato da variazioni numeriche impressionanti.
Le presenze sono diminuite a vista d'occhio nelle chiese, nei corsi di catechesi, ma anche nei seminari. Anni fa il cardinale Lustiger aveva tuttavia dimostrato, cifre alla mano, che in Francia il rapporto fra il numero dei sacerdoti e quello dei praticanti effettivi era restato sempre lo stesso.

I nostri seminaristi, così come i nostri giovani sacerdoti, appartengono anch'essi a questa Chiesa di "convinzione". Non vengono più tanto dalle campagne, quanto piuttosto dalle città, soprattutto delle città universitarie. Sono cresciuti spesso in famiglie divise o "scoppiate", il che lascia in loro tracce di ferite e, talvolta, una sorta d'immaturità affettiva.
L'ambiente sociale di appartenenza non li sostiene più: hanno scelto di essere sacerdoti per convinzione e hanno rinunciato, per questo fatto, ad ogni ambizione sociale (quello che dico non vale dovunque; conosco delle comunità africane in cui la famiglia o il villaggio portano ancora delle vocazioni sbocciate nel loro seno). Per questo essi offrono un profilo più determinato, individualità più forti e temperamenti più coraggiosi. A questo titolo, hanno diritto a tutta la nostra stima.

La difficoltà sulla quale vorrei attirare la vostra attenzione supera dunque la cornice di un semplice conflitto generazionale. La mia generazione, insisto, ha identificato l'apertura al mondo col convertirsi alla secolarizzazione, nei confronti della quale ha sperimentato un certo fascino. I più giovani, invece, sono sì nati nella secolarizzazione, che rappresenta il loro ambiente naturale, e l'hanno assimilata col latte della nutrice: ma cercano innanzitutto di prendere le distanze da essa, e rivendicano la loro identità e le loro differenze.


 

ACCOMODAMENTO COL MONDO O CONTESTAZIONE?


 

Esiste ormai nelle Chiese europee, e forse anche nella Chiesa americana, una linea di divisione, talora di frattura, tra una corrente di "composizione" e una corrente di "contestazione".

La prima ci porta a osservare che esistono nella secolarizzazione dei valori a forte matrice cristiana, come l'uguaglianza, la libertà, la solidarietà, la responsabilità, e che deve essere possibile venire a patti con tale corrente e individuare dei campi di cooperazione.

La seconda corrente, al contrario, invita a prendere le distanze. Ritiene che le differenze o le opposizioni, soprattutto nel campo etico, diventeranno sempre più marcate. Propone dunque un modello alternativo al modello dominante, e accetta di sostenere il ruolo di una minoranza contestatrice.

La prima corrente è risultata predominante nel dopoconcilio; ha fornito la matrice ideologica delle interpretazioni del Vaticano II che si sono imposte alla fine degli anni Sessanta e nel decennio successivo.

Le cose si sono invertite a partire dagli anni Ottanta, soprattutto - ma non esclusivamente - sotto l'influenza di Giovanni Paolo II. La corrente della "composizione" è invecchiata, ma i suoi adepti detengono ancora delle posizioni chiave nella Chiesa. La corrente del modello alternativo si è rinforzata considerevolmente, ma non è ancora diventata dominante. Così si spiegherebbero le tensioni del momento in numerose Chiese del nostro continente.

Non mi sarebbe difficile illustrare con degli esempi la contrapposizione che ho appena descritto.

Le università cattoliche si distribuiscono oggi secondo questa linea di divisione. Alcune giocano la carta dell'adattamento e della cooperazione con la società secolarizzata, a costo di trovarsi costrette a prendere le distanze in senso critico nei confronti di questo o quell'aspetto della dottrina o della morale cattolica. Altre, d'ispirazione più recente, mettono l'accento sulla confessione della fede e la partecipazione attiva all'evangelizzazione. Lo stesso vale per le scuole cattoliche.

E lo stesso si potrebbe affermare, per ritornare al tema di questo incontro, nei riguardi della fisionomia tipica di coloro che bussano alla porta dei nostri seminari o delle nostre case religiose.

I candidati della prima tendenza sono diventati sempre più rari, con grande dispiacere dei sacerdoti delle generazioni più anziane. I candidati della seconda tendenza sono diventati oggi più numerosi dei primi, ma esitano a varcare la soglia dei nostri seminari, perché spesso non vi trovano ciò che cercano.

Essi sono portatori d'una preoccupazione d'identità  (con un certo disprezzo vengono qualificati talvolta come "identitari"): identità cristiana - in che cosa ci dobbiamo distinguere da coloro che non condividono la nostra fede? - e identità del sacerdote, mentre l'identità del monaco e del religioso è più facilmente percepibile.

Come favorire un'armonia tra gli educatori, che appartengono spesso alla prima corrente, e i giovani che si identificano con la seconda? Gli educatori continueranno ad aggrapparsi a criteri d'ammissione e di selezione che risalgono ai loro tempi, ma non corrispondono più alle aspirazioni dei più giovani?

Mi è stato raccontato il caso di un seminario francese nel quale le adorazioni del Santissimo Sacramento erano state bandite da una buona ventina d'anni, perché giudicate troppo devozionali: i nuovi seminaristi hanno dovuto battersi per parecchi anni perché fossero ripristinate, mentre alcuni docenti hanno preferito dare le dimissioni davanti a ciò che giudicavano come un "ritorno al passato"; cedendo alle richieste dei più giovani, avevano l'impressione di rinnegare ciò per cui si erano battuti per tutta la vita.

Nella diocesi di cui ero vescovo ho conosciuto difficoltà simili quando dei sacerdoti più anziani - oppure intere comunità parrocchiali - provavano una grande difficoltà a rispondere alle aspirazioni dei giovani sacerdoti che erano stati loro mandati.

Comprendo le difficoltà che incontrate nel vostro ministero di rettori di seminari. Più che il passaggio da una generazione ad un'altra, dovete assicurare armoniosamente il passaggio da un'interpretazione del Concilio Vaticano II ad un'altra, e forse da un modello ecclesiale a un altro. La vostra posizione è delicata, ma è assolutamente essenziale per la Chiesa.

+ Jean-Louis Bruguès o.p. (6/ 2009)


vescovo

È nato il 22 novembre 1943 a Bagnères-de-Bigorre, piccolo borgo degli Alti Pirenei francesi. E fino all’11 novembre 2007, allorché Benedetto XVI lo promosse da vescovo di Angers ad arcivescovo e segretario della Congregazione per l’Educazione cattolica, monsignor Jean-Louis Bruguès non avrebbe mai immaginato di essere chiamato a svolgere la vocazione di sacerdote dell’ordine dei Predicatori domenicani nelle prime linee dei seminari, delle università e delle scuole cattoliche. Attualmente, al segretariato per l’Educazione cattolica fanno riferimento 1.300 università, 250 mila scuole e 2.700 seminari disseminati in tutti i continenti (eccetto Africa e Asia, dove le altrettante migliaia di scuole e seminari cattolici rispondono ad altri dicasteri della Santa Sede). Ambiti in cui, come è noto a chi sta in quelle trincee, l’esperienza millenaria della Chiesa si trova oggi a raccogliere la sfida di un’offensiva secolarista senza precedenti. Tempi ha incontrato monsignor Bruguès nel suo ufficio di Piazza Pio XII, a Roma, antistante il Cupolone di San Pietro.


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17/07/2010 09:26
 
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'Cartellino giallo' al prete olandese della messa-pagliacciata per i mondiali

Incredibile, ma vero. E' stato meritatamente sospeso dalle funzioni parrocchiali il pretino olandese che aveva organizzato la messa(inscena) con tanto di tiri in porta durante la celebrazione (rivedetela qui). In realtà, quella non è stata la causa efficiente del provvedimento sanzionatorio (ci saremmo stupiti del contrario: non perché non sia motivo sufficiente, perfino per esser spediti a Castel S. Angelo, ma perché quell'opportuna severità in caso di gravi abusi liturgici non è più di moda, tanto meno in Olanda). E' stata però la classica goccia che ha fatto tracimare il pitale, come riferisce Cantuale Antonianum in un articolo del quale riportiamo un breve estratto:
Da quanto si apprende dal sito della parrocchia dove ministrava, era arrivato come parroco ad Obdam è già faceva parlare di sè. Pare, dunque, che la messa calcistica fosse il meno: padre Vlaar partecipava tranquillamente (ancora nel 2009) a trasmissioni TV in cui criticava il Papa, si distanziava da parecchie dottrine cattoliche, pensa di poter benedire le nozze gay infatti, dice lui, se può benedire le motociclette, perchè non queste persone? (leggete qui).
Ma solo dopo che le foto della Messa-pagliacciata hanno fatto il giro di tutti i giornali del mondo, con tante prese in giro perchè l'Olanda ha perso, il vescovo di Haarlem-Amsterdam ha imposto a padre Paul un "periodo di ritiro" e di preghiera sospendendolo dalle sue funzioni pastorali. Il
sito ufficiale della diocesi dice - comunque - che "poi si vedrà" dopo questi giorni di penitenza. Inoltre viene precisato che: "Lo zelo pastorale e l'impegno del parroco non sono inoltre in questione".Il suggerimento che verrebbe dalle norme papali appena emanate è che il pastore Vlaar dovrebbe essere deferito alla Congregazione per la Dottrina della Fede, per profanazione della Santissima Eucaristia


*************************************

Riflessione:

....non resisto alla domanda, perdonatemi....  
se l'Olanda avesse vinto il mondiale, avrebbero preso oggi la decisione di ammonirlo? Laughing  
 
Sono sempre più confusa, forse perchè nel ruolo del genitore non mi sono mai ridotta ai rigori....ossia ho sempre tentato di PREVENIRE il gol con tanto di fallo da parte dei figli....comprendo l'arbitro di questa partita strana (il vescovo in questo caso), tuttavia se questo "giocatore" (il sacerdote in questione) già si comportava in maniera scorretta, perchè non l'hanno ammonito prima?
  
E' così che si rovinano le squadre (le comunità), quando si persiste a lasciare gli elementi corrotti....  
La sana e SANTA E BENEDETTA  disciplina è indispensabile per ogni uomo.....  
TUTTI facciamo un lavoro di squadra, san Paolo ben ammonisce come ci si deve comportare con gli elementi recidivi....  
Questo Sacerdote non ha compreso bene il ruolo che gioca, occorre anche vedere come è stato preparato e chi sono (e chi sono stati) e come si comportano i suoi...allenatori!


Perciò ATTENTI CARI FORMATORI..... IL FALLIMENTO DI UN SACERDOTE è ANCHE IL VOSTRO FALLIMENTO!



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14/12/2010 19:53
 
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Sacerdozio e omosessualità

02-12-2010

Il fatto di cronaca è doloroso: un candidato al sacerdozio, proveniente dalla Puglia ma residente nella diocesi di Orvieto, vistosi negare l'accesso al sacerdozio a poche settimane dalla prevista ordinazione, si è suicidato. Sul Giornale si occupa del caso il bravo Luca Doninelli che, giustamente, stigmatizza l'atteggiamento del vescovo di Orvieto che si pone in polemica con la Santa Sede affermando che per lui "era pronto a diventare prete". Un atteggiamento che, di fronte al fatto incontrovertibile della estrema fragilità psicologica del giovane candidato, dimostra una "dissipazione della ragione che non può non comportare una dissipazione del patrimonium fidei, che ha nella ragione, oltre che nella Rivelazione, il proprio fondamento".

In un passaggio dell'articolo, riferendosi a voci - probabilmente infondate - su una presunta omosessualità del giovane, Doninelli afferma che l'omosessualità "non è in ogni caso una causa impediente al sacerdozio: lo sarebbe la pratica, non certo la tendenza".

In realtà non è così: anche la tendenza omosessuale, se radicata, è una chiara causa impediente l'ingresso in seminario. E' scritto con molta chiarezza in un documento pubblicato nel novembre 2005 dalla Congregazione per l'Educazione cattolica e approvato esplicitamente da Papa Benedetto XVI nell'agosto precedente. L'unico distinguo riguarda le tendenze omosessuali "transitorie", ovvero legate allo sviluppo adolescenziale, che in ogni caso devono essere chiaramente superate ben prima di arrivare agli ordini.

Ecco comunque cosa dice il documento, che si chiama "Istruzione della Congregazione per l'Educazione Cattolica circa i criteri di discernimento vocazionale riguardo alle persone con tendenze omosessuali in vista della loro ammissione al Seminario e agli Ordini sacri":

" Il Catechismo distingue fra gli atti omosessuali e le tendenze omosessuali.

Riguardo agli atti, insegna che, nella Sacra Scrittura, essi vengono presentati come peccati gravi. La Tradizione li ha costantemente considerati come intrinsecamente immorali e contrari alla legge naturale. Essi, di conseguenza, non possono essere approvati in nessun caso.

Per quanto concerne le tendenze omosessuali profondamente radicate, che si riscontrano in un certo numero di uomini e donne, sono anch'esse oggettivamente disordinate e sovente costituiscono, anche per loro, una prova. Tali persone devono essere accolte con rispetto e delicatezza; a loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione. Esse sono chiamate a realizzare la volontà di Dio nella loro vita e a unire al sacrificio della croce del Signore le difficoltà che possono incontrare.

Alla luce di tale insegnamento, questo Dicastero, d'intesa con la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, ritiene necessario affermare chiaramente che la Chiesa, pur rispettando profondamente le persone in questione, non può ammettere al Seminario e agli Ordini sacri coloro che praticano l'omosessualità, presentano tendenze omosessuali profondamente radicate o sostengono la cosiddetta cultura gay.

Le suddette persone si trovano, infatti, in una situazione che ostacola gravemente un corretto relazionarsi con uomini e donne. Non sono affatto da trascurare le conseguenze negative che possono derivare dall'Ordinazione di persone con tendenze omosessuali profondamente radicate.

Qualora, invece, si trattasse di tendenze omosessuali che fossero solo l'espressione di un problema transitorio, come, ad esempio, quello di un'adolescenza non ancora compiuta, esse devono comunque essere chiaramente superate almeno tre anni prima dell'Ordinazione diaconale". 

Fraternamente CaterinaLD

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12/01/2011 19:20
 
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«La formazione dei preti rovinata dai compromessi»

di Andrea Camaiora
12-01-2011


«In seminario l’ultimo testo che ho consigliato è stato “Il sigillo”, scritto dal cardinal Mauro Piacenza. L’ho trovato illuminante per chi intenda divenire sacerdote soprattutto perché totalmente in linea con il magistero del Santo Padre. Nel libro sono ribaditi i punti essenziali del sacerdozio, dall’identità sacerdotale alla formazione liturgica. Devo dire che i seminaristi sono corsi ad acquistarlo e l’hanno praticamente divorato». Don Franco Pagano, classe 1976, dal settembre 2010 è prorettore del seminario vescovile di Sarzana (La Spezia). È un giovane brillante e aperto con alle spalle quattordici anni intensi, iniziati nel 1996 quando entrò proprio nel seminario della diocesi di La Spezia-Sarzana-Brugnato per consacrarsi a Cristo. È sacerdote dal 28 settembre 2002 e da allora matura esperienze importanti: dopo gli studi teologici la specializzazione in Diritto Canonico alla Pontificia università Santa Croce, il servizio presso il tribunale di Genova, il ministero di Parroco, la responsabilità dell’ufficio catechistico della diocesi e del tribunale diocesano, l’insegnamento della religione cattolica nello stesso liceo classico dove aveva studiato da ragazzo, infine prefetto agli studi del seminario.

Reggere un seminario oggi è forse più complicato che mai per le tentazioni e la fragilità insite nella società moderna. Don Franco, come fa un giovane sacerdote ad affrontare queste sfide difficili nel momento in cui è chiamato a formare altri giovani?
«La mia esperienza è particolare: essendo da cinque anni all’interno del seminario conoscevo già bene questa realtà. Ora tuttavia è cambiato il mio ruolo e con esso le responsabilità che porto. Forse in questa diocesi è meno difficile svolgere il compito a cui sono stato chiamato perché siamo sempre stati fedeli al modello sacerdotale che la Chiesa insegna nei suoi documenti fondamentali. Non è un caso che il nostro Vescovo, monsignor Francesco Moraglia, abbia sottolineato per noi formatori l’importanza di partecipare ai momenti di incontro che si sono tenuti a Roma lungo l’anno sacerdotale e che hanno affrontato proprio le sollecitazioni che il Santo Padre ha ripetutamente rivolto a proposito dell’identità del sacerdote».

La Bussola Quotidiana, riportando la notizia di alcune fughe clamorose di preti, ha parlato recentemente di "emergenza educativa nei seminari". Come è possibile che dai seminari escano sacerdoti così fragili e poco convinti?
«Per cercare di dare una spiegazione dobbiamo pensare a cosa significa formarsi in un seminario. L’iter è lungo sei anni, nei quali i giovani approcciano gli ambiti tradizionali: la dimensione relazionale, spirituale, culturale e pastorale. Il riferimento, naturalmente, è e deve essere il magistero della Chiesa e almeno nella nostra diocesi ciò è un punto fermo. Occorre poi tenere conto di due questioni non secondarie: chi accede al seminario oggi è un giovane o un uomo del nostro tempo, che quindi porta con se il clima del nostro tempo con tutte le sue enormi insicurezze, ad esempio sul piano affettivo la prevalenza degli aspetti emozionali, e la tendenza a rifuggire i problemi e le sofferenze; si è persa la consapevolezza che per crescere è necessario sopportare la fatica della formazione che spesso richiede sacrifici. Una questione però riguarda i formatori.

Dobbiamo fare i conti con un’idea di sacerdote che non è sposata in modo univoco da tutti e ciò finisce col generare mostri. Nel momento in cui non si vive con piena fermezza l’identità sacerdotale o non la si insegna, può accadere tutto. C’è chi ad esempio tenta “sperimentazioni” e imposta la vita di seminario lasciando spazio ad uscite serali ed esperienze che portano a trascorrere spazi di tempo considerevoli fuori dal contesto della comunità educativa in situazioni non sempre così affini con la scelta sacerdotale; il seminarista è un giovane come gli altri, ma la sua vocazione lo porta a scegliere senza mezze misure di trascorrere gli anni di formazione a contatto con il Signore rinunciando consapevolmente e serenamente ad alcune esperienze “del mondo”. Cercare compromessi in tal senso può portare a confondere i giovani proprio sull’identità del sacerdote che è sempre chiamato a mettere il proprio rapporto con Dio al primo posto. Chi fa queste scelte si assume gravi responsabilità. Ci sono poi formatori – non è un mistero – che non si pongono in linea con il magistero del Papa, criticando apertamente ad esempio il modello da lui proposto del Santo Curato d’Ars perché giudicato antiquato e troppo devozionale; tra l’altro mi pare significativo che si tratta di un riferimento indicato non soltanto da Benedetto XVI ma anche da Giovanni XXIII e Giovani Paolo II!».

Occorre dunque una formazione più attinente all’insegnamento del Santo Padre e più rigorosa per affrontare una società complessa.
«Non solo. Finito il sesto anno non è tutto a posto e questa è la seconda grande questione. Dobbiamo prendere atto che il seminario offre comunque protezione, risposte, conforto. E dopo? Ci sono anche i primi anni di ministero sacerdotale. Lì il giovane parroco incontrerà i problemi confrontandosi con il mondo e con una società in cui i problemi si incontreranno in modo concreto. Oltre ad una solida formazione interiore durante gli anni di Seminario occorre costruire un progetto per i primi dieci anni di sacerdozio che vada oltre l’incontro periodico; questa è una sfida per i nostri vescovi. D’altra parte dietro le crisi sacerdotali, non si può che riconoscere una crisi di fede.

Chi lascia il sacerdozio o, come è accaduto recentemente, entra nella Fraternità di San Pio X, denuncia il suo  “non star bene” del quale devono essere individuate con precisione le cause; ritengo tuttavia che la nostra risposta non può che essere il ripartire dai punti nevralgici e soprattutto dal cuore del discorso. Durante le festività natalizie ho riletto un testo che presenta spunti di straordinaria attualità da questo punto di vista, pur risalendo agli anni ‘70: si tratta di “Punti fermi” di von Balthasar. Tra questi punti fermi c’è l’adorazione e mi è venuto in mente come circa questo aspetto il Santo Padre ci presenti sistematicamente un esempio evidentissimo perché è solito privilegiare nei suoi incontri lo spazio per l’adorazione eucaristica, come a dire: voi siete venuti qui a incontrare me ma io insieme con voi ho bisogno di incontrare Qualcuno più importante di me. Il Papa indica così alla Chiesa la cura e la risposta più adeguata per i tempi moderni e al tempo stesso offre una proposta di fede completa, autentica, chiara, integrale anche rispetto ad una catechesi che nel tempo si è concentrata su aspetti marginali arrivando in alcuni casi a distogliersi da ciò che è deve essere centrale, cioè la fede in Cristo. Non si può che ripartire in ginocchio guardando al Signore e a Lui solo».


fonte LA BUSSOLA QUOTIDIANA


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06/02/2011 18:50
 
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La bellezza del sacerdozio cattolico sta nella sua necessità per la salvezza dell’uomo. Ma quando s’inizia a credere che ogni religione vale l’altra cosa rimane di questa bellezza?

Cosa c'è dietro la crisi delle vocazioni sacerdotali?


E’ da poco terminato l’Anno Sacerdotale indetto da Benedetto XVI, ma purtroppo non sono terminate le polemiche sul sacerdozio cattolico e sulla sua qualità. Offriamo ai nostri amici una circolare pubblicata anni fa che potrebbe tornare utile nell’apostolato che ogni cattolico è tenuto a fare. In questo caso si tratta di un apostolato all’interno dei nostri ambienti, affinché possano essere riviste alcune “posizioni pastorali” che a nostro parere hanno contribuito non poco alla diminuzione del numero dei sacerdoti e anche all’abbassamento della qualità del sacerdozio.

La bellezza del sacerdozio cattolico sta nella sua necessità per la salvezza dell’uomo. Ma quando s’inizia a credere che ogni religione vale l’altra cosa rimane di questa bellezza?

Che ci sia una crisi delle vocazioni è sotto gli occhi di tutti. Che poi si dica che non sia crisi di vocazioni (ed è vero) ma di risposte alla vocazione, non è che cambi molto le cose. Sant’Ignazio di Loyola, che di vocazioni se ne intendeva, tanto che nei suoi Esercizi spirituali ha inserito ben diciassette punti per riflettere seriamente sulla scelta del proprio stato, affermava addirittura che un maschio su tre fosse chiamato al sacerdozio. Certo, non sappiamo se le cose stiano effettivamente così; resta il fatto che siamo su cifre molto, ma molto lontane dalle attuali. Sta prendendo piede la figura del parroco globe-trotter: alle 9 Messa nella parrocchia A, alle 10 in quella B e alle 11.30 in quella C…che la D e la E si arrangino. Ci sono molte parrocchie (non mi riferisco non tanto all’Italia) che il sacerdote lo vedono ormai con il cannocchiale. C’è il diacono Tizio e il diacono Caio che organizzano le cosiddette “paraliturgie”, che, con tutto il rispetto, stanno alla Messa nemmeno come le patate lesse ad un bel piatto di spaghetti alla carbonara. Paragone forse irriverente, ma è per rendere un’idea che in realtà non si può rendere, perchè solo la Messa ha un valore infinito, solo nella Messa è Dio che si offre in sacrificio. Se mettessimo su un piatto della bilancia tutte le preghiere di questo mondo e su un altro una sola Messa, la bilancia sicuramente penderebbe dalla parte della Messa.

Ma torniamo al discorso da cui siamo partiti. Il numero dei sacerdoti è assolutamente insufficiente. E giustamente si cerca di correre ai ripari. Si fanno convegni, piani pastorali, incontri e giornate di preghiera; tutte cose buone…anzi ottime (cosa c’è di più importante della preghiera?), ma si rivelano come “fatiche di Sisifo”, cioè inutili. E questo perché si dimentica una cosa molto importante e cioè che oggi non si sottolinea abbastanza l’esclusivismo salvifico del Cattolicesimo, ovvero che la salvezza è solo nella Chiesa cattolica. Si è invece diffusa quella che può essere chiamata la “sindrome dell’Anas”: ogni strada, se ben curata, è buona per arrivare a destinazione…e così ogni religione, se ben praticata, sarebbe buona per raggiungere la felicità eterna.

Torniamo alla crisi delle vocazioni e riflettiamo. Si può davvero risolvere questo problema senza riproporre l’esclusivismo salvifico del Cattolicesimo? Facciamo un esempio. Un giovane pensa di avere la vocazione al sacerdozio. Sa che si tratterà di una vita di numerose rinunce. Poi gli fanno capire che, in realtà, tutti si salvano indipendentemente dalla religione che si professa. E’ naturale che qualche dubbio gli venga. Ma chi glielo fa fare? Se ogni religione è buona, a che serve il sacerdozio cattolico? Si potrebbe obiettare: ma nessuno deve credersi indispensabile. Verissimo. Ma ciò vale per la propria persona, non per la funzione che si ricopre. Ci spieghiamo. Don Tizio deve essere sì consapevole della sua inutilità (siamo tutti “servi inutili”-Luca 17,10), ma non può ritenere inutile –anzi!- il suo sacerdozio. Lo ripeto: l’inutilità vale per la propria persona non per il ruolo che si ricopre nella Chiesa.

D’altronde la bellezza del sacerdozio cattolico sta proprio nel portare a tutti la Grazia per donare il Paradiso. Leggete queste bellissime parole del Santo Curato d’Ars: “Quando vedete un sacerdote, dovete dire: ‘Ecco colui che m ha reso figlio di Dio e mi ha aperto il cielo per mezzo del santo Battesimo, colui che mi ha purificato dopo il peccato, colui che nutre la mia anima.’ Il sacerdote è per voi come una madre, come una nutrice per il neonato: ella gli dà da mangiare e il bimbo non deve far altro che aprire la bocca. La madre dice al suo bimbo: ‘Tieni, piccolo mio, mangia’. Il sacerdote vi dice: ‘Prendete e mangiate, ecco il Corpo di Gesù Cristo. Possa custodirvi e condurvi alla vita eterna’. Che belle parole! Il sacerdote possiede le chiavi dei tesori del cielo: è lui ad aprire la porta; egli è l’economo di Dio, l’amministrazione dei suoi beni.”




[Modificato da Caterina63 17/02/2011 12:13]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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12/08/2011 22:53
 
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Intervento di Sua Eccellenza Celso Morga al
XXII Corso internazionale per i Formatori dei Seminari


Istituto “Sacerdos”, Leggiuno

Lunedì 11 luglio 2011

Per cominciare, vorrei riferirmi all’intervento del Santo Padre ai seminaristi di Roma, nel marzo scorso.

Di per sé, la competenza della Congregazione sarebbe la formazione permanente e non quella nei seminari, ma il legame tra le due è logicamente evidente, oltre che conveniente dal punto di vista dell’esperienza.

In ogni caso, è molto importante che nella formazione si segua lo schema dell'Apostolo Paolo che nelle sue lettere ha sempre lo stesso metodo: presenta il contenuto della chiamata cristiana, il dogma, il contenuto affascinante, e dopo fa la parte parenetica, esortativa: “Vi esorto dunque”. Consapevole che quel mistero di Cristo in noi bisogna viverlo. Non c’è nulla di meccanico, non basta ascoltare il mistero ed essere battezzato, ma c’è un passaggio delicato: “vi esorto dunque”. Adesso dovete vivere così, e non è automatico.

Vale per la vocazione cristiana, ma anche per la formazione sacerdotale: avete una delle più grandi responsabilità davanti a Dio e alla Chiesa. Si deve seguire lo stesso schema: presentare ai candidati il mistero di Cristo con il suo fascino, la bellezza della buona teologia, e insieme esortare i seminaristi a vivere così. Anche a 80 anni, sentiremo questo “vi esorto dunque”, la lotta è continua per rispondere alla nostra vocazione.

Nel lavoro della Congregazione, nelle richieste di dispense, negli scrutini, nella documentazione ricevuta, si nota spesso questo errore grave da parte dei formatori di pensare che il sacramento possa supplire, che possa fare miracoli nei confronti di un candidato non adatto, o non pronto. Ma sappiamo che il sacramento esige una preparazione…

I giovani che vi sono affidati hanno ricevuto una chiamata da Dio: dobbiamo essere sempre coscienti che la vocazione non è iniziativa loro, né dei loro genitori, né dalla parrocchia o di un movimento: sono su questa strada perché Dio li ha chiamati. Perciò, noi non stiamo formando dei professionisti, ma dei chiamati; per esercitare un ministero specifico, e dobbiamo avere sempre in mente che tutto il lavoro della formazione serve ad assecondare questa chiamata di Dio, per verificare se è autentica. La vocazione è così importante che tutto è indirizzato a far sì che questa chiamata sia accolta e porti frutti.

È un lavoro esigente al massimo: occorre tutta la nostra disponibilità e attenzione per trattare con il più grande rispetto il mistero profondissimo di quel giovane.

Questa chiamata deve essere nutrita per condurre ogni giovane all’intimità con Colui che lo ha chiamato. E come posso mostrare una strada che io stesso non percorro? Innamorarsi di Cristo. Nulla preferire a Cristo, al suo amore. Il nostro cuore è fatto per amare. Se quel cuore non si riempie di amore per Cristo, si riempirà di altro. Ma, di fatto, nient’altro lo potrà riempire: né la comunità, né il lavoro sociale o pastorale… è per questo che implica un’esclusiva, e perciò tanto più profonda dovrà essere l’intimità con Lui nel Seminario, perché questo amore è conquista, avventura, lotta fino al “requiescat in pace”.

Purtroppo, è nei nostri processi di dispensa che ci accorgiamo dei ragazzi formati per la lotta per la giustizia, per il lavoro nella comunità a prescindere dal chiaro insegnamento che tutto ciò ha senso solo se è generato dall’amore a Cristo. La comunità e la lotta per la giustizia non sono sufficienti a rispondere alle esigenze infinite del nostro cuore.

Cristo chiama i suoi discepoli: “Seguimi”. è importante entrare in tutti i particolari, il Vangelo non è una cosa del passato, Cristo continua a passare lungo il lago e a chiamare questo ragazzo.

Per questo vorrei soffermarmi sui capitoli 14-17 di Giovanni, dove Gesù spiega a tu per tu ai discepoli come devono fare: “senza di me non potete fare nulla”. E finisce con il discorso sacerdotale e il tema dell’unità: sono capitoli fatti per noi, possono fare tanto e tanto bene.

Infine vorrei sottolineare 4 caratteristiche che questi giovani dovranno avere:

1. L’umiltà. Saranno strumenti. Servitori. Tutta l’attività sacerdotale è servizio. L’umiltà è cristologica, ricordiamo Fil 2. L’umiltà di Cristo non è timidezza. Ma niente protagonismo: “la gente viene a me perché sono bravo, perché so parlare, ecc.” Se mettiamo noi stessi al centro, Cristo non può passare.

2. La dolcezza, l’amabilità. Certi seminari hanno insegnato che ci vuole la durezza per gestire bene le parrocchie, ma così l’autorevolezza diventa autoritarismo. Il lavoro pastorale si può svolgere benissimo senza quella durezza che spesso scambiamo per fortezza. Invece, ci sono già tante cose che fanno soffrire le persone, perciò bisogna saperle amare, trattarle con dolcezza… e se ci fa male la testa o lo stomaco, a volte è meglio rimanere a casa con l’aspirina piuttosto che, in balia del nostro stato d’animo, maltrattare gli altri.

3. La magnanimità: cuore grande, essere veri uomini, essere sinceri, vedere le cose con ampiezza, non lamentarci “qui nessuno mi capisce, mi apprezza”. La vera curiosità, l’affabilità, il modo di presentarci, la cura di noi stessi. La gente ha bisogno di avere davanti un uomo, come san Giuseppe, che seppe affrontare la vita senza paura.

4. L’amore pastorale sia quello di un padre e di una madre.

Infine, ricordare a noi stessi per primi e quindi testimoniare ai ragazzi, che la chiamata è ecclesiale, che ci include in un corpo, con tanta diversità di persone; occorre preparare il giovane a non idealizzare le condizioni nelle quali si svolgerà il ministero: si potrà trovare con un parroco già stanco, una comunità che non è tutto amorosa e accogliente… dove si è mandati si può trovare di tutto, ma questo ci deve fermare. Siamo santi e peccatori nella Chiesa. Ci confessiamo frequentemente perché lo sappiamo.

La Chiesa non è una comunità ideale: non tutti ammireranno il sacerdote, non tutti gli diranno “come stai oggi”…. Educare ad essere saldi, ad essere un uomo in questo contesto. Vedere la Chiesa con gli occhi della fede.



Domande libere:

1. Grazie Eccellenza. Vorrei che ci ricordiate i diritti e i doveri del sacerdote diocesano.

R.: Fare così l’elenco dei testi del diritto canonico non è facile! Cominciamo dai doveri, la parte più importante: il dovere primordiale dell’attenzione pastorale, affinché la comunità affidata abbia tutti i mezzi possibili di sacramenti, predicazione e governo pastorale per santificarsi.

Questo ci obbliga alla residenza abituale, ad un orario in cui la gente possa trovarci, a non negare i sacramenti ragionevolmente chiesti. Offrire la possibilità della messa quotidiana, della confessione frequente, portare la comunione e visitare gli ammalati, non dimenticare coloro che si sono allontanati, non negarsi a quelli che ci cercano… sapere fare ecumenismo in comunione con le norme della Chiesa.

Poi i doveri del parroco, e poi i diritti: avere anche noi i mezzi che ci aiutino a custodire la propria vocazione. Ad esempio le associazioni sacerdotali e i movimenti offrono una formazione permanente (che comunque, prima di tutto, è compito della Diocesi) e costituiscono una compagnia che aiuta a perseverare nella vocazione.

Abbiamo anche il diritto di vivere del proprio lavoro, di avere una vita decorosa e, al bisogno, poter sostenere coloro che ci sono a carico: la signora che gestisce la casa, i genitori… ho l’esperienza che quando un sacerdote è veramente sacerdote, non gli manca mai il necessario. Cristo da il cento per uno, ma noi dobbiamo dare l’uno, cioè tutto di noi.

E, infine, non siamo macchine, abbiamo anche bisogno di riposo…


2. In Congregazione c’è una cartella per ogni sacerdote o solo quando arriva un caso?

R. Certamente la Congregazione non prende l’iniziativa di schedare tutti! Riguardo alla grande maggioranza dei sacerdoti, non ci sono pratiche. Tanto più che ci occupiamo solo dei sacerdoti di diritto comune: non orientali, non religiosi… La Congregazione ha competenza universale solo per le richieste di dispensa dagli obblighi connessi con il ministero. Problematiche complesse vengono anche trattate in collaborazione con altri Dicasteri, che vengono coinvolti ognuno per la propria competenza specifica.


3. Che succede se il parere dei formatori è contrario all’ordinazione, mentre il Vescovo la vuole?

R. Nel trattare le richieste di dispensa, si vede bene che tante volte i formatori avevano ragione di sconsigliare l’ordinazione del candidato; per il Vescovo è molto rischioso non seguire il loro parere, perché in genere i formatori hanno più elementi per giudicare l’idoneità del candidato. Un Vescovo prudente non si lascia persuadere facilmente dall’insistenza del candidato o della sua famiglia; specialmente se il ragazzo è stato espulso da un altro seminario, è obbligatorio chiedere le motivazioni, e sono necessari elementi veramente consistenti e decisivi per stabilire diversamente.


4. Che succede se il candidato cambia paese? E per le dispense, quale può essere la ragione?

R. 4.1 Il primo caso è un po’ simile a ciò che si è detto prima; non ci sono motivazioni di per sé contrarie allo scambio dei ministri, che anzi può arricchire la Chiesa, la quale è universale: siamo ordinati innanzitutto per la Chiesa universale. Il Codice dopo il Concilio ha voluto diminuire l’importanza dell’incardinazione: ci vuole ordine, non vogliamo chierici girovaghi, ma l’ordinazione è per tutta la Chiesa. Negli scambi bisognerà tener conto che possono insorgere problemi per differenti mentalità, ma anche quelli si risolvono. Il Vescovo ad quem deve essere attento al parere del vescovo a quo, la situazione giuridica deve essere chiara; è giusto che vi sia un periodo di prova, ma non troppo lungo.

4.2. Purtroppo succede che alcuni sacerdoti, avendo abbandonato il ministero, non chiedono la dispensa per pura pigrizia, per non intraprendere la procedura; altri perché aspirano a cambiare la Chiesa, anche se ormai pochissimi con questa mentalità. Il Santo Padre desidera che specialmente i casi antichi vengano risolti quanto prima.


5. Una domanda circa i delitti gravi: proviamo rabbia, scandalo, riconosciamo le nostre debolezze, il Papa e le Congregazioni hanno reagito, ma vorrei chiedere se effettivamente vi rendete conto che i seminari sono più seri, che queste cose non si ripeteranno mai.

R. La mia impressione personale e che sono state prese le misure necessarie riguardo alla formazione in genere, per far fronte a questi problemi; ma c’è una difficoltà di tipo morale, perciò non si può dire che non ci sarà più in tale data; la proporzione numerica dei casi denunciati è scesa molto; il fenomeno sembra che si sta risolvendo. Ma l’attenzione deve essere costante, perché la natura umana è sempre capace di ricadere.

La mia impressione è che il fenomeno viene da un clima generale di pansessualismo. La società ha puntato il dito contro la Chiesa che deve essere il sale della terra e la luce del mondo, ed è giusto. Ma è anche ipocrita ridurre così il problema, perché nella società tutto spinge a godere del sesso in tutti i modi, e tutto sembra lecito, e ciò accade in tutti gli ambiti.


6. Discorso del Cardinale sulla castità a Torino: purificazione della memoria…

R.: Si, magnifica conferenza, che consiglio di leggere e meditare.

7. Tre situazioni. 1: un monaco chiamato dalla sua comunità, quella di D. Barsotti: sposato, matrimonio riconosciuto nullo, un figlio a carico; secondo me, questo semplice fatto dovrebbe fare riflettere. La comunità, in vista di un futuro servizio alla diocesi, lo ha indirizzato verso il sacerdozio; personalmente ritengo che ha una vocazione monacale, collaudata, ha fatto i voti, ma non mi sembra avere una vocazione di sacerdote diocesano.

R.: Circa il figlio, paragoniamo con i sacerdoti che chiedono a noi la riabilitazione: 25-30 casi all’anno, e noi nelle norme chiediamo che il matrimonio civile sia sciolto, che sia stato dichiarato nullo se era canonico, e se ci sono figli, che siano autonomi economicamente, per guadagnarsi la vita; si tratta di un diritto naturale del figlio: anche se sta con la madre ha diritto alla presenza del padre, alla sua disponibilità; dunque non si ordina finché il figlio sia totalmente autonomo, e consenziente anche lui, possibilmente.

Poi bisogna che la vocazione sia sua: non è la sua comunità che lo indirizza, è lui che deve chiedere l’ordinazione o meno, e sottoporre al giudizio della Chiesa la vocazione che percepisce.

Se come monaco o come prete diocesano, il Vescovo e la comunità possono aiutare a discernere; l’importante è non forzare, per non perdere una vera vocazione solo perché non si adatta bene al tipo di vita: bisogna pensare al bene maggiore di avere un sacerdote per la Chiesa.

7.2 Il Vescovo ha costituito una commissione per i scrutini composta anche da laici; giustifica perché la commissione si può pronunciare sul caso dopo aver sentito tanti; poi perché il Vescovo deve sentire la Chiesa, composta anche di laici, per chiamare agli ordini. Dunque i formatori che vivono quotidianamente col candidato sono equiparati per il voto a laici che non conoscono…

R. è una novità, non c’è nessun canone in materia, può avere la sua giustificazione, ma ciò che è previsto sono gli “scrutini”, pareri scritti da chi conosce il candidato: parroco, laici della parrocchia, ecc., valutati poi dalla commissione. Io insisterei sul fatto che mettere laici con pari responsabilità nella commissione di valutazione, è una novità assoluta, che almeno il Vescovo ne sia conscio.

7.3. Se la Congregazione conosce il caso?

R. Potete informare la Congregazione per l’Educazione Cattolica. Anche i laici sono Chiesa, possono essere sentiti, niente lo impedisce, ma non è previsto dalla Chiesa… è meglio avvertire.

7.4 Nel seminario noi abbiamo accolto 3 membri di una comunità di diritto diocesano. Hanno chiesto che fosse presente anche un loro educatore, diventato vice rettore. Di fatto, sono diventati un corpo “a sé”, continuano a seguire la loro vocazione, il venerdì se ne vanno con il loro formatore. I seminaristi si chiedono: sono con noi o no? Sono diocesani o no? Il seminario è un hotel? Che convivenza?

R. Il seminario deve avere un regolamento, uno statuto, che regola la vita ordinaria; se il Vescovo permette loro di vivere dentro, perché no, ma è un po’ come se fossero direttamente sottomessi al Vescovo. Non sono comunque del seminario. Anche questo è una novità. L’importante è la libertà del foro interno, la convivenza, la preghiera in comune, per non fare l’hotel. Più di questo non posso dire, non conoscendo queste persone, né l’associazione alla quale appartengono.


8. Sopra il caso che l’équipe dice al Vescovo che non si può ordinare, e il Vescovo lo vuole fare lo stesso; a chi si devono rivolgere i formatori? E sul processo breve di coloro che hanno lasciato il ministero ma vogliono vivere in comunione.

R. Si, si può informare di tutto la Santa Sede, è l’istanza superiore; la Congregazione competente è quella per l’Educazione Cattolica. Comunque, qualora si ritenesse opportuno comunicare, è bene inviare il proprio giudizio per iscritto.

Per ottenere la dispensa dagli obblighi connessi con il ministero, il sacerdote deve scrivere al Santo Padre, spiegando il motivo: ho perso la fede, ecc. L’Istruttore nominato dall’Ordinario farà delle domande in parte prestabilite, circa l’idoneità e l’irreversibilità, che sono le due causali fondamentali: non idoneo, o situazione irreversibile a motivo della presenza dei figli, dell’età, ecc. Bisogna anche ascoltare come testimoni (3-5 al massimo) su questi argomenti, altre persone informate, come ad esempio i compagni di seminario; poi aggiungere gli scrutini, il voto del Vescovo con la dichiarazione che non si deve temere lo scandalo, e il voto dell’Istruttore.

Si presenta alla Congregazione per il Clero l’intera documentazione, che verrà esaminata da 3 commissari, i quali si riuniranno poi presso il Dicastero e discuteranno i loro pareri; infine, se emergono delle valide motivazioni, si presenta il caso al Santo Padre per domandare la grazia.

La regola dei 40 anni minimi di età non è assoluta con Papa Benedetto XVI: in questo caso, la richiesta viene studiata da 5 commissari e se non c’è qualcosa di particolare, di grave (come l’omosessualità, l’alcolismo), si aspetta comunque.

Il Santo Padre incoraggia i Vescovi a cercare di sanare le situazioni di coloro che hanno abbandonato il ministero, sollecitandoli a chiedere la dispensa, e se il sacerdote si rifiuta, il Santo Padre ha dato alla Congregazione le facoltà di procedere “in poena”. Soprattutto dopo lo scandalo della pedofilia, spesso quei sacerdoti non si riescono a rintracciare, mentre nei paesi anglosassoni la diocesi è considerata responsabile dei misfatti dei sacerdoti, anche economicamente. Dunque, per chi ha abbandonato il ministero illegittimamente da più di 5 anni, si può procedere. Se si rifiuta di chiedere la dispensa, se si sa che ha figli, che convive, si dimette “in poena”.


9. Domanda più assiomatica: come si bilancia un processo di laicizzazione. Da un lato dobbiamo preservare il Popolo da un sacerdote indegno, e dall’altro dobbiamo lasciare la possibilità di conversione…

R. Lei ha detto molto bene di questo equilibrio: la Chiesa è madre, non possiamo fare il pendolo passando da un estremo all’atro, dal non fare niente davanti ai delitti, alla rigidità estrema nella quale, alla prima denuncia, alla prima voce che arriva, si castiga.

San Paolo ha dato una norma: aspettare almeno due testimonianze, verificare che il delitto sia commesso.  Comunque la Chiesa rimane Madre anche se il delitto c’è stato. Dobbiamo ricuperare l’equilibrio. Un mio formatore mi ha appena scritto: non dimenticare che i sacerdoti hanno bisogno di giustizia ma anche di misericordia. c’è il pericolo oggi di affrettare il castigo, la sospensione o la dimissione, ma bisogna tener conto del fatto che molti sacerdoti hanno sofferto da innocenti. Ad esempio, negli USA i casi comprovati in sede giudiziale sono relativamente pochi, dal 1950 fino ad oggi. Molti sacerdoti stanno soffrendo attualmente per questa ingiustizia, anche per colpa dei confratelli: dunque ci vuole molto equilibrio.

Giustizia per le vittime, ma non soltanto per le vittime: anche i sacerdoti, e anche quelli criminali, hanno diritto al rispetto. Tanto più che si tratta più di ammalati che di delinquenti, in questo campo. Se la legge prevede il carcere, ci vadano pure, ma non perdano la dignità.

10. Quando un sacerdote si dedica solo al proprio movimento?

R. Tu sei sacerdote per la Chiesa universale, non puoi ridurti ad una parrocchia, o a un gruppo; se sei ordinato per questa diocesi, per questo movimento, evidentemente avrai un ministero prioritario per questo movimento, questa diocesi, ma senza esclusiva. Se ti dedichi bene, ti si allarga il cuore per servire meglio anche gli altri; il ministero sacerdotale dilata il cuore.


 
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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13/10/2011 18:49
 
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[SM=g1740733]INVITIAMO I FORMATORI DEI SEMINARI E GLI STESSI SEMINARISTI ED ANCHE SACERDOTI, A RIFLETTERE SU QUESTE RISPOSTE DI MONS. PIACENZA

Il prefetto della Congregazione per il Clero, il card. Mauro Piacenza, ha concesso ad "Aci Prensa" un'intervista in esclusiva sulla situazione del sacerdozio nel monod. Estrapoliamo due domande e due risposte, relative al celibato sacerdotale (in relazione anche agli scandali sessuali) e al sacerdozio femminile.

di Marco Tosatti 13.10.2011
 
Alcuni credono che questa “crisi” sia ancora un argomento in più per delle “pretese riforme” nel modo di guardare al sacerdozio. Si parla, per esempio, di preti sposati come di una soluzione tanto alla solitudine del sacerdote quanto alla mancanza di vocazioni sacerdotali. Cosa significa veramente la “riforma del clero” nel pensiero e nel magistero del Santo Padre Benedetto XVI ?

R. Chi argomenta così, se fosse seguito, creerebbe un crack inaudito. I rimedi suggeriti aggraverebbero terribilmente i mali e seguirebbero la logica inversa al Vangelo. Si parla di solitudine? Ma perché, Cristo è forse un fantasma? La Chiesa è un cadavere o è viva? I santi sacerdoti dei secoli passati sono stati uomini anormali? La santità è un’utopia, è affare di pochi predestinati, oppure è una vocazione universale, come il Concilio Vaticano II ci ha ricordato? [SM=g1740721]
Non si deve abbassare ma piuttosto alzare il tono: questa è la strada.
Se la salita è ardua si devono prendere vitamine, ci si deve rinforzare e, fortemente motivati, si sale con tanta gioia nel cuore. Vocazione significa “chiamata” e Dio continua a chiamare, ma bisogna poter ascoltare e, per ascoltare, bisogna non avere tappi nelle orecchie, bisogna fare silenzio, bisogna poter vedere esempi e segni, bisogna avvicinare la Chiesa come il Corpo, nel quale accade sempre l’avvenimento dell’Incontro con Cristo.
Per essere fedeli bisogna essere innamorati. [SM=g1740721]
Obbedienza, castità nel celibato, dedizione totale nel servizio pastorale senza limiti di calendario e di orario, se si è davvero innamorati non sono percepiti come costrizioni ma come esigenze dell’amore che costitutivamente non potrebbe non donarsi. Non sono tanti “no” ma un grande “sì” come quello della Santa Vergine all’Annunciazione. La riforma del Clero? È ciò che io invoco da quando ero seminarista e poi giovane prete (parlo degli anni 1968-1969) e mi colma di gioia sentire come il Santo Padre invochi continuamente tale riforma come tra le più urgenti e necessarie nella Chiesa. Ma ricordiamoci, la riforma di cui si parla non è “mondana” bensì “cattolica”! Credo che, in estrema sintesi, si possa dire che al Santo Padre sta a cuore un Clero certo e umilmente orgoglioso della propria identità, completamente immedesimato con il dono di grazia ricevuto e per il quale, conseguentemente, sia chiara la distinzione tra “Regno di Dio” e mondo.
Un Clero non secolarizzato, non succube delle mode passeggere e dei costumi del mondo, non schiavo delle mentalità dominanti e delle lusinghe poste in atto dallo spirito del mondo. Un Clero che riconosca, viva e proponga il primato di Dio e, da tale primato, sappia far discendere tutte le conseguenze. Più semplicemente la riforma consiste nell’essere ciò che dobbiamo essere e cercare ogni giorno di diventare ciò che siamo. Si tratta pure di non confidare tanto nelle strutture, nelle umane programmazioni, quanto piuttosto nella forza dello Spirito.


Si parla spesso anche di “sacerdozio femminile”. Infatti, esiste negli Stati Uniti un movimento che pretende ed esige il sacerdozio e l’ordinazione di vescovi donne, e che affermano di aver ricevuto tale mandato dai successori degli apostoli.


R. La Tradizione apostolica, in questo senso, è di chiarezza assolutamente inequivocabile. La grande ed ininterrotta Tradizione ecclesiale ha sempre riconosciuto che la Chiesa non ha ricevuto da Cristo il potere di conferire l’Ordinazione alle donne. Ogni altra rivendicazione ha il sapore della auto-giustificazione ed è, storicamente e dogmaticamente, infondata. [SM=g1740722]
In questo senso, la Chiesa non può “innovare” semplicemente perché non ne ha il potere. La Chiesa non ha un potere superiore a quello di Cristo! Laddove alla guida di talune Comunità non cattoliche vediamo delle donne, non dobbiamo meravigliarci perché laddove non è riconosciuto il Sacerdozio ordinato, la guida ovviamente è affidata ad un fedele laico e, in tale caso, che differenza fa se tale fedele è uomo o donna? La preferenza dell’uno sull’altra sarebbe solo un dato sociologico e quindi mutevole, in evoluzione. Se fossero solo uomini allora sarebbe discriminante. La questione non è fra uomini e donne ma fra fedeli ordinati e fedeli laici e la Chiesa è gerarchica perché Gesù Cristo l’ha fondata così. [SM=g1740721]
Il Sacerdozio ordinato, proprio della Chiesa Cattolica e delle Chiese Ortodosse, è riservato agli uomini e questo non è discriminazione della donna ma semplice conseguenza dell’insuperabile storicità dell’evento dell’Incarnazione e della paolina Teologia del corpo mistico, nel quale ciascuno ha il proprio ruolo e si santifica e produce frutto nella coerenza al proprio posto. Se poi si interpreta tutto ciò in chiave di potere, allora siamo completamente fuori strada, poiché nella Chiesa solo la Beata Vergine Maria è addirittura “onnipotenza supplice”, come nessun altro mai, per cui una donna è ben più potente di San Pietro. Ma Pietro e la Vergine hanno ruoli diversi ed entrambi essenziali. Ciò è sentito molto anche in non pochi ambienti della Comunione anglicana
.


[SM=g1740722]

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Quale educazione in tempo di crisi?


Il cardinale Mauro Piacenza indica le linee educative per i formatori dei Seminari


ROMA, mercoledì, 4 luglio 2012 (ZENIT.org).- Pubblichiamo l’intervento alla XXII edizione del corso internazionale di formatori per Seminari del Card. Mauro Piacenza, Prefetto della Congregazione per il Clero.

Il cardinale Piacenza è intervenuto ieri martedì 3 luglio, a Roma al Pontificio Collegio Internazionale "Maria Mater Ecclesiae".

Direttore del Corso è Padre Ector Guerra L.C. I partecipanti alle precedenti edizioni sono un totale di 1490 sacerdoti provenienti da 96 paesi e 672 diocesi.

In questa XXII edizione i partecipanti sono 56, provenienti da 33 Paesi e 53 diocesi.

***

«Educare i Formatori in tempo di emergenza educativa»

Intervento di S. Em. R.ma il Card. Mauro Piacenza,
Prefetto della Congregazione per il Clero,

Cari Confratelli,

sono molto lieto di essere tra di voi questa mattina, e sono certo che non pochi saranno impegnati – se già non lo sono – nella formazione, sia nel caso in cui ciò significhi essere chiamati a ricoprire specifici compiti formativi nelle vostre rispettive realtà ecclesiali, a livello di Seminari o noviziati, sia nel caso in cui siate chiamati ad occuparvi di “formazione permanente”.

Dopo un breve sguardo alla situazione culturale contemporanea, mi soffermerò sul rapporto tra “formazione umana e fede” e “formazione umana ed emergenza educativa”, per provare a trarre delle conclusioni, che possano, in certo modo, porre in luce l’alta Vocazione, che il Signore ci ha data, di “Educare i Formatori in tempo di emergenza Educativa”.

1. La situazione attuale

È innegabile come, da più parti, ormai in maniera reiterata, si lamenti una crisi anche profonda di formazione umana.

Il fenomeno è così ampio e preoccupante, che lo stesso Magistero Pontificio, in differenti ed autorevoli occasioni, ha indicato, tra le priorità dell’attuale epoca, quella di rispondere alla cosiddetta: “emergenza educativa”.

Il deficit di formazione umana non riguarda, ovviamente, le sole realtà ecclesiali; anzi, ad essere sinceri, per quanto possa riguardare certamente anche i nostri ambienti, esso è ben più ampio, più radicato, diffuso nella società civile, ed i suoi effetti, visibili a tutti, hanno ed avranno gravi conseguenze antropologiche, sociali e perfino teologiche, di rilevante portata.

Le radici storiche e filosofiche di una tale crisi di formazione umana sono ben note; non intendo, in questa sede, ripercorrere l’itinerario, che ha determinato l’attuale situazione; mi limiterò ad indicarne i passaggi fondamentali, già intravvedendone le conseguenze.

Un primo elemento, di sostanziale rilevanza, è rintracciabile nella crisi gnoseologica post-illuminista. Il movimento illuminista, infatti, ha determinato una ipertrofia della ragione, in conseguenza della quale l’uomo e la sua capacità di conoscenza si sono trasformati da “contemplatori”, conoscitori e cantori” della realtà, a “limitata misura” del reale. Un uso di ragione, che pretenda di limitare la conoscenza umana ai soli dati empirici (qualcuno direbbe “scientifici”) è mortificante per l’intelligenza umana e non permette alla conoscenza di relazionarsi con la realtà, secondo la totalità dei suoi fattori.

Il Premio Nobel per la Medicina Alexis Carrel scriveva: «Molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità; molto ragionamento e poca osservazione conducono all’errore»1, intendendo, in tal modo, descrivere la conoscenza come quella fondamentale adesione al reale, che, da sempre, ha caratterizzato l’uomo.

Adesione al reale, ed è il secondo passaggio cruciale, che si perde quasi completamente quando, dall’illuminismo, si passa all’idealismo. Se l’uomo non conosce più la realtà per ciò che essa è, ma tenta di misurarla (razionalismo) o solo di pensarla (idealismo), egli si auto-confina in una oggettiva possibilità di rapportarsi con altro-da-se-stesso e tale atteggiamento ha evidenti conseguenze antropologiche.

Come se ciò non bastasse, la crisi del positivismo ottocentesco, determinata dai due conflitti mondiali del secolo scorso, ha portato ad una sorta di “resa della ragione”, facendo passare l’uomo dal mito infondato del super-uomo alla situazione attuale, altrettanto infondata, del più radicale relativismo.

Non c’è da stupirsi se ad una scorretta idea di ragione di tipo razionalista, che si è infranta contro la oggettiva impossibilità da parte dell’uomo di controllare se stesso e il cosmo, ha fatto seguito una altrettanto scorretta ed ingiustificata sfiducia nella reale capacità di ciascuno di conoscere se stesso, il mondo e Dio.

Il Santo Padre Benedetto XVI ha più volte richiamato l’attenzione della Chiesa e di tutti gli uomini di buona volontà sulla necessità di superare il relativismo che caratterizza la nostra epoca e che, inevitabilmente, giunge a toccare anche le nostre persone e i nostri ambienti ecclesiali.

Non è un mistero che l’imperante soggettivismo, che ha come conseguenza un insopportabile quanto umiliante sentimentalismo, sia penetrato anche nella mentalità cristiana, nei nostri luoghi formativi, determinando spesso anche le “relazioni educative”.

In un contesto nel quale sembra totalmente estranea anche solo l’ipotesi di una possibile educazione della libertà e della volontà, che “corregga” o “vada contro” la dittatura del relativismo e del sentimentalismo, l’azione educativa, e l’idea stessa di un’educazione, potrebbero apparire quasi impossibili, se non addirittura sbagliate in se stesse. Il documento di tale situazione è dato da quell’ingenuo ottimismo verso il mondo che troppo spesso ha caratterizzato e caratterizza una certa mentalità ecclesiale, secondo la quale la Chiesa sarebbe iniziata nel 1965, alla chiusura del Concilio Ecumenico Vaticano II, ovviamente interpretato secondo l’ermeneutica della discontinuità e della rottura, che il Santo Padre, nel recente intervento del 24 maggio alla conferenza Episcopale Italiana, ha definito semplicemente «inaccettabile»!

Non mi dilungo, in questa sede, a declinare le conseguenze morali degli errori gnoseologici, ma è certo che, come l’etica discende dall’ontologia, e ad essa sempre deve fare riferimento, così una buona morale non può che essere il frutto di una corretta conoscenza, rispettosa di tutte le più nobili dimensioni umane: intelligenza, libertà e volontà, e non appena del sentimento o dell’istinto!

Lo spettacolo, spesso disgustoso, al quale siamo stati costretti ad assistere negli scorsi anni, e che ancora tante ferite porta al Corpo ecclesiale ed alla fede del Popolo santo di Dio, ha profonde radici - riconosciamolo – negli errori dottrinali degli anni sessanta e settanta del secolo scorso! Errori che hanno generato orrori!

Ad un uomo incapace di conoscere la realtà, che cosa rimane?

Lo stretto e asfissiante orizzonte delle proprie emozioni, della propria istintività, veicolata dalla corporeità!

Da qui il dirompente edonismo, narcisismo, pansessualismo, nel quale si smarriscono gli uomini del nostro tempo e dal quale è necessario, con ogni mezzo, aiutarli a sottrarsi.

Perfino il materialismo, indicato come orizzonte esistenziale in taluni movimenti ideologici del secolo scorso, è andato in crisi ed è stato, da un lato, piegato al soddisfacimento dei desideri e delle passioni, dall’altro, compensato in varie fughe “spiritualistiche” o new-age, che nulla hanno a che vedere con l’umana spiritualità e, men che meno, con la fede cristiana.

In una tale, apparentemente irrisolvibile situazione, quali possibilità ci sono per riprendere in mano le fila della formazione, ancor più urgentemente, in vista del Sacerdozio e della Vita consacrata?

2. Formazione umana e fede

Due sono i poli, i protagonisti o – se preferite – i “luoghi teologici” della risposta a questa domanda: l’uomo in quanto tale e l’Uomo-Dio Gesù di Nazareth.

2.1 L’uomo in quanto tale

Partiamo dal primo luogo teologico.

In qualunque situazione storica, sociale o umana ci si possa trovare, esiste sempre la possibilità di ripartire, di compiere un’opera educativa e di lavorare nell’ambito della formazione. Anche nella contemporanea crisi epocale, le cui radici storiche e filosofiche ho appena accennate, la possibilità concreta che si ha di educare è sempre rappresentata dall’uomo: sia dall’uomo concreto che ciascuno è, sia dall’uomo concreto che si ha di fronte.

Cruciale, a tale riguardo, prima di ogni percorso di formazione umana, è la risposta umile e concreta alla domanda: «Chi sono io?», «Chi è l’uomo?».

E non intendo, in tal modo, indicare percorsi di descrizione fisio-psicologica dell’essere umano, né, tantomeno, riaprire la porta all’idealismo, che si domanda: «Che cosa penso dell’uomo», e non chi esso sia.

Ogni uomo, qualunque sia la sua condizione e qualunque sia l’epoca in cui vive, si auto-percepisce ed è percepito dagli altri, come “bisogno”, come “domanda”.

E se tutta la cultura dominante congiura a soffocare le domande fondamentali che costituiscono l’uomo, non è perché esse non siano gravide di significato e non esigano una risposta, ma, semplicemente, perché la cultura dominante, incapace di offrire risposte umanamente percepibili e soddisfacenti, non ha altra possibilità, non ha altra “via di fuga” che quella di soffocare nell’uomo le domande.

È come se il paragone evangelico del padre che, pur cattivo, non dà pietre ai figli che gli chiedono pane o serpi se gli chiedono uova (cfr. Mt 7,9-10), fosse stato radicalmente svuotato nell’atteggiamento, filosoficamente ed antropologicamente assurdo, del potere dominante, che continua a ripetere: «Non dovete avere fame!».

Spero che il menzionato paragone evangelico, nello sconcertante paragone con la cultura dominante, ci offra, almeno in parte, la misura della drammaticità della situazione in cui ci troviamo.

I mezzi di comunicazione di massa, poi, abilmente gestiti dai grandi poteri di questo mondo, contribuiscono ampiamente ad una sorta di anestesia generale.

Tuttavia, l’uomo è e rimane “domanda”!

è e rimane irriducibilmente caratterizzato dall’evidenza del proprio essere, e dell’essere del mondo, e da quelle domande fondamentali che, troppo spesso, chiamiamo “valori”, senza ricordare che sono valori solo perché sono esigenze fondamentali dell’io.

La giustizia, la verità, la bellezza, la ragionevolezza, la libertà, sono valori? Certamente, e nessuno tra noi oserebbe misconoscerlo; sono valori umani universali, e non confessionali, perché sono, “prima”, sia dal punto di vista ontologico che pedagogico, esigenze fondamentali dell’uomo.

Ritengo semplicemente impossibile, ogni azione educativa, che non parta dalle esigenze fondamentali dell’uomo, che non metta a tema ciò che l’uomo è, ciò che egli profondamente desidera e quale sia l’anelito ultimo del suo cuore.

E questo dato è da tenere sempre presente, anche quando a formarsi sono i formatori!

Lo stesso senso religioso umano - che non pochi studiosi della storia delle religioni relegano ad uno sviluppo più o meno strutturato delle varie culture e civiltà - è in realtà una caratteristica antropologica universale ed insuperabile. Non solo perché storicamente non esiste alcuna civiltà, anche la più primitiva e remota, che non abbia espresso una qualche dimensione religiosa, ma anche perché, posto di fronte alla realtà e a se stesso, come dati, cioè come non provenienti dalla propria opera, l’uomo e la sua intelligenza sono costretti a domandarsi: «Che senso ha tutto?».

In questa domanda, ovvero, nella ricerca del senso ultimo della totalità - quindi di se stessi e del reale – consiste l’autentico senso religioso.

Dobbiamo, come educatori, ricordare che si indica ai propri fratelli solo la risposta che si è incontrata, partendo dalla propria domanda!

Altrimenti anche la risposta teologicamente e antropologicamente più corretta (ammesso che la si conosca) diviene una formula ripetuta, ma non vissuta.

La stessa missione educativa della Chiesa deve continuamente essere rinvigorita, rafforzata e rilanciata da questa autentica passione per l’uomo; passione, che, come dice l’etimologia del termine passio, è innanzitutto condivisione partecipata della medesima condizione di “domanda di significato”.

2.2 L’Uomo-Dio Gesù di Nazareth

Di fronte a questa realtà di uomo, che ho appena delineato, il quale è domanda di significato e che vive i valori non come imposizioni esterne alla propria coscienza, ma come il fiorire vigoroso delle proprie domande fondamentali (vivo la giustizia perché sono bisogno di giustizia; vivo la verità perché sono bisogno di verità, etc.), di fronte a questa realtà di uomo, si pone Cristo.

Prima di qualunque atto di fede in Gesù di Nazareth Signore e Cristo, è necessario sottolineare come l’Evento-Cristo abbia una propria irriducibile dimensione storica.

Lo ha efficacemente ricordato il Santo Padre Benedetto XVI nell’incipit della sua prima Enciclica Deus caritas est, nella quale l’essere cristiano è definito come: «Incontro con un Avvenimento, una Persona» (n. 1).

L’incontro, dunque, presuppone qualcosa-qualcuno di “altro” da me, che mi si fa incontro e che io posso incontrare. Le conseguenze di questa chiarificazione sull’essenza del Cristianesimo e sull’educazione e formazione sono immediatamente recepibili da tutti: da un lato la fedeltà al dato storico esclude ogni auto-referenzialità soggettiva, intimistica o auto-proiettiva nel rapporto con Cristo e, dall’altro, ancora più profondamente, la dimensione storica risulta radicalmente incompatibile con ogni concezione idealista e relativista, che affermi l’impossibilità dell’uomo di conoscere la realtà.

È possibile dunque affermare – ed è in fondo la traduzione che ne fa l’Evangelista Giovanni – che la risposta a ciò che l’uomo è, che non è dentro di lui, si è resa incontrabile, ci è venuta incontro, si è rivelata in quello che era l’ambito più prossimo all’uomo: l’uomo stesso.

«Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita […], noi lo annunziamo anche a voi, […] perché la nostra gioia sia perfetta» (1Gv 1-4).

Tale incontro tra l’umanità, come domanda, e l’Avvenimento di Cristo, come risposta, costituisce la possibilità di ogni formazione autentica.

Con due corollari.

Il primo: è possibile vivere un intenso senso religioso, cioè una profonda domanda esistenziale, senza ancora avere incontrato la risposta che è Cristo. Ed è necessario riconoscere ed affermare come già il senso religioso, autenticamente vissuto, rappresenti e costituisca un fattore fondamentale di formazione.

Per contro - secondo corollario - nella maggior parte dei casi accade - e probabilmente tutti potremmo darne testimonianza - che proprio l’incontro con Cristo determini il ridestarsi di un senso religioso assopito, il risvegliarsi dell’umanità; pertanto, con altrettanto realismo, è possibile affermare che: l’Avvenimento dell’incontro con Cristo è il primo fattore educativo, proprio perché educa a stare in quella posizione di grato stupore, tipica del senso religioso, che costituisce l’essenza dell’uomo di fronte a Dio.

Ciò che Cristo vive per natura, noi possiamo vivere per grazia.

Il percepire se stessi alla Presenza del Mistero permette all’umano di vivere secondo l’alta Vocazione alla quale il Creatore lo ha chiamato: essere immagine e somiglianza di Dio.

A nessuno penso sfugga come tale “immagine e somiglianza” abbia in Gesù Cristo il proprio unico modello.

3. Alcune conseguenze pratiche nell’azione educativa

Si è incessantemente parlato, nel recente passato, di “auto-formazione” e di “corresponsabilità nella formazione”. Certamente si tratta di caratteristiche della formazione, per certi versi, condivisibili, che fanno leva sulla responsabilità personale. Infatti spesso abbiamo di fronte persone che, anche in età adulta, si affacciano al mondo ecclesiale, per domandare una formazione specifica.

È necessario, tuttavia, essere molto chiari e critici verso un ingenuo ottimismo dell’auto formazione! Tutti sanno come una “giovane pianticella” è molto più tenera e correggibile di un albero pluridecennale. Lo stesso principio vale per l’educazione! L’assunto secondo il quale le “vocazioni adulte” o “mature” sarebbero più affidabili di quelle giovanili, è puramente ideologico e non dimostrato. Per tutti, sia giovani sia adulti, è necessario valutare attentamente da quale percorso esistenziale si provenga e quali “spazi di manovra” l’educazione già ricevuta consenta.

La “corresponsabilità” e “l’auto-formazione” sono categorie che riserverei, piuttosto, alla formazione permanente, nella quale, forse, è possibile dare per assodati alcuni elementi fondamentali e fondanti l’identità sacerdotale.

Nel contemporaneo contesto educativo, sta drammaticamente prendendo quota una figura particolare di Sacerdote, che i sociologi chiamano: prete free rider [pron.: “fri raider”]. Il free rider, il viaggiatore “che non paga il biglietto”, è colui che partecipa ad una organizzazione, cercando di ottenerne i benefici, senza pagare i costi. Chi sale a bordo di un autobus senza pagare corrisponde perfettamente alla definizione: riesce a “viaggiare gratis”, ma solo nel senso che, in realtà, sono gli altri a pagare per lui.

La strategia del free rider può avere successo, in sociologia ed in economia, solo se il numero è limitato. Se alcuni non pagano il biglietto, l’autobus continuerà a viaggiare – al massimo, ai viaggiatori onesti sarà chiesto di pagare di più. Ma se quasi nessuno paga il biglietto, la linea di autobus sarà costretta a chiudere, e nemmeno il free rider potrà più viaggiare gratuitamente.

Applichiamo l’esempio alla Chiesa cattolica.

È possibile tollerare un certo numero di free rider, ma se il numero cresce, ci si trova di fronte a problemi sempre più difficili da risolvere e, infine, si rischia di “cessare di funzionare”. Anche tra i sacerdoti ci sono free rider, che per ragioni personali oppure dottrinali non fanno “gioco di squadra” e non danno un vero contributo. Il sacerdote free rider è quello che non si sente parte di un presbiterio che, intorno al Vescovo, si muove in spirito di collaborazione. Sono i Sacerdoti che non si sentono parte di una “squadra” più ampia, e guardano al Papa e al suo Magistero, non per ascoltarlo e studiarlo, ma per criticarlo. Forse anni fa piaceva loro “l’autobus su cui erano saliti”, ma oggi sono delusi e lasciano che il “biglietto” lo paghino altri.

Dobbiamo riconoscere, e le recenti visite ad Limina della Diocesi degli Stati Uniti d’America lo hanno confermato, che anche tra i fedeli, i seminaristi, i sacerdoti c’è disponibilità ad affrontare “costi più alti”, se sono chiari i relativi benefici.

È la fedeltà alla Verità Rivelata, al Magistero ed alla morale, che incrementa il numero e la qualità delle vocazioni e garantisce un’opera educativa davvero efficace!

Chiedendo di rispettare norme, che creano tensione con la maggioranza sociale, in settori come la morale sessuale o il rapporto con la Verità, in una cultura dominata dal relativismo, si creano “barriere d’ingresso” e si riduce il possibile numero di potenziali free rider.

Sacerdoti free rider si diventa, ma può darsi anche che ci si “nasca”, cioè che si esca come potenziali “liberi battitori” già dal seminario. Si pensi all’uso del tutto arbitrario di Internet e dei mezzi di comunicazione, oppure al modo soggettivo e poco prudente di vivere le relazioni interpersonali, spesso del tutto similmente a come “il mondo” le vive!

Un cattivo utilizzo di Internet, genera Sacerdoti free rider! [SM=g1740733]

Il ruolo cruciale di Internet è spesso preso in esame – anche in sede di riforma della disciplina canonica degli abusi sui minori – per i rischi cui espone i seminaristi, e anche i Sacerdoti, specie quelli più isolati, a causa della grande diffusione della pornografia.

Si tratta di un problema molto grave, ma che non esaurisce la questione Internet.

Il Santo Padre Benedetto XVI – pur sottolineando il ruolo positivo che Internet, se bene usato, può avere per l’apostolato – ha più volte sottolineato il rischio di quella che, nella visita alla Certosa di Serra San Bruno, in Calabria, ha chiamato una «virtualità che rischia di dominare sulla realtà». È il rischio di trovarsi di fronte a «persone [che] sono immerse in una dimensione virtuale, a causa di messaggi audiovisivi che accompagnano la loro vita da mattina a sera»: «una tendenza che è sempre esistita, specialmente tra i giovani e nei contesti urbani più sviluppati, ma oggi essa ha raggiunto un livello tale da far parlare di mutazione antropologica. Alcune persone non sono più capaci di rimanere a lungo in silenzio e in solitudine» (Benedetto XVI, Discorso, 9/10/2011).

E questo, ovviamente, vale anche per i seminaristi e per molti sacerdoti.

Non si tratta solo di difficoltà nella preghiera. Chi si isola e passa troppo tempo nel mondo virtuale – anche se si tiene scrupolosamente lontano dai siti pornografici – diventa un free rider abituale, costituzionalmente incapace, poi, di mettersi al servizio degli altri nel mondo reale. Quello di disciplinare l’uso di Internet è notoriamente un problema difficilissimo, per tutti gli educatori, anche per le famiglie. E tuttavia qualcosa va certamente fatto.

Il fatto che i sacerdoti giovani si mostrino in maggioranza più leali verso il Magistero, almeno in molti Paesi, rispetto ai loro confratelli che hanno cinquanta o sessant’anni, è il segno che il clima culturale sta lentamente cambiano. Ma ci sono tante cose che ancora non funzionano.

I sacerdoti giovani, per quanto spesso bene intenzionati, sembrano mancare di formazione sistematica in campo filosofico, teologico, storico, canonico e liturgico, il che, di solito, è indizio di una formazione che privilegia eccessivamente i corsi monografici a scapito di quelli istituzionali, e le opinioni personali dei docenti, rispetto alla trasmissione della dottrina autentica.

Queste carenze non sono sfuggite all’attenzione di chi ha lungimiranza, ma spesso si ha l’impressione che norme sprovviste di sanzione, e quindi disapplicate o non ovunque applicate, non abbiano reale effetto su quella che, sempre più urgentemente, dovrebbe essere l’autentica Riforma del Clero.

Conclusione

Desidero concludere, ribadendo come la formazione seminaristica e la formazione permanente formino un continuum.

La soluzione di continuità fra l’una e l’altra distrugge la nozione stessa di formazione. Il ponte dottrinale fra le due fasi della formazione non può che essere costituito dal Magistero, che guida la Chiesa e sistematicamente risponde alle domande e alle urgenze dei tempi. Nessun educatore, in tal senso, può arbitrariamente presumere di essere al di sopra del Magistero, intuendo prima, meglio e più di esso, le reali esigenze della Chiesa di Cristo! [SM=g1740721]

Ci illumini e guidi la Beata Vergine Maria, Regina Apostolorum, in questo importante cammino che, come molte volte nella storia della Chiesa, ha un unico ed impegnativo nome: si chiama Riforma! Bisogna prenderne coscienza!

*

NOTE

1 A. Carrel, Riflessioni sulla condotta della vita, Milano, Bombiani, 1953, pp. 27.




[SM=g1740722]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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29/11/2012 13:01
 
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Avendo appena terminato l'Anno Liturgico ricordando la Festa solenne di Cristo Re, approfondiamo per mezzo di sant'Alfonso Maria de Liguori, in cosa consisterà questo Giudizio!

Non si vuole terrorizzare nessuno, ma attenzione, dovremmo davvero essere spaventati all'idea di una eternità lontano da Dio, non possiamo tacere su ciò che ci aspetta, ci attende, quando Nostro Signore ne ha parlato lungamente nei Vangeli proprio per metterci in guardia....
Invitiamo tutti i Sacerdoti a riflettere seriamente sulle loro Omelie blande, ciarlatane e private della verità per paura di offendere, o di spaventare: quando le anime, perchè da voi ingannate, si troveranno davanti alla Verità e al Giudice supremo, e dannate a causa delle vostre prediche stolte, anche voi subirete la medesima sorte.... come ci rammenta il Signore per mezzo del Profeta Ezechiele 13,...

 [8]Pertanto dice il Signore Dio: Poiché voi avete detto il falso e avuto visioni bugiarde, eccomi dunque contro di voi, dice il Signore Dio. [9]La mia mano sarà sopra i profeti dalle false visioni e dai vaticini bugiardi; non avranno parte nell'assemblea del mio popolo, non saranno scritti nel libro d'Israele e non entreranno nel paese d'Israele: saprete che io sono il Signore Dio, [10]poiché ingannano il mio popolo dicendo: Pace! e la pace non c'è; mentre egli costruisce un muro, ecco essi lo intonacano di mota. [11]Dì a quegli intonacatori di mota: Cadrà! Scenderà una pioggia torrenziale, una grandine grossa, si scatenerà un uragano [12]ed ecco, il muro è abbattuto. Allora non vi sarà forse domandato: Dov'è la calcina con cui lo avevate intonacato? [13]Perciò dice il Signore Dio: Con ira scatenerò un uragano, per la mia collera cadrà una pioggia torrenziale, nel mio furore per la distruzione cadrà grandine come pietre; [14]demolirò il muro che avete intonacato di mota, lo atterrerò e le sue fondamenta rimarranno scoperte; esso crollerà e voi perirete insieme con esso e saprete che io sono il Signore.
[15]Quando avrò sfogato l'ira contro il muro e contro coloro che lo intonacarono di mota, io vi dirò: Il muro non c'è più e neppure gli intonacatori

E ancora più esplicitamente in Ezechiele cap.3....

[16]Al termine di questi sette giorni mi fu rivolta questa parola del Signore: «Figlio dell'uomo, ti ho posto per sentinella alla casa d'Israele. [17]Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia. [18]Se io dico al malvagio: Tu morirai! e tu non lo avverti e non parli perché il malvagio desista dalla sua condotta perversa e viva, egli, il malvagio, morirà per la sua iniquità, ma della sua morte io domanderò conto a te. [19]Ma se tu ammonisci il malvagio ed egli non si allontana dalla sua malvagità e dalla sua perversa condotta, egli morirà per il suo peccato, ma tu ti sarai salvato.
[20]Così, se il giusto si allontana dalla sua giustizia e commette l'iniquità, io porrò un ostacolo davanti a lui ed egli morirà; poiché tu non l'avrai avvertito, morirà per il suo peccato e le opere giuste da lui compiute non saranno più ricordate; ma della morte di lui domanderò conto a te. [21]Se tu invece avrai avvertito il giusto di non peccare ed egli non peccherà, egli vivrà, perché è stato avvertito e tu ti sarai salvato».

Il Tempo della Misericordia del Signore, cominciato nella "pienezza del tempo" in cui Dio mandò il Suo Figlio, cesserà giunta la fine dei tempi quando Egli ritornerà in gloria e potenza, e allora inizierà il Giudizio Divino. Occultare queste verità agli uomini del nostro tempo, è un gravissimo peccato mortale. Molte anime rischiano di dannarsi, e si dannano, perchè si è nascosta la verità sulla sorte delle Anime.....
Non è dunque la Parola di Dio che può metterci paura o terrore, ma scoprire dopo, quando non non avremmo più il tempo per convertirci, che ciò che Egli ha detto è la verità e noi l'abbiamo calpestata.....

Perciò, cari Sacerdoti.... riscopriamo i NOVISSIMI e non abbiate timore a dire la verità ai fedeli..... soccorreteci col vostro Sacro Ministero, ammoniteci, è meglio un rimprovero oggi che una dannazione eterna....

Cliccando qui troverete gli scritti di sant'Alfonso Maria de Liguori sul Giudizio Universale e Particolare e sui riferimenti AL CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA.....

VI SUPPLICHIAMO!!! SALVATECI L'ANIMA DICENDOCI LA VERITA'.... le vostre opinioni personali non ci interessano.....

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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18/04/2015 10:38
 
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 Il "marketing" della Chiesa funzionava da secoli. Cambiarlo (in peggio) è stato un tragico errore. Parole di esperto di marketing.



 


P 
Fedeli in fuga? Il "principe" brasiliano del marketing (Alex Periscinoto)  spiega ai vescovi il valore della tradizione (IlTimone) e la analizza alla luce delle leggi moderne del marketing: le campane, la croce, il campanile, le processioni, l'orientamento del sacerdote, la talare, il latino sono stati ottimi strumenti di riconoscimento, di fidelizzazione, di "propaganda fide", e pure di "conservanda". 
Incaricato dalla CNBB - Conferenza Nazionale dei Vescovi Brasilianidi studiare la causa dell'abbandono della pratica religiosa, e di suggerire consigli per porre dei rimedi, l'esperto di comunicazione aziendale ha nella sua relazione ha fatto rimanre i vescovi a bocca aperta. E non per il piacere. 

"Voi avevate già un perfetto sistema di "marcheting" - spiega l'esperto laico - Ma cambiando le cose, togliendo il latino, abbandonando la talare, e facendo chiese simili a edifici civili - dice Periscinoto ai vescovi - pensavate di fare cosa gradita ai fedeli, ma avete fatto un gigantesco errore. Modificare la liturgia è stato un disastro", aggiunge. 
E non parla da teologo, lo ammette, ma da esperto del marketing.
Cari vescovi infiammati dallo spirito del Concilio, cosa avete da dire ora? Ad ogni causa corrisponde un effetto. E se l'effetto è stato quello di perdere fedeli... 
Certo: il discorso rileva da un punto di immagine e non di fede, ovvio. Quindi nessuno si scandalizzi. Ma non possiamo negare che molto nella liturgia, negli atti di culto e nella esternalizzazione della Fede sia forte anche una valenza di "marketing"(si pensi al trifoglio di San Patrizio o al monogramma di San Bernardino da Siena, per citare solo due dei moltissimi esempi di "logo" cattolici. 
 
Mai come in questo caso mi pare appropriata la vignetta qui a destra. "Il Vaticano II ha aperto la Chiesa..." "... e le persone sono uscite!"

nel testo che segue il s
ottolineato è nostro
Roberto
 
Si può vedere qui, in portoghese la relazione ai Vescovi Brasiliani: "A Jgreja e a propaganda"  (La Chiesa e il marketing), del 23.05.2010, da Criativa Marketing
 
 *

Chiesa e marketing, vince la tradizione da Concilio Vaticano II, del 13.04.2015
 
(Fonte: www.atfp.it di Julio Loredo) 
Pochi paesi hanno sofferto tanto le conseguenze della crisi post-conciliare come il Brasile, dove il numero di cattolici è calato del 35% negli ultimi trent’anni. Qualche anno fa, preoccupati con l’emorragia di fedeli, i vescovi brasiliani hanno arruolato un’importante azienda di marketing, l’ALMAP, il cui presidente, Alex Periscinoto, era stato nominato “miglior marketing manager” del Brasile.
I membri della Commissione esecutiva della Conferenza nazionale dei Vescovi del Brasile si aspettavano da Periscinoto un consiglio su come impostare la pastorale della Chiesa, offrendo una migliore immagine dell’istituzione, al fine di fermare l’emorragia di fedeli che, per lo più, stanno passando alle communità evangeliche.
 
Il risultato è stato sorprendente. Periscinoto ha presentato i risultati del suo studio davanti a duecento tra vescovi e sacerdoti legati alla pastorale. Dire che siano rimasti scioccati dal discorso dell’esperto in marketing, è poco. Forse si aspettavano che egli consigliasse di dipingere le chiese in colori vivaci, di introdurre più musica pop, liturgie aggiornate e via dicendo. Invece…
 
“Il primo strumento di marketing della storia del mondo è stato la campana – ha esordito Periscinoto – ed era il migliore. Quando suonava, non solo raggiungeva il 90% degli abitanti, ma ne modificava il comportamento personale. Voi avete poi inventato uno strumento che è ancora utilizzato nel marketing commerciale. Si chiama ‘display’. Il display è qualcosa che utilizziamo per enfatizzare, per proporre con forza qualcosa al pubblico. Quando tutte le case erano basse, voi costruivate chiese con torri e con campanili sei volte più alti. Questo permetteva l’immediato riconoscimento della chiesa: eccola!
 
“Voi avete poi inventato il primo logotipo della storia. Il logo è un simbolo utilizzato per far sì che il marchio sia facilmente riconoscibile. Il vostro era il migliore: la Croce. Questo logotipo era collocato sempre sopra il punto più alto e visibile del display. Nessuno poteva sbagliarsi: quella era la chiesa cattolica! Questo logotipo inventato da voi era così efficace che perfino Hitler lo utilizzò, con alcune piccole modifiche, per mobilitare le masse. E quasi vinse la guerra.
 
“Voi avete inventato anche la campagna promozionale. Cos’è una processione religiosa? Per un paese di campagna, oppure per un quartiere di una grande città, niente è più promozionale di una processione, per esempio, in onore della Madonna. Quando noi, esperti in marketing, organizziamo un evento promozionale, utilizziamo molto di ciò che la Chiesa ha inventato. Noi sfoggiamo bandiere e stendardi, noi abbigliamo i nostri rappresentanti con costumi particolari per far sì che siano facilmente riconoscibili. Noi cerchiamo di creare una mistica commerciale. Ma la nostra mistica non sarà mai così ricca come la vostra.
 
“Purtroppo, voi avete cambiato il modo in cui è celebrata la Messa. Oggi la Messa non è più in latino e non si volgono più le spalle ai fedeli. Pensavate forse di far qualcosa gradita. Invece, ho una brutta notizia da darvi. Mia mamma mai pensò che il sacerdote le volgeva le spalle. Lei pensava invece che tutti, fedeli e celebrante, guardassero Dio. A lei piaceva il latino, anche quando non ci capiva un granché. Per lei, il latino era un linguaggio mistico col quale i ministri della Chiesa parlavano con Dio. Lei si riteneva privilegiata e ricompensata per aver assistito, in ginocchio, a una cerimonia così importante. Secondo me, il cambiamento che voi avete fatto nella liturgia della Messa, è stato un tremendo errore.Posso sbagliare. Io non sono un teologo. Io analizzo il problema dal punto di vista del marketing. E da questo punto di vista, è stato un disastro.
 
“Voi avete tolto il costume particolare, la talare, che contraddistingueva i vostri rappresentati commerciali, i preti. Avete così buttato via un marchio.
 
“Voi avete snaturato i vostri display, facendo le chiese sempre più simili ai palazzi civili.
 
“Tutto ciò che voi avete inventato contiene un’offerta, qualcosa che voi volete vendere. Il vostro prodotto si chiama Fede. Ma ho anche una buona notizia da darvi. Questo prodotto, oggi, trova una domanda sempre crescente. Il mercato, forse, non è mai stato tanto propizio per la Fede. Voi, però, parlate più di politica che di Fede. Potete, dunque, lamentarvi se le vostre chiese sono sempre più vuote, mentre i saloni dei gruppi evangelici sono sempre più pieni?”
   
(Fonte: www.atfp.it di Julio Loredo)

 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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06/05/2015 09:42
 
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 Chi impara a credere impara ad inginocchiarsi
tratto da Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, parte IV - Forma liturgica, cap. II – Il corpo e la liturgia, n. 3 - Atteggiamenti, pp. 181-190.



Atteggiamenti
Inginocchiarsi (Prostratio)

Vi sono ambienti, che esercitano notevole influenza, che cercano di convincerci che non bisogna inginocchiarsi. Dicono che questo gesto non si adatta alla nostra cultura (ma a quale, allora?); non è conveniente per l’uomo maturo, che va incontro a Dio stando diritto, o, quanto meno, non si addice all’uomo redento, che mediante Cristo è divenuto una persona libera e che, proprio per questo, non ha più bisogno di inginocchiarsi.

Se guardiamo alla storia possiamo osservare che Greci e Romani rifiutavano il gesto di inginocchiarsi. Di fronte agli dei faziosi e divisi che venivano presentati dal mito, questo atteggiamento era senz’altro giustificato: era troppo chiaro che questi dei non erano Dio, anche se si dipendeva dalla loro lunatica potenza e per quanto possibile ci si doveva comunque procacciare il loro favore. Si diceva che inginocchiarsi era cosa indegna di un uomo libero, non in linea con la cultura della Grecia; era una posizione che si confaceva piuttosto ai barbari. Plutarco e Teofrasto definiscono l’atto di inginocchiarsi come un’espressione di superstizione; Aristotele ne parla come di un atteggiamento barbarico (Retorica, 1361 a 36). Agostino gli dà per un certo verso ragione: i falsi dei non sarebbero infatti altro che maschere di demoni, che sottomettono l’uomo all’adorazione del denaro e del proprio egoismo, che in questo modo li avrebbero resi «servili» e superstiziosi. L’umiltà di Cristo e il suo amore che è giunto sino alla croce, ci hanno liberato – continua Agostino – da queste potenze ed è davanti a questa umiltà che noi ci inginocchiamo.

In effetti, l’atto di inginocchiarsi proprio dei cristiani non si pone come una forma di inculturazione in costumi preesistenti, ma, al contrario, è espressione della cultura cristiana che trasforma la cultura esistente a partire da una nuova e più profonda conoscenza ed esperienza di Dio.

L’atto di inginocchiarsi non proviene da una cultura qualunque, ma dalla Bibbia e dalla sua esperienza di Dio. L’importanza centrale che l’inginocchiarsi ha nella Bibbia la si può desumere dal fatto che solo nel Nuovo Testamento la parola proskynein compare 59 volte, di cui 24 nell’Apocalisse, il libro della liturgia celeste, che viene presentato alla Chiesa come modello e criterio per la sua liturgia.

***

Osservando più attentamente possiamo distinguere tre atteggiamenti strettamente imparentati tra di loro. Il primo di essi è la prostratio: il distendersi fino a terra davanti alla predominante potenza di Dio; soprattutto nel Nuovo Testamento c’è, poi, il cadere ai piedi e, infine, il mettersi in ginocchio. I tre atteggiamenti non sono sempre facili da distinguere, anche sul piano linguistico. Essi possono legarsi tra di loro, sovrapporsi l’uno all’altro.

Per ragioni di brevità vorrei citare, a proposito della prostratio, due testi, uno tratto dall’Antico Testamento, l’altro dal Nuovo.

Quello tratto dall’Antico Testamento è la teofania a Giosuè prima della conquista di Gerico, che dallo scrittore biblico è posta in stretto parallelo con la teofania a Mosè presso il roveto ardente. Giosuè vede «il capo dell’esercito del Signore» e, dopo aver riconosciuto la sua identità, si getta a terra davanti a lui. In quel momento ode le parole che, in precedenza, erano già state rivolte a Mosè: «Togli i calzari dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è santo» (Gs 5,14s). Nella figura misteriosa del «capo dell’esercito del Signore» il Dio nascosto parla a Giosuè e davanti a Lui questi si getta a terra. È bella l’interpretazione di questo testo data da Origene: «C’è un altro capo delle potenze del Signore oltre al nostro Signore Gesù Cristo?». Giosuè adora dunque Colui che doveva venire, il Cristo veniente.

Per quanto riguarda, invece il Nuovo Testamento, a cominciare dai Padri è divenuta particolarmente importante la preghiera di Gesù al monte degli Ulivi. Secondo Matteo (26,39) e Marco (14,35) Gesù si prostra a terra, anzi, cade a terra (Mt); Luca, invece, che in tutta la sua opera - Vangelo e Atti degli Apostoli - è in maniera particolare il teologo del pregare in ginocchio, ci racconta che Gesù pregava in ginocchio.

Questa preghiera, come preghiera introduttiva alla Passione, è esemplare, sia per quanto riguarda il gesto che per i suoi contenuti. I gesti: Gesù fa sua la caduta dell’uomo, si lascia cadere nella sua caducità, prega il Padre dal più profondo abisso della solitudine e del bisogno umani. Ripone la sua volontà nella volontà del Padre: Non la mia volontà sia fatta, ma la Tua. Ripone la volontà umana nella volontà divina. Fa sua ogni negazione della volontà dell’uomo e la soffre con il suo dolore; proprio l’uniformare la volontà umana alla volontà divina è il cuore stesso della redenzione.

Difatti la caduta dell’uomo si poggia sulla contraddizione delle volontà, sulla contrapposizione della volontà umana alla volontà divina, che il tentatore dell’uomo fa ingannevolmente passare come condizione della sua libertà. Solo la volontà autonoma, che non si sottomette ad alcuna altra volontà, sarebbe, secondo lui, libertà. Non la mia volontà, ma la tua – è questa la parola della verità, poiché la volontà di Dio non è il contrario della nostra libertà, ma il suo fondamento e la sua condizione di possibilità. Solo rimanendo nella volontà di Dio la nostra volontà diventa vera volontà ed è realmente libera. La sofferenza e la lotta del monte degli Ulivi è la lotta per questa verità liberante, per l’unità di ciò che  è diviso, per una unione che è la comunione di Dio.

Comprendiamo così che in questo passo si trova anche l’invocazione d’amore del Figlio Padre: Abbà (Mc 14,36). Paolo vede in questo grido la preghiera che lo Spirito Santo pone sulle nostre labbra (Rm 8,15; Gal 4,6) e àncora così la nostra preghiera spirituale alla preghiera del Signore sul monte degli Ulivi.

Nella liturgia della Chiesa la prostratio appare oggi in due occasioni: il venerdì santo e nelle consacrazioni.

Il venerdì santo, giorno della crocifissione, essa è espressione adeguata del nostro sconvolgimento per il fatto di essere, con i nostri peccati, corresponsabili della morte in croce di Cristo. Ci gettiamo a terra e prendiamo parte alla sua angoscia, alla sua discesa nell’abisso del bisogno. Ci gettiamo a terra e riconosciamo così dove siamo e chi siamo: caduti, che solo Lui può sollevare. Ci gettiamo a terra come Gesù davanti al mistero della presenza potente di Dio, sapendo che la croce è il vero roveto ardente, il luogo della fiamma dell’amore di Dio, che brucia, ma non distrugge.

In occasione delle consacrazioni questo gesto esprime la consapevolezza della nostra assoluta incapacità di accogliere con le sole nostre forze il compito sacerdotale di Gesù Cristo, di parlare con il suo Io. Mentre i candidati all’ordinazione giacciono a terra, l’intera comunità radunata canta le litanie dei santi. Resta per me indimenticabile questo gesto compiuto in occasione della mia ordinazione sacerdotale ed episcopale. Quando venni consacrato vescovo la percezione bruciante della mia insufficienza, dell’inadeguatezza davanti alla grandezza del compito fu forse ancora più grande che in occasione della mia ordinazione sacerdotale. Fu per me meravigliosamente consolante sentire la Chiesa orante invocare tutti i santi, sentire che la preghiera della Chiesa mi avvol[184]geva e mi abbracciava fisicamente. Nella propria incapacità, che doveva esprimersi corporeamente in questo stare prostrati, questa preghiera, questa presenza di tutti i santi, dei vivi e dei morti, era una forza meravigliosa, e solo essa poteva sollevarmi, solo lo stare in essa poteva rendere possibile la strada che mi stava davanti.

***




In secondo luogo bisogna ricordare il gesto del cadere ai piedi, che nei Vangeli è indicato quattro volte (Mc 1,40; 10,17; Mt 17,14; 27,29) con il termine gonypetein. Partiamo da Mc 1,40. Un lebbroso va da Gesù e gli chiede aiuto; si getta ai suoi piedi e gli dice: «Se tu vuoi, puoi guarirmi». Qui è difficile valutare la portata di questo gesto. Non si tratta sicuramente di un vero atto di adorazione, ma di una preghiera espressa con fervore, anche con il corpo, in cui le parole manifestano una fiducia nella potenza di Gesù che va al di là della dimensione puramente umana. È diverso il caso dell’espressione classica dell’adorazione in ginocchio – proskynein.

Scelgo ancora una volta due esempi per chiarire la questione che si pone al traduttore. Anzitutto la storia di Gesù che, dopo la moltiplicazione dei pani, sosta sulla montagna, in colloquio con il Padre, mentre i discepoli lottano invano sul mare con il vento e le onde. Gesù va verso di loro sulle acque; Pietro gli si affretta incontro, ma impaurito, sprofonda nelle acque e viene salvato dal Signore. Gesù, allora, sale sulla barca e il vento si placa. Il testo, poi, prosegue: ma i discepoli sulla barca «gli si prostrarono davanti» e dissero: «veramente tu sei il Figlio di Dio!» (Mt 14,33). Precedenti traduzioni scrivevano: i discepoli adorarono Gesù sulla barca e dissero... Ambedue le traduzioni sono giuste, ambedue mettono in rilievo un aspetto di ciò che accade: quelle recenti l’espressione corporale, quelle più antiche l’avvenimento interiore. Difatti, dalla struttura del racconto si desume con estrema chiarezza che il gesto di riconoscimento di Gesù come Figlio di Dio è adorazione.

Anche nel Vangelo di Giovanni incontriamo una simile problematica, nel racconto della guarigione del cieco nato. Questa storia, costruita teo-drammaticamente, si conclude in un dialogo tra Gesù e la persona sanata, che può essere considerato il prototipo del dialogo di conversione; inoltre, l’intera storia deve essere intesa come una spiegazione interiore dell’importanza esistenziale e teologica del battesimo. In questo dialogo Gesù aveva chiesto all’uomo se credeva nel figlio dell’Uomo. Alla domanda del cieco nato: «Chi è, Signore?» e alla risposta di Gesù: «Colui che ti parla», segue la professione di fede: «Io credo, Signore! Ed egli si prostrò davanti a lui» (Gv 9,35-38). Traduzioni precedenti avevano scritto: «ed egli lo adorò». Di fatto, tutta la scena mira all’atto di fede e di adorazione di Gesù, che ne segue: ora non sono aperti solo gli occhi dell’amore, ma anche quelli del cuore. L’uomo è diventato davvero vedente. Per l’interpretazione del testo è importante osservare che nel Vangelo di Giovanni la parola proskynein ricorre undici volte, di cui nove nel dialogo di Gesù con la Samaritana, presso il pozzo di Giacobbe (Gv 4,19-24). Questa conversazione è tutta dedicata al tema dell’adorazione ed è fuori discussione che qui, come del resto in tutto il Vangelo di Giovanni, la parola ha sempre il significato di «adorare». Anche questo dialogo si conclude comunque – come quello con il cieco sanato – con l'autorivelazione di Gesù: «Sono io, che ti parlo».

Mi sono trattenuto a lungo su questo testo perché in esso compare qualcosa di importante. Nei due passi qui approfonditi il significato spirituale e quello corporeo della parola proskynein non sono affatto separabili.

II gesto corporale è, come tale, portatore di un senso spirituale – quello, appunto, dell’adorazione, senza del quale esso resterebbe privo di significato – mentre, a sua volta, il gesto spirituale, per sua stessa natura, in forza dell’unità fisico-spirituale della persona umana, deve esprimersi necessariamente nel gesto corporale. Ambedue gli aspetti sono integrati in una sola parola perché si richiamano intimamente l’un l’altro.

Quando l’inginocchiarsi diventa pura esteriorità, semplice atto corporeo, diventa privo di senso; ma anche quando si riduce l’adorazione alla sola dimensione spirituale senza incarnazione, l’atto dell’adorazione svanisce, perché la pura spiritualità non esprime l’essenza dell’uomo. L’adorazione è uno di quegli atti fondamentali che riguardano l’uomo tutto intero. Per questo il piegare le ginocchia alla presenza del Dio vivo è irrinunciabile.

***

Con ciò siamo già arrivati al tipico atteggiamento dell’inginocchiarsi su uno o su ambedue i ginocchi. Nell’Antico Testamento ebraico alla parola berek (ginocchio) corrisponde il verbo barak, inginocchiarsi.

Le ginocchia erano per gli ebrei un simbolo di forza; il piegarsi delle ginocchia è quindi il piegarsi della nostra forza davanti al Dio vivente, riconoscimento che tutto ciò che noi siamo, lo abbiamo da Lui. Questo gesto appare in importanti passi dell’Antico Testamento come espressione di adorazione. In occasione della consacrazione del tempio, Salomone «si inginocchiò davanti a tutta l’assemblea di Israele» (2Cr 6,3). Dopo l'esilio, nella situazione di bisogno in cui venne a trovarsi Israele dopo il ritorno in patria, Esdra ripete lo stesso gesto all’ora del sacrificio della sera: «Poi caddi in ginocchio e stesi le mani al mio Signore e pregai il Signore, mio Dio» (Esdra 9,5). Il grande salmo della Passione («Mio Dio, mio Dio perché mi hai abbandonato») si conclude con la promessa: «Davanti a Lui si piegheranno tutti i potenti della terra, davanti a Lui si prostreranno quanti dormono sotto terra» (Sal 22,30). Rifletteremo sul passo affine di Is 45,23 in contesto neotestamentario. Gli Atti degli Apostoli ci raccontano della preghiera in ginocchio di san Pietro (9,40), di san Paolo (20,36) e di tutta la comunità cristiana (21,5).

Particolarmente importante per la nostra questione è il racconto del martirio di santo Stefano. Il primo martire cristiano viene presentato nella sua sofferenza come perfetta imitazione di Cristo, la cui passione si ripete nel martirio del testimone fin nei particolari. Stefano, in ginocchio, fa così sua la preghiera del Cristo crocifisso: «Signore non imputare loro questo peccato» (At 7,60). Ricordiamo in proposito che Luca, a differenza di Matteo e di Marco, aveva parlato della preghiera in ginocchio del Signore sul monte degli Ulivi e osserviamo, quindi, che Luca vuole che l’inginocchiarsi del protomartire sia inteso come un entrare nella preghiera di Gesù.

L’inginocchiarsi non è solo un gesto cristiano, è un gesto cristologico. Il passo più importante sulla teologia dell’inginocchiarsi è e resta per me il grande inno cristologico di Fil 2,6-11. In questo inno prepaolino ascoltiamo e vediamo la preghiera della Chiesa apostolica e riconosciamo la sua professione di fede; ma sentiamo anche la voce dell’Apostolo, che è entrato in questa preghiera e ce l’ha tramandata; torniamo ancora una volta a percepire la profonda unità interiore di Antico e Nuovo Testamento, così come l’ampiezza cosmica della fede cristiana.
L’inno ci presenta Cristo in contrapposizione al primo Adamo: mentre questi cerca di arrivare alla divinità con le sole sue forze, Cristo non considera come un «tesoro geloso» la divinità, che pure gli è propria, ma si abbassa fino alla morte di croce. Proprio questa umiltà, che viene dall’amore, è il propriamente  divino e gli procura il «nome che è al di sopra di tutti i nomi», «perché tutti, in cielo e sulla terra e sotto terra, pieghino le loro ginocchia davanti al nome di Gesù...». L’inno della Chiesa apostolica riprende qui la parola profetica di Isaia 45,23: «Lo giuro su me stesso dalla mia bocca esce la verità, una parola irrevocabile: davanti a me si piegherà ogni ginocchio...».

Nella compenetrazione di Antico e Nuovo Testamento è chiaro che Gesù, proprio in quanto è il Crocifisso, porta il «nome che è al di sopra di tutti i nomi» – il nome dell’Altissimo – ed è Egli stesso di natura divina. Per mezzo di Lui, il Crocifisso, si compie la profezia dell’Antico Testamento: tutti si pongono in ginocchio davanti a Gesù, Colui che è asceso, e si piegano così davanti all’unico vero Dio, al di sopra di tutti gli dei.

La croce è divenuta il segno universale della presenza di Dio, e tutto ciò che noi abbiamo finora udito sulla croce storica e cosmica, deve trovare qui il suo vero senso. La liturgia cristiana è proprio per questo liturgia cosmica, per il fatto che essa piega le ginocchia davanti al Signore crocifisso e innalzato. È questo il centro della vera «cultura» – la cultura della verità. Il gesto umile con cui noi cadiamo ai piedi del Signore, ci colloca sulla vera via della vita, in armonia con tutto il cosmo.

***

Si potrebbe aggiungere ancora molto, come, per esempio, la commovente storia che ci racconta Eusebio di Cesarea nella sua storia ecclesiastica, riprendendo una tradizione che risale a Egesippo (II secolo), secondo cui Giacomo, il «fratello del Signore», primo vescovo di Gerusalemme e «capo» della Chiesa giudeo-cristiana, aveva sulle ginocchia una sorta di pelle di cammello per il fatto che stava sempre in ginocchio, adorava Dio e implorava perdono per il suo popolo (II, 23, 6). Oppure il racconto tratto dalle sentenze dei Padri del deserto, secondo cui il diavolo fu costretto da Dio a mostrarsi a un certo abate Apollo, e il suo aspetto era nero, orribile a vedersi, con delle membra spaventosamente magre e, soprattutto, non aveva le ginocchia. L’incapacità a inginocchiarsi appare addirittura come l’essenza stessa del diabolico.

Ma non voglio andare troppo in là. Vorrei aggiungere solo un’osservazione: l’espressione con cui Luca descrive l’atto di inginocchiarsi dei cristiani (theis ta gonata) è sconosciuta al greco classico. Si tratta di una parola specificamente cristiana. Con questa osservazione il cerchio si chiude là dove avevamo cominciato le nostre riflessioni. Può forse essere vero che l’inginocchiarsi è estraneo alla cultura moderna – appunto nella misura in cui si tratta di una cultura che si è allontanata dalla fede e che non conosce più colui di fronte al quale inginocchiarsi è il gesto giusto, anzi quello interiormente necessario.

Chi impara a credere, impara a inginocchiarsi; una fede o una liturgia che non conoscano più l’atto di inginocchiarsi, sono ammalate in un punto centrale. Dove questo gesto è andato perduto, dobbiamo nuovamente apprenderlo, così da rimanere con la nostra preghiera nella comunione degli apostoli e dei martiri, nella comunione di tutto il cosmo, nell’unità con Gesù Cristo stesso.


 
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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21/10/2015 13:53
 
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ECCEZIONALE UDIENZA di oggi DEL PAPA 

SUL VALORE DELLA FEDELTA'....


dice il Papa: Ai nostri giorni, l’onore della fedeltà alla promessa della vita famigliare appare molto indebolito. (...)
libertà e fedeltà non si oppongono l’una all’altra, anzi, si sostengono a vicenda, sia nei rapporti interpersonali, sia in quelli sociali. Infatti, pensiamo ai danni che producono, nella civiltà della comunicazione globale, l’inflazione di promesse non mantenute, in vari campi, 
e l’indulgenza per l’infedeltà alla parola data e agli impegni presi!....
Sì, cari fratelli e sorelle, la fedeltà è una promessa di impegno che si auto-avvera, crescendo nella libera obbedienza alla parola data.

(...) E dico “miracolo”, perché la forza e la persuasione della fedeltà, a dispetto di tutto, non finiscono di incantarci e di stupirci. L’onore alla parola data, la fedeltà alla promessa, non si possono comprare e vendere. Non si possono costringere con la forza, ma neppure custodire senza sacrificio.

(..) Se san Paolo può affermare che nel legame famigliare è misteriosamente rivelata una verità decisiva anche per il legame del Signore e della Chiesa, vuol dire che la Chiesa stessa trova qui una benedizione da custodire e dalla quale sempre imparare, prima ancora di insegnarla e disciplinarla. La nostra fedeltà alla promessa è pur sempre affidata alla grazia e alla misericordia di Dio. 

L’amore per la famiglia umana, nella buona e nella cattiva sorte, è un punto d’onore per la Chiesa! Dio ci conceda di essere all’altezza di questa promessa. E preghiamo anche per i Padri del Sinodo: il Signore benedica il loro lavoro, svolto con fedeltà creativa, nella fiducia che Lui per primo, il Signore - Lui per primo! -, è fedele alle sue promesse. Grazie. 

  E ai polacchi (ma anche a noi) ha detto:

domani celebriamo la memoria di San Giovanni Paolo II, il Papa della famiglia. Siate suoi buoni seguaci nella premura per le vostre famiglie e per tutte le famiglie, specialmente quelle che vivono nel disagio spirituale o materiale. 
La fedeltà all’amore professato, alle promesse fatte e agli impegni che derivano dalla responsabilità siano la vostra forza. Per l’intercessione di San Giovanni Paolo II preghiamo che il Sinodo dei Vescovi, che sta per concludersi, rinnovi in tutta la Chiesa il senso dell’innegabile valore del matrimonio indissolubile e della famiglia sana, basata sull’amore reciproco dell’uomo e della donna, e sulla grazia divina. Benedico di cuore voi, qui presenti, e tutti i vostri cari. Sia lodato Gesù Cristo!


 


I preti gay SONO un problema! Lo dice la Chiesa....

Ho ricevuto diverse mail di commento al mio articolo “Quelli che: "l'omosessualità di un prete non è un problema”, qualcuno educata, qualcuna un po' meno. Suppergiù, le osservazioni di queste mail sono le seguenti: bisogna distinguere tra atti omosessuali e omosessualità; i primi sono peccato, la seconda no.... (sic) 

di Roberto Marchesini

Ho ricevuto diverse mail di commento al mio articolo “Quelli che: "l'omosessualità di un prete non è un problema” (clicca qui), qualcuno educata, qualcuna un po' meno. Suppergiù, le osservazioni di queste mail sono le seguenti: bisogna distinguere tra atti omosessuali e omosessualità; i primi sono peccato, la seconda no; quindi l'omosessualità di un prete non è un problema. È verissimo: il Magistero distingue tra atti omosessuali e tendenza omosessuale; i primi sono in peccato, la seconda no. Ma non finisce qui.

Nel 1986 la Congregazione per la Dottrina della Fede, guidata dall'allora cardinale Ratzinger, ha pubblicato una Lettera sulla cura pastorale delle persone omosessuali (clicca qui). Una lettera che il santo padre Giovanni Paolo II ha voluto onorare della sua firma, cosa insolita se non eccezionale. In questa lettera leggiamo: «[...] furono proposte delle interpretazioni eccessivamente benevole della condizione omosessuale stessa, tanto che qualcuno si spinse fino a definirla indifferente o addirittura buona. Occorre invece precisare che la particolare inclinazione della persona omosessuale, benché non sia in sé peccato, costituisce tuttavia una tendenza, più o meno forte, verso un comportamento intrinsecamente cattivo dal punto di vista morale. Per questo motivo l'inclinazione stessa dev'essere considerata come oggettivamente disordinata»(§ 3).

Questo giudizio sull'orientamento omosessuale è confluita anche nel catechismo della Chiesa Cattolica (clicca qui), che al § 2358 definisce l'omosessualità come una inclinazione «oggettivamente disordinata». Riassumiamo quindi fino a qui: bisogna distinguere tra atti omosessuali e omosessualità; i primi sono peccato, la seconda no; pur non essendo un peccato, l'omosessualità non è né indifferente né buona, bensì oggettivamente disordinata. Veniamo dunque all'ultima affermazione: l'omosessualità di un prete non è un problema. 
Nel 2005 la Congregazione per l'Istruzione Cattolica ha promulgato una Istruzione circa i criteri di discernimento vocazionale riguardo alle persone con tendenze omosessuali in vista della loro ammissione al Seminario e agli Ordini sacri (clicca qui) nella quale, al § 2, leggiamo: «Alla luce di tale insegnamento, questo Dicastero, d'intesa con la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, ritiene necessario affermare chiaramente che la Chiesa, pur rispettando profondamente le persone in questione, non può ammettere al Seminario e agli Ordini sacri coloro che praticano l'omosessualità, presentano tendenze omosessuali profondamente radicate o sostengono la cosiddetta cultura gay».

La stessa cosa è ribadita della stessa Congregazione in un documento del 2008 intitolato Orientamenti per l'utilizzo delle competenze psicologiche nell'ammissione e nella formazione dei candidati al sacerdozio (clicca qui). In questo documento leggiamo: «Il cammino formativo dovrà essere interrotto nel caso in cui il candidato, nonostante il suo impegno, il sostegno dello psicologo o la psicoterapia, continuasse a manifestare incapacità ad affrontare realisticamente, sia pure con la gradualità di ogni crescita umana, le proprie gravi immaturità (forti dipendenze affettive, notevole mancanza di libertà nelle relazioni, eccessiva rigidità di carattere, mancanza di lealtà, identità sessuale incerta, tendenze omosessuali fortemente radicate, ecc.)» (§ 10). Dunque, almeno per la dottrina cattolica, l'omosessualità di un prete è un problema.

   

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Il cardinale Vallini e l’interpretazione di Amoris laetitia per i divorziati risposati: un sì (molto) condizionato

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valliniIl vaticanista Sandro Magister riporta ampi stralci della relazione che il Cardinale vicario di Roma Agostino Vallini ha tenuto al convegno pastorale della diocesi di Roma lo scorso 19 settembre. A proposito della nota questione dell’accesso ai sacramenti per le coppie di divorziati risposati (Cfr. QUI), dopo aver indicato che occorre innanzitutto la verifica della validità del precedente matrimonio, Vallini scrive:

“Il passo successivo è un ‘responsabile discernimento personale e pastorale’ (AL, 300). Per esemplificare: accompagnare con colloqui periodici, verificare se matura la coscienza di ‘riflessione e di pentimento’, l’apertura sincera del cuore nel riconoscere le proprie responsabilità personali, il desiderio di ricerca della volontà di Dio e di maturare in essa.

“Qui ogni sacerdote ha un compito importantissimo e assai delicato da svolgere, evitando il ‘rischio di messaggi sbagliati’, di rigidità o di lassismo, per concorrere alla formazione di una coscienza di vera conversione e ‘senza mai rinunciare a proporre l’ideale pieno del matrimonio’ (AL, 307), secondo il criterio del bene possibile.

“Questo discernimento pastorale delle singole persone è un aspetto molto delicato e deve tener conto del ‘grado di responsabilità’ che non è uguale in tutti i casi, del peso dei ‘condizionamenti o dei fattori attenuanti’, per cui è possibile che, dentro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o non lo sia in modo pieno – si possa trovare un percorso per crescere nella vita cristiana, ‘ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa’ (AL, 305).

“Il testo dell’esortazione apostolica non va oltre, ma nella nota 351 si legge: ‘In certi casi, potrebbe essere anche l’aiuto dei sacramenti’. Il papa usa il condizionale, dunque non dice che bisogna ammettere ai sacramenti, sebbene non lo escluda in alcuni casi e ad alcune condizioni [la sottolineatura è nel testo della relazione - ndr]. Papa Francesco sviluppa il magistero precedente nella linea dell’ermeneutica della continuità e dell’approfondimento, e non della discontinuità e della rottura. Egli afferma che dobbiamo percorrere la ‘via caritatis’ di accogliere i penitenti, ascoltarli attentamente, mostrare loro il volto materno della Chiesa, invitarli a seguire il cammino di Gesù, far maturare la retta intenzione di aprirsi al Vangelo, e ciò dobbiamo fare avendo attenzione alle circostanze delle singole persone, alla loro coscienza, senza compromettere la verità e la prudenza che aiuteranno a trovare la giusta via.

“È importantissimo stabilire con tutte queste persone e coppie una ‘buona relazione pastorale’. Vale a dire, dobbiamo accoglierle con calore, invitarle ad aprirsi a partecipare in qualche modo alla vita ecclesiale, ai gruppi di famiglie, a svolgere qualche servizio, es. caritativo o liturgico (coro, preghiera dei fedeli, processione offertoriale). Per sviluppare questi processi è quanto mai preziosa la presenza attiva di coppie di operatori pastorali e gioverà molto anche il clima della comunità. Queste persone – dice il papa – “non devono sentirsi scomunicate, ma possono vivere e maturare come membra vive della Chiesa” (AL, 299).

“Non si tratta di arrivare necessariamente ai sacramenti, ma di orientarle a vivere forme di integrazione alla vita ecclesiale. Ma quando le circostanze concrete di una coppia lo rendono fattibile, vale a dire quando il loro cammino di fede è stato lungo, sincero e progressivo, si proponga di vivere in continenza; se poi questa scelta è difficile da praticare per la stabilità della coppia, ‘Amoris laetitia’ non esclude la possibilità di accedere alla penitenza e all’eucarestia. Ciò significa una qualche apertura, come nel caso in cui vi è la certezza morale che il primo matrimonio era nullo ma non ci sono le prove per dimostrarlo in sede giudiziaria; ma non invece nel caso in cui, ad esempio, viene ostentata la propria condizione come se facesse parte dell’ideale cristiano, ecc.

“Come dobbiamo intendere questa apertura? Certamente non nel senso di un accesso indiscriminato ai sacramenti, come talvolta avviene, ma di un discernimento che distingua adeguatamente caso per caso. Chi può decidere? Dal tenore del testo e dalla ‘mens’ del suo Autore non mi pare che vi sia altra soluzione che quella del foro interno. Infatti il foro interno è la via favorevole per aprire il cuore alle confidenze più intime, e se si è stabilito nel tempo un rapporto di fiducia con un confessore o con una guida spirituale, è possibile iniziare e sviluppare con lui un itinerario di conversione lungo, paziente, fatto di piccoli passi e di verifiche progressive.

“Dunque, non può essere altri che il confessore, ad un certo punto, nella sua coscienza, dopo tanta riflessione e preghiera, a doversi assumere la responsabilità davanti a Dio e al penitente e a chiedere che l’accesso ai sacramenti avvenga in maniera riservata. In questi casi non termina il cammino di discernimento (AL, 303: ‘discernimento dinamico’) al fine di raggiungere nuove tappe verso l’ideale cristiano pieno”.

Quella proposta dal cardinale Vallini, commenta Magister, appare come un accesso ai sacramenti “condizionato”. Un sì  “tanto condizionato da essere quasi impraticabile, se non in casi rarissimi e che forse non si presenteranno mai. Un sì in teoria che è quasi un no nei fatti”.



[Modificato da Caterina63 23/09/2016 15:20]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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 non va dimenticato che Giovanni Paolo II dal canto suo ha detto: “Quanto è insegnato dalla Chiesa sulla contraccezione non appartiene a materia liberamente disputabile tra i teologi. Insegnare il contrario equivale a indurre nell’errore la coscienza morale degli sposi” (5.5.1987).

Nel medesimo discorso ha detto anche che “emerge a tale proposito una grave responsabilità: coloro che si pongono in aperto contrasto con la legge di Dio, autenticamente insegnata dal magistero della Chiesa, guidano gli sposi su una strada sbagliata.

Benedetto XVI, nel 40° della pubblicazione dell’Humanae vitae ha affermato: “Il Magistero della Chiesa non può esonerarsi da riflettere in maniera sempre nuova e approfondita sui principi fondamentali che riguardano il matrimonio e la procreazione. Quanto era vero ieri, rimane vero anche oggi. La verità espressa nell’Humanae Vitae non muta”.

Ciò che era peccato ieri, è peccato anche oggi e domani.

E la stessa cosa ha detto anche Papa Francesco in Amoris laetitia al n. 80 sopra citato.

Pertanto se l’articolista che hai citato ha detto quanto hai riferito è nell’errore. Per usare il linguaggio di Giovanni Paolo II è su una strada sbagliata e induce nell’errore la coscienza morale degli sposi”.

DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II 
AI PARTECIPANTI AD UN INCONTRO DI STUDIO 
SULLA PROCREAZIONE RESPONSABILE

Venerdì, 5 giugno 1987

 

Cari fratelli e sorelle.

1. Vi saluto con viva cordialità e vi ringrazio per la vostra presenza, mentre mi compiaccio col “Centro Studi e Ricerche Regolazione Naturale della Fertilità” presso la facoltà di medicina dell’Università Cattolica del Sacro Cuore per avere promosso anche quest’anno un incontro di studio e di aggiornamento sulle tematiche inerenti la procreazione responsabile.

Il vostro impegno si inscrive nella missione della Chiesa e ne partecipa, a motivo di una preoccupazione pastorale fra le più urgenti ed importanti. Si tratta di fare in modo che gli sposi vivano santamente il loro matrimonio. Voi vi proponete di aiutarli nel loro cammino verso la santità, per l’adempimento in pienezza della loro vocazione coniugale.

È ben noto che spesso - come ha rilevato anche il Concilio Vaticano II (cf. Gaudium et Spes, 51,1) - una delle principali angustie che gli sposi incontrano è costituita dalla difficoltà di realizzare nella loro vita coniugale il valore etico della procreazione responsabile. Lo stesso Concilio pone alla base di una giusta soluzione di questo problema la verità che non vi può essere una reale contraddizione fra la legge divina riguardante la trasmissione della vita umana e l’autentico amore coniugale (cf. Gaudium et Spes, 2). Parlare di “conflitto di valori o beni” e della conseguente necessità di compiere come una sorta di “bilanciamento” degli stessi, scegliendo uno e rifiutando l’altro, non è moralmente corretto, e genera solo confusione nelle coscienze degli sposi. La grazia di Cristo dona ai coniugi la reale capacità di adempiere l’intera “verità” del loro amore coniugale. Voi volete testimoniare concretamente questa possibilità e così dare alle coppie sposate un aiuto prezioso: quello di vivere in pienezza la loro comunione coniugale. Nonostante le difficoltà che potete incontrare, è necessario continuare con generosa dedizione.

2. Le difficoltà che incontrate sono di diversa natura. La prima, ed in certo senso la più grave, è che anche nella comunità cristiana si sono sentite e si sentono voci che mettono in dubbio la verità stessa dell’insegnamento della Chiesa. Tale insegnamento è stato espresso vigorosamente dal Vaticano II, dall’enciclica Humanae Vitae, dall’esortazione apostolica Familiaris Consortio e dalla recente istruzione “Il dono della vita”. Emerge, a tale proposito, una grave responsabilità: coloro che si pongono in aperto contrasto con la legge di Dio, autenticamente insegnata dalla Chiesa, guidano gli sposi su una strada sbagliata. Quanto è insegnato dalla Chiesa sulla contraccezione non appartiene a materia liberamente disputabile fra teologi. Insegnare il contrario equivale a indurre nell’errore la coscienza morale degli sposi.

La seconda difficoltà è costituita dal fatto che molti pensano che l’insegnamento cristiano, benché vero, sia tuttavia impraticabile, almeno in alcune circostanze. Come la Tradizione della Chiesa ha costantemente insegnato, Dio non comanda l’impossibile, ma ogni comandamento comporta anche un dono di grazia che aiuta là libertà umana ad adempierlo. Sono, però, necessari la preghiera costante, il ricorso frequente ai sacramenti e l’esercizio della castità coniugale. Il vostro impegno, dunque, non deve limitarsi al solo insegnamento di un metodo per il controllo della fertilità umana. Questa informazione dovrà essere inserita nel contesto di una proposta educativa completa, che si rivolga alla persona degli sposi, considerata nella sua integrità. Senza questo contesto antropologico, la vostra proposta rischierebbe di essere equivocata. Di questo voi siete ben convinti, poiché alla base dei vostri corsi avete sempre messo una giusta riflessione antropologica ed etica.

Oggi più che ieri, l’uomo ricomincia a sentire dentro di sé l’esigenza della verità e della retta ragione nella sua esperienza quotidiana. Siate sempre pronti a dire, senza ambiguità, la verità sul bene e sul male dell’uomo e della famiglia.

Con questi sentimenti desidero incoraggiare il singolare servizio di apostolato che vi proponete di realizzare nelle diocesi e nei centri di formazione alla famiglia. Nell’educazione alla procreazione responsabile, sappiate incoraggiare gli sposi a seguire i principi morali insiti nella legge naturale e nella sana coscienza cristiana. Insegnate a cercare ed amare la volontà di Dio. Incoraggiate a rispettare ed adempiere la sublime vocazione dell’amore sponsale e del dono della vita.

Volentieri benedico tutti voi, i vostri cari e le vostre iniziative di apostolato.

 

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI 
AL CONGRESSO INTERNAZIONALE 
"HUMANAE VITAE
: ATTUALITÀ E PROFEZIA DI UN’ENCICLICA
(ROMA, 3-4 OTTOBRE 2008)

 

A Mons. Livio Melina
Preside del Pontificio Istituto «Giovanni Paolo II»
per Studi su Matrimonio e Famiglia

Ho appreso con gioia che il Pontificio Istituto di cui Ella è Preside e l’Università Cattolica del Sacro Cuore hanno opportunamente organizzato un Congresso Internazionale in occasione del 40° anniversario di pubblicazione dell’Enciclica Humanae vitae, importante documento nel quale è affrontato uno degli aspetti essenziali della vocazione matrimoniale e dello specifico cammino di santità che ne consegue. Gli sposi, infatti, avendo ricevuto il dono dell’amore, sono chiamati a farsi a loro volta dono l’uno per l’altra senza riserve. Solo così gli atti propri ed esclusivi dei coniugi sono veramente atti di amore che, mentre li uniscono in una sola carne, costruiscono una genuina comunione personale. Pertanto, la logica della totalità del dono configura intrinsecamente l’amore coniugale e, grazie all’effusione sacramentale dello Spirito Santo, diventa il mezzo per realizzare nella propria vita un’autentica carità coniugale.

La possibilità di procreare una nuova vita umana è inclusa nell’integrale donazione dei coniugi. Se, infatti, ogni forma d’amore tende a diffondere la pienezza di cui vive, l’amore coniugale ha un modo proprio di comunicarsi: generare dei figli. Così esso non solo assomiglia, ma partecipa all’amore di Dio, che vuole comunicarsi chiamando alla vita le persone umane. Escludere questa dimensione comunicativa mediante un’azione che miri ad impedire la procreazione significa negare la verità intima dell’amore sponsale, con cui si comunica il dono divino: “se non si vuole esporre all’arbitrio degli uomini la missione di generare la vita, si devono necessariamente riconoscere limiti invalicabili alla possibilità di dominio dell’uomo sul proprio corpo e sulle sue funzioni; limiti che a nessun uomo, sia privato sia rivestito di autorità, è lecito infrangere” (Humanae vitae17). E’ questo il nucleo essenziale dell’insegnamento che il mio venerato predecessore Paolo VI rivolse ai coniugi e che il Servo di Dio Giovanni Paolo II, a sua volta, ha ribadito in molte occasioni, illuminandone il fondamento antropologico e morale.

A distanza di 40 anni dalla pubblicazione dell’Enciclica possiamo capire meglio quanto questa luce sia decisiva per comprendere il grande “sì” che implica l’amore coniugale. In questa luce, i figli non sono più l’obiettivo di un progetto umano, ma sono riconosciuti come un autentico dono, da accogliere con atteggiamento di responsabile generosità verso Dio, sorgente prima della vita umana. Questo grande “sì” alla bellezza dell’amore comporta certamente la gratitudine, sia dei genitori nel ricevere il dono di un figlio, sia del figlio stesso nel sapere che la sua vita ha origine da un amore così grande e accogliente.

E’ vero, d’altronde, che nel cammino della coppia possono verificarsi delle circostanze gravi che rendono prudente distanziare le nascite dei figli o addirittura sospenderle. Ed è qui che la conoscenza dei ritmi naturali di fertilità della donna diventa importante per la vita dei coniugi. I metodi di osservazione, che permettono alla coppia di determinare i periodi di fertilità, le consentono di amministrare quanto il Creatore ha sapientemente iscritto nella natura umana, senza turbare l’integro significato della donazione sessuale. In questo modo i coniugi, rispettando la piena verità del loro amore, potranno modularne l’espressione in conformità a questi ritmi, senza togliere nulla alla totalità del dono di sé che l’unione nella carne esprime. Ovviamente ciò richiede una maturità nell’amore, che non è immediata, ma comporta un dialogo e un ascolto reciproco e un singolare dominio dell’impulso sessuale in un cammino di crescita nella virtù.

In questa prospettiva, sapendo che il Congresso si svolge anche per iniziativa dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, mi è pure caro esprimere particolare apprezzamento per quanto codesta Istituzione universitaria fa a sostegno dell’Istituto Internazionale Paolo VI di ricerca sulla fertilità e infertilità umana per una procreazione responsabile (ISI), da essa donato al mio indimenticabile Predecessore, Papa Giovanni Paolo II, volendo in questo modo offrire una risposta, per così dire, istituzionalizzata all’appello rivolto dal Papa Paolo VI nel numero 24 dell’Enciclica agli “uomini di scienza”. Compito dell’ISI, infatti, è di far progredire la conoscenza delle metodiche sia per la regolazione naturale della fertilità umana che per il superamento naturale dell’eventuale infertilità. Oggi, “grazie al progresso delle scienze biologiche e mediche, l’uomo può disporre di sempre più efficaci risorse terapeutiche, ma può anche acquisire poteri nuovi dalle conseguenze imprevedibili sulla vita umana nello stesso suo inizio e nei suoi primi stadi” (Istruz. Donum vitae1). In questa prospettiva, “molti ricercatori si sono impegnati nella lotta contro la sterilità. Salvaguardando pienamente la dignità della procreazione umana, alcuni sono arrivati a risultati che in precedenza sembravano irraggiungibili. Gli uomini di scienza vanno quindi incoraggiati a proseguire nelle loro ricerche, allo scopo di prevenire le cause della sterilità e potervi rimediare, in modo che le coppie sterili possano riuscire a procreare nel rispetto della loro dignità personale e di quella del nascituro” (Istruz. Donum vitae8). E’ proprio questo lo scopo che l’ISI Paolo VI ed altri Centri analoghi, con l’incoraggiamento dell’Autorità ecclesiastica, si propongono.

Possiamo chiederci: come mai oggi il mondo, ed anche molti fedeli, trovano tanta difficoltà a comprendere il messaggio della Chiesa, che illustra e difende la bellezza dell’amore coniugale nella sua manifestazione naturale? Certo, la soluzione tecnica anche nelle grandi questioni umane appare spesso la più facile, ma essa in realtà nasconde la questione di fondo, che riguarda il senso della sessualità umana e la necessità di una padronanza responsabile, perché il suo esercizio possa diventare espressione di amore personale. La tecnica non può sostituire la maturazione della libertà, quando è in gioco l’amore. Anzi, come ben sappiamo, neppure la ragione basta: bisogna che sia il cuore a vedere. Solo gli occhi del cuore riescono a cogliere le esigenze proprie di un grande amore, capace di abbracciare la totalità dell’essere umano. Per questo il servizio che la Chiesa offre nella sua pastorale matrimoniale e familiare dovrà saper orientare le coppie a capire con il cuore il meraviglioso disegno che Dio ha iscritto nel corpo umano, aiutandole ad accogliere quanto comporta un autentico cammino di maturazione.

Il Congresso che state celebrando rappresenta perciò un importante momento di riflessione e di cura per le coppie e per le famiglie, offrendo il frutto di anni di ricerca, sia sul versante antropologico ed etico che su quello prettamente scientifico, a proposito di procreazione veramente responsabile. In questa luce non posso che congratularmi con voi, augurandomi che questo lavoro porti frutti abbondanti e contribuisca a sostenere i coniugi con sempre maggior saggezza e chiarezza nel loro cammino, incoraggiandoli nella loro missione ad essere, nel mondo, testimoni credibili della bellezza dell’amore. Con questi auspici, mentre invoco l’aiuto del Signore sullo svolgimento dei lavori del Congresso, a tutti invio una speciale Benedizione Apostolica.

Dal Vaticano, 2 ottobre 2008


 


Fraternamente CaterinaLD

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05/06/2017 09:13
 
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Un sacerdote risponde

Un sacerdote ha amministrato la santa Cresima a una persona adulta, divorziata e sposata civilmente

Quesito

Caro Padre Angelo,
Sono un sacerdote e vorrei ringraziarla per il suo servizio a noi pastori, nel porre con chiarezza il deposito della Fede, così da poter illuminare le coscienze. Un sacerdote ha amministrato la santa Cresima a una persona adulta, divorziata e sposata civilmente. Certo della validità del Sacramento mi pongo qualche interrogativo circa la liceità dello stesso e della spirituale crescita del fedele. Il sacerdote "si giustifica" additando all'invito del Pontefice di usare misericordia (ormai ridotta a luogo comune), ma penso che sia fuorviante "appiccicare un bollo" senza coltivare una reale conversione interiore, attraverso un cammino mistagogico. Attendo un suo autorevole parere, in comunione di preghiera.


Risposta del sacerdote

Carissimo,
1. i problemi coinvolti nell’amministrazione della cresima nel caso esposto sono due.
Il primo riguarda la sostanza: il sacramento della Confermazione viene dato per la testimonianza da rendere a Cristo.
Il secondo riguarda la validità del sacramento quando viene amministrato da un sacerdote senza il mandato del Vescovo.

2. Circa il primo problema: l’amministrazione della Cresima ad un adulto divorziato e sposato civilmente.
Se c’era pericolo di morte, allora il sacerdote doveva impartirgli la cresima, previa confessione e pentimento per la situazione vissuta.

3. Il nostro punto di partenza è costituito dalle parole di  Cristo: “Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un'altra, commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio” (Mc 10,11-12). 
Per questo il Catechismo della Chiesa Cattolica riprendendo le parole di Gesù menzionate nel Vangelo di Marco e afferma: “La Chiesa sostiene, per fedeltà alla parola di Gesù Cristo che non può riconoscere come valida una nuova unione, se era valido il primo matrimonio
Se i divorziati si sono risposati civilmente, essi si trovano in una situazione che oggettivamente contrasta con la legge di Dio. Perciò essi non possono accedere alla Comunione eucaristica, per tutto il tempo che perdura tale situazione. (…).
La riconciliazione mediante il sacramento della Penitenza non può essere accordata se non a coloro che si sono pentiti di aver violato il segno dell’Alleanza e della fedeltà a Cristo, e si sono impegnati a vivere in una completa continenza” (CCC 1650).

4. A proposito del divorzio il Catechismo afferma: “Il divorzio è una grave offesa alla legge naturale. Esso pretende di sciogliere il patto liberamente stipulato dagli sposi, di vivere l’uno con l’altro fino alla morte. Il divorzio offende l’Alleanza della salvezza, di cui il matrimonio sacramentale è segno. 
Il fatto di contrarre un nuovo vincolo nuziale, anche se riconosciuto dalla legge civile, accresce la gravità della rottura: il coniuge risposato si trova in tal caso in una condizione di adulterio pubblico e permanente” (CCC 2384).

5. Orbene: il Sacramento della Cresima viene dato per comunicare forza (ad robur) in ordine alla vita cristiana e alla testimonianza.
In passato si diceva che la Confermazione fa diventare soldati di Cristo. Oggi si preferisce un’altra espressione, ugualmente bella: impegna ad essere testimoni di Cristo.
Testimoni anche degli impegni assunti nel giorno del matrimonio, e cioè di essere segno visibile della fedeltà di Dio e di Cristo nei confronti della Chiesa nella buona e nella cattiva sorte.
Ora nel divorziato risposato quale testimonianza di fedeltà si può vedere nei confronti della propria moglie quando di fatto vive con un’altra?

6. Nel caso che mi hai esposto sarebbe stato meglio attendere e verificare attraverso il tribunale ecclesiastico la validità del matrimonio, in modo da regolarizzare successivamente l’attuale unione civile.
Secondo i nuovi criteri dati da Papa Francesco il tribunale ecclesiastico deve emettere la sentenza entro un anno. 
Sarebbe stato più opportuno fare tutto con ordine evitando di far pensare che tutto sommato la Cresima non serve a poco o a nulla, se viene conferita anche a chi di fatto vive in uno stato di contro testimonianza.

7. Rimane da risolvere ancora il problema della validità dell’amministrazione del sacramento.
Tu scrivi: “Certo della validità del Sacramento mi pongo qualche interrogativo circa la liceità dello stesso”.
Se il sacerdote che ha impartito la Cresima era stato autorizzato dal Vescovo  l’ha amministrata validamente e lecitamente.
Ma se non aveva ricevuto questa facoltà l’amministrazione è invalida.
Il Codice di diritto canonico dice: “Ministro ordinario della confermazione è il Vescovo; conferisce validamente questo sacramento anche il presbitero provvisto di questa facoltà in forza del diritto comune o per speciale concessione della competente autorità” (Can 882).
Da ciò (e anche da altri canoni) si arguisce che chi non è provvisto di questa facoltà non amministra validamente il sacramento e commette peccato di sacrilegio, a meno che il battezzato non sia in pericolo di vita.

8. Se il sacerdote in questione invece ha ricevuto la facoltà dal Vescovo significa – almeno in teoria - che si tratta di un caso particolare per cui si è giudicato opportuno conferirgli la cresima perché c’erano tutte le condizioni (stato di grazia, confessione, pentimento…) e non veniva pregiudicata la testimonianza cristiana.

Ti ringrazio per la fiducia. 
Auguro anche a te un fruttuoso ministero della vigna del Signore e ti assicuro la mia preghiera.
Padre Angelo






Fraternamente CaterinaLD

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