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Udienza generale del Mercoledì Anno 2022

Ultimo Aggiornamento: 14/12/2022 18:34
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05/01/2022 22:53
 
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UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 5 gennaio 2022

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Catechesi su San Giuseppe: 6. San Giuseppe, il padre putativo di Gesù

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi mediteremo su San Giuseppe come padre di Gesù. Gli Evangelisti Matteo e Luca lo presentano come padre putativo di Gesù e non come padre biologico. Matteo lo precisa, evitando la formula “generò”, usata nella genealogia per tutti gli antenati di Gesù; ma lo definisce «sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù detto il Cristo» (1,16). Mentre Luca lo afferma dicendo che era padre di Gesù «come si riteneva» (3,23), cioè appariva come padre.

Per comprendere la paternità putativa o legale di Giuseppe, occorre tener presente che anticamente in Oriente era molto frequente, più di quanto non sia ai nostri giorni, l’istituto dell’adozione. Si pensi al caso comune presso Israele del “levirato” così formulato nel Deuteronomio: «Quando uno dei fratelli morirà senza lasciare figli, la moglie del defunto non si sposerà con uno di fuori, con un estraneo. Suo cognato si unirà a lei e se la prenderà in moglie, compiendo così verso di lei il dovere di cognato. Il primogenito che ella metterà al mondo, andrà sotto il nome del fratello morto, perché il nome di questi non si estingua in Israele» (25,5-6). In altre parole, il genitore di questo figlio è il cognato, ma il padre legale resta il defunto, che attribuisce al neonato tutti i diritti ereditari. Lo scopo di questa legge era duplice: assicurare la discendenza al defunto e la conservazione del patrimonio.

Come padre ufficiale di Gesù, Giuseppe esercita il diritto di imporre il nome al figlio, riconoscendolo giuridicamente. Giuridicamente è il padre, ma non generativamente, non l’ha generato.

Anticamente il nome era il compendio dell’identità di una persona. Cambiare il nome significava cambiare sé stessi, come nel caso di Abramo, il cui nome Dio cambia in “Abraham”, che significa “padre di molti”, «perché – dice il Libro della Genesi – sarà padre di una moltitudine di nazioni» (17,5). Così per Giacobbe, che viene chiamato “Israele”, che significa “colui che lotta con Dio”, perché ha lottato con Dio per obbligarlo a dargli la benedizione (cfr Gen 32,29; 35,10).

Ma soprattutto dare il nome a qualcuno o a qualcosa significava affermare la propria autorità su ciò che veniva denominato, come fece Adamo quando conferì un nome a tutti gli animali (cfr Gen 2,19-20).

Giuseppe sa già che per il figlio di Maria c’è un nome preparato da Dio – il nome a Gesù lo dà il vero padre di Gesù, Dio – il nome “Gesù”, che significa “Il Signore salva”, come gli spiega l’Angelo: «Egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,21). Questo particolare aspetto della figura di Giuseppe ci permette oggi di fare una riflessione sulla paternità e sulla maternità. E questo credo che sia molto importante: pensare alla paternità, oggi. Perché noi viviamo un’epoca di notoria orfanezza. È curioso: la nostra civiltà è un po’ orfana, e si sente, questa orfanezza. Ci aiuti la figura di San Giuseppe a capire come si risolve il senso di orfanezza che oggi ci fa tanto male.

Non basta mettere al mondo un figlio per dire di esserne anche padri o madri. «Padri non si nasce, lo si diventa. E non lo si diventa solo perché si mette al mondo un figlio, ma perché ci si prende responsabilmente cura di lui. Tutte le volte che qualcuno si assume la responsabilità della vita di un altro, in un certo senso esercita la paternità nei suoi confronti» (Lett. ap. Patris corde). Penso in modo particolare a tutti coloro che si aprono ad accogliere la vita attraverso la via dell’adozione, che è un atteggiamento così generoso e bello. Giuseppe ci mostra che questo tipo di legame non è secondario, non è un ripiego. Questo tipo di scelta è tra le forme più alte di amore e di paternità e maternità. Quanti bambini nel mondo aspettano che qualcuno si prenda cura di loro! E quanti coniugi desiderano essere padri e madri ma non riescono per motivi biologici; o, pur avendo già dei figli, vogliono condividere l’affetto familiare con chi ne è rimasto privo. Non bisogna avere paura di scegliere la via dell’adozione, di assumere il “rischio” dell’accoglienza. E oggi, anche, con l’orfanezza, c’è un certo egoismo. L’altro giorno, parlavo sull’inverno demografico che c’è oggi: la gente non vuole avere figli, o soltanto uno e niente di più. E tante coppie non hanno figli perché non vogliono o ne hanno soltanto uno perché non ne vogliono altri, ma hanno due cani, due gatti … Eh sì, cani e gatti occupano il posto dei figli. Sì, fa ridere, capisco, ma è la realtà. E questo rinnegare la paternità e la maternità ci sminuisce, ci toglie umanità. E così la civiltà diviene più vecchia e senza umanità, perché si perde la ricchezza della paternità e della maternità. E soffre la Patria, che non ha figli e – come diceva uno un po’ umoristicamente – “e adesso chi pagherà le tasse per la mia pensione, che non ci sono figli? Chi si farà carico di me?”: rideva, ma è la verità. Io chiedo a San Giuseppe la grazia di svegliare le coscienze e pensare a questo: ad avere figli. La paternità e la maternità sono la pienezza della vita di una persona. Pensate a questo. È vero, c’è la paternità spirituale per chi si consacra a Dio e la maternità spirituale; ma chi vive nel mondo e si sposa, deve pensare ad avere figli, a dare la vita, perché saranno loro che gli chiuderanno gli occhi, che penseranno al suo futuro. E anche, se non potete avere figli, pensate all’adozione. È un rischio, sì: avere un figlio sempre è un rischio, sia naturale sia d’adozione. Ma più rischioso è non averne. Più rischioso è negare la paternità, negare la maternità, sia la reale sia la spirituale. Un uomo e una donna che volontariamente non sviluppano il senso della paternità e della maternità, mancano qualcosa di principale, di importante. Pensate a questo, per favore. Auspico che le istituzioni siano sempre pronte ad aiutare in questo senso dell’adozione, vigilando con serietà ma anche semplificando l’iter necessario perché possa realizzarsi il sogno di tanti piccoli che hanno bisogno di una famiglia, e di tanti sposi che desiderano donarsi nell’amore. Tempo fa ho sentito la testimonianza di una persona, un dottore – importante il suo mestiere – non aveva figli e con la moglie hanno deciso di adottarne uno. E quando è arrivato il momento, ne hanno offerto loro uno e hanno detto: “Ma, non sappiamo come andrà la salute di questo. Forse può avere qualche malattia”. E lui disse – lo aveva visto – disse: “Se lei mi avesse domandato questo prima di entrare, forse avrei detto di no. Ma l’ho visto: me lo porto”. Questa è la voglia di essere padre, di essere madre anche nell’adozione. Non abbiate paura di questo.

Prego perché nessuno si senta privo di un legame di amore paterno. E coloro che sono ammalati di orfanezza vadano avanti senza questo sentimento così brutto. Possa San Giuseppe esercitare la sua protezione e il suo aiuto sugli orfani; e interceda per le coppie che desiderano avere un figlio. Per questo preghiamo insieme:

San Giuseppe,
tu che hai amato Gesù con amore di padre,
sii vicino a tanti bambini che non hanno famiglia
e desiderano un papà e una mamma.
Sostieni i coniugi che non riescono ad avere figli,
aiutali a scoprire, attraverso questa sofferenza, un progetto più grande.
Fa’ che a nessuno manchi una casa, un legame,
una persona che si prenda cura di lui o di lei;
e guarisci l’egoismo di chi si chiude alla vita,
perché spalanchi il cuore all’amore.

SALUTI

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto gli adolescenti della diocesi di Brescia, quelli del Decanato di Castano Primo e quelli della parrocchia Santa Francesca Cabrini di Lodi. Saluto poi gli artisti del Rony Roller Circus, e torno a ringraziare per questa vostra attività: è curioso, dietro quanto hanno fatto, dietro a questa bellezza, ci sono ore e ore e ore di allenamento, di lavoro per fare uno spettacolo così. Grazie. 

Il mio pensiero va infine, come di consueto, agli anziani, agli ammalati, ai giovani e agli sposi novelli. Domani celebreremo la solennità dell’Epifania. Sappiate, come i Magi, cercare con animo aperto Cristo luce del mondo.

A tutti la mia benedizione.







UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 12 gennaio 2022

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Catechesi su San Giuseppe: 7. San Giuseppe il falegname

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Gli evangelisti Matteo e Marco definiscono Giuseppe “falegname” o “carpentiere”. Abbiamo ascoltato poco fa che la gente di Nazaret, sentendo Gesù parlare, si chiedeva: «Non è costui il figlio del falegname?» (13,55; cfr Mc 6,3). Gesù praticò il mestiere del padre.

Il termine greco tekton, usato per indicare il lavoro di Giuseppe, è stato tradotto in vari modi. I Padri latini della Chiesa lo hanno reso con “falegname”. Ma teniamo presente che nella Palestina dei tempi di Gesù il legno serviva, oltre che a fabbricare aratri e mobili vari, anche a costruire case, che avevano serramenti di legno e tetti a terrazza fatti di travi connesse tra loro con rami e terra.

Pertanto, “falegname” o “carpentiere” era una qualifica generica, che indicava sia gli artigiani del legno sia gli operai impegnati in attività legate all’edilizia. Un mestiere piuttosto duro, dovendo lavorare materiale pesante, come il legno, la pietra e il ferro. Dal punto di vista economico non assicurava grandi guadagni, come si deduce dal fatto che Maria e Giuseppe, quando presentarono Gesù nel Tempio, offrirono solo una coppia di tortore o di colombi (cfr Lc 2,24), come prescriveva la Legge per i poveri (cfr Lv 12,8).

Dunque, Gesù adolescente ha imparato dal padre questo mestiere. Perciò, quando da adulto cominciò a predicare, i suoi compaesani stupiti si chiedevano: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi?» (Mt 13,54), ed erano scandalizzati di lui (cfr v. 57), perché era il figlio del falegname ma parlava come un dottore della legge, e si scandalizzavano di questo.

Questo dato biografico di Giuseppe e di Gesù mi fa pensare a tutti i lavoratori del mondo, in modo particolare a quelli che fanno lavori usuranti nelle miniere e in certe fabbriche; a coloro che sono sfruttati con il lavoro in nero; alle vittime del lavoro - abbiamo visto che in Italia ultimamente ce ne sono state parecchie -; ai bambini che sono costretti a lavorare e a quelli che frugano nelle discariche per cercare qualcosa di utile da barattare... Mi permetto di ripetere questo che ho detto: i lavoratori nascosti, i lavoratori che fanno lavori usuranti nelle miniere e in certe fabbriche: pensiamo a loro. A coloro che sono sfruttati con il lavoro in nero, a coloro che danno lo stipendio di contrabbando, di nascosto, senza la pensione, senza niente. E se non lavori, tu, non hai alcuna sicurezza. Il lavoro in nero oggi c’è, e tanto. Pensiamo alle vittime del lavoro, degli incidenti sul lavoro; ai bambini che sono costretti a lavorare: questo è terribile! I bambini nell’età del gioco devono giocare, invece sono costretti a lavorare come persone adulte. Pensiamo a quei bambini, poveretti, che frugano nelle discariche per cercare qualcosa di utile da barattare. Tutti questi sono fratelli e sorelle nostri, che si guadagnano la vita così, con lavori che non riconoscono la loro dignità! Pensiamo a questo. E questo succede oggi, nel mondo, questo oggi succede! Ma penso anche a chi è senza lavoro: quanta gente va a bussare alle porte delle fabbriche, delle imprese: “Ma, c’è qualcosa da fare?” – “No, non c’è, non c’è …”. La mancanza di lavoro! E penso anche a quanti si sentono feriti nella loro dignità perché non trovano questo lavoro. Tornano a casa: “Hai trovato qualcosa?” – “No, niente … sono passato dalla Caritas e porto il pane”. Quello che ti dà dignità non è portare il pane a casa. Tu puoi prenderlo dalla Caritas: no, questo non ti dà dignità. Quello che ti dà dignità è guadagnare il pane, e se noi non diamo alla nostra gente, ai nostri uomini e alle nostre donne, la capacità di guadagnare il pane, questa è un’ingiustizia sociale in quel posto, in quella nazione, in quel continente. I governanti devono dare a tutti la possibilità di guadagnare il pane, perché questo guadagno dà loro la dignità. Il lavoro è un’unzione di dignità, e questo è importante. Molti giovani, molti padri e molte madri vivono il dramma di non avere un lavoro che permetta loro di vivere serenamente, vivono alla giornata. E tante volte la ricerca di esso diventa così drammatica da portarli fino al punto di perdere ogni speranza e desiderio di vita. In questi tempi di pandemia tante persone hanno perso il lavoro – lo sappiamo – e alcuni, schiacciati da un peso insopportabile, sono arrivati al punto di togliersi la vita. Vorrei oggi ricordare ognuno di loro e le loro famiglie. Facciamo un istante di silenzio ricordando quegli uomini, quelle donne disperati perché non trovano lavoro.

Non si tiene abbastanza conto del fatto che il lavoro è una componente essenziale nella vita umana, e anche nel cammino di santificazione. Lavorare non solo serve per procurarsi il giusto sostentamento: è anche un luogo in cui esprimiamo noi stessi, ci sentiamo utili, e impariamo la grande lezione della concretezza, che aiuta la vita spirituale a non diventare spiritualismo. Purtroppo però il lavoro è spesso ostaggio dell’ingiustizia sociale e, più che essere un mezzo di umanizzazione, diventa una periferia esistenziale. Tante volte mi domando: con che spirito noi facciamo il nostro lavoro quotidiano? Come affrontiamo la fatica? Vediamo la nostra attività legata solo al nostro destino oppure anche al destino degli altri? Infatti, il lavoro è un modo di esprimere la nostra personalità, che è per sua natura relazionale. Il lavoro è anche un modo per esprimere la nostra creatività: ognuno fa il lavoro a suo modo, con il proprio stile; lo stesso lavoro ma con stile diverso.

È bello pensare che Gesù stesso abbia lavorato e che abbia appreso quest’arte proprio da San Giuseppe. Dobbiamo oggi domandarci che cosa possiamo fare per recuperare il valore del lavoro; e quale contributo, come Chiesa, possiamo dare affinché esso sia riscattato dalla logica del mero profitto e possa essere vissuto come diritto e dovere fondamentale della persona, che esprime e incrementa la sua dignità.

Cari fratelli e sorelle, per tutto questo oggi desidero recitare con voi la preghiera che San Paolo VI elevò a San Giuseppe il 1° maggio del 1969:

O San Giuseppe,
Patrono della Chiesa,
tu che, accanto al Verbo incarnato,
lavorasti ogni giorno per guadagnare il pane,
traendo da Lui la forza di vivere e di faticare;
tu che hai provato l’ansia del domani,
l’amarezza della povertà, la precarietà del lavoro:
tu che irradii oggi, l’esempio della tua figura,
umile davanti agli uomini
ma grandissima davanti a Dio,
proteggi i lavoratori nella loro dura esistenza quotidiana,
difendendoli dallo scoraggiamento,
dalla rivolta negatrice,
come dalle tentazioni dell’edonismo;
e custodisci la pace nel mondo,
quella pace che sola può garantire lo sviluppo dei popoli. Amen.

_________________________________________________

Saluti

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i membri dell’Istituto secolare Orionino. La figura di san Giuseppe, umile falegname di Nazareth, ci orienti verso Cristo, sostenga coloro che operano per il bene e interceda per quanti hanno perso il lavoro o non riescono a trovarlo.

Il mio pensiero va infine in modo speciale agli anziani, agli ammalati, ai giovani e agli sposi novelli. Domenica scorsa abbiamo celebrato la Festa del Battesimo del Signore, occasione propizia per ripensare al proprio Battesimo nella fede della Chiesa. Riscoprite la grazia che proviene dal Sacramento e sappiatela tradurre negli impegni quotidiani di vita.

A tutti la mia benedizione.



UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 19 gennaio 2022

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Catechesi su San Giuseppe: 8. San Giuseppe padre nella tenerezza

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi vorrei approfondire la figura di San Giuseppe come padre nella tenerezza.

Nella Lettera Apostolica Patris corde (8 dicembre 2020) ho avuto modo di riflettere su questo aspetto della tenerezza, un aspetto della personalità di San Giuseppe. Infatti, anche se i Vangeli non ci danno particolari su come egli abbia esercitato la sua paternità, però possiamo stare certi che il suo essere uomo “giusto” si sia tradotto anche nell’educazione data a Gesù. «Giuseppe vide crescere Gesù giorno dopo giorno “in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini” (Lc 2,52): così dice il Vangelo. Come il Signore fece con Israele, così egli “gli ha insegnato a camminare, tenendolo per mano: era per lui come il padre che solleva un bimbo alla sua guancia, si chinava su di lui per dargli da mangiare” (cfr Os 11,3-4)» (Patris corde, 2). È bella questa definizione della Bibbia che fa vedere il rapporto di Dio con il popolo di Israele. E lo stesso rapporto pensiamo che sia stato quello di San Giuseppe con Gesù.

I Vangeli attestano che Gesù ha usato sempre la parola “padre” per parlare di Dio e del suo amore. Molte parabole hanno come protagonista la figura di un padre. [1] Tra le più famose c’è sicuramente quella del Padre misericordioso, raccontata dall’evangelista Luca (cfr Lc 15,11-32). Proprio in questa parabola si sottolinea, oltre all’esperienza del peccato e del perdono, anche il modo in cui il perdono giunge alla persona che ha sbagliato. Il testo dice così: «Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò» (v. 20). Il figlio si aspettava una punizione, una giustizia che al massimo gli avrebbe potuto dare il posto di uno dei servi, ma si ritrova avvolto dall’abbraccio del padre. La tenerezza è qualcosa di più grande della logica del mondo. È un modo inaspettato di fare giustizia. Ecco perché non dobbiamo mai dimenticare che Dio non è spaventato dai nostri peccati: mettiamoci questo bene nella testa. Dio non si spaventa dei nostri peccati, è più grande dei nostri peccati: è padre, è amore, è tenero. Non è spaventato dai nostri peccati, dai nostri errori, dalle nostre cadute, ma è spaventato dalla chiusura del nostro cuore – questo sì, lo fa soffrire – è spaventato dalla nostra mancanza di fede nel suo amore. C’è una grande tenerezza nell’esperienza dell’amore di Dio. Ed è bello pensare che il primo a trasmettere a Gesù questa realtà sia stato proprio Giuseppe. Infatti le cose di Dio ci giungono sempre attraverso la mediazione di esperienze umane. Tempo fa – non so se l’ho già raccontato – un gruppo di giovani che fanno teatro, un gruppo di giovani pop, “avanti”, sono stati colpiti da questa parabola del padre misericordioso e hanno deciso di fare un’opera di teatro pop con questo argomento, con questa storia. E l’hanno fatta bene. E tutto l’argomento è, alla fine, che un amico ascolta il figlio che si era allontanato dal padre, che voleva tornare a casa ma aveva paura che il papà lo cacciasse e lo punisse. E l’amico gli dice, in quell’opera pop: “Manda un messaggero e di' che tu vuoi tornare a casa, e se il papà ti riceverà che metta un fazzoletto alla finestra, quella che tu vedrai appena prendi il cammino finale”. Così è stato fatto. E l’opera, con canti e balli, continua fino al momento che il figlio entra nella strada finale e si vede la casa. E quando alza gli occhi, vede la casa piena di fazzolettini bianchi: piena. Non uno, ma tre-quattro per ogni finestra. Così è la misericordia di Dio. Non si spaventa del nostro passato, delle nostre cose brutte: si spaventa soltanto della chiusura. Tutti noi abbiamo conti da risolvere; ma fare i conti con Dio è una cosa bellissima, perché noi incominciamo a parlare e Lui ci abbraccia. La tenerezza!

Allora possiamo domandarci se noi stessi abbiamo fatto esperienza di questa tenerezza, e se a nostra volta ne siamo diventati testimoni. Infatti la tenerezza non è prima di tutto una questione emotiva o sentimentale: è l’esperienza di sentirsi amati e accolti proprio nella nostra povertà e nella nostra miseria, e quindi trasformati dall’amore di Dio.

Dio non fa affidamento solo sui nostri talenti, ma anche sulla nostra debolezza redenta. Questo, ad esempio, fa dire a San Paolo che c’è un progetto anche sulla sua fragilità. Così infatti scrive alla comunità di Corinto: «Affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi […]. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”» (2 Cor 12,7-9). Il Signore non ci toglie tutte le debolezze, ma ci aiuta a camminare con le debolezze, prendendoci per mano. Prende per mano le nostre debolezze e si pone vicino a noi. E questo è tenerezza. L’esperienza della tenerezza consiste nel vedere la potenza di Dio passare proprio attraverso ciò che ci rende più fragili; a patto però di convertirci dallo sguardo del Maligno che «ci fa guardare con giudizio negativo la nostra fragilità», mentre lo Spirito Santo «la porta alla luce con tenerezza» (Patris corde, 2). «È la tenerezza la maniera migliore per toccare ciò che è fragile in noi. […] Guardate come le infermiere, gli infermieri toccano le ferite degli ammalati: con tenerezza, per non ferirli di più. E così il Signore tocca le nostre ferite, con la stessa tenerezza. Per questo è importante incontrare la Misericordia di Dio, specie nel Sacramento della Riconciliazione, nella preghiera personale con Dio, facendo un’esperienza di verità e tenerezza. Paradossalmente anche il Maligno può dirci la verità: lui è bugiardo, ma si arrangia per dirci la verità per portarci alla bugia; ma, se lo fa, è per condannarci. Invece il Signore ci dice la verità e ci tende la mano per salvarci. Noi sappiamo però che la Verità che viene da Dio non ci condanna, ma ci accoglie, ci abbraccia, ci sostiene, ci perdona» (Patris corde, 2). Dio perdona sempre: mettetevelo, questo, nella testa e nel cuore. Dio perdona sempre. Siamo noi che ci stanchiamo di chiedere perdono. Ma lui perdona sempre, anche le cose più brutte.

Ci fa bene allora specchiarci nella paternità di Giuseppe che è uno specchio della paternità di Dio, e domandarci se permettiamo al Signore di amarci con la sua tenerezza, trasformando ognuno di noi in uomini e donne capaci di amare così. Senza questa “rivoluzione della tenerezza” – ci vuole, una rivoluzione della tenerezza! – rischiamo di rimanere imprigionati in una giustizia che non permette di rialzarsi facilmente e che confonde la redenzione con la punizione. Per questo, oggi voglio ricordare in modo particolare i nostri fratelli e le nostre sorelle che sono in carcere. È giusto che chi ha sbagliato paghi per il proprio errore, ma è altrettanto giusto che chi ha sbagliato possa redimersi dal proprio errore. Non possono esserci condanne senza finestre di speranza. Qualsiasi condanna ha sempre una finestra di speranza. Pensiamo ai nostri fratelli e alle nostre sorelle carcerati, e pensiamo alla tenerezza di Dio per loro e preghiamo per loro, perché trovino in quella finestra di speranza una via di uscita verso una vita migliore.

E concludiamo con questa preghiera:

San Giuseppe, padre nella tenerezza,
insegnaci ad accettare di essere amati proprio in ciò che in noi è più debole.
Fa’ che non mettiamo nessun impedimento
tra la nostra povertà e la grandezza dell’amore di Dio.
Suscita in noi il desiderio di accostarci al Sacramento della Riconciliazione,
per essere perdonati e anche resi capaci di amare con tenerezza
i nostri fratelli e le nostre sorelle nella loro povertà.
Sii vicino a coloro che hanno sbagliato e per questo ne pagano il prezzo;
aiutali a trovare, insieme alla giustizia, anche la tenerezza per poter ricominciare.
E insegna loro che il primo modo di ricominciare
è domandare sinceramente perdono, per sentire la carezza del Padre. 

_______________________________

[1] Cfr Mt 15,13; 21,28-30; 22,2; Lc 15,11-32; Gv 5,19-23; 6,32-40; 14,2; 15,1.8.

_________________________________________________

Saluti

Il mio pensiero va alle popolazioni delle Isole di Tonga, colpite nei giorni scorsi dall’eruzione del vulcano sottomarino che ha causato ingenti danni materiali. Sono spiritualmente vicino a tutte le persone provate, implorando da Dio sollievo per la loro sofferenza. Invito tutti a unirsi a me nella preghiera per questi fratelli e sorelle.

* * *

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto le partecipanti al Capitolo Generale delle Figlie dei Sacri Cuori di Gesù e Maria (Istituto Ravasco), le suore della Madre di Dio, venute dalla Romania, gli allievi della scuola Ispettori e Sovrintendenti della Guardia di Finanza dell’Aquila, e i membri della Fondazione “Davida” di Leinì (Torino). Tutti vi esorto ad essere, sull’esempio di San Giuseppe, testimoni della tenerezza e della misericordia del Signore.

Saluto poi i lavoratori della Compagnia aerea AirItaly, ed auspico che la loro situazione lavorativa possa trovare una positiva soluzione, nel rispetto dei diritti di tutti, specialmente delle famiglie.

Il mio pensiero va infine, in modo speciale, agli anziani, ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. La Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, che è iniziata ieri, ci invita a chiedere al Signore con insistenza il dono della piena comunione tra i credenti.

A tutti la mia benedizione.



[Modificato da Caterina63 19/01/2022 17:31]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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31/01/2022 17:53
 
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UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 26 gennaio 2022

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Catechesi su San Giuseppe: 9. San Giuseppe, uomo che “sogna” 

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi vorrei soffermarmi sulla figura di San Giuseppe come uomo che sogna. Nella Bibbia, come nelle culture dei popoli antichi, i sogni erano considerati un mezzo attraverso cui Dio si rivelava. [1] Il sogno simboleggia la vita spirituale di ciascuno di noi, quello spazio interiore, che ognuno è chiamato a coltivare e a custodire, dove Dio si manifesta e spesso ci parla. Ma dobbiamo anche dire che dentro ognuno di noi non c’è solo la voce di Dio: ci sono tante altre voci. Ad esempio, le voci delle nostre paure, le voci delle esperienze passate, le voci delle speranze; e c’è pure la voce del maligno che vuole ingannarci e confonderci. È importante quindi riuscire a riconoscere la voce di Dio in mezzo alle altre voci. Giuseppe dimostra di saper coltivare il silenzio necessario e, soprattutto, prendere le giuste decisioni davanti alla Parola che il Signore gli rivolge interiormente. Ci farà bene oggi riprendere i quattro sogni riportati nel Vangelo e che hanno lui come protagonista, per capire come porci davanti alla rivelazione di Dio. Il Vangelo ci racconta quattro sogni di Giuseppe.

Nel primo sogno (cfr Mt 1,18-25), l’angelo aiuta Giuseppe a risolvere il dramma che lo assale quando viene a conoscenza della gravidanza di Maria: «Non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti, il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (vv. 20-21). E la sua risposta fu immediata: «Quando si destò dal sonno, fece come gli aveva ordinato l’angelo» (v. 24). Molte volte la vita ci mette davanti a situazioni che non comprendiamo e sembrano senza soluzione. Pregare, in quei momenti, significa lasciare che il Signore ci indichi la cosa giusta da fare. Infatti, molto spesso è la preghiera che fa nascere in noi l’intuizione della via d’uscita, come risolvere quella situazione. Cari fratelli e sorelle, il Signore non permette mai un problema senza darci anche l’aiuto necessario per affrontarlo. Non ci butta lì nel forno da soli. Non ci butta fra le bestie. No. Il Signore quando ci fa vedere un problema o svela un problema, ci dà sempre l’intuizione, l’aiuto, la sua presenza, per uscirne, per risolverlo.

E il secondo sogno rivelatore di Giuseppe arriva quando la vita del bambino Gesù è in pericolo. Il messaggio è chiaro: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo» (Mt 2,13). Giuseppe, senza esitazione, obbedisce: «Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode» (vv. 14-15). Nella vita tutti noi facciamo esperienza di pericoli che minacciano la nostra esistenza o quella di chi amiamo. In queste situazioni, pregare vuol dire ascoltare la voce che può far nascere in noi lo stesso coraggio di Giuseppe, per affrontare le difficoltà senza soccombere.

In Egitto, Giuseppe attende da Dio il segno per poter tornare a casa; ed è proprio questo il contenuto del terzo sogno. L’angelo gli rivela che sono morti quelli che volevano uccidere il bambino e gli ordina di partire con Maria e Gesù e ritornare in patria (cfr Mt 2,19-20). Giuseppe «si alzò, prese il bambino e sua madre ed entrò nella terra d’Israele» (v. 21). Ma proprio durante il viaggio di ritorno, «quando venne a sapere che nella Giudea regnava Archelao al posto di suo padre Erode, ebbe paura di andarvi» (v. 22). Ecco allora la quarta rivelazione: «Avvertito in sogno, si ritirò nella regione della Galilea e andò ad abitare in una città chiamata Nazaret» (vv. 22-23). Anche la paura fa parte della vita e anch’essa ha bisogno della nostra preghiera. Dio non ci promette che non avremo mai paura, ma che, con il suo aiuto, essa non sarà il criterio delle nostre decisioni. Giuseppe prova la paura, ma Dio lo guida attraverso di essa. La potenza della preghiera fa entrare la luce nelle situazioni di buio.

Penso in questo momento a tante persone che sono schiacciate dal peso della vita e non riescono più né a sperare né a pregare. San Giuseppe possa aiutarle ad aprirsi al dialogo con Dio, per ritrovare luce, forza e pace. E penso anche ai genitori davanti ai problemi dei figli. Figli con tante malattie, i figli ammalati, anche con malattie permanenti: quanto dolore lì. Genitori che vedono orientamenti sessuali diversi nei figli; come gestire questo e accompagnare i figli e non nascondersi in un atteggiamento condannatorio. Genitori che vedono i figli che se ne vanno, muoiono, per una malattia e anche – è più triste, lo leggiamo tutti i giorni sui giornali – ragazzi che fanno delle ragazzate e finiscono in incidente con la macchina. I genitori che vedono i figli che non vanno avanti nella scuola e non sanno come fare… Tanti problemi dei genitori. Pensiamo a come aiutarli. E a questi genitori dico: non spaventatevi. Sì, c’è dolore. Tanto. Ma pensate come ha risolto i problemi Giuseppe e chiedete a Giuseppe che vi aiuti. Mai condannare un figlio. A me fa tanta tenerezza – me lo faceva a Buenos Aires – quando andavo nel bus e passavo davanti al carcere: c’era la coda delle persone che dovevano entrare per visitare i carcerati. E c’erano le mamme, lì che mi facevano tanta tenerezza: davanti al problema di un figlio che ha sbagliato, è carcerato, non lo lasciavano solo, ci mettevano la faccia e lo accompagnavano. Questo coraggio; coraggio di papà e di mamma che accompagnano i figli sempre, sempre. Chiediamo al Signore di dare a tutti i papà e a tutte le mamme questo coraggio che ha dato a Giuseppe. E poi pregare perché il Signore ci aiuti in questi momenti.

La preghiera però non è mai un gesto astratto o intimistico, come vogliono fare questi movimenti spiritualisti più gnostici che cristiani. No, non è quello. La preghiera è sempre indissolubilmente legata alla carità. Solo quando uniamo alla preghiera l’amore, l’amore per i figli per il caso che ho detto adesso o l’amore per il prossimo riusciamo a comprendere i messaggi del Signore. Giuseppe pregava, lavorava e amava - tre cose belle per i genitori: pregare, lavorare e amare - e per questo ha ricevuto sempre il necessario per affrontare le prove della vita. Affidiamoci a lui e alla sua intercessione.

San Giuseppe, tu sei l’uomo che sogna,
insegnaci a recuperare la vita spirituale
come il luogo interiore in cui Dio si manifesta e ci salva.
Togli da noi il pensiero mai che pregare sia inutile;
aiuta ognuno di noi a corrispondere a ciò che il Signore ci indica.
Che i nostri ragionamenti siano irradiati dalla luce dello Spirito,
il nostro cuore incoraggiato dalla Sua forza
e le nostre paure salvate dalla Sua misericordia. Amen.

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[1] Cfr Gen 20,3; 28,12; 31,11.24; 40,8; 41,1-32; Nm 12,6; 1 Sam 3,3-10; Dn 2; 4; Gb 33,15.

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Saluti

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i Vigili del fuoco di Potenza e i rappresentanti della Lega Nazionale di Calcio Serie B.

Il mio pensiero va infine – come di solito - agli anziani, agli ammalati, ai giovani e agli sposi novelli. Oggi la liturgia fa memoria dei Santi Timoteo e Tito che, formati alla scuola dell'apostolo Paolo, annunciarono il Vangelo con instancabile ardore. Il loro esempio vi incoraggi a vivere in modo coerente la vocazione cristiana, trovando nel Signore la forza per affrontare le difficoltà dell’esistenza.

E mi permetto di spiegarvi che oggi non potrò venire fra voi per salutarvi, perché ho un problema alla gamba destra; si è un infiammato un legamento del ginocchio. Ma scenderò e vi saluterò lì e voi passate per salutarmi. È una cosa passeggera. Dicono che questo viene solo ai vecchi, e non so perché è arrivato a me…

A tutti sempre la mia benedizione.

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Prima del Padre Nostro

E ora, con il Padre Nostro, vi invito a pregare per la pace in Ucraina, e a farlo spesso nel corso di questa giornata: chiediamo con insistenza al Signore che quella terra possa veder fiorire la fraternità e superare ferite, paure e divisioni. Abbiamo parlato dell’olocausto. Ma pensate che [anche in Ucraina] milioni di persone sono state annientate [1932-1933]. È un popolo sofferente; ha sofferto la fame, ha sofferto tante crudeltà e merita la pace. Le preghiere e le invocazioni che oggi si levano fino al cielo tocchino le menti e i cuori dei responsabili in terra, perché facciano prevalere il dialogo e il bene di tutti sia anteposto agli interessi di parte. Per favore, mai la guerra.

Preghiamo per la pace con il Padre Nostro: è la preghiera dei figli che si rivolgono allo stesso Padre, è la preghiera che ci fa fratelli, è la preghiera dei fratelli che implorano riconciliazione e concordia.




UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 2 febbraio 2022

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Catechesi su San Giuseppe: 10. San Giuseppe e la comunione dei santi

Cari fratelle e sorelle, buongiorno!

In queste settimane abbiamo potuto approfondire la figura di San Giuseppe lasciandoci guidare dalle poche ma importanti notizie che danno i Vangeli, e anche dagli aspetti della sua personalità che la Chiesa lungo i secoli ha potuto evidenziare attraverso la preghiera e la devozione. A partire proprio da questo “sentire comune” che nella storia della Chiesa ha accompagnato la figura di San Giuseppe, oggi vorrei soffermarmi su un importante articolo di fede che può arricchire la nostra vita cristiana e può anche impostare nel migliore dei modi la nostra relazione con i santi e con i nostri cari defunti: parlo della comunione dei santi. Tante volte noi diciamo, nel Credo, “credo la comunione dei santi”. Ma se si domanda cosa è la comunione dei santi, io ricordo che da bambino rispondevo subito: “Ah, i santi fanno la comunione”. E’ una cosa che … non capiamo cosa diciamo. Cosa è la comunione dei santi? Non è che i Santi facciano la comunione, non è questo: è un’altra cosa.

A volte anche il cristianesimo può cadere in forme di devozione che sembrano riflettere una mentalità più pagana che cristiana. La differenza fondamentale sta nel fatto che la nostra preghiera e la nostra devozione del popolo fedele non si basa, in quei casi, sulla fiducia in un essere umano, o in un’immagine o in un oggetto, anche quando sappiamo che essi sono sacri. Ci ricorda il profeta Geremia: «Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, […] benedetto l’uomo che confida nel Signore» (17,5-7). Persino quando ci affidiamo pienamente all’intercessione di un santo, o ancora di più della Vergine Maria, la nostra fiducia ha valore soltanto in rapporto a Cristo. Come se la strada verso questo santo o la Madonna non finisce lì: no. Va lì, ma in rapporto a Cristo. Cristo è il legame che ci unisce a Lui e tra di noi che ha un nome specifico: questo legame che ci unisce tutti, fra noi e noi con Cristo, è la “comunione dei santi”. Non sono i santi a operare i miracoli, no! “Questo santo è tanto miracoloso …”: no, fermati: i santi non operano miracoli, ma soltanto la grazia di Dio che agisce attraverso di loro. I miracoli sono stati fatti da Dio, dalla grazia di Dio che agisce tramite una persona santa, una persona giusta. Questo bisogna averlo chiaro. C’è gente che dice: “Io non credo a Dio, ma credo a questo santo”. No, è sbagliato. Il santo è un intercessore, uno che prega per noi e noi lo preghiamo, e prega per noi e il Signore ci dà la grazia: il Signore agisce tramite il Santo.

Che cos’è, dunque, la “comunione dei santi”? Il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma: «La comunione dei santi è precisamente la Chiesa» (n. 946). Ma guarda che bella definizione! “La comunione dei santi è precisamente la Chiesa”. Che cosa significa questo? Che la Chiesa è riservata ai perfetti? No. Significa che è la comunità dei peccatori salvati. La Chiesa è la comunità dei peccatori salvati. È bella, questa definizione. Nessuno può escludersi dalla Chiesa, tutti siamo peccatori salvati. La nostra santità è il frutto dell’amore di Dio che si è manifestato in Cristo, il quale ci santifica amandoci nella nostra miseria e salvandoci da essa. Sempre grazie a Lui noi formiamo un solo corpo, dice San Paolo, in cui Gesù è il capo e noi le membra (cfr 1 Cor 12,12). Questa immagine del corpo di Cristo e l’immagine del corpo ci fa capire subito che cosa significa essere legati gli uni agli altri in comunione. «Se un membro soffre – scrive San Paolo – tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui. Ora voi siete corpo di Cristo e, ognuno secondo la propria parte, sue membra» (1 Cor 12,26-27). Questo dice Paolo: siamo tutti un corpo, tutti uniti per la fede, per il battesimo, tutti in comunione: uniti in comunione con Gesù Cristo. E questa è la comunione dei santi.

Cari fratelli e care sorelle, la gioia e il dolore che toccano la mia vita riguarda tutti, così come la gioia e il dolore che toccano la vita del fratello e della sorella accanto a noi riguardano anche me. Io non posso essere indifferente agli altri, perché siamo tutti parte di un corpo, in comunione. In questo senso, anche il peccato di una singola persona riguarda sempre tutti, e l’amore di ogni singola persona riguarda tutti. In virtù della comunione dei santi, di questa unione, ogni membro della Chiesa è legato a me in maniera profonda - ma non dico a me perché sono il Papa - siamo legati reciprocamente e in maniera profonda, e questo legame è talmente forte che non può essere rotto neppure dalla morte. Infatti, la comunione dei santi non riguarda solo i fratelli e le sorelle che sono accanto a me in questo momento storico, ma riguarda anche quelli che hanno concluso il pellegrinaggio terreno e hanno varcato la soglia della morte. Anche loro sono in comunione con noi. Pensiamo, cari fratelli e sorelle: in Cristo nessuno può mai veramente separarci da coloro che amiamo perché il legame è un legame esistenziale, un legame forte che è nella nostra stessa natura; cambia solo il modo di essere insieme a ognuno di loro, ma niente e nessuno può rompere questo legame. “Padre, pensiamo a coloro che hanno rinnegato la fede, che sono degli apostati, che sono i persecutori della Chiesa, che hanno rinnegato il loro battesimo: anche questi sono a casa?”. Sì, anche questi, anche i bestemmiatori, tutti. Siamo fratelli: questa è la comunione dei santi. La comunione dei santi tiene insieme la comunità dei credenti sulla terra e nel Cielo.

In questo senso, la relazione di amicizia che posso costruire con un fratello o una sorella accanto a me, posso stabilirla anche con un fratello o una sorella che sono in Cielo. I santi sono amici con cui molto spesso intessiamo rapporti di amicizia. Ciò che noi chiamiamo devozione a un santo – io sono molto devoto a questo santo, a questa santa – questa che noi chiamiamo devozione è in realtà un modo di esprimere l’amore a partire proprio da questo legame che ci unisce. Anche, nella vita di tutti i giorni si può dire: “Ma, questa persona ha tanta devozione per i suoi vecchi genitori”: no, è un modo di amore, un’espressione di amore. E tutti noi sappiamo che a un amico possiamo rivolgerci sempre, soprattutto quando siamo in difficoltà e abbiamo bisogno di aiuto. E noi abbiamo degli amici in cielo. Tutti abbiamo bisogno di amici; tutti abbiamo bisogno di relazioni significative che ci aiutino ad affrontare la vita. Anche Gesù aveva i suoi amici, e ad essi si è rivolto nei momenti più decisivi della sua esperienza umana. Nella storia della Chiesa ci sono delle costanti che accompagnano la comunità credente: anzitutto il grande affetto e il legame fortissimo che la Chiesa ha sempre sentito nei confronti di Maria, Madre di Dio e Madre nostra. Ma anche lo speciale onore e affetto che ha tributato a San Giuseppe. In fondo, Dio affida a lui le cose più preziose che ha: suo Figlio Gesù e la Vergine Maria. È sempre grazie alla comunione dei santi che sentiamo vicini a noi i Santi e le Sante che sono nostri patroni, per il nome che portiamo, per esempio, per la Chiesa a cui apparteniamo, per il luogo dove abitiamo, e così via, anche per una devozione personale. Ed è questa la fiducia che deve sempre animarci nel rivolgerci a loro nei momenti decisivi della nostra vita. Non è una cosa magica, non è una superstizione, la devozione ai santi; è semplicemente parlare con un fratello, una sorella che è davanti a Dio, che ha percorso una vita giusta, una vita santa, una vita esemplare, e adesso è davanti a Dio. E io parlo con questo fratello, con questa sorella e chiedo la sua intercessione per i miei bisogni.

Proprio per questo mi piace concludere questa catechesi con una preghiera a San Giuseppe alla quale sono particolarmente legato e che recito ogni giorno da più di 40 anni. E’ una preghiera che ho trovato in un libro di preghiere delle Suore di Gesù e Maria, del 1700, fine del Settecento. È molto bella, ma più che una preghiera è una sfida a questo amico, a questo padre, a questo custode nostro che è San Giuseppe. Sarebbe bello che voi imparaste questa preghiera e possiate ripeterla. La leggerò: “Glorioso Patriarca San Giuseppe, il cui potere sa rendere possibili le cose impossibili, vieni in mio aiuto in questi momenti di angoscia e difficoltà. Prendi sotto la tua protezione le situazioni tanto gravi e difficili che ti affido, affinché abbiano una felice soluzione. Mio amato Padre, tutta la mia fiducia è riposta in te. Che non si dica che ti abbia invocato invano, e poiché tu puoi tutto presso Gesù e Maria, mostrami che la tua bontà è grande quanto il tuo potere”. E finisce con una sfida, questo è sfidare San Giuseppe: “Poiché tu puoi tutto presso Gesù e Maria, mostrami che la tua bontà è grande quanto il tuo potere”. Io mi affido tutti i giorni a San Giuseppe, con questa preghiera, da più di 40 anni: è una vecchia preghiera.

Avanti, coraggio, in questa comunione di tutti i santi che abbiamo in cielo e in terra: il Signore non ci abbandona.

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Conclusa la Catechesi il Santo Padre ha pronunciato queste parole:

Abbiamo sentito, alcuni minuti fa, una persona che gridava, gridava, che aveva qualche problema, non so se fisico, psichico, spirituale: ma è un fratello nostro in problema. Io vorrei finire pregando per lui, il nostro fratello che soffre, poveretto: se gridava è perché soffre, ha qualche bisogno. Non dobbiamo essere sordi al bisogno di questo fratello. Preghiamo insieme la Madonna per lui: Ave o Maria, …

Saluti

APPELLI

Da un anno a questa parte, ormai, assistiamo con dolore alle violenze che insanguinano il Myanmar. Faccio mio l’appello dei Vescovi birmani affinché la Comunità Internazionale si adoperi per la riconciliazione tra le parti interessate. Non possiamo voltare lo sguardo da un’altra parte, di fronte alle sofferenze di tanti fratelle e sorelle. Chiediamo a Dio, nella preghiera, la consolazione per quella popolazione martoriata; a Lui affidiamo gli sforzi di pace.

* * *

Dopodomani, 4 febbraio, si celebrerà la Seconda Giornata Internazionale della Fratellanza Umana. È motivo di soddisfazione che le Nazioni del mondo intero si uniscano in questa celebrazione, volta a promuovere il dialogo interreligioso e interculturale, come auspicato anche nel Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, firmato il 4 febbraio del 2019 ad Abu Dhabi del Grande Imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyib e da me. Fratellanza vuol dire tendere la mano agli altri, rispettarli e ascoltarli con cuore aperto. Auspico che si compiano passi concreti, insieme ai credenti di altre religioni e alle persone di buona volontà, per affermare che oggi è tempo di fraternità, evitando di alimentare scontri, divisioni e chiusure. Preghiamo e impegniamoci ogni giorno affinché tutti possiamo vivere in pace da fratelli e sorelle.

* * *

Stanno per aprirsi a Pechino i Giochi Olimpici e Paralimpici Invernali, rispettivamente il 4 febbraio e il 4 marzo prossimi. Rivolgo di cuore il mio saluto a tutti i partecipanti; auguro agli organizzatori il miglior successo e agli atleti di dare il meglio di sé. Lo sport, con il suo linguaggio universale, può costruire ponti di amicizia e di solidarietà tra persone e popoli di ogni cultura e religione. Ho apprezzato, pertanto, che allo storico motto olimpico Citius, Altius, Fortius – Più veloce, più in alto, più forte – il Comitato Olimpico Internazionale abbia aggiunto la parola Communiter, cioè Insieme, perché i Giochi Olimpici facciano crescere un mondo più fraterno.

Con un particolare pensiero abbraccio tutto il mondo paralimpico. La medaglia più importante la vinceremo insieme se l’esempio delle atlete e degli atleti con disabilità aiuterà tutti a superare pregiudizi e timori e a far diventare le nostre comunità più accoglienti e inclusive. Questa è la vera medaglia d’oro! Inoltre, seguo con attenzione ed emozione le storie personali di atlete e atleti rifugiati. Le loro testimonianze contribuiscano a incoraggiare le società civili ad aprirsi con sempre maggiore fiducia a tutti, senza lasciare nessuno indietro. Alla grande famiglia olimpica e paralimpica auguro di vivere un’esperienza unica di fratellanza umana e di pace. Beati gli operatori di pace! (Mt 5,9)

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Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i sacerdoti che partecipano al corso promosso dall’Università della Santa Croce, il Gruppo “Amici di Spello” e il Coro “Tau” delle Suore Francescane Missionarie dei Poveri.

Il mio pensiero va infine, come di consueto, agli anziani, agli ammalati, ai giovani e agli sposi novelli. Oggi celebriamo la festa della presentazione del Signore al tempio di Gerusalemme. Da questo mistero emerge un messaggio per tutti: Cristo si propone come esempio nell’offerta al Padre, indicando con quale generosità occorra aderire alla volontà di Dio e al servizio ai fratelli. Oggi è anche la festa dell’Incontro, dell’incontro di Gesù con il suo popolo, e anche specialmente dell’incontro di Gesù bambino con i vecchi. Mi raccomando, andiamo avanti sviluppando questo atteggiamento di incontro fra i bambini e i nonni, i giovani con i vecchi: questo atteggiamento è una risorsa dell’umanità. I vecchi ci danno la forza per andare avanti, la loro memoria, la loro storia; e i giovani la portano avanti. Lavoriamo anche noi per questo incontro dei nipoti con i nonni, dei giovani con i vecchi.

A tutti, la mia benedizione!


UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 9 febbraio 2022

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Catechesi su San Giuseppe: 11. San Giuseppe patrono della buona morte

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nella scorsa catechesi, stimolati ancora una volta dalla figura di San Giuseppe, abbiamo riflettuto sul significato della comunione dei santi. E proprio a partire da questa, oggi vorrei approfondire la speciale devozione che il popolo cristiano ha sempre avuto per San Giuseppe come patrono della buona morte. Una devozione nata dal pensiero che Giuseppe sia morto con l’assistenza della Vergine Maria e di Gesù, prima che questi lasciasse la casa di Nazaret. Non ci sono dati storici, ma siccome non si vede più Giuseppe nella vita pubblica, si pensa che sia morto lì a Nazaret, con la famiglia. E ad accompagnarlo alla morte erano Gesù e Maria.

Il Papa Benedetto XV, un secolo fa, scriveva che «attraverso Giuseppe noi andiamo direttamente a Maria, e, attraverso Maria, all’origine di ogni santità, che è Gesù». Sia Giuseppe sia Maria ci aiutano ad andare a Gesù. E incoraggiando le pie pratiche in onore di San Giuseppe, ne raccomandava in particolare una, e diceva così: «Poiché Egli è meritamente ritenuto come il più efficace protettore dei moribondi, essendo spirato con l’assistenza di Gesù e di Maria, sarà cura dei sacri Pastori di inculcare e favorire […] quei pii sodalizi che sono stati istituiti per supplicare Giuseppe a favore dei moribondi, come quelli “della Buona Morte”, del “Transito di San Giuseppe” e “per gli Agonizzanti”» (Motu proprio Bonum sane, 25 luglio 1920): erano le associazioni del tempo.

Cari fratelli e sorelle, forse qualcuno pensa che questo linguaggio e questo tema siano solo un retaggio del passato, ma in realtà il nostro rapporto con la morte non riguarda mai il passato, è sempre presente. Papa Benedetto diceva, alcuni giorni fa, parlando di sé stesso che “è davanti alla porta oscura della morte”. E’ bello ringraziare il Papa Benedetto che a 95 anni ha la lucidità di dirci questo: “Io sono davanti all’oscurità della morte, alla porta oscura della morte”. Un bel consiglio che ci ha dato! La cosiddetta cultura del “benessere” cerca di rimuovere la realtà della morte, ma in maniera drammatica la pandemia del coronavirus l’ha rimessa in evidenza. È stato terribile: la morte era dappertutto, e tanti fratelli e sorelle hanno perduto persone care senza poter stare vicino a loro, e questo ha reso la morte ancora più dura da accettare e da elaborare. Mi diceva una infermiera che una nonna con il covid stava morendo e le disse: “Io vorrei salutare i miei, prima di andarmene”. E l’infermiera, coraggiosa, ha preso il telefonino e l’ha collegata. La tenerezza di quel congedo…

Nonostante ciò, si cerca in tutti i modi di allontanare il pensiero della nostra finitudine, illudendosi così di togliere alla morte il suo potere e scacciare il timore. Ma la fede cristiana non è un modo per esorcizzare la paura della morte, piuttosto ci aiuta ad affrontarla. Prima o poi, tutti noi andremo per quella porta.

La vera luce che illumina il mistero della morte viene dalla risurrezione di Cristo. Ecco la luce. E scrive San Paolo: Ora, se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste risurrezione dei morti? Se non esiste risurrezione dai morti, neanche Cristo è risuscitato! Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede» (1 Cor 15,12-14). C’è una certezza: Cristo è resuscitato, Cristo è risorto, Cristo è vivo tra noi. E questa è la luce che ci aspetta dietro quella porta oscura della morte.

Cari fratelli e sorelle, solo dalla fede nella risurrezione noi possiamo affacciarci sull’abisso della morte senza essere sopraffatti dalla paura. Non solo: possiamo riconsegnare alla morte un ruolo positivo. Infatti, pensare alla morte, illuminata dal mistero di Cristo, aiuta a guardare con occhi nuovi tutta la vita. Non ho mai visto, dietro un carro funebre, un camion di traslochi! Dietro a un carro funebre: non l’ho visto mai. Ci andremo soli, senza niente nelle tasche del sudario: niente. Perché il sudario non ha tasche. Questa solitudine della morte: è vero, non ho mai visto dieto un carro funebre un camion di traslochi. Non ha senso accumulare se un giorno moriremo. Ciò che dobbiamo accumulare è la carità, è la capacità di condividere, la capacità di non restare indifferenti davanti ai bisogni degli altri. Oppure, che senso ha litigare con un fratello o con una sorella, con un amico, con un familiare, o con un fratello o una sorella nella fede se poi un giorno moriremo? A che serve arrabbiarsi, arrabbiarsi con gli altri? Davanti alla morte tante questioni si ridimensionano. È bene morire riconciliati, senza lasciare rancori e senza rimpianti! Io vorrei dire una verità: tutti noi siamo in cammino verso quella porta, tutti.

Il Vangelo ci dice che la morte arriva come un ladro, così dice Gesù: arriva come un ladro, e per quanto noi tentiamo di voler tenere sotto controllo il suo arrivo, magari programmando la nostra stessa morte, essa rimane un evento con cui dobbiamo fare i conti e davanti a cui fare anche delle scelte.

Due considerazioni per noi cristiani rimangono in piedi. La prima: non possiamo evitare la morte, e proprio per questo, dopo aver fatto tutto quanto è umanamente possibile per curare la persona malata, risulta immorale l’accanimento terapeutico (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2278). Quella frase del popolo fedele di Dio, della gente semplice: “Lascialo morire in pace”, “aiutalo a morire in pace”: quanta saggezza! La seconda considerazione riguarda invece la qualità della morte stessa, la qualità del dolore, della sofferenza. Infatti, dobbiamo essere grati per tutto l’aiuto che la medicina si sta sforzando di dare, affinché attraverso le cosiddette “cure palliative”, ogni persona che si appresta a vivere l’ultimo tratto di strada della propria vita, possa farlo nella maniera più umana possibile. Dobbiamo però stare attenti a non confondere questo aiuto con derive anch’esse inaccettabili che portano a uccidere. Dobbiamo accompagnare alla morte, ma non provocare la morte o aiutare qualsiasi forma di suicidio. Ricordo che va sempre privilegiato il diritto alla cura e alla cura per tutti, affinché i più deboli, in particolare gli anziani e i malati, non siano mai scartati. La vita è un diritto, non la morte, la quale va accolta, non somministrata. E questo principio etico riguarda tutti, non solo i cristiani o i credenti. Ma io vorrei sottolineare qui un problema sociale, ma reale. Quel “pianificare” – non so se sia la parola giusta – ma accelerare la morte degli anziani. Tante volte si vede in un certo ceto sociale che agli anziani, perché non hanno i mezzi, si danno meno medicine rispetto a quelle di cui avrebbero bisogno, e questo è disumano: questo non è aiutarli, questo è spingerli più presto verso la morte. E questo non è umano né cristiano. Gli anziani vanno curati come un tesoro dell’umanità: sono la nostra saggezza. Anche se non parlano, e se sono senza senso, sono tuttavia il simbolo della saggezza umana. Sono coloro che hanno fatto la strada prima di noi e ci hanno lasciato tante cose belle, tanti ricordi, tanta saggezza. Per favore, non isolare gli anziani, non accelerare la morte degli anziani. Accarezzare un anziano ha la stessa speranza che accarezzare un bambino, perché l’inizio della vita e la fine è un mistero sempre, un mistero che va rispettato, accompagnato, curato, amato.

Possa San Giuseppe aiutarci a vivere il mistero della morte nel miglior modo possibile. Per un cristiano la buona morte è un’esperienza della misericordia di Dio, che si fa vicina a noi anche in quell’ultimo momento della nostra vita. Anche nella preghiera dell’Ave Maria, noi preghiamo chiedendo alla Madonna di esserci vicini “nell’ora della nostra morte”. Proprio per questo vorrei concludere questa catechesi pregando tutti insieme la Madonna per gli agonizzanti, per coloro che stanno vivendo questo momento di passaggio per questa porta oscura, e per i familiari che stanno vivendo il lutto. Preghiamo insieme:

Ave Maria…

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Saluti

Pozdrawiam serdecznie wszystkich Polaków. Zachęcam Was do ofiarowania Waszych modlitw za wstawiennictwem św. Józefa, wypraszając, by chorzy odzyskali zdrowie, zagubieni doznali nawrócenia i pokoju, a wszyscy wierni w godzinę przejścia do Domu Ojca otrzymali łaskę dobrej śmierci. Z serca Wam błogosławię!

[Saluto cordialmente tutti i Polacchi. Vi invito a offrire le vostre preghiere per intercessione di San Giuseppe, chiedendo che i malati riacquistino la salute, gli smarriti sperimentino la conversione e la pace e che tutti i fedeli, nell’ora del passaggio alla Casa del Padre, ricevano la grazia della buona morte. Vi benedico di cuore!]

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APPELLI

Desidero ringraziare tutte le persone e le comunità che il 26 gennaio scorso si sono unite nella preghiera per la pace in Ucraina. Continuiamo a supplicare il Dio della pace, perché le tensioni e le minacce di guerra siano superate attraverso un dialogo serio, e affinché a questo scopo possano contribuire anche i colloqui nel “Formato Normandia”. Non dimentichiamo: la guerra è una pazzia!


Dopo domani, 11 febbraio, si celebra la Giornata Mondiale del Malato. Desidero ricordare i nostri cari malati perché a tutti siano assicurate le cure sanitarie e l’accompagnamento spirituale. Preghiamo per questi nostri fratelli e sorelle, per i loro familiari, per gli operatori sanitari e pastorali, e per tutti coloro che se ne prendono cura.

* * *

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto la Comunità del Seminario Regionale di Potenza, accompagnata dai Vescovi della Basilicata, e i Frati Minori delle Province di Puglia e Molise.

Il mio pensiero va infine, come di consueto, agli anziani, agli ammalati, ai giovani e agli sposi novelli. Dopo domani, celebreremo la memoria della Beata Vergine Maria di Lourdes. Auguro a ciascuno di imitare la Vergine Santa nella piena disponibilità nei confronti della volontà divina. Il suo esempio e la sua intercessione siano di stimolo per rafforzare la vostra testimonianza evangelica.

A tutti, la mia benedizione!


[Modificato da Caterina63 09/02/2022 18:08]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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16/02/2022 17:02
 
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UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 16 febbraio 2022

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Catechesi su San Giuseppe: 12. San Giuseppe patrono della Chiesa universale

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Concludiamo oggi il ciclo di catechesi sulla figura di San Giuseppe. Queste catechesi sono complementari alla Lettera apostolica Patris corde, scritta in occasione dei 150 anni dalla proclamazione di San Giuseppe quale Patrono della Chiesa Cattolica, da parte del Beato Pio IX. Ma che cosa significa questo titolo? Che cosa vuol dire che San Giuseppe è “patrono della Chiesa”? Su questo oggi vorrei riflettere con voi.

Anche in questo caso sono i Vangeli a fornirci la chiave di lettura più corretta. Infatti, alla fine di ogni vicenda che vede Giuseppe come protagonista, il Vangelo annota che egli prende con sé il Bambino e sua madre e fa ciò che Dio gli ha ordinato (cfr Mt 1,24; 2,14.21). Risalta così il fatto che Giuseppe ha il compito di proteggere Gesù e Maria. Egli è il loro principale custode: «In effetti, Gesù e Maria sua Madre sono il tesoro più prezioso della nostra fede» [1] (Lett. ap. Patris corde, 5), e questo tesoro è custodito da San Giuseppe.

Nel piano della salvezza non si può separare il Figlio dalla Madre, da colei che «avanzò nella peregrinazione della fede e serbò fedelmente la sua unione col Figlio sino alla croce» (Lumen gentium, 58), come ci ricorda il Concilio Vaticano II.

Gesù, Maria e Giuseppe sono in un certo senso il nucleo primordiale della Chiesa. Gesù è Uomo e Dio, Maria, la prima discepola, è la Madre; e Giuseppe, il custode. E anche noi «dobbiamo sempre domandarci se stiamo proteggendo con tutte le nostre forze Gesù e Maria, che misteriosamente sono affidati alla nostra responsabilità, alla nostra cura, alla nostra custodia» (Patris corde, 5). E qui c’è una traccia molto bella della vocazione cristiana: custodire. Custodire la vita, custodire lo sviluppo umano, custodire la mente umana, custodire il cuore umano, custodire il lavoro umano. Il cristiano è – possiamo dire – come San Giuseppe: deve custodire. Essere cristiano è non solo ricevere la fede, confessare la fede, ma custodire la vita, la vita propria, la vita degli altri, la vita della Chiesa. Il Figlio dell’Altissimo è venuto nel mondo in una condizione di grande debolezza: Gesù è nato così, debole, debole. Ha voluto aver bisogno di essere difeso, protetto, accudito. Dio si è fidato di Giuseppe, come ha fatto Maria, che in lui ha trovato lo sposo che l’ha amata e rispettata e si è sempre preso cura di lei e del Bambino. In questo senso, «San Giuseppe non può non essere il Custode della Chiesa, perché la Chiesa è il prolungamento del Corpo di Cristo nella storia, e nello stesso tempo nella maternità della Chiesa è adombrata la maternità di Maria. Giuseppe, continuando a proteggere la Chiesa, continua a proteggere il Bambino e sua madre, e anche noi amando la Chiesa continuiamo ad amare il Bambino e sua madre» (ibid.).

Questo Bambino è Colui che dirà: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Pertanto ogni persona che ha fame e sete, ogni straniero, ogni migrante, ogni persona senza vestiti, ogni malato, ogni carcerato è il “Bambino” che Giuseppe custodisce. E noi siamo invitati a custodire questa gente, questi nostri fratelli e sorelle, come l’ha fatto Giuseppe. Per questo, egli è invocato come protettore di tutti i bisognosi, degli esuli, degli afflitti, e anche dei moribondi – ne abbiamo parlato mercoledì scorso. E anche noi dobbiamo imparare da Giuseppe a “custodire” questi beni: amare il Bambino e sua madre; amare i Sacramenti e il popolo di Dio; amare i poveri e la nostra parrocchia. Ognuna di queste realtà è sempre il Bambino e sua madre (cfr Patris corde, 5). Noi dobbiamo custodire, perché con questo custodiamo Gesù, come ha fatto Giuseppe.

Oggi è comune, è di tutti i giorni criticare la Chiesa, sottolinearne le incoerenze – ce ne sono tante –, sottolineare i peccati, che in realtà sono le nostre incoerenze, i nostri peccati, perché da sempre la Chiesa è un popolo di peccatori che incontrano la misericordia di Dio. Domandiamoci se, in fondo al cuore, noi amiamo la Chiesa così come è. Popolo di Dio in cammino, con tanti limiti ma con tanta voglia di servire e amare Dio. Infatti, solo l’amore ci rende capaci di dire pienamente la verità, in maniera non parziale; di dire quello che non va, ma anche di riconoscere tutto il bene e la santità che sono presenti nella Chiesa, a partire proprio da Gesù e da Maria. Amare la Chiesa, custodire la Chiesa e camminare con la Chiesa. Ma la Chiesa non è quel gruppetto che è vicino al prete e comanda tutti, no. La Chiesa siamo tutti, tutti. In cammino. Custodirci uno l’altro, custodirci a vicenda. È una bella domanda, questa: io, quando ho un problema con qualcuno, cerco di custodirlo o lo condanno subito, sparlo di lui, lo distruggo? Dobbiamo custodire, sempre custodire!

Cari fratelli e sorelle, vi incoraggio a chiedere l’intercessione di San Giuseppe proprio nei momenti più difficili della vita vostra e delle vostre comunità. Lì dove i nostri errori diventano scandalo, chiediamo a San Giuseppe di avere il coraggio di fare verità, di chiedere perdono e ricominciare umilmente. Lì dove la persecuzione impedisce che il Vangelo sia annunciato, chiediamo a San Giuseppe la forza e la pazienza di saper sopportare soprusi e sofferenze per amore del Vangelo. Lì dove i mezzi materiali e umani scarseggiano e ci fanno fare l’esperienza della povertà, soprattutto quando siamo chiamati a servire gli ultimi, gli indifesi, gli orfani, i malati, gli scartati della società, preghiamo San Giuseppe perché sia per noi Provvidenza. Quanti santi si sono rivolti a lui! Quante persone nella storia della Chiesa hanno trovato in lui un patrono, un custode, un padre!

Imitiamo il loro esempio e per questo, tutti insieme, oggi preghiamo; preghiamo San Giuseppe con la preghiera che ho posto a conclusione della Lettera Patris corde, affidando a lui le nostre intenzioni e, in modo speciale, la Chiesa che soffre e che è nella prova. E adesso, voi avete in mano in diverse lingue, credo in quattro, la preghiera, e credo che sarà anche sullo schermo così insieme, ognuno nella propria lingua, può pregare San Giuseppe.

Salve, custode del Redentore
e sposo della Vergine Maria.
A te Dio affidò il suo Figlio;
in te Maria ripose la sua fiducia;
con te Cristo diventò uomo.

O Beato Giuseppe, mostrati padre anche per noi,
e guidaci nel cammino della vita.
Ottienici grazia, misericordia e coraggio,
e difendici da ogni male. Amen.

 


[1] S. Rituum Congreg., Decr. Quemadmodum Deus (8 dicembre 1870): ASS 6 (1870-71), 193; cfr PII IX, Lett. Ap. Inclytum Patriarcham (7 luglio 1871): l.c., 324-327.

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i sacerdoti di Vicenza e i Seminaristi di Adria-Rovigo. Nel salutare i Religiosi dell’Ordine dei Chierici Regolari Minori, penso al loro giovane confratello, Padre Richard, della Repubblica Democratica del Congo, ucciso il 2 febbraio scorso, dopo aver celebrato la Messa nella Giornata della vita consacrata. La morte di Padre Richard, vittima di una violenza ingiustificabile e deprecabile, non scoraggi i suoi familiari, la sua famiglia religiosa e l’intera comunità cristiana di quella Nazione ad essere annunciatori e testimoni di bontà e di fraternità, nonostante le difficoltà, imitando l’esempio di Gesù, Buon pastore.

Il mio pensiero va infine, come di consueto, agli anziani, agli ammalati, ai giovani e agli sposi novelli. Nel mondo che continua ad essere lacerato da contrasti profondi e apparentemente insanabili, ammalato, ciascuno di voi sia, per parte propria, segno di riconciliazione che affonda le sue radici nella Parola del Vangelo.

A tutti, la mia benedizione!



UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 23 febbraio 2022

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Catechesi sulla Vecchiaia: 1. La grazia del tempo e l’alleanza delle età della vita

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Abbiamo finito le catechesi su San Giuseppe. Oggi incominciamo un percorso di catechesi che cerca ispirazione nella Parola di Dio sul senso e il valore della vecchiaia. Facciamo una riflessione sulla vecchiaia. Da alcuni decenni, questa età della vita riguarda un vero e proprio “nuovo popolo” che sono gli anziani. Mai siamo stati così numerosi nella storia umana. Il rischio di essere scartati è ancora più frequente: mai così numerosi come adesso, mai il rischio come adesso di essere scartati. Gli anziani sono visti spesso come “un peso”. Nella drammatica prima fase della pandemia sono stati loro a pagare il prezzo più alto. Erano già la parte più debole e trascurata: non li guardavamo troppo da vivi, non li abbiamo neppure visti morire. Ho trovato anche questa Carta per i diritti degli anziani e i doveri della comunità: questo è stato editato dai governi, non è editato dalla Chiesa, è una cosa laica: è buona, è interessante, per conoscere che gli anziani hanno dei diritti. Farà bene leggerlo.

Assieme alle migrazioni, la vecchiaia è tra le questioni più urgenti che la famiglia umana è chiamata ad affrontare in questo tempo. Non si tratta solo di un cambiamento quantitativo; è in gioco l’unità delle età della vita: ossia, il reale punto di riferimento per la comprensione e l’apprezzamento della vita umana nella sua interezza. Ci domandiamo: c’è amicizia, c’è alleanza fra le diverse età della vita o prevalgono la separazione e lo scarto?

Tutti viviamo in un presente dove convivono bambini, giovani, adulti e anziani. Però è cambiata la proporzione: la longevità è diventata di massa e, in ampie regioni del mondo, l’infanzia è distribuita a piccole dosi. Abbiamo pure parlato dell’inverno demografico. Uno squilibrio che ha tante conseguenze. La cultura dominante ha come modello unico il giovane-adulto, cioè un individuo che si fa da sé e rimane sempre giovane. Ma è vero che la giovinezza contiene il senso pieno della vita, mentre la vecchiaia ne rappresenta semplicemente lo svuotamento e la perdita? Quello è vero? Soltanto la giovinezza ha il senso pieno della vita, e la vecchiaia è lo svuotamento della vita, la perdita della vita? L’esaltazione della giovinezza come unica età degna di incarnare l’ideale umano, unita al disprezzo della vecchiaia vista come fragilità, come degrado o disabilità, è stata l’icona dominante dei totalitarismi del ventesimo secolo. L’abbiamo dimenticato questo?

L’allungarsi della vita incide in maniera strutturale sulla storia dei singoli, delle famiglie e delle società. Ma dobbiamo chiederci: la sua qualità spirituale e il suo senso comunitario sono oggetto di pensiero e di amore coerenti con questo fatto? Forse gli anziani devono chiedere scusa della loro ostinazione a sopravvivere a spese d’altri? O possono essere onorati per i doni che portano al senso della vita di tutti? Di fatto, nella rappresentazione del senso della vita – e proprio nelle culture cosiddette “sviluppate” – la vecchiaia ha poca incidenza. Perché? Perché è considerata un’età che non ha contenuti speciali da offrire, né significati propri da vivere. Per di più, manca l’incoraggiamento delle persone a cercarli, e manca l’educazione della comunità a riconoscerli. Insomma, per un’età che è ormai una parte determinante dello spazio comunitario e si estende a un terzo dell’intera vita, ci sono – a volte – piani di assistenza, ma non progetti di esistenza. Piani di assistenza, sì; ma non progetti per farli vivere in pienezza. E questo è un vuoto di pensiero, di immaginazione, di creatività. Sotto questo pensiero, quello che fa il vuoto è che l’anziano, l’anziana sono materiale di scarto: in questa cultura dello scarto, gli anziani entrano come materiale di scarto.

La giovinezza è bellissima, ma l’eterna giovinezza è un’allucinazione molto pericolosa. Essere vecchi è altrettanto importante – e bello – è altrettanto importante che essere giovani. Ricordiamocelo. L’alleanza fra le generazioni, che restituisce all’umano tutte le età della vita, è il nostro dono perduto e dobbiamo riprenderlo. Deve essere ritrovato, in questa cultura dello scarto e in questa cultura della produttività

La Parola di Dio ha molto da dire a proposito di questa alleanza. Poco fa abbiamo ascoltato la profezia di Gioele: «I vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni» (3,1). Si può interpretare così: quando gli anziani resistono allo Spirito, seppellendo nel passato i loro sogni, i giovani non riescono più a vedere le cose che devono essere fatte per aprire il futuro. Quando invece i vecchi comunicano i loro sogni, i ragazzi vedono bene ciò che devono fare. I ragazzi che non interrogano più i sogni dei vecchi, puntando a testa bassa su visioni che non vanno oltre il loro naso, faticheranno a portare il loro presente e a sopportare il loro futuro. Se i nonni ripiegano sulle loro malinconie, i giovani si curveranno ancora di più sul loro smartphone. Lo schermo può anche rimanere acceso, ma la vita si spegne prima del tempo. Il contraccolpo più grave della pandemia non sta forse proprio nello smarrimento dei più giovani? I vecchi hanno risorse di vita già vissuta alle quali possono ricorrere in ogni momento. Staranno a guardare i giovani che smarriscono la loro visione o li accompagneranno riscaldando i loro sogni? Davanti ai sogni dei vecchi, cosa faranno i giovani?

La sapienza del lungo cammino che accompagna la vecchiaia al suo congedo va vissuta come una offerta di senso della vita, non consumata come inerzia della sua sopravvivenza. La vecchiaia, se non è restituita alla dignità di una vita umanamente degna, è destinata a chiudersi in un avvilimento che toglie amore a tutti. Questa sfida di umanità e di civiltà richiede il nostro impegno e l’aiuto di Dio. Chiediamolo allo Spirito Santo. Con queste catechesi sulla vecchiaia, vorrei incoraggiare tutti a investire pensieri e affetti sui doni che essa porta con sé e alle altre età della vita. La vecchiaia è un dono per tutte le età della vita. È un dono di maturità, di saggezza. La Parola di Dio ci aiuterà a discernere il senso e il valore della vecchiaia; lo Spirito Santo conceda anche a noi i sogni e le visioni di cui abbiamo bisogno. E vorrei sottolineare, come abbiamo ascoltato nella profezia di Gioele, all’inizio, che l’importante è non solo che l’anziano occupi il posto di saggezza che ha, di storia vissuta nella società, ma anche che ci sia un colloquio, che interloquisca con i giovani. I giovani devono interloquire con gli anziani, e gli anziani con i giovani. E questo ponte sarà la trasmissione della saggezza nell’umanità. Mi auguro che queste riflessioni siano di utilità per tutti noi, per portare avanti questa realtà che diceva il profeta Gioele, che nel dialogo fra giovani e anziani, gli anziani possano dare i sogni e i giovani possano riceverli e portarli avanti. Non dimentichiamo che nella cultura sia famigliare sia sociale gli anziani sono come le radici dell’albero: hanno tutta la storia lì, e i giovani sono come i fiori e i frutti. Se non viene il succo, se non viene questa “flebo” – diciamo così – dalle radici, mai potranno fiorire. Non dimentichiamo quel poeta che ho detto tante volte: “Tutto quello che l’albero ha di fiorito viene da quello che ha di sotterrato (Francisco Luis Bernárdez). Tutto quello che è bello che ha una società è in rapporto con le radici degli anziani. Per questo, in queste catechesi, io vorrei che la figura dell’anziano venga posta in evidenza, che si capisca bene che l’anziano non è un materiale di scarto: è una benedizione per una società.

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Saluti

[Saluto cordialmente i pellegrini polacchi e in particolare gli studenti qui presenti. Cari fratelli e sorelle, incominciando il ciclo delle riflessioni sul senso e il valore della vecchiaia, incoraggio tutti voi, soprattutto i giovani, a investire pensieri e affetti sui doni che essa porta con sé, e a dimostrare ogni giorno il rispetto e l’amore ai vostri nonni, ai genitori e a tutte le persone in età avanzata, per imparare da loro la saggezza della vita e creare insieme un futuro felice. Dio vi benedica!]


APPELLO

Ho un grande dolore nel cuore per il peggioramento della situazione nell’Ucraina. Nonostante gli sforzi diplomatici delle ultime settimane si stanno aprendo scenari sempre più allarmanti. Come me tanta gente, in tutto il mondo, sta provando angoscia e preoccupazione. Ancora una volta la pace di tutti è minacciata da interessi di parte. Vorrei appellarmi a quanti hanno responsabilità politiche, perché facciano un serio esame di coscienza davanti a Dio, che è Dio della pace e non della guerra; che è Padre di tutti, non solo di qualcuno, che ci vuole fratelli e non nemici. Prego tutte le parti coinvolte perché si astengano da ogni azione che provochi ancora più sofferenza alle popolazioni, destabilizzando la convivenza tra le nazioni e screditando il diritto internazionale.

E ora vorrei appellarmi a tutti, credenti e non credenti. Gesù ci ha insegnato che all’insensatezza diabolica della violenza si risponde con le armi di Dio, con la preghiera e il digiuno. Invito tutti a fare del prossimo 2 marzo, mercoledì delle ceneri, una Giornata di digiuno per la pace. Incoraggio in modo speciale i credenti perché in quel giorno si dedichino intensamente alla preghiera e al digiuno. La Regina della pace preservi il mondo dalla follia della guerra.


Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto la comunità degli italo-albanesi di Roma, la Lega nazionale dilettanti calcio a cinque, i fedeli di Castellabate.

Il mio pensiero va infine, come di consueto, agli anziani, agli ammalati, ai giovani e agli sposi novelli. Oggi celebriamo la memoria liturgica di San Policarpo, discepolo degli Apostoli e Vescovo di Smirne. La sua fedeltà a Cristo, fino al martirio, susciti in ciascuno il desiderio di seguire il divino Maestro cooperando generosamente alla sua opera di riconciliazione e di pace.

A tutti, la mia benedizione!





UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 2 marzo 2022

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Catechesi sulla Vecchiaia - 2. La longevità: simbolo e opportunità

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nel racconto biblico delle genealogie dei progenitori colpisce subito la loro enorme longevità: si parla di secoli! Quando incomincia, qui, la vecchiaia? Ci si domanda. E che cosa significa il fatto che questi antichi padri vivono così a lungo dopo aver generato i figli? Padri e figli vivono insieme, per secoli! Questa cadenza secolare dei tempi, narrata con stile rituale, conferisce al rapporto fra longevità e genealogia un significato simbolico forte, molto forte.

È come se la trasmissione della vita umana, così nuova nell’universo creato, chiedesse una lenta e prolungata iniziazione. Tutto è nuovo, agli inizi della storia di una creatura che è spirito e vita, coscienza e libertà, sensibilità e responsabilità. La nuova vita – la vita umana –, immersa nella tensione fra la sua origine “a immagine e somiglianza” di Dio e la fragilità della sua condizione mortale, rappresenta una novità tutta da scoprire. E chiede un lungo tempo di iniziazione, in cui è indispensabile il sostegno reciproco tra le generazioni, per decifrare le esperienze e confrontarsi con gli enigmi della vita. In questo lungo tempo, lentamente, viene coltivata anche la qualità spirituale dell’uomo.

In un certo senso, ogni passaggio d’epoca, nella storia umana, ci ripropone questa sensazione: è come se dovessimo riprendere da capo e con calma le nostre domande sul senso della vita, quando lo scenario della condizione umana appare affollato di esperienze nuove e di interrogativi inediti. Certo, l’accumulo della memoria culturale accresce la dimestichezza necessaria ad affrontare i passaggi inediti. I tempi della trasmissione si riducono; ma i tempi dell’assimilazione chiedono sempre pazienza. L’eccesso di velocità, che ormai ossessiona tutti i passaggi della nostra vita, rende ogni esperienza più superficiale e meno “nutriente”. I giovani sono vittime inconsapevoli di questa scissione fra il tempo dell’orologio, che vuole essere bruciato, e i tempi della vita, che richiedono una giusta “lievitazione”. Una vita lunga permette di sperimentare questi tempi lunghi, e i danni della fretta.

La vecchiaia, certamente, impone ritmi più lenti: ma non sono solo tempi di inerzia. La misura di questi ritmi apre, infatti, per tutti, spazi di senso della vita sconosciuti all’ossessione della velocità. Perdere il contatto con i ritmi lenti della vecchiaia chiude questi spazi per tutti. È in questo orizzonte che ho voluto istituire la festa dei nonni, nell’ultima domenica di luglio. L’alleanza tra le due generazioni estreme della vita – i bambini e gli anziani – aiuta anche le altre due – i giovani e gli adulti – a legarsi a vicenda per rendere l’esistenza di tutti più ricca in umanità. Ci vuole dialogo fra le generazioni: se non c’è dialogo tra giovani e anziani, tra adulti, se non c’è dialogo, ogni generazione rimane isolata e non può trasmettere il messaggio. Un giovane che non è legato alle sue radici, che sono i nonni, non riceve la forza - come l’albero ha la forza dalle radici - e cresce male, cresce ammalato, cresce senza riferimenti. Per questo bisogna cercare, come un’esigenza umana, il dialogo tra le generazioni. E questo dialogo è importante proprio tra nonni e nipoti, che sono i due estremi.

Immaginiamo una città in cui la convivenza delle diverse età faccia parte integrante del progetto globale del suo habitat. Pensiamo al formarsi di rapporti affettuosi tra vecchiaia e giovinezza che si irradiano sullo stile complessivo delle relazioni. La sovrapposizione delle generazioni diventerebbe fonte di energia per un umanesimo realmente visibile e vivibile. La città moderna è tendenzialmente ostile agli anziani (e non per caso lo è anche per i bambini). Questa società che ha questo spirito dello scarto e scarta tanti bambini non voluti, scarta i vecchi: li scarta, non servono e li mette alla casa per anziani, al ricovero… L’eccesso di velocità ci mette in una centrifuga che ci spazza via come coriandoli. Si perde completamente lo sguardo d’insieme. Ciascuno si aggrappa al proprio pezzetto, che galleggia sui flussi della città-mercato, per la quale i ritmi lenti sono perdite e la velocità è denaro. L’eccesso di velocità polverizza la vita, non la rende più intensa. E la saggezza richiede di “perdere tempo”. Quando tu torni a casa e vedi il tuo figlio, tua figlia bambina e “perdi tempo”, ma questo colloquio è fondamentale per la società. E quando tu torni a casa e c’è il nonno o la nonna che forse non ragiona bene o, non so, ha perso un po’ la capacità di parlare, e tu stai con lui o con lei, tu “perdi tempo”, ma questo “perdere tempo” fortifica la famiglia umana. È necessario spendere il tempo - un tempo che non è reddituale - con i bambini e con i vecchi, perché loro ci danno un’altra capacità di vedere la vita.

La pandemia, nella quale siamo ancora costretti ad abitare, ha imposto – molto dolorosamente, purtroppo – una battuta d’arresto al culto ottuso della velocità. E in questo periodo i nonni hanno fatto da argine alla “disidratazione” affettiva dei più piccoli. L’alleanza visibile delle generazioni, che ne armonizza i tempi e i ritmi, ci restituisce la speranza di non abitare la vita invano. E restituisce a ciascuno l’amore per la nostra vita vulnerabile, sbarrando la strada all’ossessione della velocità, che semplicemente la consuma. La parola chiave qui è “perdere tempo”. A ognuno di voi chiedo: tu sai perdere il tempo, o tu sei sempre affrettato dalla velocità? “No, sono di fretta, non posso …”? Sai perdere il tempo con i nonni, con i vecchi? Sai perdere il tempo giocando con i tuoi figli, con i bambini? Questa è la pietra di paragone. Pensate un po’. E questo restituisce a ciascuno l’amore per la nostra vita vulnerabile, sbarrando – come ho detto – la strada all’ossessione della velocità, che semplicemente la consuma. I ritmi della vecchiaia sono una risorsa indispensabile per cogliere il senso della vita segnata dal tempo. I vecchi hanno i loro ritmi, ma sono ritmi che ci aiutano. Grazie a questa mediazione, si fa più credibile la destinazione della vita all’incontro con Dio: un disegno che è nascosto nella creazione dell’essere umano “a sua immagine e somiglianza” ed è sigillato nel farsi uomo del Figlio di Dio.

Oggi si verifica una maggiore longevità della vita umana. Questo ci offre l’opportunità di accrescere l’alleanza tra tutti i tempi della vita. Tanta longevità, ma dobbiamo fare più alleanza. E anche ci aiuta a crescere l’alleanza con il senso della vita nella sua interezza. Il senso della vita non è soltanto nell’età adulta, da 25 anni a 60. Il senso della vita è tutto, dalla nascita alla morte e tu dovresti essere capace di interloquire con tutti, anche avere rapporti affettivi con tutti, così la tua maturità sarà più ricca, più forte. E anche ci offre questo significato della vita, che è tutta intera. Lo Spirito ci conceda l’intelligenza e la forza per questa riforma: ci vuole una riforma. La prepotenza del tempo dell’orologio dev’essere convertita alla bellezza dei ritmi della vita. Questa è la riforma che dobbiamo fare nei nostri cuori, nella famiglia e nella società. Ripeto: riformare, cosa? Che la prepotenza del tempo dell’orologio diventi convertita alla bellezza dei ritmi della vita. Convertire la prepotenza del tempo, che sempre ci affretta, ai ritmi propri della vita. L’alleanza delle generazioni è indispensabile. In una società dove i vecchi non parlano con i giovani, i giovani non parlano con i vecchi, gli adulti non parlano con i vecchi né con i giovani, è una società sterile, senza futuro, una società che non guarda all’orizzonte ma guarda sé stessa. E diventa sola. Dio ci aiuti a trovare la musica adatta per questa armonizzazione delle diverse età: i piccoli, i vecchi, gli adulti, tutti insieme: una bella sinfonia di dialogo.

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Saluti:

[Saluto cordialmente tutti i Polacchi. Voi, per primi, avete sostenuto l’Ucraina, aprendo i vostri confini, i vostri cuori e le porte delle vostre case agli ucraini che scappano dalla guerra. State offrendo generosamente a loro tutto il necessario perché possano vivere dignitosamente, nonostante la drammaticità del momento. Vi sono profondamente grato e vi benedico di cuore! E questo frate francescano che fa lo speaker adesso, in polacco: ma lui è ucraino! E i suoi genitori sono in questo momento nei rifugi sotto terra, per difendersi dalle bombe, in un posto vicino a Kiev. E lui continua a fare il suo dovere qui, con noi. Accompagnando lui accompagniamo tutto il popolo che sta soffrendo dei bombardamenti, i suoi genitori anziani e tanti anziani che sono nel sotto terra per difendersi. Portiamo nel cuore il ricordo di questo popolo. E [rivolto a lui] grazie a te per continuare nel lavoro.]


Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i sacerdoti della diocesi di Milano e il personale militare e civile dell’esercito di stanza ad Avellino.

Il mio pensiero va infine, come di consueto, agli anziani, agli ammalati, ai giovani e agli sposi novelli. Disponiamoci con fiducia a percorrere l’itinerario quaresimale che inizia oggi come occasione di conversione e di rinnovamento interiore nell’ascolto della Parola di Dio, nella preghiera, nel quotidiano esercizio della carità verso il prossimo.

A tutti, la mia benedizione!



[Modificato da Caterina63 02/03/2022 13:37]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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16/03/2022 11:52
 
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UDIENZA GENERALE

Basilica Vaticana e Aula Paolo VI
Mercoledì, 16 marzo 2022

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Saluto del Santo Padre agli Studenti della Scuola "La Zolla" di Milano - Basilica Vaticana

Catechesi del Santo Padre - Aula Paolo VI


 

SALUTO DEL SANTO PADRE AGLI "STUDENTI DELLA SCUOLA "LA ZOLLA" DI MILANO

Cari studenti dell’Istituto “La Zolla”,

sono contento di accogliervi e rivolgo un cordiale saluto a voi, ai vostri genitori e ai vostri insegnanti, ai vostri nonni: ci sono tanti nonni qui. È molto importante per voi giovani e bambini parlare con i nonni: molto importante, parlare con i nonni. È importante. La vostra scuola di ispirazione cristiana è una realtà preziosa per il territorio milanese e offre un apprezzato servizio educativo in collaborazione con le famiglie. È importante costruire una comunità educante in cui, insieme ai docenti, i genitori possano essere protagonisti della crescita culturale dei loro figli. E questo è il patto educativo, il dialogo tra genitori e insegnanti. Si dialoga sempre, per il bene dei giovani, dei bambini. Questo patto educativo che si è rotto tante volte, dobbiamo sempre curarlo. Il dialogo e anche il lavoro insieme, come fate voi, genitori e insegnanti. È importante costruire una comunità educante, questo è molto importante.

E a voi ragazzi e ragazze vorrei lasciare due parole che mi vengono dal cuore: condivisione e accoglienza. Condivisione e accoglienza, diciamolo insieme: “condivisione e accoglienza”. Solo i ragazzi e le ragazze, i grandi no! Ditelo: condivisione e accoglienza, tutti! [ripetono: condivisione e accoglienza!”]. Ecco, imparate bene quello. Condivisione: non stancatevi di maturare insieme alle persone che vi vivono accanto: i compagni di scuola, i genitori, i nonni, gli educatori, gli amici. C’è bisogno di “fare squadra”, di crescere non solo nelle conoscenze, ma anche nel tessere legami per costruire una società più solidale e fraterna. Perché la pace, di cui abbiamo tanto bisogno, si costruisce artigianalmente attraverso la condivisione. Non ci sono macchine per costruire la pace, no: la pace sempre si fa artigianalmente. La pace nella famiglia, la pace nella scuola… E come artigianalmente? Con il mio lavoro, con la mia condivisione.

La seconda parola: accoglienza. Il mondo d’oggi mette tante barriere tra le persone. E il risultato delle barriere sono le esclusioni, lo scarto. Questo è pericoloso, se si scarta. Anche nella scuola – ascoltate bene questo, ragazzi e ragazze – a scuola alle volte c’è qualche compagno o compagna che è un po’ strano, un po’ ridicolo o che non ci piace: mai scartarlo! Nemmeno fare bullying: no, per favore, non il bullying, niente, siamo tutti uguali. Anche se un compagno è un po’ antipatico, poveretto, mi avvicino a lui con simpatia. Sempre fare dei ponti, non scartare nessuno, per favore! Non scartare. Perché con lo scarto sempre si incominciano le guerre. Il risultato delle barriere sono le esclusioni, lo scarto. Ci sono barriere tra Stati, tra gruppi sociali, ma anche tra le persone. E spesso pure il telefono che continuate a guardare diventa una frontiera che vi isola in un mondo che avete a portata di mano. Quanto è bello invece guardare negli occhi le persone, ascoltarne la storia, accoglierne l’identità; generare, attraverso l’amicizia, ponti con fratelli e sorelle di tradizioni, etnie e religioni diverse. Solo facendo così costruiremo, con l’aiuto di Dio, un futuro di pace. Mi è piaciuto il motto vostro – “Stupìti”: è bello. Sempre meravigliati, vedere la bellezza, stupìti e grati. Ma state attenti, perché c’è pericolo di diventare stupidi: no, no! Stupìti, non stupidi. Capito?

Grazie di questo incontro, grazie della vostra testimonianza. Prego per voi e voi, per favore, non dimenticatevi di pregare per me. E adesso vi chiedo di pensare, di fare un pensiero: pensiamo a tanti bambini e bambine, ragazzi e ragazze che sono in guerra, che oggi in Ucraina stanno soffrendo. Sono come noi, come voi: sei, sette, dieci, quattordici anni e voi avete davanti un futuro, una sicurezza sociale di crescere in una società in pace. Invece questi piccoli, anche piccolissimi, devono fuggire dalle bombe. Stanno soffrendo tanto. Con quel freddo che fa lì … Pensiamo. Ognuno di noi pensi a questi bambini, a queste bambine, a questi ragazzi, a queste ragazze. Oggi stanno soffrendo; oggi, a tremila chilometri da qui. Preghiamo il Signore. Io farò la preghiera e voi con il cuore, con la mente, pregate con me. “Signore Gesù, ti chiedo per i bambini, le bambine, i ragazzi, le ragazze che stanno vivendo sotto le bombe, che vedono questa guerra terribile, che non hanno da mangiare, che devono fuggire lasciando casa, tutto. Signore Gesù, guarda questi bambini, questi ragazzi: guardali, proteggili. Sono le vittime della superbia di noi, gli adulti. Signore Gesù, benedici questi bambini e proteggili”. Insieme preghiamo la Madonna perché li protegga: Ave o Maria, …

E così, in silenzio come stiamo noi, riceviamo la benedizione del Signore: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.

E grazie di questo incontro: grazie, grazie. E non dimenticatevi non dimenticate: stupìti e grati. Tutti insieme: stupìti e grati.


 

CATECHESI DEL SANTO PADRE

Catechesi sulla Vecchiaia - 3. L’anzianità, risorsa per la giovinezza spensierata

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Il racconto biblico – con il linguaggio simbolico dell’epoca in cui fu scritto – ci dice una cosa impressionante: Dio fu a tal punto amareggiato per la diffusa malvagità degli uomini, divenuta uno stile normale di vita, che pensò di avere sbagliato a crearli e decise di eliminarli. Una soluzione radicale. Potrebbe persino avere un paradossale risvolto di misericordia. Niente più umani, niente più storia, niente più giudizio, niente più condanna. E molte vittime predestinate della corruzione, della violenza, dell’ingiustizia sarebbero risparmiate per sempre.

Non accade a volte anche a noi – sopraffatti dal senso di impotenza contro il male o demoralizzati dai “profeti di sventura” – di pensare che era meglio non essere nati? Dobbiamo dare credito a certe teorie recenti, che denunciano la specie umana come un danno evolutivo per la vita sul nostro pianeta? Tutto negativo? No.

Di fatto, siamo sotto pressione, esposti a sollecitazioni opposte che ci rendono confusi. Da un lato, abbiamo l’ottimismo di una giovinezza eterna, acceso dai progressi straordinari della tecnica, che dipinge un futuro pieno di macchine più efficienti e più intelligenti di noi, che cureranno i nostri mali e penseranno per noi le soluzioni migliori per non morire: il mondo del robot. Dall’altra parte, la nostra fantasia appare sempre più concentrata sulla rappresentazione di una catastrofe finale che ci estinguerà. Quello che succede con un’eventuale guerra atomica. Il “giorno dopo” di questo – se ci saremo ancora, giorni ed esseri umani – si dovrà ricominciare da zero. Distruggere tutto per ricominciare da zero. Non voglio rendere banale il tema del progresso, naturalmente. Ma sembra che il simbolo del diluvio stia guadagnando terreno nel nostro inconscio. La pandemia attuale, del resto, mette un’ipoteca non lieve sulla nostra spensierata rappresentazione delle cose che contano, per la vita e per il suo destino.

Nel racconto biblico, quando si tratta di mettere in salvo dalla corruzione e dal diluvio la vita della terra, Dio affida l’impresa alla fedeltà del più vecchio di tutti, il “giusto” Noè. La vecchiaia salverà il mondo, mi domando? In che senso? E come salverà il mondo, la vecchiaia? E qual è l’orizzonte? La vita oltre la morte o soltanto la sopravvivenza fino al diluvio?

Una parola di Gesù, che evoca “i giorni di Noè”, ci aiuta ad approfondire il senso della pagina biblica che abbiamo ascoltato. Gesù, parlando degli ultimi tempi, dice: «Come avvenne nei giorni di Noè, così sarà nei giorni del Figlio dell’uomo: mangiavano, bevevano, prendevano moglie, prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca e venne il diluvio e li fece morire tutti» (Lc 17,26-27). In effetti, mangiare e bere, prendere moglie e marito, sono cose molto normali e non sembrano esempi di corruzione. Dove sta la corruzione? Dove c’era la corruzione, lì? In realtà, Gesù mette l’accento sul fatto che gli esseri umani, quando si limitano a godere della vita, smarriscono perfino la percezione della corruzione, che ne mortifica la dignità e ne avvelena il senso. Quando si smarrisce la percezione della corruzione, e la corruzione diventa una cosa normale: tutto ha il suo prezzo, tutto! Si compra, si vende, opinioni, atti di giustizia … Questo, nel mondo degli affari, nel mondo di tanti mestieri, è comune. E vivono spensieratamente anche la corruzione, come se fosse parte della normalità del benessere umano. Quando tu vai a fare qualcosa e la cosa è lenta, quel processo di fare è un po’ lento, quante volte si sente dire: “Ma, se mi dai una mancia io accelero questo”. Tante volte. “Dammi qualcosa e io vado più avanti”. Lo sappiamo bene, tutti noi. Il mondo della corruzione sembra parte della normalità dell’essere umano; e questo è brutto Questa mattina ho parlato con un signore che mi diceva di questo problema nella sua terra. I beni della vita sono consumati e goduti senza preoccupazione per la qualità spirituale della vita, senza cura per l’habitat della casa comune. Tutto si sfrutta, senza preoccuparsi della mortificazione e dell’avvilimento di cui molti soffrono, e neppure del male che avvelena la comunità. Finché la vita normale può essere riempita di “benessere”, non vogliamo pensare a ciò che la rende vuota di giustizia e di amore. “Ma, io sto bene! Perché devo pensare ai problemi, alle guerre, alla miseria umana, a quanta povertà, a quanta malvagità? No, io sto bene. Non mi importa degli altri”. Questo è il pensiero inconscio che ci porta avanti a vivere uno stato di corruzione.

La corruzione può diventare normalità, mi domando io? Fratelli e sorelle, purtroppo sì. Si può respirare l’aria della corruzione come si respira l’ossigeno. “Ma è normale; se lei vuole che io faccia questo di fretta, quanto mi dà?”. E’ normale! È normale, ma è una cosa brutta, non è buona! Che cosa le apre la strada? Una cosa: la spensieratezza che si rivolge solo alla cura di sé stessi: ecco il varco che apre la porta alla corruzione che affonda la vita di tutti. La corruzione trae grande vantaggio da questa spensieratezza non buona. Quando a una persona va bene tutto e non gli importa degli altri: questa spensieratezza ammorbidisce le nostre difese, offusca la coscienza e ci rende – anche involontariamente – dei complici. Perché sempre la corruzione non va da sola: una persona ha sempre dei complici. E sempre la corruzione si allarga, si allarga.

La vecchiaia è nella posizione adatta per cogliere l’inganno di questa normalizzazione di una vita ossessionata dal godimento e vuota di interiorità: vita senza pensiero, senza sacrificio, senza interiorità, senza bellezza, senza verità, senza giustizia, senza amore: questo è tutto corruzione. La speciale sensibilità di noi vecchi, dell’età anziana per le attenzioni, i pensieri e gli affetti che ci rendono umani, dovrebbe ridiventare una vocazione di tanti. E sarà una scelta d’amore degli anziani verso le nuove generazioni. Saremo noi a dare l’allarme, l’allerta: “State attenti, che questa è la corruzione, non ti porta niente”. La saggezza dei vecchi ci vuole tanto, oggi, per andare contro la corruzione. Le nuove generazioni aspettano da noi vecchi, da noi anziani una parola che sia profezia, che apra delle porte a nuove prospettive fuori da questo mondo spensierato della corruzione, dell’abitudine alle cose corrotte. La benedizione di Dio sceglie la vecchiaia, per questo carisma così umano e umanizzante. Quale senso ha la mia vecchiaia? Ognuno di noi vecchi possiamo domandarci. Il senso è questo: essere profeta della corruzione e dire agli altri: “Fermatevi, io ho fatto quella strada e non ti porta a niente! Adesso io ti dico la mia esperienza”. Noi anziani dobbiamo essere dei profeti contro la corruzione, come Noè è stato il profeta contro la corruzione del suo tempo, perché era l’unico di cui Dio si è fidato. Io domando a tutti voi – e anche domando a me: il mio cuore è aperto a essere profeta contro la corruzione di oggi? C’è una cosa brutta, quando gli anziani non hanno maturato e si diventa vecchi con le stesse abitudini corrotte dei giovani. Pensiamo al racconto biblico dei giudici di Susanna: sono l’esempio di una vecchiaia corrotta. E noi, con una vecchiaia così non saremmo capaci di essere profeti per le giovani generazioni.

E Noè è l’esempio di questa vecchiaia generativa: non è corrotta, è generativa. Noè non fa prediche, non si lamenta, non recrimina, ma si prende cura del futuro della generazione che è in pericolo. Noi anziani dobbiamo prenderci cura dei giovani, dei bambini che sono in pericolo. Costruisce l’arca dell’accoglienza e vi fa entrare uomini e animali. Nella cura per la vita, in tutte le sue forme, Noè adempie il comando di Dio ripetendo il gesto tenero e generoso della creazione, che in realtà è il pensiero stesso che ispira il comando di Dio: una nuova benedizione, una nuova creazione (cfr Gen 8,15-9,17). La vocazione di Noè rimane sempre attuale. Il santo patriarca deve ancora intercedere per noi. E noi, donne e uomini di una certa età – per non dire vecchi, perché alcuni si offendono – non dimentichiamo che abbiamo la possibilità della saggezza, di dire agli altri: “Guarda, questa strada di corruzione non porta a nulla”. Noi dobbiamo essere come il buon vino che alla fine da vecchio può dare un messaggio buono e non cattivo.

Io faccio un appello, oggi, a tutte le persone che hanno una certa età, per non dire vecchi. State attenti: voi avete la responsabilità di denunciare la corruzione umana nella quale si vive e nella quale va avanti questo modo di vivere di relativismo, totalmente relativo, come se tutto fosse lecito. Andiamo avanti. Il mondo ha bisogno, ha necessità di giovani forti, che vadano avanti, e di vecchi saggi. Chiediamo al Signore la grazia della saggezza.

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Saluti

APPELLO E PREGHIERA PER L'UCRAINA

Cari fratelli e sorelle,nel dolore di questa guerra facciamo una preghiera tutti insieme, chiedendo al Signore il perdono e chiedendo la pace. Pregheremo una preghiera scritta da un Vescovo italiano.

Perdonaci la guerra, Signore.
Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi misericordia di noi peccatori.
Signore Gesù, nato sotto le bombe di Kiev, abbi pietà di noi.
Signore Gesù, morto in braccio alla mamma in un bunker di Kharkiv, abbi pietà di noi.
Signore Gesù, mandato ventenne al fronte, abbi pietà di noi.
Signore Gesù, che vedi ancora le mani armate all’ombra della tua croce, abbi pietà di noi!

Perdonaci Signore,
perdonaci, se non contenti dei chiodi con i quali trafiggemmo la tua mano, continuiamo ad abbeverarci al sangue dei morti dilaniati dalle armi.
Perdonaci, se queste mani che avevi creato per custodire, si sono trasformate in strumenti di morte.
Perdonaci, Signore, se continuiamo ad uccidere nostro fratello, perdonaci se continuiamo come Caino a togliere le pietre dal nostro campo per uccidere Abele. Perdonaci, se continuiamo a giustificare con la nostra fatica la crudeltà, se con il nostro dolore legittimiamo l’efferatezza dei nostri gesti.
Perdonaci la guerra, Signore. Perdonaci la guerra, Signore.

Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, ti imploriamo! Ferma la mano di Caino!
Illumina la nostra coscienza, non sia fatta la nostra volontà, non abbandonarci al nostro agire!
Fermaci, Signore, fermaci!
E quando avrai fermato la mano di Caino, abbi cura anche di lui. È nostro fratello.
O Signore, poni un freno alla violenza!
Fermaci, Signore!
Amen.

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i Religiosi e le Religiose dell’Amore Misericordioso, incoraggiando a servire il Signore e i fratelli con rinnovata gioia, nel solco del carisma della Fondatrice, la Beata Madre Speranza. Saluto poi l’Istituto San Giorgio di Pavia e il Circolo “Vivere insieme” di Catania, esortando a testimoniare con le parole e l’azione il messaggio liberante di Cristo.

Il mio pensiero va infine, come di consueto, agli anziani, agli ammalati, ai giovani e agli sposi novelli. In questo tempo di Quaresima, anche in questo tempo così doloroso della guerra, vi invito a guardare a Cristo e trarre forza da Lui per un fedele impegno di vita cristiana.

A tutti, la mia benedizione!

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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 23 marzo 2022

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Catechesi sulla Vecchiaia : 4. Il congedo e l’eredità: memoria e testimonianza

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nella bibbia, il racconto della morte del vecchio Mosè è preceduto dal suo testamento spirituale, chiamato “Cantico di Mosè”. Questo Cantico è in primo luogo una bellissima confessione di fede, e dice così: «Voglio proclamare il nome del Signore: / magnificate il nostro Dio! / Egli è la Roccia: perfette le sue opere, / giustizia tutte le sue vie; / è un Dio fedele e senza malizia, egli è giusto e retto» (Dt 32,3-4). Ma è anche memoria della storia vissuta con Dio, delle avventure del popolo che si è formato a partire dalla fede nel Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. E dunque Mosè ricorda anche le amarezze e le delusioni di Dio stesso: la Sua fedeltà messa continuamente alla prova dalle infedeltà del suo popolo. Il Dio fedele e la risposta del popolo infedele: come se il popolo volesse mettere alla prova la fedeltà di Dio. E Lui rimane sempre fedele, vicino al suo popolo. Questo è proprio il nocciolo del Cantico di Mosè: la fedeltà di Dio che ci accompagna durante tutta la vita.

Quando Mosè pronuncia questa confessione di fede è alle soglie della terra promessa, e anche del suo congedo dalla vita. Aveva centoventi anni, annota il racconto, «ma gli occhi non gli si erano spenti» (Dt 34,7). Quella capacità di vedere, vedere realmente anche vedere simbolicamente, come hanno gli anziani, che sanno vedere le cose, il significato più radicato delle cose. La vitalità del suo sguardo è un dono prezioso: gli consente di trasmettere l’eredità della sua lunga esperienza di vita e di fede, con la lucidità necessaria. Mosè vede la storia e trasmette la storia; i vecchi vedono la storia e trasmettono la storia.

Una vecchiaia alla quale viene concessa questa lucidità è un dono prezioso per la generazione che deve seguire. L’ascolto personale e diretto del racconto della storia di fede vissuta, con tutti i suoi alti e bassi, è insostituibile. Leggerla sui libri, guardarla nei film, consultarla su internet, per quanto utile, non sarà mai la stessa cosa. Questa trasmissione – che è la vera e propria tradizione, la trasmissione concreta dal vecchio al giovane! – questa trasmissione manca molto oggi, e sempre di più, alle nuove generazioni. Perché? Perché questa civiltà nuova ha l’idea che i vecchi sono materiale di scarto, i vecchi vanno scartati. Questa è una brutalità! No, non va così. Il racconto diretto, da persona a persona, ha toni e modi di comunicazione che nessun altro mezzo può sostituire. Un vecchio che ha vissuto a lungo, e ottiene il dono di una lucida e appassionata testimonianza della sua storia, è una benedizione insostituibile. Siamo capaci di riconoscere e di onorare questo dono dei vecchi? La trasmissione della fede – e del senso della vita – segue oggi questa strada di ascolto dei vecchi? Io posso dare una testimonianza personale. L’odio e la rabbia alla guerra io l’ho imparata da mio nonno che aveva combattuto al Piave nel 1914: lui mi ha trasmesso questa rabbia alla guerra. Perché mi raccontò le sofferenze di una guerra. E questo non si impara né nei libri né in altra maniera, si impara così, trasmettendola dai nonni ai nipoti. E questo è insostituibile. La trasmissione dell’esperienza di vita dai nonni ai nipoti. Oggi questo purtroppo non è così e si pensa che i nonni siano materiale di scarto: no! Sono la memoria vivente di un popolo e i giovani e i bambini devono ascoltare i nonni.

Nella nostra cultura, così “politicamente corretta”, questa strada appare ostacolata in molti modi: nella famiglia, nella società, nella stessa comunità cristiana. Qualcuno propone addirittura di abolire l’insegnamento della storia, come un’informazione superflua su mondi non più attuali, che toglie risorse alla conoscenza del presente. Come se noi fossimo nati ieri!

La trasmissione della fede, d’altra parte, spesso manca della passione propria di una “storia vissuta”. Trasmettere la fede non è dire le cose “bla-bla-bla”. E’ dire l’esperienza di fede. E allora difficilmente può attirare a scegliere l’amore per sempre, la fedeltà alla parola data, la perseveranza nella dedizione, la compassione per i volti feriti e avviliti? Certo, le storie della vita vanno trasformate in testimonianza, e la testimonianza dev’essere leale. Non è certo leale l’ideologia che piega la storia ai propri schemi; non è leale la propaganda, che adatta la storia alla promozione del proprio gruppo; non è leale fare della storia un tribunale in cui si condanna tutto il passato e si scoraggia ogni futuro. Essere leale è raccontare la storia come è, e soltanto la può raccontare bene chi l’ha vissuta. Per questo è molto importante ascoltare i vecchi, ascoltare i nonni, è importante che i bambini interloquiscano con loro.

I Vangeli stessi raccontano onestamente la storia benedetta di Gesù senza nascondere gli errori, le incomprensioni e persino i tradimenti dei discepoli. Questa è la storia, è la verità, questa è testimonianza. Questo è il dono della memoria che gli “anziani” della Chiesa trasmettono, fin dall’inizio, passandolo “di mano in mano” alla generazione che segue. Ci farà bene chiederci: quanto valorizziamo questo modo di trasmettere la fede, nel passaggio del testimone fra gli anziani della comunità e i giovani che si aprono al futuro? E qui mi viene in mente una cosa che ho detto tante volte, ma vorrei ripeterla. Come si trasmette la fede? “Ah, qua c’è un libro, studialo”: no. Così non si può trasmettere la fede. La fede si trasmette in dialetto, cioè nel parlato familiare, fra nonni e nipoti, fra genitori e nipoti. La fede si trasmette sempre in dialetto, in quel dialetto familiare ed esperienziale appreso con gli anni. Per questo è tanto importante il dialogo in una famiglia, il dialogo dei bambini con i nonni che sono coloro che hanno la saggezza della fede.

Certe volte, mi accade di riflettere su questa strana anomalia. Il catechismo dell’iniziazione cristiana attinge oggi generosamente alla Parola di Dio e trasmette accurate informazioni sui dogmi, sulla morale della fede e sui sacramenti. Spesso manca, però, una conoscenza della Chiesa che nasca dall’ascolto e dalla testimonianza della storia reale della fede e della vita della comunità ecclesiale, fin dall’inizio ai giorni nostri. Da bambini si impara la Parola di Dio nelle aule del catechismo; ma la Chiesa la si “impara”, da giovani, nelle aule scolastiche e nei media dell’informazione globale.

La narrazione della storia di fede dovrebbe essere come il Cantico di Mosè, come la testimonianza dei Vangeli e degli Atti degli Apostoli. Ossia, una storia capace di rievocare con commozione le benedizioni di Dio e con lealtà le nostre mancanze. Sarebbe bello che ci fosse, fin dall’inizio, negli itinerari di catechesi, anche l’abitudine di ascoltare, dall’esperienza vissuta degli anziani, la lucida confessione delle benedizioni ricevute da Dio, che dobbiamo custodire, e la leale testimonianza delle nostre mancate fedeltà, che dobbiamo riparare e correggere. Gli anziani entrano nella terra promessa, che Dio desidera per ogni generazione, quando offrono ai giovani la bella iniziazione della loro testimonianza e trasmettono la storia della fede, la fede in dialetto, quel dialetto familiare, quel dialetto che passa dai vecchi ai giovani. Allora, guidati dal Signore Gesù, anziani e giovani entrano insieme nel suo Regno di vita e di amore. Ma tutti insieme. Tutti in famiglia, con questo tesoro grande che è la fede trasmessa in dialetto.

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Saluti

Vorrei prendere un minuto per ricordare le vittime della guerra. Le notizie delle persone sfollate, delle persone che fuggono, delle persone morte, delle persone ferite, di tanti soldati caduti da una parte e dall’altra, sono notizie di morte. Chiediamo al Signore della vita che ci liberi da questa morte della guerra. Con la guerra tutto si perde, tutto. Non c’è vittoria in una guerra: tutto è sconfitto. Che il Signore invii il suo Spirito perché ci faccia capire che la guerra è una sconfitta dell’umanità, ci faccia capire che occorre invece sconfiggere la guerra. Lo Spirito del Signore ci liberi tutti da questo bisogno di auto-distruzione, che si manifesta facendo la guerra. Preghiamo anche perché i governanti capiscano che comprare armi e fare armi non è la soluzione del problema. La soluzione è lavorare insieme per la pace e, come dice la Bibbia, fare delle armi strumenti per la pace. Preghiamo insieme la Madonna: Ave Maria…

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i fedeli di Biella che, accompagnati dal loro Vescovo, ricordano il 250° anniversario di fondazione della Diocesi. Questi biellesi [lo dice in dialetto], non è facile capirli: dicono che ci vogliono sette anni e sette mesi per capirli, e poi alla fine non si capiscono mai! Benvenuti, biellesi! Saluto poi le Suore della Provvidenza per l’infanzia abbandonata, i diaconi dell’Arcidiocesi di Milano, la Federazione Italiana Cuochi - si vede che siete cuochi voi -, il gruppo della terza età “Vivere insieme” di Catania.

Il mio pensiero va infine, come di consueto, agli anziani, agli ammalati, ai giovani e agli sposi novelli. La Solennità dell’Annunciazione, che celebreremo dopodomani, sia per ciascuno di noi un invito a seguire l’esempio della Madre di Dio e si traduca in generosa disponibilità alla chiamata del Padre, che esorta tutti ad essere fermento per l’edificazione di una società giusta e solidale.

A tutti, la mia benedizione!

Testo ufficiale Consacrazione della Russia con Papa Francesco, al Cuore di Maria


UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 30 marzo 2022

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Catechesi sulla Vecchiaia - 5. La fedeltà alla visita di Dio per la generazione che viene

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nel nostro itinerario di catechesi sul tema della vecchiaia, oggi guardiamo al tenero quadro dipinto dall’evangelista san Luca, che chiama in scena due figure di anziani, Simeone e Anna. La loro ragione di vita, prima di congedarsi da questo mondo, è l’attesa della visita di Dio. Aspettavano che venisse Dio a visitarli, cioè Gesù. Simeone sa, per una premonizione dello Spirito Santo, che non morirà prima di aver visto il Messia. Anna frequenta ogni giorno il tempio dedicandosi al suo servizio. Entrambi riconoscono la presenza del Signore nel bambino Gesù, che colma di consolazione la loro lunga attesa e rasserena il loro congedo dalla vita. Questa è una scena di incontro con Gesù, e di congedo.

Che cosa possiamo imparare da queste due figure di anziani pieni vitalità spirituale?

Intanto, impariamo che la fedeltà dell’attesa affina i sensi. Del resto, lo sappiamo, lo Spirito Santo fa proprio questo: illumina i sensi. Nell’antico inno Veni Creator Spiritus, con cui invochiamo ancora oggi lo Spirito Santo, diciamo: «Accende lumen sensibus», accendi una luce per i sensi, illumina i nostri sensi. Lo Spirito è capace di fare questo: acuisce i sensi dell’anima, nonostante i limiti e le ferite dei sensi del corpo. La vecchiaia indebolisce, in un modo o nell’altro, la sensibilità del corpo: uno è più cieco, uno più sordo … Tuttavia, una vecchiaia che si è esercitata nell’attesa della visita di Dio non perderà il suo passaggio: anzi, sarà anche più pronta a coglierlo, avrà più sensibilità per accogliere il Signore quando passa. Ricordiamo che un atteggiamento del cristiano è stare attento alle visite del Signore, perché il Signore passa nella nostra vita con le ispirazioni, con l’invito a essere migliori. E Sant’Agostino diceva: “Ho paura di Dio quando passa” – “Ma come mai, tu hai paura?” – “Sì, ho paura di non accorgermene e lasciarlo passare”. È lo Spirito Santo che prepara i sensi per capire quando il Signore ci sta facendo una visita, come ha fatto con Simeone e Anna.

Oggi abbiamo più che mai bisogno di questo: abbiamo bisogno di una vecchiaia dotata di sensi spirituali vivi e capace di riconoscere i segni di Dio, anzi, il Segno di Dio, che è Gesù. Un segno che ci mette in crisi, sempre: Gesù ci mette n crisi perché è «segno di contraddizione» (Lc 2,34) – ma che ci riempie di letizia. Perché la crisi non necessariamente ti porta la tristezza, no: essere in crisi, rendendo il servizio al Signore, tante volte ti dà una pace e una letizia. L’anestesia dei sensi spirituali – e questo è brutto – l’anestesia dei sensi spirituali, nell’eccitazione e nello stordimento di quelli del corpo, è una sindrome diffusa in una società che coltiva l’illusione dell’eterna giovinezza, e il suo tratto più pericoloso sta nel fatto che essa è per lo più inconsapevole. Non ci si accorge di essere anestetizzati. E questo succede: è sempre successo e succede nei nostri tempi. I sensi anestetizzati, senza capire cosa succede; i sensi interiori, i sensi dello spirito per capire la presenza di Dio o la presenza del male, anestetizzati, non distinguono.

Quando perdi la sensibilità del tatto o del gusto, te ne accorgi subito. Invece, quella dell’anima, quella sensibilità dell’anima puoi ignorarla a lungo, vivere senza accorgerti che hai perso la sensibilità dell’anima. Essa non riguarda semplicemente il pensiero di Dio o della religione. L’insensibilità dei sensi spirituali riguarda la compassione e la pietà, la vergogna e il rimorso, la fedeltà e la dedizione, la tenerezza e l’onore, la responsabilità propria e il dolore per l’altro. È curioso: l’insensibilità non ti fa capire la compassione, non ti fa capire la pietà, non ti fa provare vergogna o rimorso per avere fatto una cosa brutta. È così: i sensi spirituali anestetizzati confondono tutto e uno non sente, spiritualmente, cose del genere. E la vecchiaia diventa, per così dire, la prima perdita, la prima vittima di questa perdita di sensibilità. In una società che esercita soprattutto la sensibilità per il godimento, non può che venir meno l’attenzione verso i fragili e prevalere la competizione dei vincenti. E così si perde la sensibilità. Certo, la retorica dell’inclusione è la formula di rito di ogni discorso politicamente corretto. Ma ancora non porta una reale correzione nelle pratiche della convivenza normale: stenta a crescere una cultura della tenerezza sociale. No: lo spirito della fraternità umana – che mi è sembrato necessario rilanciare con forza – è come un abito dismesso, da ammirare, sì, ma… in un museo. Si perde la sensibilità umana, si perdono questi movimenti dello spirito che ci fanno umani.

È vero, nella vita reale possiamo osservare, con commossa gratitudine, tanti giovani capaci di onorare fino in fondo questa fraternità. Ma proprio qui sta il problema: esiste uno scarto, uno scarto colpevole, fra la testimonianza di questa linfa vitale della tenerezza sociale e il conformismo che impone alla giovinezza di raccontarsi in tutt’altro modo. Che cosa possiamo fare per colmare questo scarto?

Dal racconto di Simeone e Anna, ma anche da altre storie bibliche dell’età anziana sensibile allo Spirito, viene un’indicazione nascosta che merita di essere portata in primo piano. In che cosa consiste, concretamente, la rivelazione che accende la sensibilità di Simeone e di Anna? Consiste nel riconoscere in un bambino, che loro non hanno generato e che vedono per la prima volta, il segno certo della visita di Dio. Essi accettano di non essere protagonisti, ma solo testimoni. E quando un individuo accetta di non essere protagonista, ma si coinvolge come testimone, la cosa va bene: quell’uomo o quella donna sta maturando bene. E ciò avviene se ha sempre la voglia di essere protagonista, altrimenti non maturerà mai questo cammino verso la pienezza della vecchiaia. La visita di Dio non si incarna nella loro vita, di quelli che vogliono essere protagonisti e mai testimoni, non li porta sulla scena come salvatori: Dio non prende carne nella loro generazione, ma nella generazione che deve venire. Perdono lo spirito, perdono la voglia di vivere con maturità e, come si dice usualmente, si vive con superficialità. È la grande generazione dei superficiali, che non si permettono di sentire le cose con la sensibilità dello spirito. Ma perché non si permettono? In parte per pigrizia, e in parte perché già non possono: l’hanno persa. È brutto quando una civiltà perde la sensibilità dello spirito. Invece, è bellissimo quando troviamo anziani come Simeone e Anna che conservano questa sensibilità dello spirito e sono capaci di capire le diverse situazioni, come questi due hanno capito questa situazione che era davanti a loro che era la manifestazione del Messia. Nessun risentimento e nessuna recriminazione, per questo, quando sono in questo stato di staticità. Invece, grande commozione e grande consolazione quando i sensi spirituali sono ancora vivi. La commozione e la consolazione di poter vedere e annunciare che la storia della loro generazione non è perduta o sprecata, proprio grazie a un evento che prende carne e si manifesta nella generazione che segue. E questo è quello che sente un anziano quando i nipoti vanno a parlare con lui: si sentono ravvivare. “Ah, la mia vita ancora è qui”. È tanto importante andare dagli anziani, è tanto importante ascoltarli. È tanto importante parlare con loro, perché avviene questo scambio di civiltà, questo scambio di maturità fra giovani e anziani. E così, la nostra civiltà va avanti in modo maturo.

Solo la vecchiaia spirituale può dare questa testimonianza, umile e folgorante, rendendola autorevole ed esemplare per tutti. La vecchiaia che ha coltivato la sensibilità dell’anima spegne ogni invidia tra le generazioni, ogni risentimento, ogni recriminazione per un avvento di Dio nella generazione che viene, che arriva insieme con il congedo della propria. E questo è quello che succede a un anziano aperto con un giovane aperto: si congeda dalla vita ma consegnando – tra virgolette – la propria vita alla nuova generazione. E questo è quel congedo di Simeone e Anna: “Adesso posso andare in pace”. La sensibilità spirituale dell’età anziana è in grado di abbattere la competizione e il conflitto fra le generazioni in modo credibile e definitivo. Sorpassa, questa sensibilità: gli anziani, con questa sensibilità, sorpassano il conflitto, vanno oltre, vanno all’unità, non al conflitto. Questo certamente è impossibile agli uomini, ma è possibile a Dio. E oggi ne abbiamo tanto bisogno, della sensibilità dello spirito, della maturità dello spirito, abbiamo bisogno di anziani saggi, maturi nello spirito che ci diano una speranza per la vita!

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Saluti

APPELLO

Cari fratelli e sorelle, sabato e domenica prossimi mi recherò a Malta. In quella terra luminosa sarò pellegrino sulle orme dell’Apostolo Paolo, che lì fu accolto con grande umanità dopo aver fatto naufragio in mare mentre era diretto a Roma. Questo Viaggio Apostolico sarà così l’occasione per andare alle sorgenti dell’annuncio del Vangelo, per conoscere di persona una comunità cristiana dalla storia millenaria e vivace, per incontrare gli abitanti di un Paese che si trova al centro del Mediterraneo e nel sud del continente europeo, oggi ancora più impegnato nell’accoglienza di tanti fratelli e sorelle in cerca di rifugio. Fin da ora saluto di cuore tutti voi maltesi: buona giornata. Ringrazio quanti si sono impegnati per preparare questa visita e chiedo a ciascuno di accompagnarmi con la preghiera. Grazie!

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto l’Associazione nazionale bonifiche delle irrigazioni, che incoraggio a proseguire con cura l’opera di gestione dell’acqua, patrimonio inestimabile; saluto l’Unione Generale del lavoro, impegnata nella tutela dei diritti dei lavoratori; i rappresentanti della Marina Militare di Taranto e la Nazionale calcio trapiantati. Un saluto particolarmente affettuoso rivolgo ai Bambini ucraini, ospitati dalla Fondazione “Aiutiamoli a vivere”, dall’Associazione “Puer” e dall’Ambasciata di Ucraina presso la Santa Sede. E con questo saluto ai bambini, torniamo anche a pensare a questa mostruosità della guerra e rinnoviamo le preghiere perché si fermi questa crudeltà selvaggia che è la guerra.

Il mio pensiero va infine, come di consueto, agli anziani, agli ammalati, ai giovani e agli sposi novelli. In questo ultimo tratto del cammino quaresimale, guardiamo alla Croce di Cristo, massima espressione dell’amore di Dio, e sforziamoci di stare sempre vicini a quanti soffrono, a quanti sono soli, ai deboli che patiscono violenza e non hanno chi li difenda.



UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 13 aprile 2022

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La pace di Pasqua

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Siamo al centro della Settimana Santa, che si snoda dalla Domenica delle Palme alla Domenica di Pasqua. Entrambe queste domeniche si caratterizzano per la festa che viene fatta intorno a Gesù. Ma sono due feste diverse.

Domenica scorsa abbiamo visto Cristo entrare solennemente a Gerusalemme, come una festa, accolto come Messia: e per Lui vengono stesi sulla strada mantelli (cfr Lc 19,36) e rami tagliati dagli alberi (cfr Mt 21,8). La folla esultante benedice a gran voce «colui che viene, il re», e acclama: «Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli» (Lc 19,38). Quella gente là festeggia perché vede nell’ingresso di Gesù l’arrivo di un nuovo re, che avrebbe portato pace e gloria. Ecco qual era la pace attesa da quella gente: una pace gloriosa, frutto di un intervento regale, quello di un messia potente che avrebbe liberato Gerusalemme dall’occupazione dei Romani. Altri, probabilmente, sognavano il ristabilimento di una pace sociale e vedevano in Gesù il re ideale, che avrebbe sfamato le folle di pani, come aveva già fatto, e operato grandi miracoli, portando così più giustizia nel mondo.

Ma Gesù non parla mai di questo. Ha davanti a sé una Pasqua diversa, non una Pasqua trionfale. L’unica cosa a cui tiene per preparare il suo ingresso a Gerusalemme è cavalcare «un puledro legato, sul quale non è mai salito nessuno» (v. 30). Ecco come Cristo porta la pace nel mondo: attraverso la mansuetudine e la mitezza, simboleggiate da quel puledro legato, su cui nessuno era salito. Nessuno, perché il modo di fare di Dio è diverso da quello del mondo. Gesù, infatti, appena prima di Pasqua, spiega ai discepoli: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace non come la dà il mondo, io la do a voi» (Gv 14,27). Sono due modalità diverse: un modo come il mondo ci dà la pace e un modo come Dio ci dà la pace. Sono diversi.

La pace che Gesù ci dà a Pasqua non è la pace che segue le strategie del mondo, il quale crede di ottenerla attraverso la forza, con le conquiste e con varie forme di imposizione. Questa pace, in realtà, è solo un intervallo tra le guerre: lo sappiamo bene. La pace del Signore segue la via della mitezza e della croce: è farsi carico degli altri. Cristo, infatti, ha preso su di sé il nostro male, il nostro peccato e la nostra morte. Ha preso su di sé tutto questo. Così ci ha liberati. Lui ha pagato per noi. La sua pace non è frutto di qualche compromesso, ma nasce dal dono di sé. Questa pace mite e coraggiosa, però, è difficile da accogliere. Infatti, la folla che osannava Gesù è la stessa che dopo pochi giorni grida “Crocifiggilo” e, impaurita e delusa, non muove un dito per Lui.

A questo proposito, è sempre attuale un grande racconto di Dostoevskij, la cosiddetta Leggenda del Grande Inquisitore. Si narra di Gesù che, dopo vari secoli, torna sulla Terra. Subito è accolto dalla folla festante, che lo riconosce e lo acclama. “Ah, sei tornato! Vieni, vieni con noi!”. Ma poi viene arrestato dall’Inquisitore, che rappresenta la logica mondana. Questi lo interroga e lo critica ferocemente. Il motivo finale del rimprovero è che Cristo, pur potendo, non ha mai voluto diventare Cesare, il più grande re di questo mondo, preferendo lasciare libero l’uomo anziché soggiogarlo e risolverne i problemi con la forza. Avrebbe potuto stabilire la pace nel mondo, piegando il cuore libero ma precario dell’uomo in forza di un potere superiore, ma non ha voluto: ha rispettato la nostra libertà. «Tu – dice l’Inquisitore a Gesù –, accettando il mondo e la porpora dei Cesari, avresti fondato il regno universale e dato la pace universale» (I fratelli Karamazov, Milano 2012, 345); e con sentenza sferzante conclude: «Se c’è qualcuno che ha meritato più di tutti il nostro rogo, sei proprio Tu» (348). Ecco l’inganno che si ripete nella storia, la tentazione di una pace falsa, basata sul potere, che poi conduce all’odio e al tradimento di Dio e a tanta amarezza nell’anima.

Alla fine, secondo questo relato, l’Inquisitore vorrebbe che Gesù «gli dicesse qualche cosa, magari anche qualche cosa di amaro, di terribile». Ma Cristo reagisce con un gesto dolce e concreto: «gli si avvicina in silenzio, e lo bacia dolcemente sulle vecchie labbra esangui» (352). La pace di Gesù non sovrasta gli altri, non è mai una pace armata: mai! Le armi del Vangelo sono la preghiera, la tenerezza, il perdono e l’amore gratuito al prossimo, l’amore a ogni prossimo. È così che si porta la pace di Dio nel mondo. Ecco perché l’aggressione armata di questi giorni, come ogni guerra, rappresenta un oltraggio a Dio, un tradimento blasfemo del Signore della Pasqua, un preferire al suo volto mite quello del falso dio di questo mondo. Sempre la guerra è un’azione umana per portare all’idolatria del potere.

Gesù, prima della sua ultima Pasqua, disse ai suoi: «Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore» (Gv 14,27). Sì, perché mentre il potere mondano lascia solo distruzione e morte – lo abbiamo visto in questi giorni –, la sua pace edifica la storia, a partire dal cuore di ogni uomo che la accoglie. Pasqua è allora la vera festa di Dio e dell’uomo, perché la pace, che Cristo ha conquistato sulla croce nel dono di sé, viene distribuita a noi. Perciò il Risorto, il giorno di Pasqua, appare ai discepoli e come li saluta? «Pace a voi!» (Gv 20,19.21). Questo è il saluto di Cristo vincitore, di Cristo risorto.

Fratelli, sorelle, Pasqua significa “passaggio”. È, soprattutto quest’anno, l’occasione benedetta per passare dal dio mondano al Dio cristiano, dall’avidità che ci portiamo dentro alla carità che ci fa liberi, dall’attesa di una pace portata con la forza all’impegno di testimoniare concretamente la pace di Gesù. Fratelli e sorelle, mettiamoci davanti al Crocifisso, sorgente della nostra pace, e chiediamogli la pace del cuore e la pace nel mondo.

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Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. È ormai davanti a noi, il Triduo pasquale, culmine dell’anno liturgico e della vita della Chiesa. Vi invito a disporre i vostri cuori per seguire con fede le celebrazioni dei prossimi giorni.

Il mio pensiero va infine, come di consueto, agli anziani, agli ammalati, ai giovani e agli sposi novelli. In questa Settimana Santa rispondete con generosità a Cristo che ci chiama ad unirci più profondamente alla sua morte e risurrezione. Egli vuole colmarci della sua vita, dandoci una “speranza che non delude”.

A tutti voi la mia benedizione!






[Modificato da Caterina63 13/04/2022 21:16]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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20/04/2022 14:12
 
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UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 20 aprile 2022

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Catechesi sulla Vecchiaia - 6. “Onora il padre e la madre”: l’amore per la vita vissuta.

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi, con l’aiuto della Parola di Dio che abbiamo ascoltato, apriamo un passaggio attraverso la fragilità dell’età anziana, segnata in modo speciale dalle esperienze dello smarrimento e dell’avvilimento, della perdita e dell’abbandono, della disillusione e del dubbio. Naturalmente, le esperienze della nostra fragilità, di fronte alle situazioni drammatiche – talora tragiche – della vita, possono accadere in ogni tempo dell’esistenza. Tuttavia, nell’età anziana esse possono suscitare meno impressione e indurre negli altri una sorta di assuefazione, persino di fastidio. Quante volte abbiamo sentito o abbiamo pensato: “I vecchi danno fastidio”; L’abbiamo detto, l’abbiamo pensato… Le ferite più gravi dell’infanzia e della giovinezza provocano, giustamente, un senso di ingiustizia e di ribellione, una forza di reazione e di lotta. Invece le ferite, anche gravi, dell’età anziana sono accompagnate, inevitabilmente, dalla sensazione che, comunque, la vita non contraddice sé stessa, perché è già stata vissuta. E così i vecchi sono un po’ allontanati anche dalla nostra esperienza: vogliamo allontanarli.

Nella comune esperienza umana, l’amore – come si dice – è discendente: non ritorna sulla vita che sta dietro le spalle con la stessa forza con la quale si riversa sulla vita che ci sta ancora davanti. La gratuità dell’amore appare anche in questo: i genitori lo sanno da sempre, i vecchi lo imparano presto. Nonostante ciò, la rivelazione apre una strada per una diversa restituzione dell’amore: è la via dell’onorare chi ci ha preceduto. La via dell’onorare le persone che ci hanno preceduto comincia da qui: onorare gli anziani.

Questo amore speciale che si apre la strada nella forma dell’onore – cioè, tenerezza e rispetto allo stesso tempo – destinato all’età anziana è sigillato dal comandamento di Dio. «Onora il padre e la madre» è un impegno solenne, il primo della “seconda tavola” dei dieci comandamenti. Non si tratta soltanto del proprio padre e della propria madre. Si tratta della generazione e delle generazioni che precedono, il cui congedo può anche essere lento e prolungato, creando un tempo e uno spazio di convivenza di lunga durata con le altre età della vita. In altre parole, si tratta della vecchiaia della vita.

Onore è una buona parola per inquadrare questo ambito di restituzione dell’amore che riguarda l’età anziana. Cioè, noi abbiamo ricevuto l’amore dei genitori, dei nonni e adesso noi restituiamo questo amore a loro, agli anziani, ai nonni. Noi oggi abbiamo riscoperto il termine “dignità”, per indicare il valore del rispetto e della cura della vita di chiunque. Dignità, qui, equivale sostanzialmente all’onore: onorare padre e madre, onorare gli anziani è riconoscere la dignità che hanno.

Pensiamo bene a questa bella declinazione dell’amore che è l’onore. La cura stessa del malato, il sostegno di chi non è autosufficiente, la garanzia del sostentamento, possono mancare di onore. L’onore viene a mancare quando l’eccesso di confidenza, invece di declinarsi come delicatezza e affetto, tenerezza e rispetto, si trasforma in ruvidezza e prevaricazione. Quando la debolezza è rimproverata, e addirittura punita, come fosse una colpa. Quando lo smarrimento e la confusione diventano un varco per l’irrisione e l’aggressività. Può accadere persino fra le pareti domestiche, nelle case di cura, come anche negli uffici o negli spazi aperti della città. Incoraggiare nei giovani, anche indirettamente, un atteggiamento di sufficienza – e persino di disprezzo – nei confronti dell’età anziana, delle sue debolezze e della sua precarietà, produce cose orribili. Apre la strada a eccessi inimmaginabili. I ragazzi che danno fuoco alla coperta di un “barbone” – lo abbiamo visto –, perché lo vedono come uno scarto umano, sono la punta di un iceberg, cioè del disprezzo per una vita che, lontana dalle attrazioni e dalle pulsioni della giovinezza, appare già come una vita di scarto. Tante volte pensiamo che i vecchi sono lo scarto o li mettiamo noi allo scarto; si disprezzano i vecchi e si scartano dalla vita, mettendoli da parte.

Questo disprezzo, che disonora l’anziano, in realtà disonora tutti noi. Se io disonoro l’anziano disonoro me stesso. Il brano del Libro del Siracide, ascoltato all’inizio, è giustamente duro nei confronti di questo disonore, che grida vendetta al cospetto di Dio. Esiste un passo, nella storia di Noè, molto espressivo a questo riguardo. Il vecchio Noè, eroe del diluvio e ancora gran lavoratore, giace scomposto dopo aver bevuto qualche bicchiere di troppo. È già anziano, ma ha bevuto troppo. I figli, per non farlo svegliare nell’imbarazzo, lo coprono delicatamente, con lo sguardo abbassato, con grande rispetto. Questo testo è molto bello e dice tutto dell’onore dovuto all’anziano; coprire le debolezze dell’anziano, per non farlo vergognare, è un testo che ci aiuta tanto.

Nonostante tutte le provvidenze materiali che le società più ricche e organizzate mettono a disposizione della vecchiaia – delle quali possiamo certamente essere orgogliosi –, la lotta per la restituzione di quella speciale forma dell’amore che è l’onore, mi pare ancora fragile e acerba. Dobbiamo fare di tutto, sostenerla e incoraggiarla, offrendo migliore sostegno sociale e culturale a coloro che sono sensibili a questa decisiva forma di “civiltà dell’amore”. E su questo, io mi permetto di consigliare ai genitori: per favore, avvicinare i figli, i bambini, i figli giovani agli anziani, avvicinarli sempre. E quando l’anziano è ammalato, un po’ fuori testa, avvicinarli sempre: che sappiano che questa è la nostra carne, che questo è quello che ha fatto sì che noi stessimo adesso qui. Per favore, non allontanare gli anziani. E se non c’è altra possibilità che inviarli in una casa di riposo, per favore, andarli a trovare e portare i bambini a trovarli: sono l’onore della nostra civiltà, i vecchi che hanno aperto le porte. E tante volte, i figli si dimenticano di questo. Vi dico una cosa personale: a me piaceva, a Buenos Aires, visitare le case di riposo. Andavo spesso e visitavo ognuno. Ricordo una volta che domandai a una signora: “Quanti figli ha, lei?” – “Ne ho quattro, tutti sposati, con nipotini”. E incominciò a parlarmi della famiglia. “E loro vengono?” – “Sì, vengono sempre!”. Quando sono uscito dalla camera l’infermiera, che aveva sentito, mi disse: “Padre, ha detto una bugia per coprire i figli. Da sei mesi non viene nessuno!”. Questo è scartare i vecchi, è pensare che i vecchi sono materiale di scarto. Per favore: è un peccato grave. Questo è il primo grande comandamento, e l’unico che dice il premio: “Onora il padre e la madre e avrai vita lunga sulla terra”. Questo comandamento di onorare i vecchi ci dà una benedizione, che si manifesta in questo modo: “Avrai lunga vita”. Per favore, custodire i vecchi. E se perdono la testa, custodirli comunque perché sono la presenza della storia, la presenza della mia famiglia, e grazie a loro io sono qui, possiamo dire tutti noi: grazie a te, nonno e nonna, io sono vivo. Per favore, non lasciarli da soli. E questo, di custodire i vecchi, non è una questione di cosmetici e di chirurgia plastica: no. Piuttosto, è una questione di onore, che deve trasformare l’educazione dei giovani riguardo alla vita e alle sue fasi. L’amore per l’umano che ci è comune, inclusivo dell’onore per la vita vissuta, non è una faccenda per vecchi. Piuttosto è un’ambizione che renderà splendente la giovinezza che ne eredita le qualità migliori. La sapienza dello Spirito di Dio ci conceda di aprire l’orizzonte di questa vera e propria rivoluzione culturale con l’energia necessaria.


Saluti

[Saluto cordialmente tutti i Polacchi. Domenica celebreremo la festa della Divina Misericordia. Cristo ci insegna che l'uomo non solo sperimenta la misericordia di Dio, ma è anche chiamato a mostrarla al suo prossimo. Vi sono particolarmente grato per la vostra misericordia verso tanti rifugiati dall'Ucraina, che hanno trovato in Polonia porte aperte e cuori generosi. Che Dio vi ricompensi per la vostra bontà. Preghiamo anche con fiducia il Cristo Misericordioso per gli anziani, i malati e gli afflitti. Che il Cristo risorto ravvivi in noi la speranza e lo spirito di fede. Vi benedico di cuore.]

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Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i sacerdoti della diocesi di Milano che ricordano il 40° di Ordinazione, i diaconi del Collegio Internazionale del Gesù, le Suore Serve del Signore e della Vergine di Matarà, le Novizie e Juniores di varie Congregazioni religiose: queste giovani si muovono... Assicuro la mia preghiera a ciascuno perché il Signore accompagni e sostenga il vostro cammino di fedeltà e di consacrazione a Lui.

Con speciale affetto saluto i preadolescenti della Diocesi di Milano: cari ragazzi, guardate a Gesù Risorto per ritrovare in Lui, il modello e la forza per vivere pienamente le ricchezze della vostra età.

Il mio pensiero va infine, come di consueto, agli anziani, agli ammalati, ai giovani e agli sposi novelli. Il messaggio che scaturisce dal mistero della Risurrezione sia per tutti un impegno a riconoscere che nell’evento di Cristo è annunciata la più profonda verità sull’uomo ed è tracciato il suo destino.

A tutti voi la mia benedizione!




UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 27 aprile 2022

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Catechesi sulla Vecchiaia: 7. Noemi, l’alleanza fra le generazioni che apre il futuro

Cari fratelli e sorelle, buongiorno e benvenuti!

Oggi continuiamo a riflettere sugli anziani, sui nonni, sulla vecchiaia, sembra brutta la parola ma no, i vecchi sono grandi, sono belli! E oggi ci lasceremo ispirare dallo splendido libro di Rut, un gioiello della Bibbia. La parabola di Rut illumina la bellezza dei legami famigliari: generati dal rapporto di coppia, ma che vanno al di là del legame di coppia. Legami d’amore capaci di essere altrettanto forti, nei quali si irradia la perfezione di quel poliedro degli affetti fondamentali che formano la grammatica famigliare dell’amore. Questa grammatica porta linfa vitale e sapienza generativa nell’insieme dei rapporti che edificano la comunità. Rispetto al Cantico dei Cantici, il libro di Rut è come l’altra tavola del dittico dell’amore nuziale. Altrettanto importante, altrettanto essenziale, esso celebra infatti la potenza e la poesia che devono abitare i legami di generazione, di parentela, di dedizione, di fedeltà che avvolgono l’intera costellazione famigliare. E che diventano persino capaci, nelle congiunture drammatiche della vita di coppia, di portare una forza d’amore inimmaginabile, in grado di rilanciarne la speranza e il futuro.

Sappiamo che i luoghi comuni sui legami di parentela creati dal matrimonio, soprattutto quello della suocera, quel legame fra suocera e nuora, parlano contro questa prospettiva. Ma, appunto per questo, la parola di Dio diventa preziosa. L’ispirazione della fede sa aprire un orizzonte di testimonianza in controtendenza rispetto ai pregiudizi più comuni, un orizzonte prezioso per l’intera comunità umana. Vi invito a riscoprire il libro di Rut! Specialmente nella meditazione sull’amore e nella catechesi sulla famiglia.

Questo piccolo libro contiene anche un prezioso insegnamento sull’alleanza delle generazioni: dove la giovinezza si rivela capace di ridare entusiasmo all’età matura - questo è essenziale: quando la giovinezza ridà entusiasmo agli anziani - , dove la vecchiaia si scopre capace di riaprire il futuro per la giovinezza ferita. In un primo momento, l’anziana Noemi, pur commossa per l’affetto delle nuore, rimaste vedove dei suoi due figli, si mostra pessimista sul loro destino all’interno di un popolo che non è il loro. Perciò incoraggia affettuosamente le giovani donne a ritornare nelle loro famiglie per rifarsi una vita - erano giovani queste donne vedove -. Dice: “Non posso fare niente per voi”. Già questo appare un atto d’amore: la donna anziana, senza marito e senza più figli, insiste perché le nuore la abbandonino. Però, è anche una sorta di rassegnazione: non c’è futuro possibile per le vedove straniere, prive della protezione del marito. Rut sa questo e resiste a questa generosa offerta, non vuole andarsene a casa sua. Il legame che si è stabilito fra suocera e nuora è stato benedetto da Dio: Noemi non può chiedere di essere abbandonata. In un primo momento, Noemi appare più rassegnata che felice di questa offerta: forse pensa che questo strano legame aggraverà il rischio per entrambe. In certi casi, la tendenza dei vecchi al pessimismo ha bisogno di essere contrastata dalla pressione affettuosa dei giovani.

Di fatto, Noemi, commossa dalla dedizione di Rut, uscirà dal suo pessimismo e addirittura prenderà l’iniziativa, aprendo per Rut un nuovo futuro. Istruisce e incoraggia Rut, vedova di suo figlio, a conquistarsi un nuovo marito in Israele. Booz, il candidato, mostra la sua nobiltà, difendendo Rut dagli uomini suoi dipendenti. Purtroppo, è un rischio che si verifica anche oggi.

Il nuovo matrimonio di Rut si celebra e i mondi sono di nuovo pacificati. Le donne di Israele dicono a Noemi che Rut, la straniera, vale “più di sette figli” e che quel matrimonio sarà una “benedizione del Signore”. Noemi, che era piena di amarezza e diceva anche che il suo nome è amarezza, nella sua vecchiaia conoscerà la gioia di avere una parte nella generazione di una nuova nascita. Guardate quanti “miracoli” accompagnano la conversione di questa anziana donna! Lei si converte all’impegno di rendersi disponibile, con amore, per il futuro di una generazione ferita dalla perdita e a rischio di abbandono. I fronti della ricomposizione sono gli stessi che, in base alle probabilità disegnate dai pregiudizi di senso comune, dovrebbero generare fratture insuperabili. Invece, la fede e l’amore consentono di superarli: la suocera supera la gelosia per il figlio proprio, amando il nuovo legame di Rut; le donne di Israele superano la diffidenza per lo straniero (e se lo fanno le donne, tutti lo faranno); la vulnerabilità della ragazza sola, di fronte al potere del maschio, è riconciliata con un legame pieno d’amore e di rispetto.

E tutto questo perché la giovane Rut si è ostinata ad essere fedele a un legame esposto al pregiudizio etnico e religioso. E riprendo quello che ho detto all’inizio, oggi la suocera è un personaggio mitico, la suocera non dico che la pensiamo come il diavolo ma sempre la si pensa come una brutta figura. Ma la suocera è la mamma di tuo marito, è la mamma di tua moglie. Pensiamo oggi a questo sentimento un po’ diffuso che la suocera tanto più lontano meglio è. No! È madre, è anziana. Una delle cose più belle delle nonne è vedere i nipotini, quando i figli hanno dei figli, rivivono. Guardate bene il rapporto che voi avete con le vostre suocere: alle volte sono un po’ speciali, ma ti hanno dato la maternità del coniuge, ti hanno dato tutto. Almeno bisogna farle felici, affinché portino avanti la loro vecchiaia con felicità. E se hanno qualche difetto bisogna aiutarle a correggersi. Anche a voi suocere vi dico: state attente con la lingua, perché la lingua è uno dei peccati più brutto delle suocere, state attente.

E Rut in questo libro accetta la suocera e la fa rivivere e l’anziana Noemi assume l’iniziativa di riaprire il futuro per Rut, invece di limitarsi a goderne il sostegno. Se i giovani si aprono alla gratitudine per ciò che hanno ricevuto e i vecchi prendono l’iniziativa di rilanciare il loro futuro, niente potrà fermare la fioritura delle benedizioni di Dio fra i popoli! Mi raccomando, che i giovani parlino con i nonni, che i giovani parlino con i vecchi, che i vecchi parlino con i giovani. Questo ponte dobbiamo ristabilirlo forte, c’è lì una corrente di salvezza, di felicità. Che il Signore ci aiuti, facendo questo, a crescere in armonia nelle famiglie, quell’armonia costruttiva che va dai vecchi ai più giovani, quel ponte bello che noi dobbiamo custodire e guardare.

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Saluti

[Saluto con gioia i pellegrini croati, in particolare la delegazione del Ministero della Difesa della Repubblica di Croazia, insieme al Signor Ministro e agli altri ufficiali dello Stato Maggiore e dell’Accademia Militare, come pure gli ufficiali dell’Ordinariato Militare accompagnati dal loro Vescovo. Cari amici, l’incontro quotidiano e il cammino con il Signore risorto faccia ardere i vostri cuori affinché, con entusiasmo, possiate testimoniare la fede e proclamare le grandi opere di Dio, come veri operatori della pace nella società e nel mondo. Siano lodati Gesù e Maria!]

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Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto le Suore della Compagnia di Maria Nostra Signora, le Monache Clarisse di Anagni, l’Azienda Sanitaria di Napoli 3 Sud, la Società di Calcio Isola d’Elba: vinceranno il campionato! Un pensiero speciale ricolgo ai fedeli di Vignale Monferrato, accompagnati dal Vescovo e rinnovo la mia gratitudine per quanto hanno fatto in favore del giovane del Ghana, malato terminale. Grazie!

Il mio pensiero va infine, come di consueto, agli anziani, agli ammalati, ai giovani e agli sposi novelli. In questo periodo pasquale, che ci invita a meditare sul mistero della Risurrezione di Cristo, possa la gloria del Signore essere sorgente per ognuno di nuove energie nel cammino verso la salvezza. Aiuti voi, giovani, nel seguire fedelmente il Vangelo; sostenga voi, anziani e ammalati, ad andare avanti con fiducia e speranza; e guidi voi, sposi novelli, a fondare solide famiglie nel segno della verità evangelica.

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Vorrei dirvi una cosa. Vi chiedo scusa se vi saluterò stando seduto, perché questo ginocchio non guarisce ancora e non posso stare in piedi tanto tempo. Scusatemi per questo. Grazie.




UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 4 maggio 2022

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Catechesi sulla Vecchiaia: 8. Eleazaro, la coerenza della fede, eredità dell’onore

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nel cammino di queste catechesi sulla vecchiaia, oggi incontriamo un personaggio biblico - un anziano - di nome Eleazaro, vissuto ai tempi della persecuzione di Antioco Epifane. È una bella figura. La sua figura ci consegna una testimonianza dello speciale rapporto che esiste fra la fedeltà della vecchiaia e l’onore della fede. È uno fiero questo! Vorrei parlare proprio dell’onore della fede, non solo della coerenza, dell’annuncio, della resistenza della fede. L’onore della fede si trova periodicamente sotto la pressione, anche violenta, della cultura dei dominatori, che cerca di svilirla trattandola come un reperto archeologico, o vecchia superstizione, puntiglio anacronistico e così via.

Il racconto biblico – ne abbiamo ascoltato un piccolo brano, ma è bello leggerlo tutto – narra l’episodio degli ebrei costretti da un decreto del re a mangiare carni sacrificate agli idoli. Quando viene il turno di Eleazaro, che era un anziano novantenne molto stimato da tutti e autorevole, gli ufficiali del re lo consigliano di fare una simulazione, cioè di fingere di mangiare le carni senza farlo realmente. Ipocrisia religiosa, c’è tanta ipocrisia religiosa, ipocrisia clericale. Questi gli dicono: “Ma fa’ un po’ l’ipocrita, nessuno se ne accorgerà”. Così Eleazaro si sarebbe salvato, e – dicevano quelli – in nome dell’amicizia avrebbe accettato il loro gesto di compassione e di affetto. Dopo tutto – insistevano – si trattava di un gesto minimo, far finta di mangiare ma non mangiare, un gesto insignificante.

È poca cosa, ma la pacata e ferma risposta di Eleazaro fa leva su un argomento che ci colpisce. Il punto centrale è questo: disonorare la fede nella vecchiaia, per guadagnare una manciata di giorni, non è paragonabile con l’eredità che essa deve lasciare ai giovani, per intere generazioni a venire. Ma bravo questo Eleazaro! Un vecchio che è vissuto nella coerenza della propria fede per un’intera vita, e ora si adatta a fingerne il ripudio, condanna la nuova generazione a pensare che l’intera fede sia stata una finzione, un rivestimento esteriore che può essere abbandonato, pensando di poterlo conservare nel proprio intimo. E non è così, dice Eleazaro. Un tale comportamento non onora la fede, neppure di fronte a Dio. E l’effetto di questa banalizzazione esteriore sarà devastante per l’interiorità dei giovani. La coerenza di quest’uomo che pensa ai giovani, pensa all’eredità futura, pensa al suo popolo!

Proprio la vecchiaia – e questo è bello per i vecchi - appare qui il luogo decisivo, il luogo insostituibile, di questa testimonianza. Un anziano che, a motivo della sua vulnerabilità, accettasse di considerare irrilevante la pratica della fede, farebbe credere ai giovani che la fede non abbia alcun reale rapporto con la vita. Essa apparirebbe loro, fin dal suo inizio, come un insieme di comportamenti che, all’occorrenza, possono essere simulati o dissimulati, perché nessuno di essi è così importante per la vita.

L’antica gnosi eterodossa, che è stata un’insidia molto potente e molto seducente per il cristianesimo dei primi secoli, teorizzava proprio su questo, è una cosa vecchia questa: che la fede è una spiritualità, non una pratica; una forza della mente, non una forma della vita. La fedeltà e l’onore della fede, secondo questa eresia, non hanno nulla a che fare con i comportamenti della vita, le istituzioni della comunità, i simboli del corpo. La seduzione di questa prospettiva è forte, perché essa interpreta, a suo modo, una verità indiscutibile: che la fede non si può mai ridurre a un insieme di regole alimentari o di pratiche sociali. La fede è un’altra cosa. Il guaio è che la radicalizzazione gnostica di questa verità vanifica il realismo della fede cristiana, perché la fede cristiana è realistica, la fede cristiana non è soltanto dire il Credo, ma è pensare il Credo, è sentire il Credo, è fare il Credo. Operare con le mani. Invece questa proposta gnostica è un “fare finta”, l’importante è che tu dentro abbia la spiritualità e poi puoi fare quello che vuoi. E questo non è cristiano. È la prima eresia degli gnostici, che è molto alla moda qui, in questo momento, in tanti centri di spiritualità e così via. E svuota la testimonianza di questa gente, che mostra i segni concreti di Dio nella vita della comunità e resiste alle perversioni della mente attraverso i gesti del corpo.

La tentazione gnostica che è una delle - diciamo la parola – eresie, una delle deviazioni religiose di questo tempo, la tentazione gnostica rimane sempre attuale. In molte linee di tendenza della nostra società e nella nostra cultura, la pratica della fede subisce una rappresentazione negativa, a volte sotto forma di ironia culturale, a volte con una occulta emarginazione. La pratica della fede per questi gnostici che già c’erano al tempo di Gesù, è considerata come un’esteriorità inutile e anzi nociva, come un residuo antiquato, come una superstizione mascherata. Insomma, una cosa per i vecchi. La pressione che questa critica indiscriminata esercita sulle giovani generazioni è forte. Certo, sappiamo che la pratica della fede può diventare un’esteriorità senz’anima - questo è l’altro pericolo, il contrario - ma in sé stessa non lo è affatto. Forse tocca proprio a noi, i vecchi una missione molto importante: restituire alla fede il suo onore, farla coerente che è la testimonianza di Eleazaro, la coerenza fino alla fine. La pratica della fede non è il simbolo della nostra debolezza, ma piuttosto il segno della sua forza. Non siamo più ragazzi. Non abbiamo scherzato quando ci siamo messi sulla strada del Signore!

La fede merita rispetto e onore fino alla fine: ci ha cambiato la vita, ci ha purificato la mente, ci ha insegnato l’adorazione di Dio e l’amore del prossimo. È una benedizione per tutti! Ma tutta la fede, non una parte. Non baratteremo la fede per una manciata di giorni tranquilli, ma faremo come Eleazaro, coerente fino alla fine fino al martirio. Dimostreremo, in tutta umiltà e fermezza, proprio nella nostra vecchiaia, che credere non è una cosa “da vecchi”, ma è cosa di vita. Credere allo Spirito Santo, che fa nuove tutte le cose, e Lui ci aiuterà volentieri.

Cari fratelli e sorelle anziani, per non dire vecchi - siamo nello stesso gruppo - per favore, guardiamo ai giovani. Loro ci guardano, non dimentichiamo questo. Mi viene in mente quel film del Dopoguerra tanto bello: “I bambini ci guardano”. Noi possiamo dire lo stesso con i giovani: i giovani ci guardano e la nostra coerenza può aprire loro una strada di vita bellissima. Invece, un’eventuale ipocrisia farà tanto male. Preghiamo gli uni per gli altri. Che Dio benedica tutti noi vecchi!

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Saluti

[Carissimi fedeli di lingua portoghese, vi saluto tutti, in particolare gli alunni e i professori del Collegio Horizonte, di Porto. Abbiamo iniziato da poco il mese di maggio, che tradizionalmente chiama il popolo cristiano a moltiplicare i gesti quotidiani di venerazione alla Vergine Maria. Il segreto della sua pace e del suo coraggio era questa certezza: «nulla è impossibile a Dio». Abbiamo bisogno d’imparare ciò con la Madre di Dio; mostriamoci riconoscenti, pregando il rosario ogni giorno. Dio vi benedica e la Madonna vi protegga.]

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto l’Associazione SIMBA di Taranto, e il Coro Voci e Mani bianche di Carpi.

Il mio pensiero va infine, come di consueto, agli anziani, agli ammalati, ai giovani e agli sposi novelli. All’inizio di questo mese mariano, invito tutti a venerare con fiducia filiale la Madre di Gesù: guardate a Lei come maestra di preghiera e di vita spirituale.

Poi vi saluterò. Purtroppo non potrò passare fra di voi per la malattia del ginocchio. E per questo mi scuso per dovervi salutare da seduto, ma è una cosa del momento. Speriamo che passi presto e io possa venire da voi, dopo, in altre udienze.

A tutti la mia benedizione.






[Modificato da Caterina63 04/05/2022 13:43]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 11 maggio 2022

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Catechesi sulla Vecchiaia: 9. Giuditta. Una giovinezza ammirevole, una vecchiaia generosa.

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi parleremo di Giuditta, una eroina biblica. La conclusione del libro che porta il suo nome – ne abbiamo ascoltato un brano – sintetizza l’ultima parte della vita di questa donna, che difese Israele dai suoi nemici. Giuditta è una giovane e virtuosa vedova giudea che, grazie alla sua fede, alla sua bellezza e alla sua astuzia, salva la città di Betulia e il popolo di Giuda dall’assedio di Oloferne, generale di Nabucodonosor re d’Assiria, nemico prepotente e sprezzante di Dio. E così, con il suo modo furbo di agire, è capace di sgozzare il dittatore che era contro il Paese. Era coraggiosa, questa donna, ma aveva fede.

Dopo la grande avventura che la vede protagonista, Giuditta torna a vivere nella sua città, Betulia, dove vive una bella vecchiaia fino a centocinque anni. Era giunto per lei il tempo della vecchiaia come arriva per molte persone: a volte dopo un’intensa vita di lavoro, a volte dopo un’esistenza avventurosa, o di grande dedizione. L’eroismo non è soltanto quello dei grandi eventi che cadono sotto i riflettori, per esempio quello di Giuditta di avere ucciso il dittatore: ma spesso l’eroismo si trova nella tenacia dell’amore riversato in una famiglia difficile e a favore di una comunità minacciata.

Giuditta visse più di cent’anni, una benedizione particolare. Ma non è raro, oggi, avere tanti anni ancora da vivere dopo la stagione del pensionamento. Come interpretare, come far fruttare questo tempo che abbiamo a disposizione? Io vado in pensione oggi, e saranno tanti anni, e cosa posso fare, in questi anni, come posso crescere – in età va da sé – ma come posso crescere in autorità, in santità, in saggezza?

La prospettiva della pensione coincide per molti con quella di un meritato e desiderato riposo da attività impegnative e faticose. Ma accade anche che la fine del lavoro rappresenti una fonte di preoccupazione e sia atteso con qualche trepidazione: “Che farò adesso che la mia vita si svuoterà di ciò che l’ha riempita per tanto tempo?”: questa è la domanda. Il lavoro quotidiano significa anche un insieme di relazioni, la soddisfazione di guadagnarsi da vivere, l’esperienza di avere un ruolo, una meritata considerazione, un tempo pieno che va al di là del semplice orario di lavoro.

Certo, c’è l’impegno, gioioso e faticoso, di accudire i nipoti, e oggi i nonni hanno un ruolo molto grande in famiglia per aiutare a crescere i nipoti; ma sappiamo che oggi di figli ne nascono sempre meno, e i genitori sono spesso più distanti, più soggetti a spostamenti, con situazioni di lavoro e di abitazione non favorevoli. A volte sono anche più restii nell’affidare ai nonni spazi di educazione, concedendo solo quelli strettamente legati al bisogno di assistenza. Ma qualcuno mi diceva, un po’ sorridendo con ironia: “Oggi, i nonni, in questa situazione socio-economica, sono diventati più importanti, perché hanno la pensione”. Ci sono nuove esigenze, anche nell’ambito delle relazioni educative e parentali, che ci chiedono di rimodellare la tradizionale alleanza fra le generazioni.

Ma, ci domandiamo: noi facciamo questo sforzo di “rimodellamento”? Oppure subiamo semplicemente l’inerzia delle condizioni materiali ed economiche? La compresenza delle generazioni, di fatto, si allunga. Cerchiamo, tutti insieme, di renderle più umane, più affettuose, più giuste, nelle nuove condizioni delle società moderne? Per i nonni, una parte importante della loro vocazione è sostenere i figli nell’educazione dei bambini. I piccoli imparano la forza della tenerezza e il rispetto per la fragilità: lezioni insostituibili, che con i nonni sono più facili da impartire e da ricevere. I nonni, da parte loro, imparano che la tenerezza e la fragilità non sono solo segni del declino: per i giovani, sono passaggi che rendono umano il futuro.

Giuditta rimane vedova presto e non ha figli, ma, da anziana, è capace di vivere una stagione di pienezza e di serenità, nella consapevolezza di avere vissuto fino in fondo la missione che il Signore le aveva affidato. Per lei è il tempo di lasciare l’eredità buona della saggezza, della tenerezza, dei doni per la famiglia e la comunità: un’eredità di bene e non soltanto di beni. Quando si pensa all’eredità, alle volte pensiamo ai beni, e non al bene che si è fatto nella vecchiaia e che è stato seminato, quel bene che è la migliore eredità che noi possiamo lasciare.

Proprio nella sua vecchiaia, Giuditta “concesse la libertà alla sua ancella preferita”. Questo è segno di uno sguardo attento e umano nei confronti di chi le è stato vicino. Questa ancella l’aveva accompagnata al momento di quell’avventura per vincere il dittatore e sgozzarlo. Da vecchi, si perde un po’ di vista ma lo sguardo interiore si fa più penetrante: si vede con il cuore. Si diventa capaci di vedere cose che prima sfuggivano. I vecchi sanno guardare e sanno vedere … È così: il Signore non affida i suoi talenti solo ai giovani e ai forti: ne ha per tutti, su misura di ciascuno, anche per i vecchi. La vita delle nostre comunità deve saper godere dei talenti e dei carismi di tanti anziani, che per l’anagrafe sono già in pensione, ma che sono una ricchezza da valorizzare. Questo richiede, da parte degli anziani stessi, un’attenzione creativa, un’attenzione nuova, una disponibilità generosa. Le precedenti abilità della vita attiva perdono la loro parte di costrizione e diventano risorse di donazione: insegnare, consigliare, costruire, curare, ascoltare… Preferibilmente a favore dei più svantaggiati, che non possono permettersi alcun apprendimento o che sono abbandonati alla loro solitudine.

Giuditta liberò la sua ancella e colmò tutti di attenzioni. Da giovane si era conquistata la stima della comunità con il suo coraggio. Da anziana, la meritò per la tenerezza con cui ne arricchì la libertà e gli affetti. Giuditta non è una pensionata che vive malinconicamente il suo vuoto: è un’anziana appassionata che riempie di doni il tempo che Dio le dona. Io mi raccomando: prendete, uno di questi giorni, la Bibbia e prendete il Libro di Giuditta: è piccolino, si legge facilmente, sono 10 pagine, non di più. Leggete questa storia di una donna coraggiosa che finisce così, con tenerezza, con generosità, una donna all’altezza. E così io vorrei che fossero le nostre nonne. Tutte così: coraggiose, sagge e che ci lascino l’eredità non dei soldi, ma l’eredità della saggezza, seminata nei loro nipoti.

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Saluti

[Saluto cordialmente i pellegrini Polacchi. Lunedì avete celebrato la solennità di San Stanislao, vescovo e martire, patrono della vostra Patria. Questo strenuo difensore del divino ordine morale, particolarmente in questa settimana di preghiera per le vocazioni, ottenga per tutti i giovani il dono del sapiente discernimento della strada di vita, dell’affidamento a Cristo e della fedeltà ai valori evangelici. Vi benedico di cuore.]

* * *

Rivolgo un pensiero speciale al popolo dello Sri Lanka, in particolare ai giovani che negli ultimi tempi hanno fatto sentire il loro grido di fronte alle sfide e ai problemi sociali ed economici del Paese. Mi unisco a quelle autorità religiose nell’esortare tutte le parti in causa a mantenere un atteggiamento pacifico, senza cedere alla violenza. Faccio appello a tutti coloro che hanno responsabilità, perché ascoltino le aspirazioni della gente garantendo il pieno rispetto dei diritti umani e delle libertà civili.

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto le Capitolari delle Figlie di San Francesco di Sales e delle Suore Mariste, i sacerdoti novelli dei Legionari di Cristo con i familiari, i Rettori dei Seminari Maggiori dei territori di Missione, l’Associazione Padre Eusebio Chini.

Il mio pensiero va infine, come di consueto, agli anziani, agli ammalati, ai giovani e agli sposi novelli. In questo mese dedicato in modo speciale alla Madonna, vi invito a seguire l’esempio di Maria, confidando nella sua materna intercessione, fiduciosamente abbandonati nelle mani del Signore, sostenuti da Colei che sul Calvario restò fedele sotto la Croce.

E vorrei scusarmi perché oggi non potrò venire da voi a salutarvi a causa del mio ginocchio: è ancora malato. Dovrete voi camminare un po’ da me, ma è lo stesso e vi ricevo con il cuore in mano. Grazie, a voi.

E a tutti la mia benedizione.


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Piazza San Pietro
Mercoledì, 18 maggio 2022

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Catechesi sulla Vecchiaia - 10. Giobbe. La prova della fede, la benedizione dell’attesa

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Il brano biblico che abbiamo ascoltato chiude il Libro di Giobbe, un vertice della letteratura universale. Noi incontriamo Giobbe nel nostro cammino di catechesi sulla vecchiaia: lo incontriamo come testimone della fede che non accetta una “caricatura” di Dio, ma grida la sua protesta di fronte al male, finché Dio risponda e riveli il suo volto. E Dio alla fine risponde, come sempre in modo sorprendente: mostra a Giobbe la sua gloria ma senza schiacciarlo, anzi, con sovrana tenerezza, come fa Dio, sempre, con tenerezza. Bisogna leggere bene le pagine di questo libro, senza pregiudizi, senza luoghi comuni, per cogliere la forza del grido di Giobbe. Ci farà bene metterci alla sua scuola, per vincere la tentazione del moralismo davanti all’esasperazione e all’avvilimento per il dolore di aver perso tutto.

In questo passaggio conclusivo del libro – noi ricordiamo la storia, Giobbe che perde tutto nella vita, perde le ricchezze, perde la famiglia, perde il figlio e perde anche la salute e rimane lì, piagato, in dialogo con tre amici, poi un quarto, che vengono a salutarlo: questa è la storia – e in questo passaggio di oggi, il passaggio conclusivo del libro, quando Dio finalmente prende la parola (e questo dialogo di Giobbe con i suoi amici è come una strada per arrivare al momento che Dio dia la sua parola) Giobbe viene lodato perché ha compreso il mistero della tenerezza di Dio nascosta dietro il suo silenzio. Dio rimprovera gli amici di Giobbe che presumevano di sapere tutto, sapere di Dio e del dolore, e, venuti per consolare Giobbe, avevano finito per giudicarlo con i loro schemi precostituiti. Dio ci preservi da questo pietismo ipocrita e presuntuoso! Dio ci preservi da quella religiosità moralistica e quella religiosità di precetti che ci dà una certa presunzione e porta al fariseismo e all’ipocrisia.

Ecco come si esprime il Signore nei loro confronti. Così dice il Signore: «La mia ira si è accesa contro di [voi][…], perché non avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe. […]»: questo è quello che dice il Signore agli amici di Giobbe. «Il mio servo Giobbe pregherà per voi, affinché io, per riguardo a lui, non punisca la vostra stoltezza, perché non avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe» (42,7-8). La dichiarazione di Dio ci sorprende, perché abbiamo letto le pagine infuocate della protesta di Giobbe, che ci hanno lasciato sgomenti. Eppure – dice il Signore – Giobbe ha parlato bene, anche quando era arrabbiato e anche arrabbiato contro Dio, ma ha parlato bene, perché ha rifiutato di accettare che Dio sia un “Persecutore”, Dio è un’altra cosa. E in premio Dio restituisce a Giobbe il doppio di tutti i suoi beni, dopo avergli chiesto di pregare per quei suoi cattivi amici.

Il punto di svolta della conversione della fede avviene proprio al culmine dello sfogo di Giobbe, là dove dice: «Io so che il mio redentore è vivo / e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! / Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, / senza la mia carne, vedrò Dio. / Io lo vedrò, io stesso, / i miei occhi lo contempleranno e non un altro». (19,25-27). Questo passaggio è bellissimo. A me viene in mente la fine di quell’oratorio geniale di Haendel, il Messia, dopo quella festa dell’Alleluja lentamente il soprano canta questo passaggio: “Io so che il mio Redentore vive”, con pace. E così, dopo tutta questa cosa di dolore e di gioia di Giobbe, la voce del Signore è un’altra cosa. “Io so che il mio Redentore vive”: è una cosa bellissima. Possiamo interpretarlo così: “Mio Dio, io so che Tu non sei il Persecutore. Il mio Dio verrà e mi renderà giustizia”. È la fede semplice nella risurrezione di Dio, la fede semplice in Gesù Cristo, la fede semplice che il Signore sempre ci aspetta e verrà.

La parabola del libro di Giobbe rappresenta in modo drammatico ed esemplare quello che nella vita accade realmente. Cioè che su una persona, su una famiglia o su un popolo si abbattono prove troppo pesanti, prove sproporzionate rispetto alla piccolezza e fragilità umana. Nella vita spesso, come si dice, “piove sul bagnato”. E alcune persone sono travolte da una somma di mali che appare veramente eccessiva e ingiusta. E tante persone sono così.

Tutti abbiamo conosciuto persone così. Siamo stati impressionati dal loro grido, ma spesso siamo anche rimasti ammirati di fronte alla fermezza della loro fede e del loro amore nel loro silenzio. Penso ai genitori di bambini con gravi disabilità o a chi vive un’infermità permanente o al familiare che sta accanto... Situazioni spesso aggravate dalla scarsità di risorse economiche. In certe congiunture della storia, questi cumuli di pesi sembrano darsi come un appuntamento collettivo. È quello che è successo in questi anni con la pandemia di Covid-19 e che sta succedendo adesso con la guerra in Ucraina.

Possiamo giustificare questi “eccessi” come una superiore razionalità della natura e della storia? Possiamo benedirli religiosamente come giustificata risposta alle colpe delle vittime, che se li sono meritati? No, non possiamo. Esiste una sorta di diritto della vittima alla protesta, nei confronti del mistero del male, diritto che Dio concede a chiunque, anzi, che è Lui stesso, in fondo, a ispirare. Alle volte io trovo gente che mi si avvicina e mi dice: “Ma, Padre, io ho protestato contro Dio perché ho questo problema, quell’altro …”. Ma, sai, caro, che la protesta è un modo di preghiera, quando si fa così. Quando i bambini, i ragazzi protestano contro i genitori, è un modo per attirare l’attenzione e chiedere che si prendano cura di loro. Se tu hai nel cuore qualche piaga, qualche dolore e ti viene voglia di protestare, protesta anche contro Dio, Dio ti ascolta, Dio è Padre, Dio non si spaventa della nostra preghiera di protesta, no! Dio capisce. Ma sii libero, sii libera nella tua preghiera, non imprigionare la tua preghiera negli schemi preconcetti! La preghiera dev’essere così, spontanea, come quella di un figlio con il padre, che gli dice tutto quello che gli viene in bocca perché sa che il padre lo capisce. Il “silenzio” di Dio, nel primo momento del dramma, significa questo. Dio non si sottrarrà al confronto, ma all’inizio lascia a Giobbe lo sfogo della sua protesta, e Dio ascolta. Forse, a volte, dovremmo imparare da Dio questo rispetto e questa tenerezza. E a Dio non piace quella enciclopedia – chiamiamola così – di spiegazioni, di riflessione che fanno gli amici di Giobbe. Quello è succo di lingua, che non è giusto: è quella religiosità che spiega tutto, ma il cuore rimane freddo. A Dio non piace, questo. Piace più la protesta di Giobbe o il silenzio di Giobbe.

La professione di fede di Giobbe – che emerge proprio dal suo incessante appello a Dio, a una giustizia suprema – si completa alla fine con l’esperienza quasi mistica, direi io, che gli fa dire: «Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto» (42,5). Quanta gente, quanti di noi dopo un’esperienza un po’ brutta, un po’ oscura, dà il passo e conosce Dio meglio di prima! E possiamo dire, come Giobbe: “Io ti conoscevo per sentito dire, ma adesso ti ho visto, perché ti ho incontrato. Questa testimonianza è particolarmente credibile se la vecchiaia se ne fa carico, nella sua progressiva fragilità e perdita. I vecchi ne hanno viste tante nella vita! E hanno visto anche l’inconsistenza delle promesse degli uomini. Uomini di legge, uomini di scienza, uomini di religione persino, che confondono il persecutore con la vittima, imputando a questa la responsabilità piena del proprio dolore. Si sbagliano!

I vecchi che trovano la strada di questa testimonianza, che converte il risentimento per la perdita nella tenacia per l’attesa della promessa di Dio – c’è un cambiamento, dal risentimento per la perdita verso una tenacia per seguire la promessa di Dio – questi vecchi sono un presidio insostituibile per la comunità nell’affrontare l’eccesso del male. Lo sguardo dei credenti che si rivolge al Crocifisso impara proprio questo. Che possiamo impararlo anche noi, da tanti nonni e nonne, da tanti anziani che, come Maria, uniscono la loro preghiera, a volte straziante, a quella del Figlio di Dio che sulla croce si abbandona al Padre. Guardiamo gli anziani, guardiamo i vecchi, le vecchie, le vecchiette; guardiamoli con amore, guardiamo la loro esperienza personale. Essi hanno sofferto tanto nella vita, hanno imparato tanto nella vita, ne hanno passate tante, ma alla fine hanno questa pace, una pace – io direi – quasi mistica, cioè la pace dell’incontro con Dio, tanto che possono dire “Io ti conoscevo per sentito dire, ma adesso ti hanno visto i miei occhi”. Questi vecchi assomigliano a quella pace del figlio di Dio sulla croce che si abbandona al Padre.

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Saluti

[Saluto i fedeli di lingua araba. Giobbe è l’uomo sofferente che ha protestato per la gravità del suo dolore, ma è rimasto solido nella fede, per questo Dio lo ha riempito di tenerezza e l’ha accompagnato in un percorso spirituale per arrivare alla verità e per scoprire che Dio è buono. Il Signore vi benedica tutti e vi protegga sempre da ogni male!]

[Saluto cordialmente i pellegrini polacchi. Due giorni fa avete ricordato Sant'Andrea Bobola, martire gesuita, patrono della vostra Patria. Il suo impegno per l'unità della Chiesa, la sua forza d'animo e la sua fermezza nella difesa della fede in Cristo, vi diano il coraggio di professare i valori evangelici, soprattutto di fronte alle tentazioni della mondanità. Vi benedico di cuore.]

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Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i sacerdoti della diocesi di Milano e i diaconi prossimi al sacerdozio di Padova: vi esorto a rinnovare giorno per giorno la disponibilità a rispondere fedelmente alla chiamata del Signore per un servizio generoso al popolo santo di Dio. Saluto l’Associazione “Famiglie per l’accoglienza” che si dedica all’adozione, prendendosi cura di bambini e anziani in difficoltà: perseverate nella fede e nella cultura dell’accoglienza, offrendo così una bella testimonianza cristiana e un importante servizio sociale. Grazie, grazie per quello che fate.

Il mio pensiero va infine, come di consueto, agli anziani, agli ammalati, ai giovani e agli sposi novelli. Cari giovani, non abbiate paura di mettere le vostre energie al servizio del Vangelo, con l’entusiasmo caratteristico della vostra età; e voi, cari anziani e cari malati, siate consapevoli di offrire un contributo prezioso alla società, grazie alla vostra saggezza; e voi, cari sposi novelli, fate sì che le vostre famiglie crescano come luoghi in cui si impara ad amare Dio ed il prossimo nella serenità e nella gioia.



UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 25 maggio 2022

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Catechesi sulla Vecchiaia - 11. Qoelet: la notte incerta del senso e delle cose della vita

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nella nostra riflessione sulla vecchiaia – continuiamo a riflettere sulla vecchiaia –, oggi ci confrontiamo con il Libro di Qoelet, un altro gioiello incastonato nella Bibbia. A una prima lettura questo breve libro colpisce e lascia sconcertati per il suo celebre ritornello: «Tutto è vanità», tutto è vanità: il ritornello che va e viene; tutto è vanità, tutto è “nebbia”, tutto è “fumo”, tutto è “vuoto”. Stupisce trovare queste espressioni, che mettono in discussione il senso dell’esistenza, dentro la Sacra Scrittura. In realtà, la continua oscillazione di Qoelet tra senso e non-senso è la rappresentazione ironica di una conoscenza della vita che si distacca dalla passione per la giustizia, della quale è garante il giudizio di Dio. E la conclusione del Libro indica la via d’uscita dalla prova: «Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché qui sta tutto l’uomo» (12,13). Questo è il consiglio per risolvere questo problema.

Di fronte a una realtà che, in certi momenti, ci sembra ospitare tutti i contrari, riservando loro comunque lo stesso destino, che è quello di finire nel nulla, la via dell’indifferenza può apparire anche a noi l’unico rimedio ad una dolorosa disillusione. Sorgono in noi domande come queste: I nostri sforzi hanno forse cambiato il mondo? Qualcuno è forse capace di far valere la differenza del giusto e dell’ingiusto? Sembra che tutto questo è inutile: perché fare tanti sforzi?

È una specie di intuizione negativa che può presentarsi in ogni stagione della vita, ma non c’è dubbio che la vecchiaia rende quasi inevitabile questo appuntamento col disincanto. Il disincanto, nella vecchiaia, viene. E dunque la resistenza della vecchiaia agli effetti demoralizzanti di questo disincanto è decisiva: se gli anziani, che hanno ormai visto di tutto, conservano intatta la loro passione per la giustizia, allora c’è speranza per l’amore, e anche per la fede. E per il mondo contemporaneo è diventato cruciale il passaggio attraverso questa crisi, crisi salutare, perché? Perché una cultura che presume di misurare tutto e manipolare tutto finisce per produrre anche una demoralizzazione collettiva del senso, una demoralizzazione dell’amore, una demoralizzazione anche del bene.

Questa demoralizzazione ci toglie la voglia di fare. Una presunta “verità”, che si limita a registrare il mondo, registra anche la sua indifferenza agli opposti e li consegna, senza redenzione, al flusso del tempo e al destino del niente. In questa sua forma – ammantata di scientificità, ma anche molto insensibile e molto amorale – la moderna ricerca della verità è stata tentata di congedarsi totalmente dalla passione per la giustizia. Non crede più al suo destino, alla sua promessa, al suo riscatto.

Per la nostra cultura moderna, che alla conoscenza esatta delle cose vorrebbe consegnare praticamente tutto, l’apparizione di questa nuova ragione cinica – che somma conoscenza e irresponsabilità – è un contraccolpo durissimo. Infatti, la conoscenza che ci esonera dalla moralità sembra dapprima una fonte di libertà, di energia, ma ben presto si trasforma in una paralisi dell’anima.

Qoelet, con la sua ironia, smaschera già questa tentazione fatale di una onnipotenza del sapere – un “delirio di onniscienza” – che genera un’impotenza della volontà. I monaci della più antica tradizione cristiana avevano identificato con precisione questa malattia dell’anima, che improvvisamente scopre la vanità della conoscenza senza fede e senza morale, l’illusione della verità senza giustizia. La chiamavano “accidia”. E questa è una delle tentazioni di tutti, anche dei vecchi, ma è di tutti. Non è semplicemente la pigrizia: no, è di più. Non è semplicemente la depressione: no. Piuttosto, l’accidia è la resa alla conoscenza del mondo senza più passione per la giustizia e per l’azione conseguente.

Il vuoto di senso e di forze aperto da questo sapere, che respinge ogni responsabilità etica e ogni affetto per il bene reale, non è innocuo. Non toglie soltanto le forze alla volontà del bene: per contraccolpo, apre la porta all’aggressività delle forze del male. Sono le forze di una ragione impazzita, resa cinica da un eccesso di ideologia. Di fatto, con tutto il nostro progresso, con tutto il nostro benessere, siamo davvero diventati “società della stanchezza”. Pensate un po’ a questo: siamo la società della stanchezza! Dovevamo produrre benessere diffuso e tolleriamo un mercato scientificamente selettivo della salute. Dovevamo porre un limite invalicabile alla pace, e vediamo susseguirsi guerre sempre più spietate verso persone inermi. La scienza progredisce, naturalmente, ed è un bene. Ma la sapienza della vita è tutta un’altra cosa, e sembra in stallo.

Infine, questa ragione an-affettiva e ir-responsabile toglie senso ed energie anche alla conoscenza della verità. Non è un caso che la nostra sia la stagione delle fake news, delle superstizioni collettive e delle verità pseudo-scientifiche. È curioso: in questa cultura del sapere, di conoscere tutte le cose, anche della precisione del sapere, si sono diffuse tante stregonerie, ma stregonerie colte. È stregoneria con certa cultura ma che ti porta a una vita di superstizione: da una parte, per andare avanti con intelligenza nel conoscere le cose fino alle radici; dall’altra parte, l’anima che ha bisogno di un’altra cosa e prende la strada delle superstizioni e finisce nelle stregonerie. La vecchiaia può imparare dalla saggezza ironica di Qoelet l’arte di portare alla luce l’inganno nascosto nel delirio di una verità della mente priva di affetti per la giustizia. Gli anziani ricchi di saggezza e di umorismo fanno tanto bene ai giovani! Li salvano dalla tentazione di una conoscenza del mondo triste e priva di sapienza della vita. E anche, questi anziani riportano i giovani alla promessa di Gesù: «Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati» (Mt 5,6). Saranno loro a seminare fame e sete di giustizia nei giovani. Coraggio, tutti noi anziani: coraggio e avanti! Noi abbiamo una missione molto grande nel mondo. Ma, per favore, non bisogna cercare rifugio in questo idealismo un po’ non concreto, non reale, senza radici – diciamolo chiaramente: nelle stregonerie della vita.

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Saluti

APPELLO

Ho il cuore affranto per la strage nella scuola elementare in Texas. Prego per i bambini, per gli adulti uccisi e per le loro famiglie. È tempo di dire basta al traffico indiscriminato delle armi. Impegniamoci tutti, perché tragedie così non possano più accadere.

* * *

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto le Suore Missionarie della Carità, il Centro Italiano femminile di Caserta, l’Azienda sanitaria Napoli 3 Sud, la Scuola San Giuseppe al Trionfale in Roma.

Il mio pensiero va infine, come di consueto, agli anziani, agli ammalati, ai giovani e agli sposi novelli.

La festa, ormai vicina, dell’Ascensione del Signore mi offre lo spunto per un saluto a voi tutti. Gesù Cristo, ascendendo al cielo, lascia un messaggio ed un programma per tutta la Chiesa: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli... insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28, 19-20). Far conoscere la parola di Cristo e testimoniarla con gioia sia l’ideale e l’impegno di ciascuno nella rispettiva condizione di vita.

A tutti la mia benedizione.








[Modificato da Caterina63 01/06/2022 13:21]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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03/06/2022 10:24
 
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UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 1° giugno 2022

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Catechesi sulla Vecchiaia: 12. «Non mi abbandonare quando declinano le mie forze» (Sal 71,9)

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

La bella preghiera dell’anziano che troviamo nel Salmo 71 che abbiamo ascoltato ci incoraggia a meditare sulla forte tensione che abita la condizione della vecchiaia, quando la memoria delle fatiche superate e delle benedizioni ricevute è messa alla prova della fede e della speranza.

La prova si presenta già di per sé con la debolezza che accompagna il passaggio attraverso la fragilità e la vulnerabilità dell’età avanzata. E il salmista – un anziano che si rivolge al Signore – menziona esplicitamente il fatto che questo processo diventa un’occasione di abbandono, di inganno e prevaricazione e di prepotenza, che a volte si accaniscono sull’anziano. Una forma di viltà nella quale ci stiamo specializzando in questa nostra società. È vero! In questa società dello scarto, questa cultura dello scarto, gli anziani sono messi da parte e soffrono queste cose. Non manca, infatti, chi approfitta dell’età dell’anziano, per imbrogliarlo, per intimidirlo in mille modi. Spesso leggiamo sui giornali o ascoltiamo notizie di anziani che vengono raggirati senza scrupolo per impadronirsi dei loro risparmi; o che sono lasciati privi di protezione o abbandonati senza cure; oppure offesi da forme di disprezzo e intimiditi perché rinuncino ai loro diritti. Anche nelle famiglie – e questo è grave, ma succede anche nelle famiglie - accadono tali crudeltà. Gli anziani scartati, abbandonati nelle case di riposo, senza che i figli vadano a trovarli o se vanno, vanno poche volte all’anno. L’anziano messo proprio all’angolo dell’esistenza. E questo succede: succede oggi, succede nelle famiglie, succede sempre. Dobbiamo riflettere su questo.

L’intera società deve affrettarsi a prendersi cura dei suoi vecchi – sono il tesoro! -, sempre più numerosi, e spesso anche più abbandonati. Quando sentiamo di anziani che sono espropriati della loro autonomia, della loro sicurezza, persino della loro abitazione, comprendiamo che l’ambivalenza della società di oggi nei confronti dell’età anziana non è un problema di emergenze occasionali, ma un tratto di quella cultura dello scarto che avvelena il mondo in cui viviamo. L’anziano del salmo confida a Dio il suo sconforto: «Contro di me – dice - parlano i miei nemici, / coloro che mi spiano congiu­rano insieme / e dicono: “Dio lo ha abbandonato, / insegui­telo, prendetelo: nessuno lo libera!”» (vv.10-11). Le conseguenze sono fatali. La vecchiaia non solo perde la sua dignità, ma si dubita persino che meriti di continuare. Così, siamo tutti tentati di nascondere la nostra vulnerabilità, di nascondere la nostra malattia, la nostra età e la nostra vecchiaia, perché temiamo che siano l’anticamera della nostra perdita di dignità. Domandiamoci: è umano indurre questo sentimento? Come mai la civiltà moderna, così progredita ed efficiente, è così a disagio nei confronti della malattia e della vecchiaia, nasconde la malattia, nasconde la vecchiaia? E come mai la politica, che si mostra tanto impegnata nel definire i limiti di una sopravvivenza dignitosa, nello stesso tempo è insensibile alla dignità di una affettuosa convivenza con i vecchi e i malati?

L’anziano del salmo che abbiamo sentito, questo anziano che vede la sua vecchiaia come una sconfitta, riscopre la fiducia nel Signore. Sente il bisogno di essere aiutato. E si rivolge a Dio. Sant’Agostino, commentando questo salmo, esorta l’anziano: «Non temere di essere abbandonato nella tua vecchiaia. […] Perché temi che [il Signore] ti abbandoni, che ti respinga nel tempo della vecchiaia quando verrà meno la tua forza? Anzi, proprio allora sarà in te la sua forza, quando verrà meno la tua» (PL 36, 881-882). E il salmista anziano invoca: «Liberami e difendimi, / tendi a me il tuo orecchio e salvami. / Sii tu la mia roccia, / una dimora sempre accessibile; / hai deciso di darmi salvezza: / davvero mia rupe e mia fortezza tu sei!» (vv. 2-3). L’invocazione testimonia la fedeltà di Dio e chiama in causa la sua capacità di scuotere le coscienze deviate dalla insensibilità per la parabola della vita mortale, che va custodita nella sua integrità. Prega ancora così: «O Dio, da me non stare lontano: / Dio mio, vieni presto in mio aiuto. / Siano svergognati e annientati quanti mi accusano, / siano coperti di insulti e d’infamia / quanti cercano la mia rovina» (vv. 12-13).

In effetti, la vergogna dovrebbe cadere su coloro che approfittano della debolezza della malattia e della vecchiaia. La preghiera rinnova nel cuore dell’anziano la promessa della fedeltà e della benedizione di Dio. L’anziano riscopre la preghiera e ne testimonia la forza. Gesù, nei Vangeli, non respinge mai la preghiera di chi ha bisogno di essere aiutato. Gli anziani, a motivo della loro debolezza, possono insegnare a chi vive altre età della vita che tutti abbiamo bisogno di abbandonarci al Signore, di invocare il suo aiuto. In questo senso, tutti dobbiamo imparare dalla vecchiaia: sì, c’è un dono nell’essere vecchi inteso come abbandonarsi alle cure degli altri, a partire da Dio stesso.

C’è allora un “magistero della fragilità”, non nascondere le fragilità, no. Sono vere, c’è una realtà e c’è un magistero della fragilità, che la vecchiaia è in grado di rammentare in modo credibile per l’intero arco della vita umana. Non nascondere la vecchiaia, non nascondere le fragilità della vecchiaia. Questo è un insegnamento per tutti noi. Questo magistero apre un orizzonte decisivo per la riforma della nostra stessa civiltà. Una riforma ormai indispensabile a beneficio della convivenza di tutti. L’emarginazione degli anziani sia concettuale sia pratica, corrompe tutte le stagioni della vita, non solo quella dell’anzianità. Ognuno di noi può pensare oggi agli anziani della famiglia: come io mi rapporto con loro, li ricordo, vado a trovarli? Cerco che non manchi nulla a loro? Li rispetto? Gli anziani che sono nella mia famiglia, mamma, papà, nonno, nonna, gli zii, amici, li ho cancellati dalla mia vita? O vado da loro a prendere saggezza, la saggezza della vita? Ricordati che anche tu sarai anziano o anziana. La vecchiaia viene per tutti. E come tu vorresti essere trattato o trattata nel momento nella vecchiaia, tratta tu gli anziani oggi. Sono la memoria della famiglia, la memoria dell’umanità, la memoria del Paese. Custodire gli anziani che sono saggezza. Il Signore conceda agli anziani che fanno parte della Chiesa la generosità di questa invocazione e di questa provocazione. Che questa fiducia nel Signore ci contagi. E questo, per il bene di tutti, di loro e di noi e dei nostri figli.

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Saluti

[Saluto cordialmente i Polacchi. Oggi iniziamo il mese dedicato al Sacro Cuore di Gesù, fonte di amore e di pace. Apritevi a questo amore e portatelo "fino ai confini della terra", testimoniando la bontà e la misericordia che scaturiscono dal Cuore di Gesù. Questo appello rivolgo in particolare ai giovani che si incontreranno sabato prossimo a Lednica, luogo significativo per la fede dei Polacchi. Dio vi benedica.]

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APPELLO


Desta grande preoccupazione il blocco dell’esportazione del grano dall’Ucraina, da cui dipende la vita di milioni di persone, specialmente nei Paesi più poveri. Rivolgo un accorato appello affinché si faccia ogni sforzo per risolvere tale questione e per garantire il diritto umano universale a nutrirsi. Per favore, non si usi il grano, alimento di base, come arma di guerra!

* * *

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto la fondazione “Il Villaggio del fanciullo” di Lucca, con l’Arcivescovo Paolo Giulietti; l’Unità pastorale del Centro storico di Salerno; i nuovi cappellani delle carceri, che partecipano ad un incontro formativo; la Banda musicale di Castellana Grotte. Sono bravi questi musicisti!

Il mio pensiero va infine, come di consueto, agli anziani, agli ammalati, ai giovani e agli sposi novelli. Domenica prossima celebreremo la solennità di Pentecoste. Lo Spirito Santo sia per voi, giovani, come “vento e fuoco” che vi preserva dal torpore, spingendovi all’amore dei grandi ideali e all’impegno per la Chiesa e la società. Sia per voi, anziani e ammalati, il “Consolatore” che vi accompagna nella fatica quotidiana, dandovi la certezza dell’amore di Dio. Sia per voi, sposi novelli, fonte di “comunione” che vi faccia crescere nell’amore reciproco.

A tutti la mia benedizione.




UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 8 giugno 2022

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Catechesi sulla Vecchiaia: 13. Nicodemo. «Come può un uomo nascere quando è vecchio?» (Gv 3,4)

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Tra le figure di anziani più rilevanti nei Vangeli c’è Nicodemo – uno dei capi dei Giudei –, il quale, volendo conoscere Gesù, ma di nascosto andò da lui di notte (cfr Gv 3,1-21). Nel colloquio di Gesù con Nicodemo emerge il cuore della rivelazione di Gesù e della sua missione redentrice, quando dice: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (v. 16).

Gesù dice a Nicodemo che per “vedere il regno di Dio” bisogna “nascere dall’alto” (cfr v. 3). Non si tratta di ricominciare daccapo a nascere, di ripetere la nostra venuta al mondo, sperando che una nuova reincarnazione riapra la nostra possibilità di una vita migliore. Questa ripetizione è priva di senso. Anzi, essa svuoterebbe di ogni significato la vita vissuta, cancellandola come fosse un esperimento fallito, un valore scaduto, un vuoto a perdere. No, non è questo, questo nascere di nuovo del quale parla Gesù: è un’altra cosa. Questa vita è preziosa agli occhi di Dio: ci identifica come creature amate da Lui con tenerezza. La “nascita dall’alto”, che ci consente di “entrare” nel regno di Dio, è una generazione nello Spirito, un passaggio tra le acque verso la terra promessa di una creazione riconciliata con l’amore di Dio. È una rinascita dall’alto, con la grazia di Dio. Non è un rinascere fisicamente un’altra volta.

Nicodemo fraintende questa nascita, e chiama in causa la vecchiaia come evidenza della sua impossibilità: l’essere umano invecchia inevitabilmente, il sogno di una eterna giovinezza si allontana definitivamente, la consumazione è l’approdo di qualsiasi nascita nel tempo. Come può immaginarsi un destino che ha forma di nascita? Nicodemo pensa così e non trova il modo di capire le parole di Gesù. Questa rinascita, cos’è?

L’obiezione di Nicodemo è molto istruttiva per noi. Possiamo infatti rovesciarla, alla luce della parola di Gesù, nella scoperta di una missione propria della vecchiaia. Infatti, essere vecchi non solo non è un ostacolo alla nascita dall’alto di cui parla Gesù, ma diventa il tempo opportuno per illuminarla, sciogliendola dall’equivoco di una speranza perduta. La nostra epoca e la nostra cultura, che mostrano una preoccupante tendenza a considerare la nascita di un figlio come una semplice questione di produzione e di riproduzione biologica dell’essere umano, coltivano poi il mito dell’eterna giovinezza come l’ossessione – disperata – di una carne incorruttibile. Perché la vecchiaia è – in molti modi – disprezzata. Perché porta l’evidenza inconfutabile del congedo di questo mito, che vorrebbe farci ritornare nel grembo della madre, per ritornare sempre giovani nel corpo.

La tecnica si lascia attrarre da questo mito in tutti i modi: in attesa di sconfiggere la morte, possiamo tenere in vita il corpo con la medicina e la cosmesi, che rallentano, nascondono, rimuovono la vecchiaia. Naturalmente, una cosa è il benessere, altra cosa è l’alimentazione del mito. Non si può negare, però, che la confusione tra i due aspetti ci sta creando una certa confusione mentale. Confondere il benessere con l’alimentazione del mito dell’eterna giovinezza. Si fa tanto per riavere sempre questa giovinezza: tanti trucchi, tanti interventi chirurgici per apparire giovani. Mi vengono in mente le parole di una saggia attrice italiana, la Magnani, quando le hanno detto che dovevano toglierle le rughe, e lei disse: “No, non toccarle! Tanti anni ci sono voluti per averle: non toccarle!”. È questo: le rughe sono un simbolo dell’esperienza, un simbolo della vita, un simbolo della maturità, un simbolo di aver fatto un cammino. Non toccarle per diventare giovani, ma giovani di faccia: quello che interessa è tutta la personalità, quello che interessa è il cuore, e il cuore rimane con quella giovinezza del vino buono, che quanto più invecchia più è buono.

La vita nella carne mortale è una bellissima “incompiuta”: come certe opere d’arte che proprio nella loro incompiutezza hanno un fascino unico. Perché la vita quaggiù è “iniziazione”, non compimento: veniamo al mondo proprio così, come persone reali, come persone che progrediscono nell’età, ma sono per sempre reali. Ma la vita nella carne mortale è uno spazio e un tempo troppo piccolo per custodire intatta e portare a compimento la parte più preziosa della nostra esistenza nel tempo del mondo. La fede, che accoglie l’annuncio evangelico del regno di Dio al quale siamo destinati, ha un primo effetto straordinario, dice Gesù. Essa consente di “vedere” il regno di Dio. Noi diventiamo capaci di vedere realmente i molti segni di approssimazione della nostra speranza di compimento per ciò che, nella nostra vita, porta il segno della destinazione per l’eternità di Dio.

I segni sono quelli dell’amore evangelico, in molti modi illuminati da Gesù. E se li possiamo “vedere”, possiamo anche “entrare” nel regno, con il passaggio dello Spirito attraverso l’acqua che rigenera.

La vecchiaia è la condizione, concessa a molti di noi, nella quale il miracolo di questa nascita dall’alto può essere assimilato intimamente e reso credibile per la comunità umana: non comunica nostalgia della nascita nel tempo, ma amore per la destinazione finale. In questa prospettiva la vecchiaia ha una bellezza unica: camminiamo verso l’Eterno. Nessuno può rientrare nel grembo della madre, e neppure nel suo sostituto tecnologico e consumistico. Questo non dà saggezza, questo non dà cammino compiuto, questo è artificiale. Sarebbe triste, seppure fosse possibile. Il vecchio cammina in avanti, il vecchio cammina verso la destinazione, verso il cielo di Dio, il vecchio cammina con la sua saggezza vissuta durante la vita. La vecchiaia perciò è un tempo speciale per sciogliere il futuro dall’illusione tecnocratica di una sopravvivenza biologica e robotica, ma soprattutto perché apre alla tenerezza del grembo creatore e generatore di Dio.
Qui, io vorrei sottolineare questa parola: la tenerezza dei vecchi.
Osservate un nonno o una nonna come guardano i nipoti, come accarezzano i nipoti: quella tenerezza, libera da ogni prova umana, che ha vinto le prove umane e capace di dare gratuitamente l’amore, la vicinanza amorosa dell’uno per gli altri. Questa tenerezza apre la porta a capire la tenerezza di Dio. Non dimentichiamo che lo Spirito di Dio è vicinanza, compassione e tenerezza. Dio è così, sa accarezzare. E la vecchiaia ci aiuta a capire questa dimensione di Dio che è la tenerezza. La vecchiaia è il tempo speciale per sciogliere il futuro dall’illusione tecnocratica, è il tempo della tenerezza di Dio che crea, crea una strada per tutti noi. Lo Spirito ci conceda la riapertura di questa missione spirituale – e culturale – della vecchiaia, che ci riconcilia con la nascita dall’alto. Quando noi pensiamo alla vecchiaia così, poi diciamo: come mai questa cultura dello scarto decide di scartare i vecchi, considerandoli non utili? I vecchi sono i messaggeri del futuro, i vecchi sono i messaggeri della tenerezza, i vecchi sono i messaggeri della saggezza di una vita vissuta. Andiamo avanti e guardiamo ai vecchi.

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Saluti

[Saluto cordialmente i polacchi, e in particolare i sacerdoti della diocesi di Włocławek che sono venuti a Roma nel 25° anniversario della loro ordinazione. Oggi ricordate la regina Santa Edvige, Apostola della Lituania e fondatrice dell'Università Jagellonica. Durante la sua canonizzazione, San Giovanni Paolo II ricordò che per opera sua la Polonia fu unita alla Lituania e alla Rus’. Affidatevi alla sua intercessione, pregando come lei ai piedi della Croce per la pace in Europa. Vi benedico di cuore.]

* * *

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto le Suore Capitolari della Congregazione di Nostra Signora del Carmelo, incoraggiandole a camminare sempre con gioia nelle vie del Signore. Sono lieto poi di accogliere i fedeli della parrocchia Gesù Cristo Salvatore, di Praia a Mare ed auspico che il 25° di fondazione della parrocchia sia uno stimolo per essere credibili testimoni del Vangelo.

Saluto altresì la Federazione degli Ordini delle Professioni Infermieristiche e l’Associazione Volontari del Sangue di Acireale, esprimendo apprezzamento per le loro attività di solidarietà. Un saluto va inoltre agli atleti del pellegrinaggio a piedi da Macerata a Loreto, con la fiaccola della pace che vuol essere un segno ed insieme un invito alla fraternità tra gli individui e tra i popoli.

Il mio pensiero va infine, come di consueto, agli anziani, agli ammalati, ai giovani e agli sposi novelli. Domenica prossima celebreremo la solennità della Santissima Trinità. Tutti esorto a trovare nella consapevolezza della presenza della Trinità nella nostra vita, grazie al Battesimo, il sostegno per compiere in ogni circostanza la volontà del Signore.

Vi benedico di cuore.



UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 15 giugno 2022

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Catechesi sulla Vecchiaia: 14. Il lieto servizio della fede che si apprende nella gratitudine (cfr. Mc 1, 29-31)

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Abbiamo ascoltato il semplice e toccante racconto della guarigione della suocera di Simone – che non è ancora chiamato Pietro – nella versione del vangelo di Marco. Il breve episodio è riportato, con lievi eppure suggestive varianti anche negli altri due vangeli sinottici. «La suocera di Simone era a letto con la febbre», scrive Marco. Non sappiamo se si trattasse di un lieve malore, ma nella vecchiaia anche una semplice febbre può essere pericolosa. Da vecchi non si comanda più il proprio corpo. Bisogna imparare a scegliere cosa fare e cosa non fare. Il vigore del fisico viene meno e ci abbandona, anche se il nostro cuore non smette di desiderare. Bisogna allora imparare a purificare il desiderio: avere pazienza, scegliere cosa domandare al corpo e alla vita. Da vecchi non possiamo fare lo stesso di ciò che facevamo da giovani: il corpo ha un altro ritmo, e dobbiamo ascoltare il corpo e accettare dei limiti. Tutti ne abbiamo. Anche io devo andare con il bastone, adesso.

La malattia pesa sull’anziano, in modo diverso e nuovo rispetto a quando si è giovani o adulti. È come un colpo duro che si abbatte su un tempo già difficile. La malattia del vecchio sembra affrettare la morte e comunque diminuire quel tempo da vivere che già consideriamo ormai breve. Si insinua il dubbio che non ci riprenderemo, che “questa volta sarà l’ultima che mi ammalo…”, e così via: vengono queste idee ... Non si riesce a sognare la speranza in un futuro che appare ormai inesistente. Un famoso scrittore italiano, Italo Calvino, notava l’amarezza dei vecchi che soffrono il perdersi delle cose d’una volta, più di quanto non godano il sopravvenire delle nuove. Ma la scena evangelica che abbiamo ascoltato ci aiuta a sperare e ci offre già un primo insegnamento: Gesù non visita da solo quell’anziana donna malata, ci va insieme ai discepoli. E questo ci fa pensare un po’.

È proprio la comunità cristiana che deve prendersi cura degli anziani: parenti e amici, ma la comunità. La visita agli anziani va fatta da tanti, assieme e spesso. Mai dovremmo dimenticare queste tre righe del Vangelo. Oggi soprattutto che il numero degli anziani è notevolmente cresciuto, anche in proporzione ai giovani, perché siamo in questo inverno demografico, si fanno meno figli e ci sono tanti anziani e pochi giovani. Dobbiamo sentire la responsabilità di visitare gli anziani che spesso sono soli e presentarli al Signore con la nostra preghiera. Gesù stesso ci insegnerà come amarli. «Una società è veramente accogliente nei confronti della vita quando riconosce che essa è preziosa anche nell’anzianità, nella disabilità, nella malattia grave e anche quando si sta spegnendo» (Messaggio alla Pontificia Accademia per la Vita, 19 febbraio 2014). La vita sempre è preziosa. Gesù, quando vede l’anziana donna malata, la prende per mano e la guarisce: lo stesso gesto che fa per resuscitare quella giovane che era morta: la prende per mano e la fa alzare, la guarisce rimettendola in piedi. Gesù, con questo gesto tenero d’amore, dà la prima lezione ai discepoli: cioè, la salvezza si annuncia o, meglio, si comunica attraverso l’attenzione a quella persona malata; e la fede di quella donna risplende nella gratitudine per la tenerezza di Dio che si è chinata su di lei. Torno su un tema che ho ripetuto in queste catechesi: questa cultura dello scarto sembra cancellare gli anziani. Sì, non li uccide, ma socialmente li cancella, come se fossero un peso da portare avanti: è meglio nasconderli. Questo è un tradimento della propria umanità, questa è la cosa più brutta, questo è selezionare la vita secondo l’utilità, secondo la giovinezza e non con la vita come è, con la saggezza dei vecchi, con i limiti dei vecchi. I vecchi hanno tanto da darci: c’è la saggezza della vita. Tanto da insegnarci: per questo noi dobbiamo insegnare anche ai bambini che accudiscano i nonni e vadano dai nonni. Il dialogo giovani-nonni, bambini-nonni è fondamentale per la società, è fondamentale per la Chiesa, è fondamentale per la sanità della vita. Dove non c’è dialogo tra giovani e vecchi manca qualcosa e cresce una generazione senza passato, cioè senza radici.

Se la prima lezione l’ha data Gesù, la seconda ce la dà l’anziana donna, che “si alzò e si mise a servirli”. Anche da anziani si può, anzi, si deve servire la comunità. È bene che gli anziani coltivino ancora la responsabilità di servire, vincendo la tentazione di mettersi da parte. Il Signore non li scarta, al contrario ridona loro la forza per servire. E mi piace notare che non c’è nessuna speciale enfasi nel racconto da parte degli evangelisti: è la normalità della sequela, che i discepoli apprenderanno, in tutta la sua portata, lungo il cammino di formazione di cui faranno esperienza alla scuola di Gesù. Gli anziani che conservano la disposizione per la guarigione, la consolazione, l’intercessione per i loro fratelli e sorelle – siano discepoli, siano centurioni, persone disturbate da spiriti maligni, persone scartate… –, sono forse la testimonianza più alta della purezza di questa gratitudine che accompagna la fede. Se gli anziani, invece di essere scartati e congedati dalla scena degli eventi che segnano la vita della comunità, fossero messi al centro dell’attenzione collettiva, sarebbero incoraggiati ad esercitare il prezioso ministero della gratitudine nei confronti di Dio, che non dimentica nessuno. La gratitudine delle persone anziane per i doni ricevuti da Dio nella loro vita, così come ci insegna la suocera di Pietro, restituisce alla comunità la gioia della convivenza, e conferisce alla fede dei discepoli il tratto essenziale della sua destinazione.

Ma dobbiamo apprendere bene che lo spirito dell’intercessione e del servizio, che Gesù prescrive a tutti i suoi discepoli, non è semplicemente una faccenda di donne: non c’è ombra di questa limitazione, nelle parole e nei gesti di Gesù. Il servizio evangelico della gratitudine per la tenerezza di Dio non si scrive in nessun modo nella grammatica dell’uomo padrone e della donna serva. Questo tuttavia non toglie che le donne, sulla gratitudine e sulla tenerezza della fede, possano insegnare agli uomini cose che questi fanno più fatica a comprendere. La suocera di Pietro, prima che gli Apostoli ci arrivassero, lungo il cammino della sequela di Gesù, mostrò la via anche a loro. E la speciale delicatezza di Gesù, che le “toccò la mano” e si “chinò delicatamente” su di lei, mise in chiaro, fin dall’inizio, la sua speciale sensibilità verso i deboli e i malati, che il Figlio di Dio aveva certamente appreso dalla sua Madre. Per favore, facciamo in modo che i vecchi, che i nonni, le nonne siano vicini ai bambini, ai giovani per trasmettere questa memoria della vita, per trasmettere questa esperienza della vita, questa saggezza della vita. Nella misura in cui noi facciamo sì che i giovani e i vecchi si colleghino, in questa misura ci sarà più speranza per il futuro della nostra società.

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Saluti

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i sacerdoti novelli di Brescia, i fedeli di Piedimonte Etneo, i militari del Raggruppamento logistico centrale.

E per favore, non dimentichiamo il popolo martoriato dell’Ucraina in guerra. Non abituiamoci a vivere come se la guerra fosse una cosa lontana. Il nostro ricordo, il nostro affetto, la nostra preghiera e il nostro aiuto siano sempre vicino a questo popolo che soffre tanto e che sta portando avanti un vero martirio.

Il mio pensiero va infine, come di consueto, agli anziani, agli ammalati, ai giovani e agli sposi novelli. Domani si celebra la solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo, che in Italia è trasferita a domenica prossima. L’Eucaristia, mistero di amore, sia per tutti voi fonte di grazia e di luce che illumina i sentieri della vita, sostegno tra le difficoltà, sublime conforto nella sofferenza di ogni giorno. A tutti voi, la mia benedizione.






[Modificato da Caterina63 15/06/2022 11:39]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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22/06/2022 12:39
 
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UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 22 giugno 2022

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Catechesi sulla Vecchiaia: 15. Pietro e Giovanni 

Cari fratelli e sorelle, benvenuti e buongiorno!

Nel nostro percorso di catechesi sulla vecchiaia, oggi meditiamo sul dialogo tra Gesù risorto e Pietro al termine del Vangelo di Giovanni (21,15-23). È un dialogo commovente, da cui traspare tutto l’amore di Gesù per i suoi discepoli, e anche la sublime umanità del suo rapporto con loro, in particolare con Pietro: un rapporto tenero, ma non melenso, diretto, forte, libero, aperto. Un rapporto da uomini e nella verità. Così, il Vangelo di Giovanni, così spirituale, così alto, si chiude con una struggente richiesta e offerta d’amore tra Gesù e Pietro, che si intreccia, con tutta naturalezza, con una discussione tra di loro. L’Evangelista ci avverte: egli rende testimonianza alla verità dei fatti (cfr Gv 21,24). Ed è in essi che va cercata la verità.

Possiamo chiederci: siamo capaci noi di custodire il tenore di questo rapporto di Gesù con i discepoli, secondo quel suo stile così aperto, così franco, così diretto, così umanamente reale? Com’è il nostro rapporto con Gesù? È così, come quello degli apostoli con Lui? Non siamo, invece, molto spesso tentati di chiudere la testimonianza del Vangelo nel bozzolo di una rivelazione “zuccherosa”, alla quale aggiungere la nostra venerazione di circostanza? Questo atteggiamento, che sembra rispetto, in realtà ci allontana dal vero Gesù, e diventa persino occasione per un cammino di fede molto astratto, molto autoreferenziale, molto mondano, che non è la strada di Gesù. Gesù è il Verbo di Dio fatto uomo, e Lui si comporta come uomo, Lui ci parla come uomo, Dio-uomo. Con questa tenerezza, con questa amicizia, con questa vicinanza. Gesù non è come quell’immagine zuccherosa delle immaginette, no: Gesù è alla mano nostra, è vicino a noi.

Nel corso della discussione di Gesù con Pietro, troviamo due passaggi che riguardano precisamente la vecchiaia e la durata del tempo: il tempo della testimonianza, il tempo della vita. Il primo passo è l’avvertimento di Gesù a Pietro: quando eri giovane eri autosufficiente, quando sarai vecchio non sarai più così padrone di te e della tua vita. Dillo a me che devo andare in carrozzina, eh! Ma è così, la vita è così: con la vecchiaia ti vengono tutte queste malattie e dobbiamo accettarle come vengono, no? Non abbiamo la forza dei giovani! E anche la tua testimonianza – dice Gesù – si accompagnerà a questa debolezza. Tu devi essere testimone di Gesù anche nella debolezza, nella malattia e nella morte. C’è un passo bello di Sant’Ignazio di Loyola che dice: “Così come nella vita, anche nella morte dobbiamo dare testimonianza di discepoli di Gesù”. Il fine vita dev’essere un fine vita di discepoli: di discepoli di Gesù, perché il Signore ci parla sempre secondo l’età che abbiamo. L’Evangelista aggiunge il suo commento, spiegando che Gesù alludeva alla testimonianza estrema, quella del martirio e della morte. Ma possiamo ben intendere più in generale il senso di questo ammonimento: la tua sequela dovrà imparare a lasciarsi istruire e plasmare dalla tua fragilità, dalla tua impotenza, dalla tua dipendenza da altri, persino nel vestirsi, nel camminare. Ma tu «seguimi» (v. 19). La sequela di Gesù va sempre avanti, con buona salute, con non buona salute, con autosufficienza e con non autosufficienza fisica, ma la sequela di Gesù è importante: seguire Gesù sempre, a piedi, di corsa, lentamente, in carrozzina, ma seguirlo sempre. La sapienza della sequela deve trovare la strada per rimanere nella sua professione di fede – così risponde Pietro: «Signore, tu lo sai che ti voglio bene» (vv. 15.16.17) –, anche nelle condizioni limitate della debolezza e della vecchiaia. A me piace parlare con gli anziani guardandoli negli occhi: hanno quegli occhi brillanti, quegli occhi che ti parlano più delle parole, la testimonianza di una vita. E questo è bello, dobbiamo conservarlo fino alla fine. Seguire Gesù così, pieni di vita.

Questo colloquio tra Gesù e Pietro contiene un insegnamento prezioso per tutti i discepoli, per tutti noi credenti. E anche per tutti gli anziani. Imparare dalla nostra fragilità ad esprimere la coerenza della nostra testimonianza di vita nelle condizioni di una vita largamente affidata ad altri, largamente dipendente dall’iniziativa di altri. Con la malattia, con la vecchiaia la dipendenza cresce e non siamo più autosufficienti come prima; cresce la dipendenza dagli altri e anche lì matura la fede, anche lì c’è Gesù con noi, anche lì sgorga quella ricchezza della fede ben vissuta durante la strada della vita.

Ma di nuovo dobbiamo interrogarci: disponiamo di una spiritualità realmente capace di interpretare la stagione – ormai lunga e diffusa – di questo tempo della nostra debolezza affidata ad altri, più che alla potenza della nostra autonomia? Come si rimane fedeli alla sequela vissuta, all’amore promesso, alla giustizia cercata nel tempo della nostra capacità di iniziativa, nel tempo della fragilità, nel tempo della dipendenza, del congedo, nel tempo di allontanarsi dal protagonismo della nostra vita? Non è facile allontanarsi dall’essere protagonista, non è facile.

Questo nuovo tempo è anche un tempo della prova, certamente. Incominciando dalla tentazione – molto umana, indubbiamente, ma anche molto insidiosa –, di conservare il nostro protagonismo. E alle volte il protagonista deve diminuire, deve abbassarsi, accettare che la vecchiaia ti abbassa come protagonista. Ma avrai un altro modo di esprimerti, un altro modo di partecipare nella famiglia, nella società, nel gruppo degli amici. Ed è la curiosità che viene a Pietro: “E lui?”, dice Pietro, vedendo il discepolo amato che li seguiva (cfr vv. 20-21). Ficcare il naso nella vita degli altri. E no: Gesù dice: “Stai zitto!”. Deve proprio stare nella “mia” sequela? Deve forse occupare il “mio” spazio? Sarà il mio successore? Sono domande che non servono, che non aiutano. Deve durare più di me e prendersi il mio posto? E la risposta di Gesù è franca e persino ruvida: «A te che importa? Tu seguimi» (v. 22), Come a dire: prenditi cura della tua vita, della tua situazione attuale e non ficcare il naso nella vita altrui. Tu seguimi. Questo sì, è importante: la sequela di Gesù, seguire Gesù nella vita e nella morte, nella salute e nella malattia, nella vita quando è prospera con tanti successi e nella vita anche difficile con tanti momenti brutti di caduta. E quando noi vogliamo metterci nella vita degli altri, Gesù risponde: “A te che importa? Tu seguimi”. Bellissimo. Noi anziani non dovremmo essere invidiosi dei giovani che prendono la loro strada, che occupano il nostro posto, che durano più di noi. L’onore della nostra fedeltà all’amore giurato, la fedeltà alla sequela della fede che abbiamo creduto, anche nelle condizioni che ci avvicinano al congedo della vita, sono il nostro titolo di ammirazione per le generazioni che vengono e di grato riconoscimento da parte del Signore. Imparare a congedarsi: questa è la saggezza degli anziani. Ma congedarsi bene, con il sorriso; imparare a congedarsi in società, a congedarsi con gli altri. La vita dell’anziano è un congedo, lento, lento, ma un congedo gioioso: ho vissuto la vita, ho conservato la mia fede. Questo è bello, quando un anziano può dire questo: “Ho vissuto la vita, questa è la mia famiglia; ho vissuto la vita, sono stato un peccatore ma anche ho fatto del bene”. E questa pace che viene, questo è il congedo dell’anziano.

Persino la sequela forzatamente inoperosa, fatta di emozionata contemplazione e di ascolto rapito della parola del Signore – come quella di Maria, sorella di Lazzaro – diventerà la parte migliore della loro vita, della vita di noi anziani. Che mai questa parte ci sarà più tolta, mai (cfr Lc 10,42). Guardiamo gli anziani, guardiamoli, e aiutiamoli affinché possano vivere ed esprimere la loro saggezza di vita, che possano darci quello che hanno di bello e di buono. Guardiamoli, ascoltiamoli. E noi anziani, guardiamo i giovani sempre con un sorriso: loro seguiranno la strada, loro porteranno avanti quello che abbiamo seminato, anche quello che noi non abbiamo seminato perché non abbiamo avuto il coraggio o l’opportunità: loro lo porteranno avanti. Ma sempre questo rapporto di reciprocità: un anziano non può essere felice senza guardare i giovani e i giovani non possono andare avanti nella vita senza guardare gli anziani. Grazie.

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Saluti

APPELLO
 

Nelle scorse ore, un terremoto ha provocato vittime e danni ingenti in Afghanistan. Esprimo la mia vicinanza ai feriti e a chi è stato colpito dal sisma e prego in particolare per quanti hanno perso la vita e per i loro familiari. Auspico che con l’aiuto di tutti, si possano alleviare le sofferenze della cara popolazione afghana.

Esprimo altresì il mio dolore e sgomento per l’uccisione in Messico, l’altro ieri, di due religiosi gesuiti, fratelli miei, e di un laico. Quante uccisioni in Messico! Sono vicino con l’affetto e la preghiera alla comunità cattolica colpita da questa tragedia. Ancora una volta, ripeto che la violenza non risolve i problemi, ma accresce le inutili sofferenze.

I bambini che erano con me nella papamobile erano bambini ucraini: non dimentichiamo l’Ucraina. Non perdiamo la memoria della sofferenza di quel popolo martoriato.

* * *

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. Saluto le parrocchie di Macerata, Maddaloni e Salerno; l’Accademia Militare di Modena e l’Accademia Ufficiali della Guardia di Finanza; brave Armi!

Il mio pensiero va infine, come di consueto, agli anziani, agli ammalati, ai giovani e agli sposi novelli. La festa del Sacratissimo Cuore di Gesù, venerdì prossimo, e la memoria del Cuore Immacolato di Maria, che la Chiesa si appresta a celebrare, ci richiamano l’esigenza di corrispondere all’amore misericordioso di Cristo e ci invitano ad affidarci con fiducia all’intercessione della Madre del Signore.

A tutti voi la mia benedizione.



UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 10 agosto 2022

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Catechesi sulla Vecchiaia: 16. “Vado a prepararvi un posto” (cfr Gv 14,2). La vecchiaia, tempo proiettato al compimento.

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

siamo ormai alle ultime catechesi dedicate alla vecchiaia. Oggi entriamo nell’intimità commovente del congedo di Gesù dai suoi, ampiamente riportato nel Vangelo di Giovanni. Il discorso di commiato inizia con parole di consolazione e di promessa: «Non sia turbato il vostro cuore» (14,1); «Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi» (14,3). Belle parole, queste, del Signore.

Poco prima, Gesù aveva detto a Pietro: tu «mi seguirai più tardi» (13,36), ricordandogli il passaggio attraverso la fragilità della sua fede. Il tempo della vita che rimane ai discepoli sarà, inevitabilmente, un passaggio attraverso la fragilità della testimonianza e attraverso le sfide della fraternità. Ma sarà anche un passaggio attraverso le entusiasmanti benedizioni della fede: «Chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi» (14,12). Pensate che promessa è questa! Non so se ci pensiamo fino in fondo, se ci crediamo fino in fondo! Non so, alle volte credo di no…

La vecchiaia è il tempo propizio per la testimonianza commossa e lieta di questa attesa. L’anziano e l’anziana sono in attesa, in attesa di un incontro. Nella vecchiaia le opere della fede, che avvicinano noi e gli altri al regno di Dio, stanno ormai oltre la potenza delle energie, delle parole, degli slanci della giovinezza e della maturità. Ma proprio così rendono ancora più trasparente la promessa della vera destinazione della vita. E qual è la vera destinazione della vita? Un posto a tavola con Dio, nel mondo di Dio. Sarebbe interessante vedere se nelle Chiese locali esiste qualche riferimento specifico, destinato a ravvivare questo speciale ministero dell’attesa del Signore – è un ministero, il ministero dell’attesa del Signore – incoraggiando i carismi individuali e le qualità comunitarie della persona anziana.

Una vecchiaia che si consuma nell’avvilimento delle occasioni mancate, porta avvilimento per sé e per tutti. Invece, la vecchiaia vissuta con dolcezza, vissuta con rispetto per la vita reale scioglie definitivamente l’equivoco di una potenza che deve bastare a sé stessa e alla propria riuscita. Scioglie persino l’equivoco di una Chiesa che si adatta alla condizione mondana, pensando in questo modo di governarne definitivamente la perfezione e il compimento. Quando ci liberiamo da questa presunzione, il tempo dell’invecchiamento che Dio ci concede è già in sé stesso una di quelle opere “più grandi” di cui parla Gesù. In effetti, è un’opera che a Gesù non fu dato di compiere: la sua morte, la sua risurrezione e la sua ascensione in Cielo l’hanno resa possibile a noi! Ricordiamoci che “il tempo è superiore allo spazio”. È la legge dell’iniziazione. La nostra vita non è fatta per chiudersi su sé stessa, in una immaginaria perfezione terrena: è destinata ad andare oltre, attraverso il passaggio della morte – perché la morte è un passaggio. Infatti, il nostro luogo stabile, il nostro punto d’arrivo non è qui, è accanto al Signore, dove Egli dimora per sempre.

Qui, sulla terra, si avvia il processo del nostro “noviziato”: siamo apprendisti della vita, che – tra mille difficoltà – imparano ad apprezzare il dono di Dio, onorando la responsabilità di condividerlo e di farlo fruttificare per tutti. Il tempo della vita sulla terra è la grazia di questo passaggio. La sicumera di fermare il tempo – volere l’eterna giovinezza, il benessere illimitato, il potere assoluto – non è solo impossibile, è delirante.

La nostra esistenza sulla terra è il tempo dell’iniziazione alla vita: è vita, ma che ti porta avanti a una vita più piena, l’iniziazione di quella più piena; una vita che solo in Dio trova il compimento. Siamo imperfetti fin dall’inizio e rimaniamo imperfetti fino alla fine. Nel compimento della promessa di Dio, il rapporto si inverte: lo spazio di Dio, che Gesù prepara per noi con ogni cura, è superiore al tempo della nostra vita mortale. Ecco: la vecchiaia avvicina la speranza di questo compimento. La vecchiaia conosce definitivamente, ormai, il senso del tempo e le limitazioni del luogo in cui viviamo la nostra iniziazione. La vecchiaia è saggia per questo: i vecchi sono saggi per questo. Per questo essa è credibile quando invita a rallegrarsi dello scorrere del tempo: non è una minaccia, è una promessa. La vecchiaia è nobile, non ha bisogno di truccarsi per far vedere la propria nobiltà. Forse il trucco viene quando manca la nobiltà. La vecchiaia è credibile quando invita a rallegrarsi dello scorrere del tempo: ma il tempo passa e questo non è una minaccia, è una promessa. La vecchiaia che ritrova la profondità dello sguardo della fede, non è conservatrice per sua natura, come dicono! Il mondo di Dio è uno spazio infinito, sul quale il passaggio del tempo non ha più peso. E proprio nell’Ultima Cena, Gesù si proiettò verso questa meta, quando disse ai discepoli: «Da ora non berrò più di questo frutto della vite, fino al giorno in cui lo berrò di nuovo con voi nel regno del Padre mio» (Mt 26,29). È andato oltre. Nella nostra predicazione, spesso il Paradiso è giustamente pieno di beatitudine, di luce, di amore. Forse gli manca un po’ la vita. Gesù, nelle parabole, parlava del regno di Dio mettendoci più vita. Non siamo più capaci di questo noi, nel parlare della vita che continua?

Cari fratelli e sorelle, la vecchiaia, vissuta nell’attesa del Signore, può diventare la compiuta “apologia” della fede, che rende ragione, a tutti, della nostra speranza per tutti (cfr 1 Pt 3,15). Perché la vecchiaia rende trasparente la promessa di Gesù, proiettandosi verso la Città santa di cui parla il libro dell’Apocalisse (capitoli 21-22). La vecchiaia è la fase della vita più adatta a diffondere la lieta notizia che la vita è iniziazione per un compimento definitivo. I vecchi sono una promessa, una testimonianza di promessa. E il meglio deve ancora venire. Il meglio deve ancora venire: è come il messaggio del vecchio e della vecchia credenti, il meglio deve ancora venire. Dio conceda a tutti noi una vecchiaia capace di questo!

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Saluti

[Saluto cordialmente i pellegrini polacchi. Vi auguro che il periodo di vacanze sia per voi un tempo di riposo, ma anche l’opportunità per ravvivare i legami con Dio e con gli uomini. Non trascurate la preghiera quotidiana, la partecipazione all’Eucaristia domenicale e la condivisione del tempo con gli altri. Contemplate la bellezza del creato, glorificando l’amore del Creatore. Vi accompagni la sua benedizione.]

* * *

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana, esortando tutti ad essere costruttori di unità e di pace in famiglia, nella Chiesa e nella società. Non è facile essere costruttori di pace, sia nella famiglia che nella Chiesa… l’unità; ma dobbiamo farlo, perché è un bel lavoro. Un pensiero anche al popolo dell’Ucraina, che ancora soffre questa guerra così crudele. E preghiamo anche per i migranti che stanno arrivando continuamente.

Il mio pensiero va infine, come di consueto, agli anziani, agli ammalati, ai giovani e agli sposi novelli. La festa liturgica di San Lorenzo, diacono e martire della Chiesa dei Roma, susciti in ciascuno il desiderio di testimoniare il Vangelo, sempre disponibili verso i poveri e quanti si trovano in difficoltà.

A tutti la mia benedizione.




UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 17 agosto 2022

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Catechesi sulla Vecchiaia - 17. L’“Antico dei giorni”. La vecchiaia rassicura sulla destinazione alla vita che non muore più

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Le parole del sogno di Daniele, che abbiamo ascoltato, evocano una visione di Dio misteriosa e al tempo stesso splendente. Essa è ripresa all’inizio del libro dell’Apocalisse e riferita a Gesù Risorto, che appare al Veggente come Messia, Sacerdote e Re, eterno, onnisciente e immutabile (1,12-15). Egli posa la sua mano sulla spalla del Veggente e lo rassicura: «Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente. Io ero morto, ma ora vivo per sempre» (vv. 17-18). Scompare così l’ultima barriera del timore e dell’angoscia che la teofania ha sempre suscitato: il Vivente ci rassicura, ci dà sicurezza. Lui pure è morto, ma ora occupa il posto che gli è destinato: quello del Primo e dell’Ultimo.

In questo intreccio dei simboli – qui ci sono tanti simboli – c’è un aspetto che ci aiuta forse a comprendere meglio il legame di questa teofania, questo apparire di Dio, con il ciclo della vita, il tempo della storia, la signoria di Dio per il mondo creato. E questo aspetto ha proprio a che fare con la vecchiaia. Cosa c’entra? Vediamo.

La visione comunica un’impressione di vigore e di forza, di nobiltà, di bellezza e di fascino. Il vestito, gli occhi, la voce, i piedi, tutto è splendido in quella visione: si tratta di visione! I suoi capelli però sono candidi: come la lana, come la neve. Come quelli di un vecchio. Il termine biblico più diffuso per indicare l’anziano è “zaqen”: da “zaqan”, che significa “barba”. La chioma candida è il simbolo antico di un tempo lunghissimo, di un passato immemorabile, di una esistenza eterna. Non bisogna demitizzare tutto coi bambini: l’immagine di un Dio vegliardo con la chioma candida non è un simbolo sciocco, è un’immagine biblica, è un’immagine nobile e anche un’immagine tenera. La Figura che nell’Apocalisse sta fra i candelabri d’oro si sovrappone a quella dell’“Antico dei giorni” della profezia di Daniele. È vecchio come l’intera umanità, ma anche di più. È antico e nuovo come l’eternità di Dio. Perché l’eternità di Dio è così, antica e nuova, perché Dio ci sorprende sempre con la sua novità, sempre ci viene incontro, ogni giorno in una maniera speciale, per quel momento, per noi. Si rinnova sempre: Dio è eterno, è da sempre, possiamo dire che c’è come una vecchiaia in Dio, non è così, ma è eterno, si rinnova.

Nelle Chiese orientali, la festa dell’Incontro con il Signore, che si celebra il 2 febbraio, è una delle dodici grandi feste dell’anno liturgico. Essa mette in risalto l’incontro di Gesù con l’anziano Simeone al Tempio, essa mette in risalto l’incontro tra l’umanità, rappresentata dai vegliardi Simeone e Anna, con Cristo Signore piccolo, il Figlio eterno di Dio fatto uomo. Una sua bellissima icona si può ammirare a Roma nei mosaici di Santa Maria in Trastevere.

La liturgia bizantina prega con Simeone: «Questi è Colui che è stato partorito dalla Vergine: è il Verbo, Dio da Dio, Colui che per noi si è incarnato e ha salvato l’uomo». E prosegue: «Si apra oggi la porta del cielo: il Verbo eterno del Padre, assunto un principio temporale, senza uscire dalla sua divinità, è presentato per suo volere al tempio della Legge dalla Vergine Madre e il vegliardo lo prende tra le braccia». Queste parole esprimono la professione di fede dei primi quattro Concili ecumenici, che sono sacri per tutte le Chiese. Ma il gesto di Simeone è anche l’icona più bella per la speciale vocazione della vecchiaia: guardando Simeone guardiamo l’icona più bella della vecchiaia: presentare i bambini che vengono al mondo come un dono ininterrotto di Dio, sapendo che uno di loro è il Figlio generato nell’intimità stessa di Dio, prima di tutti i secoli.

La vecchiaia, incamminata verso un mondo in cui potrà finalmente irradiarsi senza ostacoli l’amore che Dio ha messo nella Creazione, deve compiere questo gesto di Simeone e di Anna, prima del suo congedo. La vecchiaia deve rendere testimonianza – questo per me è il nocciolo, il più centrale della vecchiaia – la vecchiaia deve rendere testimonianza ai bambini della loro benedizione: essa consiste nella loro iniziazione – bella e difficile – al mistero di una destinazione alla vita che nessuno può annientare. Neppure la morte. Dare testimonianza di fede davanti a un bambino è seminare questa vita; anche, dare testimonianza di umanità e di fede è la vocazione degli anziani. Dare ai bambini la realtà che hanno vissuto come testimonianza, dare il testimone. Noi vecchi siamo chiamati a questo, a dare il testimone, perché loro lo portino avanti.

La testimonianza degli anziani è credibile per i bambini: i giovani e gli adulti non sono in grado di renderla così autentica, così tenera, così struggente, come possono fare gli anziani, i nonni. Quando l’anziano benedice la vita che gli viene incontro, deponendo ogni risentimento per la vita che se ne va, è irresistibile. Non è amareggiato perché passa il tempo e lui sta per andarsene: no. È con quella gioia del buon vino, del vino che si è fatto buono con gli anni. La testimonianza degli anziani unisce le età della vita e le stesse dimensioni del tempo: passato, presente e futuro, perché loro non sono solo la memoria, sono il presente e anche la promessa. È doloroso – e dannoso – vedere che si concepiscono le età della vita come mondi separati, in competizione fra loro, che cercano di vivere ciascuno a spese dell’altro: questo non va. L’umanità è antica, molto antica, se guardiamo al tempo dell’orologio. Ma il Figlio di Dio, che è nato da donna, è il Primo e l’Ultimo di ogni tempo. Vuol dire che nessuno cade fuori dalla sua eterna generazione, fuori dalla sua splendida forza, fuori dalla sua amorevole prossimità.

L’alleanza – e dico alleanza – l’alleanza dei vecchi e dei bambini salverà la famiglia umana. Dove i bambini, dove i giovani parlano con i vecchi c’è futuro; se non ci sarà questo dialogo fra vecchi e giovani, il futuro non si vede chiaro. L’alleanza dei vecchi e dei bambini salverà la famiglia umana. Potremmo, per favore, restituire ai bambini, che devono imparare a nascere, la tenera testimonianza di anziani che possiedono la saggezza del morire? Questa umanità, che con tutto il suo progresso ci sembra un adolescente nato ieri, potrà riavere la grazia di una vecchiaia che tiene fermo l’orizzonte della nostra destinazione? La morte è certamente un passaggio difficile della vita, per tutti noi: è un passaggio difficile. Tutti dobbiamo andare lì, ma non è facile. Ma la morte è anche il passaggio che chiude il tempo dell’incertezza e butta via l’orologio: è difficile, perché quello è il passaggio della morte. Perché il bello della vita, che non ha più scadenza, incomincia proprio allora. Ma incomincia dalla saggezza di quell’uomo e di quella donna, anziani, che sono capaci di dare ai giovani il testimone. Pensiamo al dialogo, all’alleanza dei vecchi e dei bambini, dei vecchi con i giovani, e facciamo in modo che non venga tagliato, questo legame. Che i vecchi abbiano la gioia di parlare, di esprimersi con i giovani e che i giovani cerchino i vecchi per prendere da loro la saggezza della vita.

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Saluti

[Saluto cordialmente i Polacchi. In questi giorni, migliaia di pellegrini si recano a piedi al santuario di Jasna Góra, pregando per la pace e la riconciliazione nel mondo. Tra di loro ci sono molti Ucraini che hanno trovato nel vostro Paese una casa ospitale. Affidiamo il destino dell’Europa e del mondo alla Madonna Nera. Vi benedico di cuore.]

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Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. Saluto gli universitari di diversi Paesi e diverse religioni che partecipano alle giornate di incontro promosse dall’“Opera Giorgio La Pira”: cari amici vi incoraggio a percorrere cammini di dialogo e di confronto per costruire un mondo di pace.

Saluto con particolare affetto le Suore dell’Immacolata – erano nella curia di Buenos Aires, le conosco bene –, che celebrano il Capitolo Generale: care sorelle, invoco su di voi copiosi doni dello Spirito Santo e vi invito a cooperare generosamente per l’evangelizzazione, specialmente delle giovani generazioni e delle persone più fragili. E preghiamo per le vocazioni!

Il mio pensiero, come sempre, va all’Ucraina: non dimentichiamo quel popolo martoriato.

E infine il mio pensiero come di consueto, agli anziani, agli ammalati, ai giovani e agli sposi novelli. La solennità dell'Assunzione, che abbiamo celebrato da pochi giorni, ci ha invitato a vivere con impegno il cammino di questo mondo costantemente rivolti ai beni eterni. Maria aiuti ciascuno a mettere sempre al primo posto Cristo e il Vangelo.

A tutti la mia benedizione.






[Modificato da Caterina63 17/08/2022 15:15]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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24/08/2022 12:29
 
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UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 24 agosto 2022

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Catechesi sulla Vecchiaia: 18. Le doglie della creazione. La storia della creatura come mistero di gestazione

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Abbiamo da poco celebrato l’Assunzione in cielo della Madre di Gesù. Questo mistero illumina il compimento della grazia che ha plasmato il destino di Maria, e illumina anche la nostra destinazione. La destinazione è il cielo. Con questa immagine della Vergine assunta in cielo vorrei concludere il ciclo delle catechesi sulla vecchiaia. In occidente la contempliamo elevata verso l’alto avvolta di luce gloriosa; in oriente è raffigurata distesa, dormiente, circondata dagli Apostoli in preghiera, mentre il Signore Risorto la porta tra le mani come una bambina.

La teologia ha sempre riflettuto sul rapporto di questa singolare “assunzione” con la morte, che il dogma non definisce. Penso che sarebbe ancora più importante esplicitare il rapporto di questo mistero con la risurrezione del Figlio, che apre la via della generazione alla vita per tutti noi. Nell’atto divino del ricongiungimento di Maria con Cristo Risorto non è semplicemente trascesa la normale corruzione corporale della morte umana, non solo questo, è anticipata l’assunzione corporale della vita di Dio. Viene infatti anticipato il destino della risurrezione che ci riguarda: perché, secondo la fede cristiana, il Risorto è primogenito di molti fratelli e sorelle. Il Signore risorto è Colui che è andato prima, che è risorto prima di tutti, poi andremo noi: questo è il nostro destino: risorgere.

Potremmo dire – seguendo la parola di Gesù a Nicodemo – che è un po’ come una seconda nascita (cfr Gv 3,3-8). Se la prima è stata una nascita sulla terra, questa seconda è la nascita al cielo. Non a caso l’Apostolo Paolo, nel testo che è stato letto all’inizio, parla delle doglie del parto (cfr Rm 8,22). Come, appena usciti dal seno di nostra madre, siamo sempre noi, lo stesso essere umano che era nel grembo, così, dopo la morte, nasciamo al cielo, allo spazio di Dio, e siamo ancora noi che abbiamo camminato su questa terra. Analogamente a quanto è accaduto a Gesù: il Risorto è sempre Gesù: non perde la sua umanità, il suo vissuto, e neppure la sua corporeità, no, perché senza di essa non sarebbe più Lui, non sarebbe Gesù: cioè, con la sua umanità, con il suo vissuto.

Ce lo dice l’esperienza dei discepoli, ai quali Egli appare per quaranta giorni dopo la sua risurrezione. Il Signore mostra le ferite che hanno sigillato il suo sacrificio; ma non sono più le brutture dell’avvilimento dolorosamente patito, ormai sono la prova indelebile del suo amore fedele sino alla fine. Gesù risorto con il suo corpo vive nell’intimità trinitaria di Dio! E in essa non perde la memoria, non abbandona la propria storia, non scioglie le relazioni in cui è vissuto sulla terra. Ai suoi amici ha promesso: «Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi» (Gv 14,3). Lui se ne è andato per preparare il posto a tutti noi e dopo aver preparato un posto verrà. Non verrà solo alla fine per tutti, verrà ogni volta per ognuno di noi. Verrà a cercarci per portarci da Lui. In questo senso la morte è un po’ il passo all’incontro con Gesù che mi sta aspettando per portarmi da Lui.

Il Risorto vive nel mondo di Dio, dove c’è un posto per tutti, dove si forma una nuova terra e si va costruendo la città celeste, abitazione definitiva dell’uomo. Noi non possiamo immaginare questa trasfigurazione della nostra corporeità mortale, ma siamo certi che essa manterrà riconoscibili i nostri volti e ci consentirà di rimanere umani nel cielo di Dio. Ci consentirà di partecipare, con sublime emozione, all’infinita e felice esuberanza dell’atto creatore di Dio, di cui vivremo in prima persona tutte le interminabili avventure.

Gesù, quando parla del Regno di Dio, lo descrive come un pranzo di nozze, come una festa con gli amici, come il lavoro che rende perfetta la casa: è la sorpresa che rende il raccolto più ricco della semina. Prendere sul serio le parole evangeliche sul Regno abilita la nostra sensibilità a godere dell’amore operoso e creativo di Dio, e ci mette in sintonia con la destinazione inaudita della vita che seminiamo. Nella nostra vecchiaia, care e cari coetanei, e parlo ai “vecchi” e alle “vecchiette”, nella nostra vecchiaia l’importanza di tanti “dettagli” di cui è fatta la vita – una carezza, un sorriso, un gesto, un lavoro apprezzato, una sorpresa inaspettata, un’allegria ospitale, un legame fedele – si rende più acuta. L’essenziale della vita, che in prossimità del nostro congedo teniamo più caro, ci appare definitivamente chiaro. Ecco: questa sapienza della vecchiaia è il luogo della nostra gestazione, che illumina la vita dei bambini, dei giovani, degli adulti, e dell’intera comunità. Noi “vecchi” dovremmo essere questo per gli altri: luce per gli altri. L’intera nostra vita appare come un seme che dovrà essere sotterrato perché nasca il suo fiore e il suo frutto. Nascerà, insieme con tutto il resto del mondo. Non senza doglie, non senza dolore, ma nascerà (cfr Gv 16,21-23). E la vita del corpo risorto sarà cento e mille volte più viva di come l’abbiamo assaggiata su questa terra (cfr Mc 10,28-31).

Il Signore Risorto, non a caso, mentre aspetta gli Apostoli in riva al lago, arrostisce del pesce (cfr Gv 21,9) e poi lo offre loro. Questo gesto di amore premuroso ci fa intuire che cosa ci aspetta mentre passiamo all’altra riva. Sì, cari fratelli e sorelle, specialmente voi anziani, il meglio della vita è ancora tutto da vedere; “Ma siamo vecchi, cosa dobbiamo vedere in più?” Il meglio, perché il meglio della vita è ancora tutto da vedere. Speriamo questa pienezza di vita che ci aspetta tutti, quando il Signore ci chiamerà. La Madre del Signore e Madre nostra, che ci ha preceduti in Paradiso, ci restituisca la trepidazione dell’attesa perché non è un’attesa anestetizzata, non è un’attesa annoiata, no, è un’attesa con trepidazione: “Quando verrà il mio Signore? Quando potrò andare là?” Un po’ di paura perché questo passaggio non so cosa significa e passare quella porta dà un po’ di paura ma c’è sempre la mano del Signore che ti porta avanti e attraversata la porta c’è la festa. Siamo attenti, voi cari “vecchi” e care “vecchiette”, coetanei, siamo attenti, Lui ci sta aspettando, soltanto un passaggio e poi la festa.

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SALUTI

[Saluto cordialmente i pellegrini di lingua francese presenti a questa udienza, in particolare i pellegrini provenienti dalla Francia e dal Libano, nonché i pellegrini del Burkina Faso che stanno visitando i santuari d'Italia. Domani festeggeremo San Luigi, re di Francia, modello di marito, di padre e di politico: il suo esempio sostenga la vostra testimonianza cristiana. Dio vi benedica tutti!]

[Saluto cordialmente i fedeli di lingua portoghese, in particolare i pellegrini della Diocesi di Porto e i membri della Comunità Amici di Gesù, di Ipatinga. Fratelli e sorelle, l’esempio di San Bartolomeo Apostolo, che oggi celebriamo, rafforzi in voi l’impegno di portare il Vangelo a tutti. Dio vi benedica!]

APPELLO

Rinnovo l’invito a implorare dal Signore la pace per l’amato popolo ucraino che da sei mesi - oggi - patisce l’orrore della guerra. Auspico che si intraprendano passi concreti per mettere fine alla guerra e scongiurare il rischio di un disastro nucleare a Zaporizhzhia. Porto nel cuore i prigionieri, soprattutto quelli che si trovano in condizioni fragili, e chiedo alle autorità responsabili di adoperarsi per la loro liberazione. Penso ai bambini, tanti morti, poi tanti rifugiati - qui in Italia ce ne sono tanti - tanti feriti, tanti bambini ucraini e bambini russi che sono diventati orfani e l’orfanità non ha nazionalità, hanno perso il papà o la mamma, siano russi siano ucraini.
Penso a tanta crudeltà, a tanti innocenti che stanno pagando la pazzia, la pazzia di tutte le parti, perché la guerra è una pazzia e nessuno in guerra può dire: “No, io non sono pazzo”. La pazzia della guerra. Penso a quella povera ragazza volata in aria per una bomba che era sotto il sedile della macchina a Mosca. Gli innocenti pagano la guerra, gli innocenti! Pensiamo a questa realtà e diciamoci l’un l’altro: la guerra è una pazzia. E coloro che guadagnano con la guerra e con il commercio delle armi sono dei delinquenti che ammazzano l’umanità. E noi pensiamo ad altri Paesi che sono in guerra da tempo: più di 10 anni la Siria, pensiamo la guerra nello Yemen, dove tanti bambini patiscono la fame, pensiamo ai Rohingya che girano il mondo per l’ingiustizia di essere cacciati dalla loro terra. Ma oggi in modo speciale, a sei mesi dall’inizio della guerra, pensiamo all’Ucraina e alla Russia, ambedue i Paesi ho consacrato all’Immacolato Cuore di Maria, che Lei, come Madre, volga lo sguardo su questi due Paesi amati: veda l’Ucraina, veda la Russia e ci porti la pace! Abbiamo bisogno di pace!

* * *

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto le Suore di Carità di Santa Maria che stanno celebrando il loro Capitolo, i Seminaristi partecipanti ad un incontro estivo di formazione. Tutti incoraggio a vivere la propria vocazione come servizio umile e gioioso a Dio e ai fratelli.

Il mio pensiero va infine, come di consueto, agli anziani, agli ammalati, ai giovani e agli sposi novelli, che sono tanti. L’esempio dell’Apostolo San Bartolomeo, che ricordiamo oggi, vi aiuti a guardare con fiducia a Cristo, che è luce nelle difficoltà, sostegno nelle prove e guida in ogni momento della vita.

A tutti voi la mia benedizione.


UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 31 agosto 2022

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Catechesi sul Discernimento: 1. Che cosa significa discernere?

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Iniziamo oggi, un nuovo ciclo di catechesi: abbiamo finito le catechesi sulla vecchiaia, adesso iniziamo un nuovo ciclo sul tema del discernimento. Discernere è un atto importante che riguarda tutti, perché le scelte sono parte essenziale della vita. Discernere le scelte. Si sceglie un cibo, un vestito, un percorso di studi, un lavoro, una relazione. In tutto questo si concretizza un progetto di vita, e anche si concretizza la nostra relazione con Dio.

Nel Vangelo, Gesù parla del discernimento con immagini tratte dalla vita ordinaria; ad esempio, descrive i pescatori che selezionano i pesci buoni e scartano quelli cattivi; o il mercante che sa individuare, tra tante perle, quella di maggior valore. O colui che, arando un campo, si imbatte in qualcosa che si rivela essere un tesoro (cfr Mt 13,44-48).

Alla luce di questi esempi, il discernimento si presenta come un esercizio di intelligenza, e anche di perizia e anche di volontà, per cogliere il momento favorevole: queste sono le condizioni per operare una buona scelta. Ci vuole intelligenza, perizia e anche volontà per fare una buona scelta. E c’è anche un costo richiesto perché il discernimento possa diventare operativo. Per svolgere al meglio il proprio mestiere, il pescatore mette in conto la fatica, le lunghe notti trascorse in mare, e poi il fatto di scartare parte del pescato, accettando una perdita del profitto per il bene di coloro a cui è destinato. Il mercante di perle non esita a spendere tutto per comprare quella perla; e lo stesso fa l’uomo che si è imbattuto in un tesoro. Situazioni inattese, non programmate, dove è fondamentale riconoscere l’importanza e l’urgenza di una decisione da prendere. Le decisioni le deve prendere ognuno; non c’è uno che le prende per noi. Ad un certo punto gli adulti, liberi, possono chiedere consiglio, pensare, ma la decisione è propria; non si può dire: “Ho perso questo, perché ha deciso mio marito, ha deciso mia moglie, ha deciso mio fratello”: no! Tu devi decidere, ognuno di noi deve decidere, e per questo è importante saper discernere: per decidere bene è necessario saper discernere.

Il Vangelo suggerisce un altro aspetto importante del discernimento: esso coinvolge gli affetti. Chi ha trovato il tesoro non avverte la difficoltà di vendere tutto, tanto grande è la sua gioia (cfr Mt 13,44). Il termine impiegato dall’evangelista Matteo indica una gioia del tutto speciale, che nessuna realtà umana può dare; e difatti ritorna in pochissimi altri passi del Vangelo, che rimandano tutti all’incontro con Dio. È la gioia dei Magi quando, dopo un lungo e faticoso viaggio, rivedono la stella (cf Mt 2,10); la gioia, è la gioia delle donne che tornano dal sepolcro vuoto dopo aver ascoltato l’annuncio della risurrezione da parte dell’angelo (cfr Mt 28,8). È la gioia di chi ha trovato il Signore. Prendere una bella decisione, una decisone giusta, ti porta sempre a quella gioia finale; forse nel cammino si deve soffrire un po' l’incertezza, pensare, cercare, ma alla fine la decisione giusta ti benefica di gioia.

Nel giudizio finale Dio opererà un discernimento - il grande discernimento - nei nostri confronti. Le immagini del contadino, del pescatore e del mercante sono esempi di ciò che accade nel Regno dei cieli, un Regno che si manifesta nelle azioni ordinarie della vita, che richiedono di prendere posizione. Per questo è così importante saper discernere: le grandi scelte possono nascere da circostanze a prima vista secondarie, ma che si rivelano decisive. Per esempio, pensiamo al primo incontro di Andrea e Giovanni con Gesù, un incontro che nasce da una semplice domanda: “Rabbì, dove abiti?” – “Venite e vedrete” (cfr Gv 1,38-39), dice Gesù. Uno scambio brevissimo, ma è l’inizio di un cambiamento che, passo a passo, segnerà tutta la vita. A distanza di anni, l’Evangelista continuerà a ricordare quell’incontro che lo ha cambiato per sempre, ricorderà anche l’ora: «Erano circa le quattro del pomeriggio» (v. 39). È l’ora in cui il tempo e l’eterno si sono incontrati nella sua vita. E in una decisione buona, giusta, si incontra la volontà di Dio con la nostra volontà; si incontra il cammino attuale con l’eterno. Prendere una giusta decisione, dopo una strada di discernimento, è fare questo incontro: il tempo con l’eterno.

Pertanto: conoscenza, esperienza, affetti, volontà: ecco alcuni elementiindispensabili del discernimento. Nel corso di queste catechesi ne vedremo altri, altrettanto importanti.

Il discernimento – come dicevo – comporta una fatica. Secondo la Bibbia, noi non ci troviamo davanti, già impacchettata, la vita che dobbiamo vivere: no! Dobbiamo deciderla continuamente, secondo le realtà che vengono. Dio ci invita a valutare e a scegliere: ci ha creato liberi e vuole che esercitiamo la nostra libertà. Per questo, discernere è impegnativo.

Abbiamo fatto spesso questa esperienza: scegliere qualcosa che ci sembrava bene e invece non lo era. Oppure sapere quale fosse il nostro vero bene e non sceglierlo. L’uomo, a differenza degli animali, può sbagliarsi, può non voler scegliere in maniera corretta e la Bibbia lo mostra fin dalle sue prime pagine. Dio dà all’uomo una precisa istruzione: se vuoi vivere, se vuoi gustare la vita, ricordati che sei creatura, che non sei tu il criterio del bene e del male e che le scelte che farai avranno una conseguenza, per te, per altri e per il mondo (cfr Gen 2,16-17); puoi rendere la terra un giardino magnifico o puoi farne un deserto di morte. Un insegnamento fondamentale: non a caso è il primo dialogo tra Dio e l’uomo. Il dialogo è: il Signore dà la missione, tu devi fare questo e questo; e l’uomo ogni passo che fa deve discernere quale decisione prendere. Il discernimento è quella riflessione della mente, del cuore che noi dobbiamo fare prima di prendere una decisione.

Il discernimento è faticoso ma indispensabile per vivere. Richiede che io mi conosca, che sappia cosa è bene per me qui e ora. Richiede soprattutto un rapporto filiale con Dio. Dio è Padre e non ci lascia soli, è sempre disposto a consigliarci, a incoraggiarci, ad accoglierci. Ma non impone mai il suo volere. Perché? Perché vuole essere amato e non temuto. E anche Dio ci vuole figli non schiavi: figli liberi. E l’amore si può vivere solo nella libertà. Per imparare a vivere si deve imparare ad amare, e per questo è necessario discernere: cosa posso fare adesso, davanti a questa alternativa? Che sia un segnale di più amore, di più maturità nell’amore. Chiediamo che lo Spirito Santo ci guidi! Invochiamolo ogni giorno, specialmente quando dobbiamo fare delle scelte. Grazie.

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Saluti

[Saluto cordialmente i pellegrini di lingua francese presenti a questa udienza, in particolare i fedeli siriaco-cattolici della Missione della Santa Famiglia di Lione. Il discernimento è difficile ma indispensabile per vivere. Richiede di conoscere noi stessi, di sapere cosa è bene per noi, qui e ora. Soprattutto, richiede un rapporto filiale con Dio. Perché vuole essere amato e non temuto, Dio non impone mai la sua volontà. Ma Egli è Padre e non ci lascia soli; è sempre pronto a consigliarci, a incoraggiarci, ad accoglierci. Lo Spirito Santo guidi le nostre scelte quotidiane. Il Signore vi benedica!]

Seguo con preoccupazione i violenti avvenimenti verificatisi a Baghdad negli ultimi giorni. Domandiamo a Dio nella preghiera di donare pace alla popolazione irachena. L’anno scorso ho avuto la gioia di visitarla, e ho sentito da vicino il grande desiderio di normalità e di convivenza pacifica tra le diverse comunità religiose che la compongono. Dialogo e fraternità sono la via maestra per affrontare le attuali difficoltà e arrivare a questa meta.

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Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i numerosi gruppi della Cresima, tra cui quello della Diocesi di Chiavari. Cari ragazzi, solo Cristo ha parole di vita eterna. Vi auguro di seguirlo sempre con entusiasmo e di testimoniare il Vangelo con gioia ogni giorno della vostra vita, sorretti dalla forza dello Spirito Santo.

Saluto con affetto i fedeli di Rieti e di Amatrice. La vostra presenza evoca alla mia mente il terremoto del 24 agosto di 6 anni fa che ha colpito Amatrice, Accumoli e Arquata del Tronto. Nel ricordare nella preghiera i morti, rinnovo sentita vicinanza ai familiari. Auspico che prosegua l’aiuto delle istituzioni e delle persone di buona volontà, affinché la vita possa rinascere in questi territori.

Il mio pensiero va infine, come di consueto, agli anziani, agli ammalati, ai giovani e agli sposi novelli. Tutti invito a trovare ogni giorno coraggio e speranza in Dio per vivere in pienezza la rispettiva vocazione. Di cuore vi benedico!



UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 7 settembre 2022

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Catechesi sul Discernimento: 2. Un esempio: Ignazio di Loyola

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Proseguiamo la nostra riflessione sul discernimento – in questo tempo parleremo ogni mercoledì del discernimento spirituale -, e per questo può aiutarci fare riferimento a una testimonianza concreta.

Uno degli esempi più istruttivi ce lo offre Sant’Ignazio di Loyola, con un episodio decisivo della sua vita. Ignazio si trova a casa convalescente, dopo essere stato ferito in battaglia a una gamba. Per scacciare la noia chiede qualcosa da leggere. Lui amava i racconti cavallereschi, ma purtroppo in casa si trovano solo vite di santi. Un po’ a malincuore si adatta, ma nel corso della lettura comincia a scoprire un altro mondo, un mondo che lo conquista e sembra in concorrenza con quello dei cavalieri. Resta affascinato dalle figure di San Francesco e San Domenico e sente il desiderio di imitarli. Ma anche il mondo cavalleresco continua a esercitare il suo fascino su di lui. E così avverte dentro di sé questa alternanza di pensieri, quelli cavallereschi e quelli dei santi, che sembrano equivalersi.

Ignazio però comincia anche a notare delle differenze. Nella sua Autobiografia – in terza persona– scrive così: «Pensando alle cose del mondo - e alle cose cavalleresche, si capisce - provava molto piacere, ma quando, per stanchezza, le abbandonava si sentiva vuoto e deluso. Invece, andare a Gerusalemme a piedi nudi, non cibarsi che di erbe, praticare tutte le austerità che aveva conosciute abituali ai santi, erano pensieri che non solo lo consolavano mentre vi si soffermava, ma anche dopo averli abbandonati lo lasciavano soddisfatto e pieno di gioia» (n. 8); gli lasciavano una traccia di gioia.

In questa esperienza possiamo notare soprattutto due aspetti. Il primo è il tempo: cioè i pensieri del mondo all’inizio sono attraenti, ma poi perdono smalto e lasciano vuoti, scontenti, ti lasciano così, una cosa vuota. I pensieri di Dio, al contrario, suscitano dapprima una certa resistenza – “Ma questa cosa noiosa dei santi non andrò a leggere”, ma quando li si accoglie portano una pace sconosciuta, che dura tanto tempo.

Ecco allora l’altro aspetto: il punto di arrivo dei pensieri. All’inizio la situazione non sembra così chiara. C’è uno sviluppo del discernimento: per esempio capiamo cosa sia il bene per noi non in modo astratto, generale, ma nel percorso della nostra vita. Nelle regole per il discernimento, frutto di questa esperienza fondamentale, Ignazio pone una premessa importante, che aiuta a comprendere tale processo: «A coloro che passano da un peccato mortale all’altro, il demonio comunemente è solito proporre piaceri apparenti, tranquillizzarli che tutto va bene, facendo loro immaginare diletti e piaceri sensuali, per meglio mantenerli e farli crescere nei loro vizi e peccati. Con questi, lo spirito buono usa il metodo opposto, stimolando al rimorso la loro coscienza con il giudizio della ragione» (Esercizi Spirituali, 314); Ma questo non va bene.

C’è una storia che precede chi discerne, una storia che è indispensabile conoscere, perché il discernimento non è una sorta di oracolo o di fatalismo o una cosa di laboratorio, come gettare la sorte su due possibilità. Le grandi domande sorgono quando nella vita abbiamo già fatto un tratto di strada, ed è a quel percorso che dobbiamo tornare per capire cosa stiamo cercando. Se nella vita si fa un po’ di strada, lì: “Ma perché cammino in questa direzione, che sto cercando?”, e lì si fa il discernimento. Ignazio, quando si trovava ferito nella casa paterna, non pensava affatto a Dio o a come riformare la propria vita, no. Egli fa la sua prima esperienza di Dio ascoltando il proprio cuore, che gli mostra un ribaltamento curioso: le cose a prima vista attraenti lo lasciano deluso e in altre, meno brillanti, avverte una pace che dura nel tempo. Anche noi abbiamo questa esperienza, tante volte cominciamo a pensare una cosa e restiamo lì e poi siamo rimasti delusi. Invece facciamo un’opera di carità, facciamo una cosa buona e sentiamo qualcosa di felicità, ti viene un pensiero buono e ti viene la felicità, una cosa di gioia, è un’esperienza tutta nostra. Lui, Ignazio, fa la prima esperienza di Dio, ascoltando il proprio cuore che gli mostra un ribaltamento curioso. È questo che noi dobbiamo imparare: ascoltare il proprio cuore: per conoscere cosa succede, quale decisione prendere, fare un giudizio su una situazione, occorre ascoltare il proprio cuore. Noi ascoltiamo la televisione, la radio, il telefonino, siamo maestri dell’ascolto, ma ti domando: tu sai ascoltare il tuo cuore? Tu ti fermi per dire: “Ma il mio cuore come sta? È soddisfatto, è triste, cerca qualcosa?” . Per prendere delle decisioni belle occorre ascoltare il proprio cuore.

Per questo Ignazio suggerirà di leggere le vite dei santi, perché mostrano in modo narrativo e comprensibile lo stile di Dio nella vita di persone non molto diverse da noi perché i santi erano di carne ed ossa come noi. Le loro azioni parlano alle nostre e ci aiutano a comprenderne il significato.

In quel famoso episodio dei due sentimenti che aveva Ignazio, uno quando leggeva le cose dei cavalieri e l’altro quando leggeva la vita dei santi, possiamo riconoscere un altro aspetto importante del discernimento, che abbiamo già menzionato la volta scorsa. C’è un’apparente casualità negli accadimenti della vita: tutto sembra nascere da un banale contrattempo: non c’erano libri di cavalieri, ma solo vite di santi. Un contrattempo che però racchiude una possibile svolta. Solo dopo un po’ di tempo Ignazio se ne accorgerà, e a quel punto vi dedicherà tutta la sua attenzione. Ascoltate bene: Dio lavora attraverso eventi non programmabili quel per caso, ma per caso mi è successo questo, per caso ho incontrato questa persona, per caso ho visto questo film, non era programmato ma Dio lavora attraverso eventi non programmabili, e anche nei contrattempi: “Ma io dovevo fare una passeggiata e ho avuto un problema ai piedi, non posso…”. Contrattempo: cosa ti dice Dio? Cosa ti dice la vita lì? Lo abbiamo visto anche in un brano del Vangelo di Matteo: un uomo che sta arando un campo si imbatte casualmente in un tesoro sotterrato. Una situazione del tutto inattesa. Ma ciò che è importante è che lo riconosce come il colpo di fortuna della sua vita e decide di conseguenza: vende tutto e compra quel campo (cfr 13,44).
Un consiglio che vi do, state attenti alle cose inattese. Colui che dice: “ma questo per caso io non lo aspettavo”. Lì ti sta parlando la vita, ti sta parlando il Signore o ti sta parlando il diavolo? Qualcuno. Ma c’è una cosa da discernere, come reagisco io di fronte alle cose inattese. Ma io ero tanto tranquillo a casa e “pum, pum”, viene la suocera e tu come reagisci con la suocera? E’ amore o è altra cosa dentro? E fai il discernimento. Io stavo lavorando nell’ufficio bene e viene un compagno a dirmi che ha bisogno di soldi e tu come hai reagito? Vedere cosa succede quando viviamo cose che non aspettiamo e lì impariamo a conoscere il nostro cuore come si muove.

Il discernimento è l’aiuto a riconoscere i segnali con i quali il Signore si fa incontrare nelle situazioni impreviste, perfino spiacevoli, come fu per Ignazio la ferita alla gamba. Da esse può nascere un incontro che cambia la vita, per sempre, come il caso di Ignazio. Può nascere una cosa che ti fa migliorare nel cammino o peggiorare non so, ma stare attenti e il filo conduttore più bello è dato dalle cose inattese: “come mi muovo di fronte a ciò?”. Il Signore ci aiuti a sentire il nostro cuore e a veder quando è Lui che attua e quando non è Lui ed è un’altra cosa.

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Saluti:

[Saluto cordialmente tutti i polacchi. Nella catechesi di oggi ho parlato di Sant'Ignazio di Loyola e di come la lettura delle vite dei santi lo abbia portato alla conversione e gli abbia insegnato il discernimento spirituale. Per questo motivo incoraggio anche voi a scoprire la vita dei santi del vostro popolo affinché possiate riconoscere come il Signore vi ha guidato in passato e cosa chiede da voi oggi. Vi benedico di cuore.]

APPELLO

Domani celebreremo la festa della Natività della Vergine Maria. Maria ha sperimentato la tenerezza di Dio come figlia, piena di grazia, per poi donare questa tenerezza come madre, attraverso l’unione alla missione del Figlio Gesù.

Per questo oggi desidero esprimere la mia vicinanza a tutte le madri. In modo speciale alle madri che hanno figli sofferenti: figli malati, figli emarginati, figli carcerati. Una preghiera particolare per le mamme dei giovani detenuti: perché non venga meno la speranza. Purtroppo nelle carceri sono tante le persone che si tolgono la vita, a volte anche giovani. L’amore di una madre può preservare da questo pericolo. La Madonna consoli tutte le madri afflitte per la sofferenza dei figli.

* * *

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i Seminaristi di Verona, l’Azione Cattolica di Lucca, le famiglie con bambini affetti da atresia-esofagea, accompagnati dal Vescovo di Macerata, il gruppo della terapia intensiva neonatale dell’Ospedale San Camillo Forlanini di Roma. Saluto e ringrazio la delegazione dell’Aquila, guidata dal Vescovo ausiliare e dal Sindaco.

Il mio pensiero va infine, come di consueto, agli anziani, ai giovani, agli sposi novelli, sono tanti, e soprattutto ai tanti ammalati qui presenti, ai quali esprimo la mia vicinanza e il mio affetto. E non dimentico la martoriata ucraina. Ci sono delle bandiere lì. Di fronte a tutti gli scenari di guerra del nostro tempo, chiedo a ciascuno di essere costruttore di pace e di pregare perché nel mondo si diffondano pensieri e progetti di concordia e di riconciliazione. Oggi stiamo vivendo una guerra mondiale, fermiamoci per favore! Alla Vergine Maria affidiamo le vittime di ogni guerra, di ogni guerra, in modo speciale la cara popolazione ucraina.

Di cuore vi benedico.


[Modificato da Caterina63 07/09/2022 13:21]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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28/09/2022 12:58
 
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UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 28 settembre 2022

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Catechesi sul Discernimento: 3. Gli elementi del discernimento. La familiarità con il Signore

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Riprendiamo le catechesi sul tema del discernimento, - perché è molto importante il tema del discernimento per sapere cosa succede dentro di noi; dei sentimenti e delle idee, dobbiamo discernere da dove vengono, dove mi portano, a quale decisione - e oggi ci soffermiamo sul primo dei suoi elementi costitutivi, cioè la preghiera. Per discernere occorre stare in un ambiente, in uno stato di preghiera.

La preghiera è un aiuto indispensabile per il discernimento spirituale, soprattutto quando coinvolge gli affetti, consentendo di rivolgerci a Dio con semplicità e familiarità, come si parla a un amico. È saper andare oltre i pensieri, entrare in intimità con il Signore, con una spontaneità affettuosa. Il segreto della vita dei santi è la familiarità e confidenza con Dio, che cresce in loro e rende sempre più facile riconoscere quello che a Lui è gradito. La preghiera vera è familiarità e confidenza con Dio. Non è recitare preghiere come un pappagallo, bla bla bla, no. La vera preghiera è questa spontaneità e affetto con il Signore. Questa familiarità vince la paura o il dubbio che la sua volontà non sia per il nostro bene, una tentazione che a volte attraversa i nostri pensieri e rende il cuore inquieto e incerto o amaro, pure.

Il discernimento non pretende una certezza assoluta - non è chimicamente un puro metodo, no, pretende una certezza assoluta, perché riguarda la vita, e la vita non è sempre logica, presenta molti aspetti che non si lasciano racchiudere in una sola categoria di pensiero. Vorremmo sapere con precisione cosa andrebbe fatto, eppure, anche quando capita, non per questo agiamo sempre di conseguenza. Quante volte abbiamo fatto anche noi l’esperienza descritta dall’apostolo Paolo, che dice così: «Io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (Rm 7,19). Non siamo solo ragione, non siamo macchine, non basta ricevere delle istruzioni per eseguirle: gli ostacoli, come gli aiuti, a decidersi per il Signore sono soprattutto affettivi, del cuore.

È significativo che il primo miracolo compiuto da Gesù nel Vangelo di Marco sia un esorcismo (cfr 1,21-28). Nella sinagoga di Cafarnao libera un uomo dal demonio, liberandolo dalla falsa immagine di Dio che Satana suggerisce fin dalle origini: quella di un Dio che non vuole la nostra felicità. L’indemoniato, di quel brano di Vangelo, sa che Gesù è Dio, ma questo non lo porta a credere in Lui. Dice infatti: «Sei venuto a rovinarci» (v. 24).

Molti, anche cristiani, pensano la medesima cosa: che cioè Gesù possa anche essere il Figlio di Dio, ma dubitano che voglia la nostra felicità; anzi, alcuni temono che prendere sul serio la sua proposta, quello che Gesù ci propone, significhi rovinarsi la vita, mortificare i nostri desideri, le nostre aspirazioni più forti. Questi pensieri fanno talvolta capolino dentro di noi: che Dio ci chieda troppo, abbiamo paura che Dio ci chieda troppo, che non ci voglia davvero bene. Invece, nel nostro primo incontro abbiamo visto che il segno dell’incontro con il Signore è la gioia. Quando incontro il Signore nella preghiera, divento gioioso. Ognuno di noi diventa gioioso, una cosa bella. La tristezza, o la paura, sono invece segni di lontananza da Dio: «Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti», dice Gesù al giovane ricco (Mt 19,17). Purtroppo per quel giovane, alcuni ostacoli non gli hanno consentito di attuare il desiderio che aveva nel cuore, di seguire più da vicino il “maestro buono”. Era un giovane interessato, intraprendente, aveva preso l’iniziativa di incontrare Gesù, ma era anche molto diviso negli affetti, per lui le ricchezze erano troppo importanti. Gesù non lo costringe a decidersi, ma il testo nota che il giovane si allontana da Gesù «triste» (v. 22). Chi si allontana dal Signore non è mai contento, pur avendo a propria disposizione una grande abbondanza di beni e possibilità. Gesù mai costringe a seguirlo, mai. Gesù ti fa sapere la sua volontà, con tanto cuore ti fa sapere le cose ma ti lascia libero. E questa è la cosa più bella della preghiera con Gesù: la libertà che Lui ci lascia. Invece quando noi ci allontaniamo dal Signore rimaniamo con qualcosa di triste, qualcosa di brutto nel cuore.

Discernere cosa succede dentro di noi non è facile, perché le apparenze ingannano, ma la familiarità con Dio può sciogliere in modo soave dubbi e timori, rendendo la nostra vita sempre più ricettiva alla sua «luce gentile», secondo la bella espressione di San John Henry Newman. I santi brillano di luce riflessa e mostrano nei semplici gesti della loro giornata la presenza amorevole di Dio, che rende possibile l’impossibile. Si dice che due sposi che hanno vissuto insieme tanto tempo volendosi bene finiscono per assomigliarsi. Qualcosa di simile si può dire della preghiera affettiva: in modo graduale ma efficace ci rende sempre più capaci di riconoscere ciò che conta per connaturalità, come qualcosa che sgorga dal profondo del nostro essere. Stare in preghiera non significa dire parole, parole, no; stare in preghiera significa aprire il cuore a Gesù, avvicinarsi a Gesù, lasciare che Gesù entri nel mio cuore e ci faccia sentire la sua presenza. E lì possiamo discernere quando è Gesù e quando siamo noi con i nostri pensieri, tante volte lontani da quello che vuole Gesù.

Chiediamo questa grazia: di vivere una relazione di amicizia con il Signore, come un amico parla all’amico (cfr S. Ignazio di L., Esercizi spirituali, 53). Io ho conosciuto un vecchio fratello religioso che era il portiere di un collegio e lui ogni volta che poteva si avvicinava alla cappella, guardava l’altare, diceva: “Ciao”, perché aveva vicinanza con Gesù. Lui non aveva bisogno di dire bla bla bla, no: “ciao, ti sono vicino e tu mi sei vicino”. Questo è il rapporto che dobbiamo avere nella preghiera: vicinanza, vicinanza affettiva, come fratelli, vicinanza con Gesù. Un sorriso, un semplice gesto e non recitare parole che non arrivano al cuore. Come dicevo, parlare con Gesù come un amico parla all’altro amico. È una grazia che dobbiamo chiedere gli uni per gli altri: vedere Gesù come il nostro amico, il nostro amico più grande, il nostro amico fedele, che non ricatta, soprattutto che non ci abbandona mai, anche quando noi ci allontaniamo da Lui. Lui rimane alla porta del cuore. “No, io con te non voglio sapere nulla”, diciamo noi. E Lui rimane zitto, rimane lì a portata di mano, a portata di cuore perché Lui sempre è fedele. Andiamo avanti con questa preghiera, diciamo la preghiera del “ciao”, la preghiera di salutare il Signore con il cuore, la preghiera dell’affetto, la preghiera della vicinanza, con poche parole ma con gesti e con opere buone. Grazie.

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Saluti

Saluto cordialmente i polacchi. In particolare i dirigenti, i funzionari e i cappellani del Servizio Penitenziario, venuti a Roma per ringraziare di aver ottenuto san Paolo come loro patrono. Fra qualche giorno inizia il mese di ottobre, tradizionalmente dedicato alla Madonna del Rosario. Recitando questa preghiera nelle comunità e nelle famiglie affidate a Maria le vostre preoccupazioni e i bisogni del mondo, soprattutto la questione della pace. Dio vi benedica!

* * *

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i fedeli di Parete e di Battipaglia, auspicando che, con l’impegno di tutti, cresca il fervore religioso delle rispettive comunità parrocchiali. E poi un pensiero alla martoriata Ucraina, che sta soffrendo tanto, quel povero popolo così crudelmente provato. Questa mattina ho potuto parlare con il cardinale Krajewski che era di rientro dall’Ucraina e mi ha raccontato cose terribili. Pensiamo all’Ucraina e preghiamo per questo popolo martoriato.

Il mio pensiero va infine, come di consueto, ai giovani, ai malati, agli anziani e agli sposi novelli. La festa degli Arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele, che celebreremo domani, susciti in ciascuno una sincera adesione ai disegni divini. Sappiate riconoscere e seguire la voce del Maestro interiore, che parla nel segreto della coscienza. Anche preghiamo per il corpo della Gendarmeria vaticana che ha san Michele Arcangelo come patrono e lo festeggia dopo domani. Che loro seguano sempre l’esempio del santo Arcangelo e il Signore li benedica per tutto il bene che fanno.

A tutti la mia benedizione.



UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 5 ottobre 2022

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Catechesi sul Discernimento: 4. Gli elementi del discernimento. Conoscere sé stessi

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Continuiamo a trattare il tema del discernimento. La volta scorsa abbiamo considerato come suo elemento indispensabile quello della preghiera, intesa come familiarità e confidenza con Dio. Preghiera, non come i pappagalli, ma come familiarità e confidenza con Dio; preghiera dei figli al Padre; preghiera con il cuore aperto. Questo lo abbiamo visto nell’ultima Catechesi. Oggi vorrei, in maniera quasi complementare, sottolineare che un buon discernimento richiede anche la conoscenza di sé stessi. Conoscere sé stesso. E questo non è facile. Il discernimento infatti coinvolge le nostre facoltà umane: la memoria, l’intelletto, la volontà, gli affetti. Spesso non sappiamo discernere perché non ci conosciamo abbastanza, e così non sappiamo che cosa veramente vogliamo. Avete sentito tante volte: “Ma quella persona, perché non sistema la sua vita? Mai ha saputo quello che vuole …”. Senza arrivare a quell’estremo, ma anche a noi succede che non sappiamo bene cosa vogliamo, non ci conosciamo bene.

Alla base di dubbi spirituali e crisi vocazionali si trova non di rado un dialogo insufficiente tra la vita religiosa e la nostra dimensione umana, cognitiva e affettiva. Un autore di spiritualità notava come molte difficoltà sul tema del discernimento rimandano a problemi di altro genere, che vanno riconosciuti ed esplorati. Così scrive questo autore: «Sono giunto alla convinzione che l’ostacolo più grande al vero discernimento (e ad una vera crescita nella preghiera) non è la natura intangibile di Dio, ma il fatto che non conosciamo sufficientemente noi stessi, e non vogliamo nemmeno conoscerci per come siamo veramente. Quasi tutti noi ci nascondiamo dietro a una maschera, non solo di fronte agli altri, ma anche quando ci guardiamo allo specchio» (Th. Green, Il grano e la zizzania, Roma, 1992, 25). Tutti abbiamo la tentazione di essere mascherati anche davanti a noi stessi.

La dimenticanza della presenza di Dio nella nostra vita va di pari passo con l’ignoranza su noi stessi – ignorare Dio e ignorare noi -, ignoranza sulle caratteristiche della nostra personalità e sui nostri desideri più profondi.

Conoscere sé stessi non è difficile, ma è faticoso: implica un paziente lavoro di scavo interiore. Richiede la capacità di fermarsi, di “disattivare il pilota automatico”, per acquistare consapevolezza sul nostro modo di fare, sui sentimenti che ci abitano, sui pensieri ricorrenti che ci condizionano, e spesso a nostra insaputa. Richiede anche di distinguere tra le emozioni e le facoltà spirituali. “Sento” non è lo stesso di “sono convinto”; “mi sento di” non è lo stesso di “voglio”. Così si arriva a riconoscere che lo sguardo che abbiamo su noi stessi e sulla realtà è talvolta un po’ distorto. Accorgersi di questo è una grazia! Infatti, molte volte può accadere che convinzioni errate sulla realtà, basate sulle esperienze del passato, ci influenzano fortemente, limitando la nostra libertà di giocarci per ciò che davvero conta nella nostra vita.

Vivendo nell’era dell’informatica, sappiamo quanto sia importante conoscere le password per poter entrare nei programmi dove si trovano le informazioni più personali e preziose. Ma anche la vita spirituale ha le sue “password”: ci sono parole che toccano il cuore perché rimandano a ciò per cui siamo più sensibili. Il tentatore, cioè il diavolo, conosce bene queste parole-chiave, ed è importante che le conosciamo anche noi, per non trovarci là dove non vorremmo. La tentazione non suggerisce necessariamente cose cattive, ma spesso cose disordinate, presentate con una importanza eccessiva. In questo modo ci ipnotizza con l’attrattiva che queste cose suscitano in noi, cose belle ma illusorie, che non possono mantenere quanto promettono, e così ci lasciano alla fine con un senso di vuoto e di tristezza. Quel senso di vuoto e tristezza è un segnale che abbiamo preso una strada che non era giusta, che ci ha disorientato. Possono essere, per esempio, il titolo di studio, la carriera, le relazioni, tutte cose in sé lodevoli, ma verso le quali, se non siamo liberi, rischiamo di nutrire aspettative irreali, come ad esempio la conferma del nostro valore. Tu, per esempio, quando pensi a uno studio che stai facendo, tu lo pensi soltanto per promuovere te stesso, per il tuo interesse, o anche per servire la comunità? Lì, si può vedere qual è l’intenzionalità di ognuno di noi. Da questo fraintendimento derivano spesso le sofferenze più grandi, perché nessuna di quelle cose può essere la garanzia della nostra dignità.

Per questo, cari fratelli e sorelle, è importante conoscersi, conoscere le password del nostro cuore, ciò a cui siamo più sensibili, per proteggerci da chi si presenta con parole suadenti per manipolarci, ma anche per riconoscere ciò che è davvero importante per noi, distinguendolo dalle mode del momento o da slogan appariscenti e superficiali. Tante volte quello che si dice in un programma in televisione, in qualche pubblicità che si fa, ci tocca il cuore e ci fa andare da quella parte senza libertà. State attenti a quello: sono libero o mi lascio andare ai sentimenti del momento, o alle provocazioni del momento?

Un aiuto in questo è l’esame di coscienza, ma non parlo dell’esame di coscienza che tutti facciamo quando andiamo alla confessione, no. Questo è: “Ma ho peccato di questo, quello …”. No. Esame di coscienza generale della giornata: cosa è successo nel mio cuore in questa giornata? “Sono accadute tante cose …”. Quali? Perché? Quali tracce hanno lasciato nel cuore? Fare l’esame di coscienza, cioè la buona abitudine a rileggere con calma quello che capita nella nostra giornata, imparando a notare nelle valutazioni e nelle scelte ciò a cui diamo più importanza, cosa cerchiamo e perché, e cosa alla fine abbiamo trovato. Soprattutto imparando a riconoscere che cosa sazia il mio cuore. Perché solo il Signore può darci la conferma di quanto valiamo. Ce lo dice ogni giorno dalla croce: è morto per noi, per mostrarci quanto siamo preziosi ai suoi occhi. Non c’è ostacolo o fallimento che possano impedire il suo tenero abbraccio. L’esame di coscienza aiuta tanto, perché così vediamo che il nostro cuore non è una strada dove passa di tutto e noi non sappiamo. No. Vedere: cosa è passato oggi? Cosa è successo? Cosa mi ha fatto reagire? Cosa mi ha fatto triste? Cosa mi ha fatto gioioso? Cosa è stato brutto e se ho fatto del male agli altri. Si tratta di vedere il percorso dei sentimenti, delle attrazioni nel mio cuore durante la giornata. Non dimenticatevi! L’altro giorno abbiamo parlato della preghiera; oggi parliamo della conoscenza di sé stessi.

La preghiera e la conoscenza di sé stessi consentono di crescere nella libertà. Questo, è per crescere nella libertà! Sono elementi basilari dell’esistenza cristiana, elementi preziosi per trovare il proprio posto nella vita. Grazie.

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Saluti

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i fedeli della parrocchia San Tommaso apostolo in Roma, e quelli della parrocchia di San Giacomo apostolo in Grugliasco. Saluto poi i rappresentanti della Caritas di Teramo-Atri, accompagnati dal loro Vescovo, il gruppo dei Servizi sociali salesiani, e gli studenti della scuola Sacro Cuore di Francavilla Fontana. Invito tutti ad imitare San Francesco, patrono d’Italia, la cui festa abbiamo celebrato ieri: il suo esempio di consacrazione a Dio, di servizio agli uomini e di fraternità con le creature, guidi il vostro cammino.

E non dimentichiamo di pregare per la martoriata Ucraina, sempre chiedendo al Signore il dono della pace.

Il mio pensiero va infine, come di consueto, ai giovani, ai malati, agli anziani e agli sposi novelli. Esorto anche voi a mettervi alla scuola del Poverello di Assisi, imitandolo nell’amore e nella contemplazione del Crocifisso.

A tutti la mia benedizione.



UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 12 ottobre 2022

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Catechesi sul discernimento. 5. Gli elementi del discernimento. Il desiderio

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

In queste catechesi stiamo passando in rassegna gli elementi del discernimento. Dopo la preghiera e la conoscenza di sé, cioè pregare e conoscere se stesso, oggi vorrei parlare di un altro “ingrediente” per così dire indispensabile: oggi vorrei parlare del desiderio. Infatti, il discernimento è una forma di ricerca, e la ricerca nasce sempre da qualcosa che ci manca ma che in qualche modo conosciamo, abbiamo il fiuto.

Di che genere è questa conoscenza? I maestri spirituali la indicano con il termine “desiderio”, che, alla radice, è una nostalgia di pienezza che non trova mai pieno esaudimento, ed è il segno della presenza di Dio in noi. Il desiderio non è la voglia del momento, no. La parola italiana viene da un termine latino molto bello, questo è curioso: de-sidus, letteralmente “la mancanza della stella”, desiderio è una mancanza della stella, mancanza del punto di riferimento che orienta il cammino della vita; essa evoca una sofferenza, una carenza, e nello stesso tempo una tensione per raggiungere il bene che ci manca. Il desiderio allora è la bussola per capire dove mi trovo e dove sto andando, anzi è la bussola per capire se sto fermo o sto andando, una persona che mai desidera è una persona ferma, forse ammalata, quasi morta. È la bussola se io sto andando o se io mi fermo. E come è possibile riconoscerlo?

Pensiamo, un desiderio sincero sa toccare in profondità le corde del nostro essere, per questo non si spegne di fronte alle difficoltà o ai contrattempi. È come quando abbiamo sete: se non troviamo da bere, non per questo rinunciamo, anzi, la ricerca occupa sempre più i nostri i pensieri e le nostre azioni, fino a che diventiamo disposti a qualsiasi sacrificio per poterla placare, quasi ossessionato. Ostacoli e insuccessi non soffocano il desiderio, no, al contrario lo rendono ancora più vivo in noi.

A differenza della voglia o dell’emozione del momento, il desiderio dura nel tempo, un tempo anche lungo, e tende a concretizzarsi. Se, per esempio, un giovane desidera diventare medico, dovrà intraprendere un percorso di studi e di lavoro che occuperà alcuni anni della sua vita, di conseguenza dovrà mettere dei limiti, dire dei “no”, anzitutto ad altri percorsi di studio, ma anche a possibili svaghi e distrazioni, specialmente nei momenti di studio più intenso. Però, il desiderio di dare una direzione alla sua vita e di raggiungere quella meta - arrivare medico era l’esempio - gli consente di superare queste difficoltà. Il desiderio ti fa forte, ti fa coraggioso, ti fa andare avanti sempre perché tu vuoi arrivare a quello: “Io desidero quello”.

In effetti, un valore diventa bello e più facilmente realizzabile quando è attraente. Come ha detto qualcuno, «più che essere buoni è importante avere la voglia di diventarlo». Essere buoni è una cosa attraente, tutti vogliamo essere buoni, ma abbiamo la voglia di diventare buoni?

Colpisce il fatto che Gesù, prima di compiere un miracolo, spesso interroga la persona sul suo desiderio: “Vuoi essere guarito?”. E a volte questa domanda sembra fuori luogo, ma si vede che è ammalato! Ad esempio, quando incontra il paralitico alla piscina di Betzatà, il quale stava lì da tanti anni e non riusciva mai a cogliere il momento giusto per entrare nell’acqua. Gesù gli chiede: «Vuoi guarire?» (Gv 5,6). Come mai? In realtà, la risposta del paralitico rivela una serie di resistenze strane alla guarigione, che non riguardano soltanto lui. La domanda di Gesù era un invito a fare chiarezza nel suo cuore, per accogliere un possibile salto di qualità: non pensare più a sé stesso e alla propria vita “da paralitico”, trasportato da altri. Ma l’uomo sul lettuccio non sembra esserne così convinto. Dialogando con il Signore, impariamo a capire che cosa veramente vogliamo dalla nostra vita. Questo paralitico è l’esempio tipico delle persone: “Sì, sì, voglio ,voglio” ma non voglio, non voglio, non faccio nulla. Il voler fare diventa come un’illusione e non si fa il passo per farlo. Quella gente che vuole e non vuole. È brutto questo e questo ammalato 38 anni lì, ma sempre con le lamentele: “No, sai Signore ma sai che quando le acque si muovono – che è il momento del miracolo – tu sai, viene qualcuno più forte di me, entra e io arrivo in ritardo”, e si lamenta e si lamenta. Ma state attenti che le lamentele sono un veleno, un veleno all’anima, un veleno alla vita perché non ti fanno crescere il desiderio di andare avanti. State attenti con le lamentele. Quando si lamentano in famiglia, si lamentano i coniugi, si lamentano uno dell’altro, i figli del papà o i preti del vescovo o i vescovi di tante altre cose… No, se voi vi ritrovate in lamentela, state attenti, è quasi peccato, perché non lascia crescere il desiderio.

Spesso è proprio il desiderio a fare la differenza tra un progetto riuscito, coerente e duraturo, e le mille velleità e i tanti buoni propositi di cui, come si dice, “è lastricato l’inferno”: “Sì, io vorrei, io vorrei, io vorrei…” ma non fai nulla. L’epoca in cui viviamo sembra favorire la massima libertà di scelta, ma nello stesso tempo atrofizza il desiderio - tu vuoi soddisfarti continuamente - per lo più ridotto alla voglia del momento. E dobbiamo stare attenti a non atrofizzare il desiderio. Siamo bombardati da mille proposte, progetti, possibilità, che rischiano di distrarci e non permetterci di valutare con calma quello che veramente vogliamo. Tante volte, troviamo gente - pensiamo ai giovani per esempio - con il telefonino in mano e cercano, guardano… “Ma tu ti fermi per pensare?” – “No”. Sempre estroverso, verso l’altro. Il desiderio non può crescere così, tu vivi il momento, saziato nel momento e non cresce il desiderio.

Molte persone soffrono perché non sanno che cosa vogliono dalla propria vita; probabilmente non hanno mai preso contatto con il loro desiderio profondo, mai hanno saputo: “Cosa vuoi dalla tua vita?” – “Non so”. Da qui il rischio di trascorrere l’esistenza tra tentativi ed espedienti di vario tipo, senza mai arrivare da nessuna parte, e sciupando opportunità preziose. E così alcuni cambiamenti, pur voluti in teoria, quando si presenta l’occasione non vengono mai attuati, manca il desiderio forte di portare avanti una cosa.

Se il Signore rivolgesse a noi, oggi, per esempio, a uno qualsiasi di noi, la domanda che ha fatto al cieco di Gerico: «Che cosa vuoi che io faccia per te?» (Mc 10,51) – pensiamo il Signore a ognuno di noi oggi domanda questo: “che cosa vuoi che io faccia per te?” -, cosa risponderemmo? Forse, potremmo finalmente chiedergli di aiutarci a conoscere il desiderio profondo di Lui, che Dio stesso ha messo nel nostro cuore: “Signore che io conosca i miei desideri, che io sia una donna, un uomo di grandi desideri” forse il Signore ci darà la forza di concretizzarlo. È una grazia immensa, alla base di tutte le altre: consentire al Signore, come nel Vangelo, di fare miracoli per noi: “Dacci il desiderio e fallo crescere, Signore”.

Perché anche Lui ha un grande desiderio nei nostri confronti: renderci partecipi della sua pienezza di vita. Grazie.

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Saluti

Rivolgo un cordiale saluto ai fedeli di lingua tedesca. La Beata Vergine Maria di cui domani ricorderemo le apparizioni a Fatima, sia la nostra guida sul cammino di continua conversione e penitenza per andare incontro a Cristo, sole di giustizia. La sua “luce gentile” ci liberi da ogni male e disperda le tenebre di questo mondo tormentato dalle guerre.]

Saludo cordialmente a los peregrinos de lengua española. Hoy celebramos a Nuestra Señora del Pilar, Patrona de la Hispanidad. Que Ella interceda por nosotros ante su Hijo, para que podamos descubrir el deseo que Él ha puesto en nuestros corazones, y nos alcance la gracia de llevarlo a cumplimiento. Que Dios los bendiga y la Virgen Santa los cuide. Muchas gracias.


[Saluto cordialmente tutti i polacchi. Il mese di ottobre è dedicato al Santo Rosario. Recitando questa preghiera, lasciate che la vostra vita e le vostre scelte quotidiane siano illuminate da Cristo, splendore della Verità. Meditando i misteri della luce, fate memoria di San Giovanni Paolo II che ha voluto aggiungerli alla contemplazione degli altri momenti della vita di Gesù. Vi benedico di cuore.]

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto il gruppo di coloro che si occupano delle malattie reumatiche, con un pensiero speciale e grato per l’area medica della pastorale della salute della diocesi di Roma. Saluto l’Associazione “Centri e opere sociali di solidarietà” di Molfetta; l’Associazione “Genitori persone con autismo” di Messina e l’Associazione “Genitori di figli con encefalite pediatrica”. Tutti incoraggio a perseverare nella meritevole opera a sostegno dei più fragili. Saluto gli Ufficiali e Militari del Comando militare di Roma, come pure la Delegazione del Comune di Cervia, qui convenuta per il tradizionale dono del sale.

Il mio pensiero va infine, come di consueto, ai giovani, ai malati, agli anziani e agli sposi novelli. Ieri abbiamo celebrato la memoria liturgica di San Giovanni XXIII, che servì con esemplare dedizione Cristo e la Chiesa, adoperandosi con sollecitudine per la salvezza delle anime e per la pace nel mondo. La sua protezione aiuti tutti voi nello sforzo di quotidiana fedeltà a Cristo e vi sostenga nelle quotidiane fatiche. A tutti la mia benedizione.

 




[Modificato da Caterina63 12/10/2022 11:59]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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19/10/2022 11:54
 
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UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 19 ottobre 2022

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Catechesi sul discernimento. 6. Gli elementi del discernimento. Il libro della propria vita

Cari fratelli e sorelle, benvenuti e buongiorno!

Nelle catechesi di queste settimane stiamo insistendo sui presupposti per fare un buon discernimento. Nella vita dobbiamo prendere delle decisioni, sempre, e per prendere le decisioni dobbiamo fare un cammino, una strada di discernimento. Ogni attività importante ha le sue “istruzioni” da seguire, che vanno conosciute perché possano produrre gli effetti necessari. Oggi ci soffermiamo su un altro ingrediente indispensabile per il discernimento: la propria storia di vita. Conoscere la propria storia di vita è un ingrediente – diciamo così – indispensabile per il discernimento.

La nostra vita è il “libro” più prezioso che ci è stato consegnato, un libro che tanti purtroppo non leggono, oppure lo fanno troppo tardi, prima di morire. Eppure, proprio in quel libro si trova quello che si cerca inutilmente per altre vie. Sant’Agostino, un grande cercatore della verità, lo aveva compreso proprio rileggendo la sua vita, notando in essa i passi silenziosi e discreti, ma incisivi, della presenza del Signore. Al termine di questo percorso noterà con stupore: «Tu eri dentro di me, e io fuori. E là ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Tu eri con me, ma io non ero con te» (Confessioni X, 27.38). Da qui il suo invito a coltivare la vita interiore per trovare ciò che si cerca: «Rientra in te stesso. Nell’uomo interiore abita la verità» (La vera religione, XXXIX, 72). Questo è un invito che io farei a tutti voi, anche lo faccio a me stesso: “Rientra in te stesso. Leggi la tua vita. Leggiti dentro, come è stato il tuo percorso. Con serenità. Rientra in te stesso”.

Molte volte abbiamo fatto anche noi l’esperienza di Agostino, di ritrovarci imprigionati da pensieri che ci allontanano da noi stessi, messaggi stereotipati che ci fanno del male: per esempio, “io non valgo niente” – e tu vai giù; “a me tutto va male” – e tu vai giù; “non realizzerò mai nulla di buono” – e tu vai giù, e così è la vita. Queste frasi pessimiste che ti buttano giù! Leggere la propria storia significa anche riconoscere la presenza di questi elementi “tossici”, ma per poi allargare la trama del nostro racconto, imparando a notare altre cose, rendendolo più ricco, più rispettoso della complessità, riuscendo anche a cogliere i modi discreti con cui Dio agisce nella nostra vita. Io conobbi una volta una persona di cui la gente che la conosceva diceva che meritava il Premio Nobel alla negatività: tutto era brutto, tutto, e sempre cercava di buttarsi giù. Era una persona amareggiata eppure aveva tante qualità. E poi questa persona ha trovato un’altra persona che l’ha aiutata bene e ogni volta che si lamentava di qualcosa, l’altra diceva: “Ma adesso, per compensare, di’ qualcosa buona di te”. E lui: “Ma, sì, … io ho anche questa qualità”, e poco a poco lo ha aiutato ad andare avanti, a leggere bene la propria vita, sia le cose brutte sia le cose buone. Dobbiamo leggere la nostra vita, e così vediamo le cose che non sono buone e anche le cose buone che Dio semina in noi.

Abbiamo visto che il discernimento ha un approccio narrativo: non si sofferma sull’azione puntuale, la inserisce in un contesto: da dove viene questo pensiero? Questo che sento adesso, da dove viene? Dove mi porta, questo che sto pensando adesso? Quando ho avuto modo di incontrarlo in precedenza? È una cosa nuova che mi viene adesso, o altre volte l’ho trovata? Perché è più insistente di altri? Cosa mi vuole dire la vita con questo?

Il racconto delle vicende della nostra vita consente anche di cogliere sfumature e dettagli importanti, che possono rivelarsi aiuti preziosi fino a quel momento rimasti nascosti. Per esempio, una lettura, un servizio, un incontro, a prima vista ritenuti cose di poca importanza, nel tempo successivo trasmettono una pace interiore, trasmettono la gioia di vivere e suggeriscono ulteriori iniziative di bene. Fermarsi e riconoscere questo è indispensabile. Fermarsi è riconoscere: è importante per il discernimento, è un lavoro di raccolta di quelle perle preziose e nascoste che il Signore ha disseminato nel nostro terreno.

Il bene è nascosto, sempre, perché il bene ha pudore e si nasconde: il bene è nascosto; è silenzioso, richiede uno scavo lento e continuo. Perché lo stile di Dio è discreto: a Dio piace andare nascosto, con discrezione, non si impone; è come l’aria che respiriamo, non la vediamo ma ci fa vivere, e ce ne accorgiamo solo quando ci viene a mancare.

Abituarsi a rileggere la propria vita educa lo sguardo, lo affina, consente di notare i piccoli miracoli che il buon Dio compie per noi ogni giorno. Quando ci facciamo caso, notiamo altre direzioni possibili che rafforzano il gusto interiore, la pace e la creatività. Soprattutto ci rende più liberi dagli stereotipi tossici. Saggiamente è stato detto che l’uomo che non conosce il proprio passato è condannato a ripeterlo. È curioso: se noi non conosciamo la strada fatta, il passato, lo ripetiamo sempre, siamo circolari. La persona che cammina circolarmente non va avanti mai, non c’è cammino, è come il cane che si morde la coda, va sempre così, e ripete le cose.

Possiamo chiederci: io ho mai raccontato a qualcuno la mia vita? Questa è un’esperienza bella dei fidanzati, che quando fanno sul serio raccontano la propria vita … Si tratta di una delle forme di comunicazione più belle e intime, raccontare la propria vita. Essa permette di scoprire cose fino a quel momento sconosciute, piccole e semplici, ma, come dice il Vangelo, è proprio dalle piccole cose che nascono le cose grandi (cfr Lc 16,10).

Anche le vite dei santi costituiscono un aiuto prezioso per riconoscere lo stile di Dio nella propria vita: consentono di prendere familiarità con il suo modo di agire. Alcuni comportamenti dei santi ci interpellano, ci mostrano nuovi significati e nuove opportunità. È quanto accadde, per esempio, a Sant’Ignazio di Loyola. Quando descrive la scoperta fondamentale della sua vita, aggiunge una precisazione importante, e dice così: «Dall’esperienza aveva dedotto che alcuni pensieri lo lasciavano triste, altri allegro; e a poco a poco imparò a conoscere la diversità dei pensieri, la diversità degli spiriti che si agitavano in lui» (Autob., n. 8). Conoscere cosa succede dentro di noi, conoscere, stare attenti.

Il discernimento è la lettura narrativa dei momenti belli e dei momenti bui, delle consolazioni e delle desolazioni che sperimentiamo nel corso della nostra vita. Nel discernimento è il cuore a parlarci di Dio, e noi dobbiamo imparare a comprendere il suo linguaggio. Chiediamoci, alla fine della giornata, per esempio: cosa è successo oggi nel mio cuore? Alcuni pensano che fare questo esame di coscienza è fare la contabilità dei peccati che hai fatto - ne facciamo tanti -, ma è anche chiedersi “Cosa è successo dentro di me, ho avuto gioia? Cosa mi ha portato la gioia? Sono rimasto triste? Cosa mi ha portato la tristezza? E così imparare a discernere cosa succede dentro di noi.

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Saluti

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i seminaristi di Reggio Calabria, gli agenti di Pubblica sicurezza di Napoli e l’Azienda Teleperformance Italia di Taranto. Sono lieto di accogliere i fedeli della parrocchia San Timoteo di Termoli, e i cresimati della diocesi di Faenza-Modigliana, accompagnati dal loro Vescovo. Questi sanno fare rumore; sono bravi! Tutti incoraggio a ricavare dal Vangelo i criteri ispiratori per la vita personale e comunitaria.

E torniamo con il pensiero alla martoriata Ucraina e preghiamo per l’Ucraina: preghiamo per le cose brutte che stanno succedendo lì, le torture, le morti, la distruzione.

Il mio pensiero va infine, come di consueto, ai giovani, ai malati, agli anziani e agli sposi novelli. In questo mese di ottobre dedicato alla Vergine del Rosario, desidero invitarvi a guardare con filiale fiducia alla Madre di Dio, attingendo dal suo esempio e dalla sua intercessione la forza per andare avanti.

A tutti la mia benedizione.

 

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UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 26 ottobre 2022

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Catechesi sul Discernimento. 7. La materia del discernimento. La desolazione

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Il discernimento, lo abbiamo visto nelle precedenti catechesi, non è principalmente un procedimento logico; esso verte sulle azioni, e le azioni hanno una connotazione affettiva anche, che va riconosciuta, perché Dio parla al cuore. Entriamo allora in merito alla prima modalità affettiva, oggetto del discernimento, cioè la desolazione. Di cosa si tratta?

La desolazione è stata così definita: «L’oscurità dell’anima, il turbamento interiore, lo stimolo verso le cose basse e terrene, l’inquietudine dovuta a diverse agitazioni e tentazioni: così l’anima s’inclina alla sfiducia, è senza speranza, e senza amore, e si ritrova pigra, tiepida, triste, come separata dal suo Creatore e Signore» (S. Ignazio di L., Esercizi spirituali, 317). Tutti noi ne abbiamo esperienza. Credo che in un modo o nell’altro, abbiamo fatto esperienza di questo, della desolazione. Il problema è come poterla leggere, perché anch’essa ha qualcosa di importante da dirci, e se abbiamo fretta di liberarcene, rischiamo di smarrirla.

Nessuno vorrebbe essere desolato, triste: questo è vero. Tutti vorremmo una vita sempre gioiosa, allegra e appagata. Eppure questo, oltre a non essere possibile – perché non è possibile –, non sarebbe neppure un bene per noi. Infatti, il cambiamento di una vita orientata al vizio può iniziare da una situazione di tristezza, di rimorso per ciò che si è fatto. È molto bella l’etimologia di questa parola, “rimorso”: il rimorso della coscienza, tutti conosciamo questo. Rimorso: letteralmente è la coscienza che morde, che non dà pace. Alessandro Manzoni, nei Promessi sposi, ci ha dato una splendida descrizione del rimorso come occasione per cambiare vita. Si tratta del celebre dialogo tra il cardinale Federico Borromeo e l’Innominato, il quale, dopo una notte terribile, si presenta distrutto dal cardinale, che si rivolge a lui con parole sorprendenti: «“Voi avete una buona nuova da darmi, e me la fate tanto sospirare?”. “Una buona nuova, io?” – disse l’altro. “Ho l’inferno nel cuore […]. Ditemi voi, se lo sapete, qual è questa buona nuova”. “Che Dio v’ha toccato il cuore, e vuol farvi suo”, rispose pacatamente il cardinale» (cap. XXIII). Dio tocca il cuore e ti viene qualcosa dentro, la tristezza, il rimorso per qualche cosa, ed è un invito a iniziare una strada. L’uomo di Dio sa notare in profondità ciò che si muove nel cuore.

È importante imparare a leggere la tristezza. Tutti conosciamo cosa sia la tristezza: tutti. Ma sappiamo leggerla? Sappiamo capire cosa significa per me, questa tristezza di oggi? Nel nostro tempo, essa – la tristezza – è considerata per lo più negativamente, come un male da fuggire a tutti i costi, e invece può essere un indispensabile campanello di allarme per la vita, invitandoci a esplorare paesaggi più ricchi e fertili che la fugacità e l’evasione non consentono. San Tommaso definisce la tristezza un dolore dell’anima: come i nervi per il corpo, essa ridesta l’attenzione di fronte a un possibile pericolo, o a un bene disatteso (cfr Summa Th. I-II, q. 36, a. 1). Per questo, essa è indispensabile per la nostra salute, ci protegge perché non facciamo del male a noi stessi e ad altri. Sarebbe molto più grave e pericoloso non avvertire questo sentimento e andare avanti. La tristezza alle volte lavora come semaforo: “Fermati, fermati! È rosso, qui. Fermati”.

Per chi invece ha il desiderio di compiere il bene, la tristezza è un ostacolo con il quale il tentatore vuole scoraggiarci. In tal caso, si deve agire in maniera esattamente contraria a quanto suggerito, decisi a continuare quanto ci si era proposto di fare (cfr Esercizi spirituali, 318). Pensiamo al lavoro, allo studio, alla preghiera, a un impegno assunto: se li lasciassimo appena avvertiamo noia o tristezza, non concluderemmo mai nulla. È anche questa un’esperienza comune alla vita spirituale: la strada verso il bene, ricorda il Vangelo, è stretta e in salita, richiede un combattimento, un vincere sé stessi. Inizio a pregare, o mi dedico a un’opera buona e, stranamente, proprio allora mi vengono in mente cose da fare con urgenza – per non pregare e per non fare le cose buone. Tutti abbiamo questa esperienza. È importante, per chi vuole servire il Signore, non lasciarsi guidare dalla desolazione. E questo che … “Ma no, non ho voglia, questo è noioso …”: stai attento. Purtroppo, alcuni decidono di abbandonare la vita di preghiera, o la scelta intrapresa, il matrimonio o la vita religiosa, spinti dalla desolazione, senza prima fermarsi a leggere questo stato d’animo, e soprattutto senza l’aiuto di una guida. Una regola saggia dice di non fare cambiamenti quando si è desolati. Sarà il tempo successivo, più che l’umore del momento, a mostrare la bontà o meno delle nostre scelte.

È interessante notare, nel Vangelo, che Gesù respinge le tentazioni con un atteggiamento di ferma risolutezza (cfr Mt 3,14-15; 4,1-11; 16,21-23). Le situazioni di prova gli giungono da varie parti, ma sempre, trovando in Lui questa fermezza, decisa a compiere la volontà del Padre, vengono meno e cessano di ostacolare il cammino. Nella vita spirituale la prova è un momento importante, la Bibbia lo ricorda esplicitamente e dice così: «Se ti presenti per servire il Signore, preparati alla tentazione» (Sir 2,1). Se tu vuoi andare sulla strada buona, preparati: ci saranno ostacoli, ci saranno tentazioni, ci saranno momenti di tristezza. È come quando un professore esamina lo studente: se vede che conosce i punti essenziali della materia, non insiste: ha superato la prova. Ma deve superare la prova.

Se sappiamo attraversare solitudine e desolazione con apertura e consapevolezza, possiamo uscirne rafforzati sotto l’aspetto umano e spirituale. Nessuna prova è al di fuori della nostra portata; nessuna prova sarà superiore a quello che noi possiamo fare. Ma non fuggire dalle prove: vedere cosa significa questa prova, cosa significa che io sono triste: perché sono triste? Cosa significa che io in questo momento sono in desolazione? Cosa significa che io sono in desolazione e non posso andare avanti? San Paolo ricorda che nessuno è tentato oltre le sue possibilità, perché il Signore non ci abbandona mai e, con Lui vicino, possiamo vincere ogni tentazione (cfr 1 Cor 10,13). E se non la vinciamo oggi, ci alziamo un’altra volta, camminiamo e la vinceremo domani. Ma non permanere morti – diciamo così – non permanere vinti per un momento di tristezza, di desolazione: andate avanti. Che il Signore ti benedica in questo cammino – coraggioso! – della vita spirituale, che è sempre camminare.

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Saluti

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto l’Associazione Nazionale delle Università della Terza età, che incoraggio a proseguire nell’opera culturale per combattere la solitudine e l’emarginazione degli anziani. Essi sono i testimoni di quella “memoria” che può aiutare le nuove generazioni a costruire un futuro più umano e più cristiano: la memoria dei vecchi.

Saluto i rappresentanti di enti locali e scuole, che partecipano all’incontro promosso dall’Associazione Biennale delle Arti e delle Scienze del Mediterraneo, unitamente alla Fondazione Rachelina Ambrosini. Vi ringrazio per il vostro significativo impegno a costruire cammini di fratellanza e di solidarietà, in vista della crescita intellettuale e spirituale del territorio.

E non dimentichiamo di pregare e continuare con la preghiera per la martoriata Ucraina: che il Signore protegga quella gente e ci porti tutti sulla strada di una pace duratura.

Il mio pensiero va infine, come di consueto, ai giovani, ai malati, agli anziani e agli sposi novelli, presenti a questa Udienza di fine ottobre. A tutti desidero raccomandare in modo speciale la recita del Rosario; questa semplice e suggestiva preghiera mariana indichi a ciascuno la strada per seguire Cristo con fiducia e generosità. A tutti la mia benedizione.


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UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 16 novembre 2022

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Catechesi sul Discernimento. 8. Perché siamo desolati?

Cari fratelli e sorelle, buongiorno, benvenuti!

Riprendiamo oggi le catechesi sul tema del discernimento. Abbiamo visto come sia importante leggere ciò che si muove dentro di noi, per non prendere decisioni affrettate, sull’onda dell’emozione del momento, salvo poi pentircene quando ormai è troppo tardi. Cioè leggere cosa succede e poi prendere le decisioni.

In questo senso, anche lo stato spirituale che chiamiamo desolazione, quando nel cuore è tutto buio, è triste, questo stato della desolazione può essere occasione di crescita. Infatti, se non c’è un po’ di insoddisfazione, un po' di tristezza salutare, una sana capacità di abitare nella solitudine e di stare con noi stessi senza fuggire, rischiamo di rimanere sempre alla superficie delle cose e non prendere mai contatto con il centro della nostra esistenza. La desolazione provoca uno “scuotimento dell’anima”: quando uno è triste è come se l’anima si scuotesse; mantiene desti, favorisce la vigilanza e l’umiltà e ci protegge dal vento del capriccio. Sono condizioni indispensabili per il progresso nella vita, e quindi anche nella vita spirituale. Una serenità perfetta ma “asettica”, senza sentimenti, quando diventa il criterio di scelte e comportamenti, ci rende disumani. Noi non possiamo non fare caso ai sentimenti: siamo umani e il sentimento è una parte della nostra umanità; senza capire i sentimenti saremmo disumani, senza vivere i sentimenti saremmo anche indifferenti alla sofferenza degli altri e incapaci di accogliere la nostra. Senza considerare che tale “perfetta serenità” non la si raggiunge per questa via dell’indifferenza. Questa distanza asettica: “Io non mi mischio nelle cose, io prendo le distanze”: questo non è vita, questo è come se vivessimo in un laboratorio, chiusi, per non avere dei microbi, delle malattie. Per molti santi e sante, l’inquietudine è stata una spinta decisiva per dare una svolta alla propria vita. Questa serenità artificiale, non va, mentre è buona la sana inquietudine, il cuore inquieto, il cuore che cerca di cercare strada. È il caso, ad esempio, di Agostino di Ippona o di Edith Stein o di Giuseppe Benedetto Cottolengo o di Charles de Foucauld. Le scelte importanti hanno un prezzo che la vita presenta, un prezzo che è alla portata di tutti: ossia, le scelte importanti non vengono dalla lotteria, no; hanno un prezzo e tu devi pagare quel prezzo. È un prezzo che tu devi fare con il tuo cuore, è un prezzo della decisione, un prezzo di portare avanti un po' di sforzo. Non è gratis, ma è un prezzo alla portata di tutti. Noi tutti dobbiamo pagare questa decisione per uscire dallo stato di indifferenza, che ci butta giù, sempre.

La desolazione è anche un invito alla gratuità, a non agire sempre e solo in vista di una gratificazione emotiva. Essere desolati ci offre la possibilità di crescere, di iniziare una relazione più matura, più bella, con il Signore e con le persone care, una relazione che non si riduca a un mero scambio di dare e avere. Pensiamo alla nostra infanzia, per esempio, pensiamo: da bambini, capita spesso di cercare i genitori per ottenere da loro qualcosa, un giocattolo, i soldi per comprare un gelato, un permesso… E così li cerchiamo non per sé stessi, ma per un interesse. Eppure, il dono più grande sono loro, i genitori, e questo lo capiamo man mano che cresciamo.

Anche molte nostre preghiere sono un po’ di questo tipo, sono richieste di favori rivolte al Signore, senza un vero interesse nei suoi confronti. Andiamo a chiedere, chiedere, chiedere al Signore. Il Vangelo nota che Gesù era spesso circondato da tanta gente che lo cercava per ottenere qualcosa, guarigioni, aiuti materiali, ma non semplicemente per stare con Lui. Era pressato dalle folle, eppure era solo. Alcuni santi, e anche alcuni artisti, hanno meditato su questa condizione di Gesù. Potrebbe sembrare strano, irreale, chiedere al Signore: “Come stai?”. E invece è una maniera molto bella di entrare in una relazione vera, sincera, con la sua umanità, con la sua sofferenza, anche con la sua singolare solitudine. Con Lui, con il Signore, che ha voluto condividere fino in fondo la sua vita con noi.

Ci fa tanto bene imparare a stare con Lui, a stare con il Signore senza altro scopo, esattamente come ci succede con le persone a cui vogliamo bene: desideriamo conoscerle sempre più, perché è bello stare con loro.

Cari fratelli e sorelle, la vita spirituale non è una tecnica a nostra disposizione, non è un programma di “benessere” interiore che sta a noi programmare. No. La vita spirituale è la relazione con il Vivente, con Dio, il Vivente, irriducibile alle nostre categorie. E la desolazione allora è la risposta più chiara all’obiezione che l’esperienza di Dio sia una forma di suggestione, una semplice proiezione dei nostri desideri. La desolazione è non sentire niente, tutto buio: ma tu cerchi Dio nella desolazione. In tal caso, se pensiamo che è una proiezione dei nostri desideri, saremmo sempre noi a programmarla, saremmo sempre felici e contenti, come un disco che ripete la medesima musica. Invece, chi prega si rende conto che gli esiti sono imprevedibili: esperienze e passi della Bibbia che ci hanno spesso entusiasmato, oggi, stranamente, non suscitano alcun trasporto. E, altrettanto inaspettatamente, esperienze, incontri e letture a cui non si era mai fatto caso o che si preferirebbe evitare – come l’esperienza della croce – portano una pace immensa. Non avere paura alla desolazione, portarla avanti con perseveranza, non fuggire. E nella desolazione cercare di trovare il cuore di Cristo, trovare il Signore. E la risposta arriva, sempre.

Di fronte alle difficoltà, quindi, mai scoraggiarsi, per favore, ma affrontare la prova con decisione, con l’aiuto della grazia di Dio che non ci viene mai a mancare. E se sentiamo dentro di noi una voce insistente che vuole distoglierci dalla preghiera, impariamo a smascherarla come la voce del tentatore; e non lasciamoci impressionare: semplicemente, facciamo proprio il contrario di quello che ci dice! Grazie.

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Saluti

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APPELLO

Ho appreso con dolore e con preoccupazione la notizia di un nuovo e ancora più forte attacco missilistico sull’Ucraina che ha causato morti e danni a molte infrastrutture civili. Preghiamo affinché il Signore converta i cuori di chi ancora punta sulla guerra e faccia prevalere per la martoriata Ucraina il desiderio di pace, per evitare ogni escalation e aprire la strada al cessate-il-fuoco e al dialogo.

* * *

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto le Piccole Apostole della Redenzione riunite nel capitolo generale, le Religiose dell’Unione Superiore Maggiori d’Italia, la comunità del Seminario Leoniano di Anagni, - si fanno sentire questi seminaristi - con alcuni Vescovi del Lazio: tutti esorto ad andare avanti con coraggio, consolidando i propositi di fedeltà al Signore e alla Chiesa.

Accolgo con gioia i Vigili del Fuoco dell’Abruzzo: grazie tante per il vostro importante lavoro. Quando io prego per i vigili del fuoco, chiedo una grazia per loro: che non abbiano lavoro. Saluto poi i fedeli di Bisceglie e quelli di Moiano ed auspico che il vostro pellegrinaggio sia ricco di frutti spirituali a beneficio delle rispettive Comunità ecclesiali.

Elevo la mia preghiera per le vittime innocenti dell’attacco terroristico avvenuto nei giorni scorsi a Istanbul. La nostra incessante preghiera è anche per la martoriata Ucraina: il Signore dia agli ucraini consolazione, fortezza in questa prova e dia speranza di pace. Possiamo pregare per l’Ucraina, dicendo: “Affrettati Signore”.

Il mio pensiero va infine, come di consueto, ai giovani, ai malati, agli anziani e agli sposi novelli. Sull’esempio di santa Margherita di Scozia e di santa Gertrude, delle quali oggi celebriamo la memoria, cercate sempre in Gesù la luce e il sostegno per ogni vostra scelta nella vita quotidiana. A tutti la mia benedizione!


[Modificato da Caterina63 16/11/2022 12:35]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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UDIENZA GENERALE


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Mercoledì, 23 novembre 2022

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Catechesi sul Discernimento. 9. La consolazione

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Continuiamo le catechesi sul discernimento dello spirito: come discernere quello che succede nel nostro cuore, nella nostra anima. E dopo aver considerato alcuni aspetti della desolazione – quel buio dell’anima – parliamo oggi della consolazione, che sarebbe la luce dell’anima, e che è un altro elemento importante per il discernimento, e da non dare per scontato, perché può prestarsi a degli equivoci. Noi dobbiamo capire cosa è la consolazione, come abbiamo cercato di capire bene cosa è la desolazione.

Che cos’è la consolazione spirituale? È un’esperienza di gioia interiore, che consente di vedere la presenza di Dio in tutte le cose; essa rafforza la fede e la speranza, e anche la capacità di fare il bene. La persona che vive la consolazione non si arrende di fronte alle difficoltà, perché sperimenta una pace più forte della prova. Si tratta dunque di un grande dono per la vita spirituale e per la vita nel suo insieme. E vivere questa gioia interiore.

La consolazione è un movimento intimo, che tocca il profondo di noi stessi. Non è appariscente ma è soave, delicata, come una goccia d’acqua su una spugna (cfr S. Ignazio di L., Esercizi spirituali, 335): la persona si sente avvolta dalla presenza di Dio, in una maniera sempre rispettosa della propria libertà. Non è mai qualcosa di stonato che cerca di forzare la nostra volontà, non è neppure un’euforia passeggera: al contrario, come abbiamo visto, anche il dolore – ad esempio per i propri peccati – può diventare motivo di consolazione.

Pensiamo all’esperienza vissuta da Sant’Agostino quando parla con la madre Monica della bellezza della vita eterna; o alla perfetta letizia di San Francesco – peraltro associata a situazioni molto dure da sopportare –; e pensiamo a tanti santi e sante che hanno saputo fare grandi cose, non perché si ritenevano bravi e capaci, ma perché conquistati dalla dolcezza pacificante dell’amore di Dio. È la pace che notava in sé con stupore Sant’Ignazio quando leggeva le vite dei santi. Essere consolato è stare in pace con Dio, sentire che tutto è sistemato in pace, tutto è armonico dentro di noi. È la pace che prova Edith Stein dopo la conversione; un anno dopo aver ricevuto il Battesimo, ella scrive – così dice Edith Stein: «Mentre mi abbandono a questo sentimento, a poco a poco una vita nuova comincia a colmarmi e – senza alcuna tensione della mia volontà – a spingermi verso nuove realizzazioni. Questo afflusso vitale sembra sgorgare da un’attività e da una forza che non è la mia e che, senza fare alla mia alcuna violenza, diventa attiva in me» (Psicologia e scienze dello spirito, Città Nuova, 1996, 116). Cioè una pace genuina è una pace che fa germogliare i buoni sentimenti in noi.

La consolazione riguarda anzitutto la speranza, è protesa al futuro, mette in cammino, consente di prendere iniziative fino a quel momento sempre rimandate, o neppure immaginate, come il Battesimo per Edith Stein.

La consolazione è una pace tale ma non per rimanere lì seduti godendola, no, ti dà la pace e ti attira verso il Signore e ti mette in cammino per fare delle cose, per fare cose buone. In tempo di consolazione, quando noi siamo consolati, ci viene la voglia di fare tanto bene, sempre. Invece quando c’è il momento della desolazione, ci viene la voglia di chiuderci in noi stessi e di non fare nulla. La consolazione ti spinge avanti, al servizio degli altri, alla società, alle persone. La consolazione spirituale non è “pilotabile” – tu non puoi dire adesso che venga la consolazione, no, non è pilotabile – non è programmabile a piacere, è un dono dello Spirito Santo: consente una familiarità con Dio che sembra annullare le distanze. Santa Teresa di Gesù Bambino, visitando a quattordici anni, a Roma, la basilica di Santa Croce in Gerusalemme, cerca di toccare il chiodo lì venerato, uno di quelli con cui fu crocifisso Gesù. Teresa avverte questo suo ardimento come un trasporto d’amore e di confidenza. E poi scrive: «Fui veramente troppo audace. Ma il Signore vede il fondo dei cuori, sa che l’intenzione mia era pura […]. Agivo con lui da bambina che si crede tutto permesso e considera come propri i tesori del Padre» (Manoscritto Autobiografico, 183). La consolazione è spontanea, ti porta a fare tutto spontaneo, come se fossimo bambini. I bambini sono spontanei, e la consolazione ti porta ad essere spontaneo con una dolcezza, con una pace molto grande. Una ragazza di quattordici anni ci dà una descrizione splendida della consolazione spirituale: si avverte un senso di tenerezza verso Dio, che rende audaci nel desiderio di partecipare della sua stessa vita, di fare ciò che gli è gradito, perché ci sentiamo familiari con Lui, sentiamo che la sua casa è la nostra casa, ci sentiamo accolti, amati, ristorati. Con questa consolazione non ci si arrende di fronte alle difficoltà: infatti, con la medesima audacia, Teresa chiederà al Papa il permesso di entrare al Carmelo, benché troppo giovane, e sarà esaudita. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che la consolazione ci fa audaci: quando noi siamo in tempo di buio, di desolazione, e pensiamo: “Questo non sono capace di farlo”. Ti butta giù la desolazione, ti fa vedere tutto buio: “No, io non posso fare, non lo farò”. Invece, in tempo di consolazione, vedi le stesse cose in modo diverso e dici: “No, io vado avanti, lo faccio”. “Ma sei sicuro?” “Io sento la forza di Dio e vado avanti”. E così la consolazione ti spinge ad andare avanti e a fare delle cose che in tempo di desolazione tu non ne saresti capace; ti spinge a fare il primo passo. Questo è il bello della consolazione.

Ma stiamo attenti. Dobbiamo distinguere bene la consolazione che è di Dio, dalle false consolazioni. Nella vita spirituale avviene qualcosa di simile a quanto capita nelle produzioni umane: ci sono gli originali e ci sono le imitazioni. Se la consolazione autentica è come una goccia su una spugna, è soave e intima, le sue imitazioni sono più rumorose e appariscenti, sono puro entusiasmo, sono fuochi di paglia, senza consistenza, portano a ripiegarsi su sé stessi, e a non curarsi degli altri. La falsa consolazione alla fine ci lascia vuoti, lontani dal centro della nostra esistenza. Per questo, quando noi ci sentiamo felici, in pace, siamo capaci di fare qualsiasi cosa. Ma non confondere quella pace con un entusiasmo passeggero, perché l’entusiasmo oggi c’è, poi cade e non c’è più.

Per questo si deve fare discernimento, anche quando ci si sente consolati. Perché la falsa consolazione può diventare un pericolo, se la ricerchiamo come fine a sé stessa, in modo ossessivo, e dimenticandoci del Signore. Come direbbe San Bernardo, si cercano le consolazioni di Dio e non si cerca il Dio delle consolazioni. Noi dobbiamo cercare il Signore e il Signore, con la sua presenza, ci consola, ci fa andare avanti. E non cercare Dio perché ci porta le consolazioni, con questo sottinteso, no, questo non va, non dobbiamo essere interessati a questo. È la dinamica del bambino di cui parlavamo la volta scorsa, che cerca i genitori solo per avere da loro delle cose, ma non per loro stessi: va per interesse. “Papà, mamma” E i bambini sanno fare questo, sanno giocare e quando la famiglia è divisa, e hanno questa abitudine di cercare lì e cercare qua, questo non fa bene, questo non è consolazione, quello è interesse. Anche noi corriamo il rischio di vivere la relazione con Dio in modo infantile, cercando il nostro interesse, cercando di ridurre Dio a un oggetto a nostro uso e consumo, smarrendo il dono più bello che è Lui stesso. Così andiamo avanti nella nostra vita, che procede fra le consolazioni di Dio e le desolazioni del peccato del mondo, ma sapendo distinguere quando è una consolazione di Dio, che ti dà pace fino al fondo dell’anima, da quando è un entusiasmo passeggero che non è cattivo, ma non è la consolazione di Dio.

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Saluti

 

APPELLI

Nelle scorse ore l’Isola di Giava, in Indonesia, è stata colpita da un forte terremoto. Esprimo la mia vicinanza a quella cara popolazione e prego per i morti e per i feriti.

Domenica scorsa a Kalongo, in Uganda, è stato beatificato padre Giuseppe Ambrosoli, missionario comboniano, sacerdote e medico. Nato nella diocesi di Como, è morto in Uganda nel 1987 dopo aver speso la sua vita per i malati, nei quali vedeva il volto di Cristo. La sua straordinaria testimonianza aiuti ciascuno di noi ad essere segno di una Chiesa in “uscita”. Un applauso al nuovo Beato!

Desidero inviare il mio saluto ai giocatori, ai tifosi e agli spettatori che seguono, dai vari Continenti, i campionati mondiali di calcio, che si stanno giocando in Qatar. Possa questo importante evento essere occasione di incontro e di armonia tra le Nazioni, favorendo la fratellanza e la pace tra i Popoli. Preghiamo per la pace nel mondo e per la fine di tutti i conflitti, con un pensiero particolare per le terribili sofferenze del caro e martoriato popolo ucraino. In proposito, sabato prossimo ricorre l’anniversario del terribile genocidio del Holodomor, lo sterminio per la fame nel 1932-33 causato artificiosamente da Stalin in Ucraina. Preghiamo per le vittime di questo genocidio e preghiamo per tanti ucraini, bambini, donne e anziani, bimbi, che oggi soffrono il martirio dell’aggressione.

La Giornata Mondiale della Pesca, celebrata l’altro ieri, possa favorire la sostenibilità nella pesca e nell’acquacoltura, attraverso il rispetto dei diritti dei pescatori, che con il loro lavoro contribuiscono alla sicurezza alimentare, alla nutrizione e alla riduzione della povertà nel mondo.

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Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i rappresentanti delle Scuole Cattoliche FIDAE ed auspico che venga riconosciuto ad ogni livello il loro rilevante ruolo educativo e sociale. Estendo il mio saluto all’Associazione NOI, degli Oratori e dei Circoli parrocchiali, incoraggiando a proseguire la proficua e apprezzata opera al servizio dell’evangelizzazione e della promozione umana.

Il mio pensiero va infine, come di consueto, ai giovani, ai malati, agli anziani e agli sposi novelli. La prossima domenica segnerà l’inizio dell’Avvento, il periodo liturgico che precede e prepara la celebrazione del Santo Natale. Auguro a ciascuno di voi di aprire il cuore al Signore - mi raccomando: aprite il cuore al Signore -, per preparare la strada a Colui che viene a colmare con la luce della sua presenza ogni nostra umana debolezza.

A tutti voi la mia benedizione!



UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 30 novembre 2022

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Catechesi sul Discernimento. 10. La consolazione autentica

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Proseguendo la nostra riflessione sul discernimento, e in particolare sull’esperienza spirituale chiamata “consolazione”, della quale abbiamo parlato l’altro mercoledì, ci chiediamo: come riconoscere la vera consolazione? È una domanda molto importante per un buon discernimento, per non essere ingannati nella ricerca del nostro vero bene.

Possiamo trovare alcuni criteri in un passo degli Esercizi spirituali di Sant’Ignazio di Loyola. «Se nei pensieri tutto è buono – dice Sant’Ignazio – il principio, il mezzo e la fine, e se tutto è orientato verso il bene, questo è un segno dell’angelo buono. Può darsi invece che nel corso dei pensieri si presenti qualche cosa cattiva o distrattiva o meno buona di quella che l’anima prima si era proposta di fare, oppure qualche cosa che indebolisce l’anima, la rende inquieta, la mette in agitazione e le toglie la pace, le toglie la tranquillità e la calma che aveva prima: questo allora è un chiaro segno che quei pensieri provengono dallo spirito cattivo» (n. 333). Perché è vero: c’è una vera consolazione, ma anche ci sono delle consolazioni che non sono vere. E per questo bisogna capire bene il percorso della consolazione: come va e dove mi porta? Se mi porta a una cosa che va meno, che non è buona, la consolazione non è vera, è “finta”, diciamo così.

E queste sono indicazioni preziose, che meritano un breve commento. Cosa significa che il principio è orientato al bene, come dice Sant’Ignazio di una buona consolazione? Ad esempio ho il pensiero di pregare, e noto che si accompagna ad affetto verso il Signore e il prossimo, invita a compiere gesti di generosità, di carità: è un principio buono. Può invece accadere che quel pensiero sorga per evitare un lavoro o un incarico che mi è stato affidato: ogni volta che devo lavare i piatti o pulire la casa, mi viene una grande voglia di mettermi a pregare! Succede questo, nei conventi. Ma la preghiera non è una fuga dai propri compiti, al contrario è un aiuto a realizzare quel bene che siamo chiamati a compiere, qui e ora. Questo riguardo al principio.

C’è poi il mezzo: Sant’Ignazio diceva che il principio, il mezzo e la fine devono essere buoni. Il principio è questo: io ho voglia di pregare per non lavare i piatti: vai, lava i piatti e poi vai a pregare. Poi c’è il mezzo, vale a dire ciò che viene dopo, ciò che segue quel pensiero. Rimanendo nell’esempio precedente, se comincio a pregare e, come fa il fariseo della parabola (cfr Lc 18,9-14), tendo a compiacermi di me stesso e a disprezzare gli altri, magari con animo risentito e acido, allora questi sono segni che lo spirito cattivo ha usato quel pensiero come chiave di accesso per entrare nel mio cuore e trasmettermi i suoi sentimenti. Se io vado a pregare e mi viene in mente quello del fariseo famoso – “ti ringrazio, Signore, perché io prego, non sono come l’altra gente che non ti cerca, non prega” – lì, quella preghiera finisce male. Quella consolazione di pregare è per sentirsi un pavone davanti a Dio. E questo è il mezzo che non va.

E poi c’è la fine: il principio, il mezzo e la fine. La fine è un aspetto che abbiamo già incontrato, e cioè: dove mi porta un pensiero? Per esempio, dove mi porta il pensiero di pregare. Ad esempio, qui può capitare che mi impegni a fondo per un’opera bella e meritevole, ma questo mi spinge a non pregare più, perché sono indaffarato da tante cose, mi scopro sempre più aggressivo e incattivito, ritengo che tutto dipenda da me, fino a perdere fiducia in Dio. Qui evidentemente c’è l’azione dello spirito cattivo. Io mi metto a pregare, poi nella preghiera mi sento onnipotente, che tutto deve essere nelle mie mani perché io sono l’unico, l’unica che sa portare avanti le cose: evidentemente non c’è il buono spirito lì. Occorre esaminare bene il percorso dei nostri sentimenti e il percorso dei buoni sentimenti, della consolazione, nel momento in cui io voglio fare qualcosa. Come è il principio, come è la metà e come è la fine.

Lo stile del nemico – quando parliamo del nemico, parliamo del diavolo, perché il demonio esiste, c’è! – il suo stile, lo sappiamo, è di presentarsi in maniera subdola, mascherata: parte da ciò che ci sta maggiormente a cuore e poi ci attrae a sé, a poco a poco: il male entra di nascosto, senza che la persona se ne accorga. E con il tempo la soavità diventa durezza: quel pensiero si rivela per come è veramente.

Da qui l’importanza di questo paziente ma indispensabile esame dell’origine e della verità dei propri pensieri; è un invito ad apprendere dalle esperienze, da quello che ci capita, per non continuare a ripetere i medesimi errori. Quanto più conosciamo noi stessi, tanto più avvertiamo da dove entra il cattivo spirito, le sue “password”, le porte d’ingresso del nostro cuore, che sono i punti su cui siamo più sensibili, così da farvi attenzione per il futuro. Ognuno di noi ha i punti più sensibili, i punti più deboli della propria personalità: e da lì entra il cattivo spirito e ci porta per la strada non giusta, o ci toglie dalla vera strada giusta. Vado a pregare ma mi toglie dalla preghiera.

Gli esempi potrebbero essere moltiplicati a piacere, riflettendo sulle nostre giornate. Per questo è così importante l’esame di coscienza quotidiano: prima di finire la giornata, fermarsi un po’. Cosa è successo? Non nei giornali, non nella vita: cosa è successo nel mio cuore? Il mio cuore è stato attento? È cresciuto? È stata una strada che ha passato tutto, a mia insaputa? Cosa è successo nel mio cuore? E questo esame è importante, è la fatica preziosa di rileggere il vissuto sotto un particolare punto di vista. Accorgersi di ciò che capita è importante, è segno che la grazia di Dio sta lavorando in noi, aiutandoci a crescere in libertà e consapevolezza. Noi non siamo soli: è lo Spirito Santo che è con noi. Vediamo come sono andate le cose.

La consolazione autentica è una sorta di conferma del fatto che stiamo compiendo ciò che Dio vuole da noi, che camminiamo sulle sue strade, cioè nelle strade della vita, della gioia, della pace. Il discernimento, infatti, non verte semplicemente sul bene o sul massimo bene possibile, ma su ciò che è bene per me qui e ora: su questo sono chiamato a crescere, mettendo dei limiti ad altre proposte, attraenti ma irreali, per non essere ingannato nella ricerca del vero bene.

Fratelli e sorelle, bisogna capire, andare avanti nel capire cosa succede nel mio cuore. E per questo ci vuole l’esame di coscienza, per vedere cosa è successo oggi. “Oggi mi sono arrabbiato lì, non ho fatto quello …”: ma perché? Andare oltre il perché è cercare la radice di questi sbagli. “Ma, oggi sono stato felice ma ero noioso perché dovevo aiutare quella gente, ma alla fine mi sono sentito pieno, piena per quell’aiuto”: e c’è lo Spirito Santo. Imparare a leggere nel libro del nostro cuore cosa è successo durante la giornata. Fatelo, solo due minuti, ma vi farà bene, ve lo assicuro.

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Saluti

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Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto la Fondazione Pro Loco d’Italia, il gruppo dell’Università Campus Biomedico di Roma e quello dell’Università di Cassino e del Lazio Meridionale. Sono lieto di accogliere i ragazzi “speciali” che hanno partecipato al concorso nazionale di pasticceria e gli artisti circensi – li abbiamo visti – “Black Blues Brothers”.

Il mio pensiero, come di solito, va ai giovani, ai malati, agli anziani e agli sposi novelli. Il tempo liturgico dell’Avvento, da poco iniziato, ci invita ad andare incontro al Signore che viene con la preghiera, la penitenza e le opere di carità. Preparatevi a celebrare la nascita di Gesù con l’ascolto assiduo della Parola di Dio e la generosa risposta alla sua grazia.

Celebriamo oggi la Festa dell’apostolo Sant’Andrea, fratello di Simon Pietro, Patrono della Chiesa che è in Costantinopoli, dove si è recata, come di consueto, una Delegazione della Santa Sede. Desidero esprimere il mio speciale affetto al caro fratello il Patriarca Bartolomeo I e all’intera Chiesa di Costantinopoli. L’intercessione dei Santi fratelli apostoli Pietro e Andrea, conceda presto alla Chiesa di godere pienamente della sua unità e la pace al mondo intero, specialmente in questo momento alla cara e martoriata Ucraina, sempre nel nostro cuore e nelle nostre preghiere.

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UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 7 dicembre 2022

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Catechesi sul Discernimento11. La conferma della buona scelta

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nel processo del discernimento, è importante rimanere attenti anche alla fase che immediatamente segue la decisione presa per cogliere i segni che la confermano oppure quelli che la smentiscono. Io devo prendere una decisione, faccio il discernimento, pro o contro, sentimenti, prego… poi finisce questo processo e prendo la decisione e poi viene quella parte in cui dobbiamo essere attenti, vedere. Perché nella vita ci sono decisioni che non sono buone e ci sono segni che la smentiscono invece le buone la confermano.

Abbiamo visto infatti come il tempo sia un criterio fondamentale per riconoscere la voce di Dio in mezzo a tante altre voci. Solo Lui è Signore del tempo: esso è un marchio di garanzia della sua originalità, che lo differenzia dalle imitazioni che parlano a suo nome senza riuscirci. Uno dei segni distintivi dello spirito buono è il fatto che esso comunica una pace che dura nel tempo. Se tu fai un approfondimento, poi prendi la decisione e questo ti dà una pace che dura nel tempo, questo è un buon segnale e indica che la strada è stata bella. Una pace che porta armonia, unità, fervore, zelo. Tu esci dal processo di approfondimento migliore di come sei entrato.

Per esempio, se prendo la decisione di dedicare mezz’ora in più alla preghiera, e poi mi accorgo che vivo meglio gli altri momenti della giornata, sono più sereno, meno ansioso, svolgo con più cura e gusto il lavoro, anche le relazioni con alcune persone difficili diventano più agevoli…: questi sono tutti segni importanti che vanno in favore della bontà della decisione presa. La vita spirituale è circolare: la bontà di una scelta è di giovamento a tutti gli ambiti della nostra vita. Perché è partecipazione alla creatività di Dio.

Possiamo riconoscere alcuni aspetti importanti che aiutano a leggere il tempo successivo alla decisione come possibile conferma della sua bontà, perché il tempo successivo conferma la bontà della decisione. Questi aspetti importanti li abbiamo in qualche modo già incontrati nel corso di queste catechesi ma ora trovano una loro ulteriore applicazione.

Un primo aspetto è se la decisione viene considerata come un possibile segno di risposta all’amore e alla generosità che il Signore ha nei miei confronti. Non nasce da paura, non nasce da un ricatto affettivo o da una costrizione, ma nasce dalla gratitudine per il bene ricevuto, che muove il cuore a vivere con liberalità la relazione con il Signore.

Un altro elemento importante è la consapevolezza di sentirsi al proprio posto nella vita – quella tranquillità: “Sono al mio posto” -, e sentirsi parte di un disegno più grande, a cui si desidera offrire il proprio contributo. In Piazza San Pietro ci sono due punti precisi – i fuochi dell’ellisse – da cui si vedono le colonne del Bernini perfettamente allineate. In maniera analoga, l’uomo può riconoscere di aver trovato quello che sta cercando quando la sua giornata diviene più ordinata, avverte una crescente integrazione tra i suoi molteplici interessi, stabilisce una corretta gerarchia di importanza e riesce a vivere tutto ciò con facilità, affrontando con rinnovata energia e forza d’animo le difficoltà che si presentano. Questi sono segnali che tu hai preso una buona decisione.

Un altro buon segno, per esempio, di conferma è il fatto di rimanere liberi nei confronti di quanto deciso, disposti a rimetterlo in discussione, anche a rinunciarvi di fronte a possibili smentite, cercando di trovare in esse un possibile insegnamento del Signore. Questo non perché Lui voglia privarci di ciò che ci è caro, ma per viverlo con libertà, senza attaccamento. Solo Dio sa che cosa è veramente buono per noi. La possessività è nemica del bene e uccide l’affetto, state attenti a questo, la possessività è nemica del bene, uccide l’affetto: i tanti casi di violenza in ambito domestico, di cui abbiamo purtroppo notizie frequenti, nascono quasi sempre dalla pretesa di possedere l’affetto dell’altro, dalla ricerca di una sicurezza assoluta che uccide la libertà e soffoca la vita, rendendola un inferno.

Possiamo amare solo nella libertà, per questo il Signore ci ha creato liberi, liberi anche di dirgli di no. Offrire a Lui ciò che abbiamo di più caro è nel nostro interesse, ci consente di viverlo nella maniera migliore possibile e nella verità, come un dono che ci ha fatto, come un segno della sua bontà gratuita, sapendo che la nostra vita, così come la storia intera, è nelle sue mani benevole. È quello che la Bibbia chiama il timore di Dio, cioè il rispetto di Dio, no che Dio mi spaventi, no, ma un rispetto una condizione indispensabile per accogliere il dono della Sapienza (cfr Sir 1,1-18). È il timore che scaccia ogni altro timore, perché orientato a Colui che è Signore di tutte le cose. Di fronte a Lui nulla può inquietarci. È l’esperienza stupita di San Paolo, che diceva così: «Ho imparato ad essere povero e ho imparato ad essere ricco; sono iniziato a tutto, in ogni maniera: alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e all’indigenza. Tutto posso in colui che mi dà la forza» (Fil 4,12-13). Questo è l’uomo libero, che benedice il Signore sia quando vengono le cose buone sia quando vengono le cose non tanto buone: benedetto sia e andiamo avanti!

Riconoscere questo è fondamentale per una buona decisione, e rassicura su ciò che non possiamo controllare o prevedere: la salute, il futuro, le persone care, i nostri progetti. Ciò che conta è che la nostra fiducia sia riposta nel Signore dell’universo, che ci ama immensamente e sa che possiamo costruire con Lui qualcosa di stupendo, qualcosa di eterno. Le vite dei santi ce lo mostrano nella maniera più bella. Andiamo avanti sempre cercando di prendere delle decisioni così, in preghiera e sentendo cosa succede nel nostro cuore e andare avanti lentamente, coraggio!

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Saluti

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i docenti dei Seminari dei territori delle Nuove Chiese Particolari, convenuti per un corso organizzato dal Dicastero per l’evangelizzazione; i partecipanti alla scuola di formazione del Movimento dei Focolari - questi sorridono sempre! - e quelli che prendono parte al convegno promosso da Pax Christi International. Saluto, altresì, l’associazione AVIS di Brindisi, i fedeli di Andria e quelli di Pontecurone, paese che diede i natali a San Luigi Orione.

Il mio pensiero va infine, come di consueto, ai giovani, ai malati, agli anziani e agli sposi novelli, che sono tanti! Domani è una bella giornata, ricorre la Solennità dell’Immacolata Concezione: con lo sguardo rivolto alla Vergine Maria, siate sempre audaci nel promuovere i valori dello spirito. A Lei, madre dolcissima, chiediamo di essere conforto per quanti sono provati dalla brutalità della guerra, specialmente per la martoriata Ucraina. Preghiamo per questo popolo martire che sta soffrendo tanto!

 








[Modificato da Caterina63 14/12/2022 18:32]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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14/12/2022 18:34
 
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UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 14 dicembre 2022

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Catechesi sul Discernimento. 12. La vigilanza

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Entriamo ormai nella fase finale di questo percorso di catechesi sul discernimento. Siamo partiti dall’esempio di Sant’Ignazio di Loyola; abbiamo poi considerato gli elementi del discernimento – cioè la preghiera, il conoscere sé stessi, il desiderio e il “libro della vita” –; ci siamo soffermati sulla desolazione e la consolazione, che ne formano la “materia”; e quindi siamo giunti alla conferma della scelta fatta.

Ritengo necessario inserire a questo punto il richiamo a un atteggiamento essenziale affinché tutto il lavoro fatto per discernere il meglio e prendere la buona decisione non vada perduto, e questo sarebbe l’atteggiamento della vigilanza. Noi abbiamo fatto il discernimento, consolazione e desolazione; abbiamo scelto una cosa…tutto va bene, ma adesso vigilare: l’atteggiamento della vigilanza. Perché in effetti il rischio c’è, come abbiamo sentito nel brano del Vangelo che è stato letto. Il rischio c’è, ed è che il “guastafeste”, cioè il Maligno, possa rovinare tutto, facendoci tornare al punto di partenza, anzi, in una condizione ancora peggiore. E questo succede, per questo bisogna stare attenti e vigilare. Ecco perché è indispensabile essere vigilanti. Pertanto oggi mi è sembrato opportuno mettere in risalto questo atteggiamento, di cui tutti abbiamo bisogno perché il processo di discernimento vada a buon fine e rimanga lì.

In effetti, nella sua predicazione Gesù insiste molto sul fatto che il buon discepolo è vigilante, non si addormenta, non si lascia prendere da eccessiva sicurezza quando le cose vanno bene, ma rimane attento e pronto a fare il proprio dovere.

Per esempio, nel Vangelo di Luca, Gesù dice: «Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito. Beati quei servi che al suo ritorno il padrone troverà ancora svegli» (12,35-37).

Vigilare per custodire il nostro cuore e capire cosa succede dentro. Si tratta della disposizione d’animo dei cristiani che aspettano la venuta finale del Signore; ma si può intendere anche come l’atteggiamento ordinario da tenere nella condotta di vita, in modo che le nostre buone scelte, compiute a volte dopo un impegnativo discernimento, possano proseguire in maniera perseverante e coerente e portare frutto.

Se manca la vigilanza, è molto forte, come dicevamo, il rischio che tutto vada perduto. Non si tratta di un pericolo di ordine psicologico, ma di ordine spirituale, una vera insidia dello spirito cattivo. Questo, infatti, aspetta proprio il momento in cui noi siamo troppo sicuri di noi stessi, è questo il pericolo: “Sono sicuro di me stesso, ho vinto, adesso sto bene…” è quel momento che lo spirito cattivo aspetta, quando tutto va bene, quando le cose vanno “a gonfie vele” e abbiamo, come si dice, “il vento in poppa”. In effetti, nella piccola parabola evangelica che abbiamo ascoltato, si dice che lo spirto impuro, quando ritorna nella casa da cui era uscito, «la trova vuota, spazzata e adorna» (Mt 12,44). Tutto è a posto, tutto è in ordine, ma il padrone di casa dov’è? Non c’è. Non c’è nessuno che la vigili e che la custodisca. È questo è il problema. Il padrone di casa non c’è, è uscito, si è distratto, oppure è in casa ma addormentato, e dunque è come se non si fosse. Non è vigilante, non è attento, perché è troppo sicuro di sé e ha perso l’umiltà di custodire il proprio cuore. Dobbiamo custodire sempre la nostra casa, il nostro cuore e non essere distratti e andare… perché qui è il problema, come diceva la Parabola.

Allora, lo spirito cattivo può approfittarne e ritornare in quella casa. Dice il Vangelo che però non ci torna da solo, ma insieme ad altri «sette spiriti peggiori di lui» (v. 45). Una compagnia di malaffare, una banda di delinquenti. Ma – ci chiediamo – com’è possibile che possano entrare indisturbati? Come mai il padrone non se ne accorge? Non era stato così bravo a fare il discernimento e a cacciarli via? Non aveva avuto anche i complimenti dei suoi amici e dei vicini per quella casa così bella ed elegante, così ordinata e pulita? Già, ma forse proprio per questo si era innamorato troppo della casa, cioè di sé stesso, e aveva smesso di aspettare il Signore, di attendere la venuta dello Sposo; forse per paura di rovinare quell’ordine non accoglieva più nessuno, non invitava i poveri, i senza tetto, quelli che disturbano… Una cosa è certa: qui c’è di mezzo il cattivo orgoglio, la presunzione di essere giusti, di essere bravi, di essere a posto. Tante volte sentiamo dire: “Sì, io ero cattivo prima, mi sono convertito e adesso, ora la casa è in ordine grazie a Dio, e stai tranquillo per questo…” Quando confidiamo troppo in noi stessi e non nella grazia di Dio, allora il Maligno trova la porta aperta. Allora organizza la spedizione e prende possesso di quella casa. E Gesù conclude: «La condizione di quell’uomo diventa peggiore di prima» (v. 45).

Ma il padrone non se ne accorge? No, perché questi sono i demoni educati: entrano senza che tu te ne accorga, bussano alla porta, sono cortesi. “No va bene, vai, vai, entra…” e poi alla fine comandano loro nella tua anima. State attenti a questi diavoletti, a questi demoni: il diavolo è educato, quando fa finta di essere un gran signore. Perché entra con la nostra per uscirne con la sua. Occorre custodire la casa da questo inganno dei demoni educati. E la mondanità spirituale va per questa strada, sempre.

Cari fratelli e sorelle, sembra impossibile ma è così. Tante volte perdiamo, siamo vinti nelle battaglie, per questa mancanza di vigilanza. Tante volte, forse, il Signore ha dato tante grazie e alla fine non siamo capaci di perseverare in questa grazia e perdiamo tutto, perché ci manca la vigilanza: non abbiamo custodito le porte. E poi siamo stati ingannati da qualcuno che viene, educato, e si mette dentro e ciao…il diavolo ha queste cose. Ciascuno può anche verificarlo ripensando alla propria storia personale. Non basta fare un buon discernimento e compiere una buona scelta. No, non basta: bisogna rimanere vigilanti, custodire questa grazia che Dio ci ha dato, ma vigilare, perché tu puoi dirmi: “Ma quando io vedo qualche disordine, me ne accorgo subito che è il diavolo, che è una tentazione…” sì, ma questa volta viene travestita da angelo: il demonio sa travestirsi da angelo, entra con parole cortesi, e ti convince e alla fine è la cosa peggiore dall’inizio… Bisogna rimanere vigilanti, vigilare il cuore. Se io domandassi oggi ad ognuno di noi e anche a me stesso: “cosa sta succedendo nel tuo cuore?” Forse non sapremo dire tutto: diremo una o due cose, ma non tutto. Vigliare il cuore, perché la vigilanza è segno di saggezza, è segno soprattutto di umiltà, perché abbiamo paura di cadere e l’umiltà che è la via maestra della vita cristiana.

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Saluti

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Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto voi giovani volontari, qui convenuti nella Giornata nazionale del Servizio civile e li incoraggio ad essere testimoni di bontà, di tenerezza e di amore gratuito con tutti, specialmente con le persone più fragili. E voglio dire una cosa: io ho trovato tre cose molto belle nella società italiana, nella Chiesa italiana. Una di queste è il volontariato. Voi avete un volontariato forte, forte! Andate avanti con questa spiritualità del volontariato che ci fa aiutare tanti, uno con l’altro e ci unisce pure. Sono lieto di accogliere la Corale di Oristano con il loro Arcivescovo, l’Associazione Nazionale Marinai e l’Associazione “I nostri angeli in Paradiso” di Favara.

Il mio pensiero va come di consueto, ai giovani, ai malati, agli anziani e agli sposi novelli - sono tanti! A tutti voi addito la figura di San Giovanni della Croce, Sacerdote e Dottore della Chiesa, di cui oggi celebriamo la memoria liturgica. Sull’esempio di questo grande maestro spirituale, testimoniate nell’esistenza quotidiana la vostra adesione alla volontà di Dio. E rinnoviamo la nostra vicinanza al martoriato popolo ucraino, perseverando nella preghiera fervorosa per questi nostri fratelli e sorelle che soffrono tanto.

Fratelli e sorelle io vi dico: si soffre tanto in Ucraina, tanto, tanto! E io vorrei attirare l’attenzione un po' sul prossimo Natale, anche le feste. È bello festeggiare il Natale, fare le feste…ma abbassiamo un po' il livello delle spese di Natale – così si chiamano. Facciamo un Natale più umile, con regali più umili. Inviamo quello che risparmiamo al popolo ucraino, che ha bisogno, soffre tanto; fanno la fame, sentono il freddo e tanti muoiono perché non ci sono medici, infermieri a portata di mano. Non dimentichiamo: un Natale, sì; in pace con il Signore, sì, ma con gli ucraini nel cuore. E facciamo quel gesto concreto per loro.

Invitandovi tutti ad intensificare la preparazione spirituale al Natale ormai prossimo, di cuore vi benedico e adesso tutti insieme preghiamo il Padre Nostro.


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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