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Il restauro della Cappella Paolina e la manutenzione della Cappella Sistina

Ultimo Aggiornamento: 26/02/2011 22:33
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30/06/2009 20:57
 
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Il restauro della Cappella Paolina lascia aperti ancora molti interrogativi

Un capolavoro annerito
da migliaia di candele


Il 30 giugno alle 11.30 sono stati presentati nella Sala Regia del Palazzo Apostolico Vaticano i restauri della Cappella Paolina, in vista dell'inaugurazione presieduta dal Papa il 4 luglio prossimo. Sono intervenuti il cardinale Giovanni Lajolo, presidente del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani, Pier Carlo Cuscianna, direttore dei Servizi Tecnici del Governatorato e il delegato del direttore dei Musei Vaticani per i Dipartimenti scientifici e i laboratori, del quale pubblichiamo una ricostruzione complessiva dell'opera di restauro.

di Arnold Nesselrath

La Cappella Paolina non è soltanto topograficamente collegata con la Cappella Sistina attraverso la Sala Regia, ma come cappella parva del Palazzo Apostolico Vaticano, sta anche in uno stretto rapporto liturgico con la cappella magna, ridecorata da Sisto iv. Non essendoci nella Sistina un tabernacolo, la Paolina ospita tutte le funzioni di una Cappella del Santissimo Sacramento. Si celebravano qui le Quarantore, per le quali si montava generalmente una grande macchina su cui bruciavano centinaia di candele e torce; in mezzo a queste veniva esposto l'ostensorio con l'Ostia che risplendeva per le luci attorno. Il Giovedì e il Venerdì Santo veniva installato qui tradizionalmente il Santo Sepolcro.


La nuova cappella parva, costruita tra il 1537 e 1539 da Paolo iii (1534-1549) e dedicata al suo patrono, l'Apostolo delle genti, aveva anche un'altra funzione specifica. Era destinata a servire durante il conclave come luogo dove si raccoglievano i voti, una tradizione interrotta definitivamente solo nel 1670.

La commissione data a Michelangelo di raccontare sulle pareti laterali in due grandi affreschi storie dei principi degli apostoli, la conversione di Saulo e la crocifissione di san Pietro, aveva quindi in questo luogo un significato programmatico.

Michelangelo mette in scena con la massima tensione il momento di capovolgimento nella vita di Saulo/Paolo sulla via di Damasco:  su un raggio di luce, che brilla di nuovo dopo il restauro attraverso tutto l'affresco, Cristo precipita capovolto dall'angolo estremo in alto a sinistra e si lancia verso il persecutore della sua gente schiacciandolo all'estremo bordo inferiore dell'intera composizione. Michelangelo impiega la metafora del raggio per dare alla  rivelazione  un'espressione  visiva. Il vuoto profondo, che si sarebbe creato al centro della scena, è stato riempito  dal  Buonarroti  con  il  cavallo nero  sul  quale  viaggiava  il  protagonista ora caduto per terra e accecato. L'animale, imbizzarrito per le voci e le luci dal cielo fugge al galoppo come un demone appena esorcizzato verso il paesaggio del fondo lontano, che si è riaperto con la recente pulitura. Il giovane scudiero non riesce più a domarlo e viene trascinato dalla forza del cavallo.

Cristo in alto è accompagnato da una folla di angeli nudi, imparentati chiaramente con quelli nella visione della risurrezione alla fine dei tempi che Michelangelo aveva dipinto sopra l'altare della Sistina. L'artista potrebbe aver utilizzato qui modelli che aveva originariamente preparato per la Caduta degli angeli ribelli, l'affresco destinato alla controfacciata della Sistina. Questa era allora in rovina a causa del grave incidente del fatidico Natale del 1522, ma Paolo iii non aveva più fatto eseguire la sostituzione concordata da Michelangelo con il precedente Pontefice, Clemente VII, con grande disappunto dell'artista.

Che Cristo sia circondato dalla gloria degli angeli è un elemento insolito per l'iconografia della conversione di Saulo; il dialogo si svolge normalmente in modo diretto solo tra i due protagonisti. Nel momento in cui Michelangelo rappresenta la visione di Saulo come cielo intero, allude al martirio di santo Stefano che vedeva il cielo aperto mentre Saulo presiedeva alla sua esecuzione e la Bibbia lo stigmatizza come persecutore dei cristiani.

Diverse scelte iconografiche fuori dagli schemi abituali evidenziano l'intensa discussione tra la committenza e l'artista, altre aspettano ancora spiegazioni soddisfacenti:  perché Michelangelo ha rappresentato Paolo da vecchio? Perché non segue la tipologia plotiniana con la sua fisionomia sviluppata in epoca tardo antica? Perché decide di vestire le gambe, che aveva inizialmente cominciato a dipingere nude?

Insolito è anche l'abbinamento degli episodi scelti della vita dei santi Pietro e Paolo, perché la conversione di Saulo avrebbe richiesto la consegna delle chiavi a Pietro, mentre alla crocifissione di san Pietro doveva corrispondere la decollazione di san Paolo. Chi ha scelto l'attuale soluzione ha voluto incrociare i confronti tradizionali, portando ancora più vicino i principi degli apostoli. Proprio nella loro unione viene espresso il passaggio dalla conversione al martirio. Inoltre viene evidenziato che la conversione non garantisce ancora di vedere, ma che solo il martirio porta alla visione.

Lo sguardo di san Pietro è forte e deciso. Lui è l'unico degli oltre cento personaggi presenti in questi due dipinti che guarda fuori dall'affresco e prende un contatto, per così dire diretto, con il visitatore, salvo forse due delle donne dolenti in primo piano.
Il pittore però le ha collocate come mezze figure apparentemente più in basso, come davanti all'affresco:  si troverebbero cioè nella nostra realtà.

Lo sguardo di Pietro è diretto a tutti quelli che entrano in questa cappella, primo di tutti naturalmente al suo successore, una volta persino eletto sotto questo sguardo. Ma è ugualmente diretto ai cardinali che hanno eletto il Papa, così come ai cardinali che non sono stati eletti.

Infine Pietro guarda ogni singolo visitatore, che stabilirà un proprio dialogo e diventerà partecipe degli eventi negli affreschi. Sembra che Michelangelo abbia sentito la necessità di enfatizzare questo rapporto, perché ha modificato la croce e la posizione del primo  Papa nel corso dell'esecuzione della pittura. Ne testimoniano i pentimenti nell'intonaco le cancellazioni e i cambi nelle stesure del colore.

Rimane enigmatica anche la questione dei chiodi con i quali san Pietro è ora fissato sulla croce, che non sono autografi di Michelangelo:  l'artista li aveva omessi per un motivo ben preciso o no? Mancano comunque nelle prime incisioni che riproducono l'affresco, e nel 1564 era nata un'accesa polemica sull'argomento, documentata nel testo del critico d'arte Andrea Gilio. Sembra che già nel Cinquecento qualcuno abbia voluto intervenire come correttore di questo elemento significativo, perché compaiono nelle incisioni di fine secolo.

Michelangelo ha voluto collocare le due scene in un paesaggio ideale, quasi astratto, e non in una topografia precisa. Non segue nessuna delle due tradizioni medioevali. Una presume la crocifissione di san Pietro nel circo di Nerone, cioè in Vaticano. L'altra interpreta il brano inter duas metas come a mezza strada tra la meta Remi, la piramide di Caio Cestio, già presunta tomba di Remo, e la meta Romuli, la piramide in Borgo distrutta nel 1496 e presunta tomba di Romolo, quindi sul Gianicolo. Il pittore si affida soltanto alle sue figure e le colloca nello spazio; o meglio, crea lo spazio collocando le figure, variando le grandezze e le proporzioni, aumentando l'incisione del contorno o la sfumatura dei tratti della fisionomia. Questa è stata la grande rivelazione alle fine dei restauri, quando le figure dipinte che si incontravano tutti i giorni faccia a faccia sui ponteggi avevano preso le loro giuste posizioni nello spazio come su un palco, ed erano entrate nei loro ruoli nella scena da rappresentare.
 
Soltanto nella Conversione di Paolo Michelangelo sembra aver concesso, forse al consigliere pontificio che seguiva i lavori per il Papa, un elemento iconografico determinante, che però non toglie niente al paesaggio vuoto, quasi astratto, senza piante, case o scenette episodiche che rendono tutto più ameno e distraggono dall'impatto con quello che accade.

In fondo a destra il Buonarroti ha dipinto una piccola veduta della città di Damasco, eseguita non in affresco, ma a secco, sovrapponendola alle colline in fondo. L'originale sottile di Michelangelo era coperto da una ridipintura di una veduta orientalistica simile ai presepi napoletani. Ispirato alla pittura antica, oggi diremmo pompeiana, il Buonarroti aveva fatto intuire con sublimi pennellate di bianco di san Giovanni in una atmosfera sfumata la meta del viaggio di Saulo.

Lo stile dell'architettura con le cupole, le torrette e l'edicola della porta di città allude alle grandi opere che Michelangelo alla sua età avanzata stava ancora per creare. Già durante i lavori nella Cappella Paolina finiva la tomba di Papa Giulio ii iniziato nel lontano 1505, diventava nel 1546 architetto della fabbrica della Basilica di San Pietro e cominciava il grande progetto urbanistico della Piazza del Campidoglio. Quindi il fatto che lavori quattro anni a una parete - in totale otto per le due scene - che Botticelli in Sistina o Raffaello nelle Stanze eseguirono in una media di tre mesi, ha anche un motivo in tutti questi impegni.

Il restauro appena concluso ha sin dall'inizio cercato di restituire Michelangelo nel suo insieme e di presentare la Cappella del santissimo Sacramento del Palazzo Apostolico come grande unità artistica e estetica. Michelangelo non era il protagonista, ma è stato la misura per i pittori Lorenzo Sabbatini, Federico Zuccari e i loro stuccatori, che furono chiamati da Papa Gregorio xiii e hanno cambiato completamente l'aspetto dell'ambiente, così come per gli stuccatori che hanno abbellito con decori raffinatissimi il nuovo presbiterio aggiunto  alla  navata  sotto  Paolo  v. Lo stesso vale anche per l'attuale restauro, che ha recuperato proprio la solennità della decorazione del tardo Cinquecento.

Il confronto con la storia del monumento guida sempre tutti i restauri dei Musei Vaticani e permette di avvicinarsi al suo significato e alla sua estetica. Per quanto si cerchi di orientarsi a un momento preciso nella storia, le vicende del tempo rimangono visibili e continueranno a esserlo in futuro. La Cappella Paolina rimane, anche dopo l'intervento presente, una storia dei Papi con diverse aggiunte posteriori:  cosa manifesta tra l'altro nella controfacciata, nell'arredamento liturgico e in numerosi dettagli.

Nonostante tutto, è la migliore interpretazione che tutti quelli che hanno contribuito all'attuale restauro hanno potuto offrire.
Con l'interesse e l'intervento che il Santo Padre ha voluto dare con le sue due visite al cantiere, vale qui di nuovo  la  formula  usata  al  tempo  di Giulio ii:  il lavoro è stato eseguito ad praescriptum Benedicti.



(©L'Osservatore Romano - 30 giugno 1 luglio 2009)

This handout picture released by the Vatican Press Office on June 30, 2009 shows a view of the Capella Paolina (Paolina chapel) at The Vatican. The chapel, dated  1538 and commissioned by Pope Paul III, was restored and will be inaugurated by Poep Benedict XVI on July 4, 2009.

In this photo made available by the Vatican newspaper L' Osservatore Romano, Tuesday, June 30, 2009, a detail of Michelangelo's Conversion of St. Paul, is seen after the restoration of the fresco. The Vatican says the restoration of a chapel that includes two Michelangelo frescoes has been completed. The Cappella Paolina, or the Pauline Chapel, in the Apostolic Palace is used by the pope and is not open to the general public. It contains Michelangelo frescoes depicting the Conversion of St. Paul and the Crucifixion of St. Peter. Officials said Tuesday that the five-year euro3. 2 million (US$4.5 million) restoration was privately funded. Pope Benedict XVI will inaugurate the restored chapel with a prayer service Saturday.

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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30/06/2009 21:03
 
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Gli affreschi visti da vicino

Quando Michelangelo
corregge Michelangelo


di Maurizio De Luca

Il restauro della Cappella Paolina ha rappresentato uno degli interventi più articolati e impegnativi eseguiti dal Laboratorio restauro dipinti dei Musei Vaticani, non tanto per l'estensione delle sue superfici, quanto per la complessità dei problemi tecnici affrontati e per le scelte messe in atto nella restituzione estetica finale. Lo scenario che si presentava all'inizio dei lavori era quello di un ambiente che aveva perso la sua connotazione materica costituita dall'alternanza tra i due principali protagonisti della decorazione:  il metallo dell'oro e il bianco dello stucco romano.

Purtroppo la loro collocazione in altezza non permette di apprezzare a pieno ciò che i restauratori hanno visto e toccato; un numero incredibile di invenzioni e di raffinati decori consegnati a una nuova visione attraverso un  paziente e lungo lavoro di ripulitura.

Un'idea di ciò che è stato recuperato sulle volte è fornita dall'agevole visione delle quattro coppie di angeli tedofori agli angoli della Cappella.

Poco considerati in passato, sono invece risultati di splendida fattura e con vesti finemente decorate in oro zecchino, con disegni personalizzati per ciascuna figura; otto angeli che appaiono a portare la luce varcando soglie angolari che si aprono sull'azzurro del cielo, attraverso cui si avverte il flusso dell'aria che ne muove le vesti.
 
Nel corso dell'intervento sulle volte sono emerse numerose ricostruzioni e integrazioni di intere sezioni decorative realizzate con materiali diversi - che si è scelto comunque di mantenere - limitandosi esclusivamente ad adattarle all'aspetto dello stucco romano recuperato per il resto delle superfici. All'interno delle sontuose cornici in stucco dorato prendevano nuova vita anche gli affreschi delle volte e delle pareti, opera di Zuccari e Sabbatini, che hanno fornito la possibilità di accogliere in un giusto ambiente gli effetti del restauro degli ultimi affreschi di Michelangelo.

Dai primi test di pulitura e dagli studi preliminari compiuti nel 2003 già emergevano due distinte situazioni conservative. Per la scena di Saulo, le cause del degrado erano principalmente ascrivibili alla posizione della parete che, sino alla costruzione della facciata della Basilica di San Pietro a opera del Maderno, comunicava con l'esterno:  più di mezzo secolo di esposizione alle intemperie che hanno innescato la formazione di sali e la caduta di pellicola. Per il secondo affresco le cause erano principalmente imputabili alla trascuratezza e alla scarsa sensibilità dell'uomo - numerosi fori di chiodi, gocce di materiali cerosi e graffi - e a incaute pseudo-manutenzioni operate nel corso dei secoli.

L'ultimo restauro risale agli anni Trenta del Novecento e fu compiuto dal personale del Laboratorio di restauro dipinti dei Musei Vaticani appena istituito. Puntualmente notificato e documentato, l'intervento fu corredato anche da una delle prime indagini scientifiche della storia del restauro e si rivolse soprattutto alla capillare campagna di riadesione degli intonaci - a tutt'oggi risultata ancora valida - cui seguì una cauta pulitura utilizzando la cosiddetta pasta verde, un impasto di acqua, farina e sali di rame, l'evoluzione della famosa mollica di pane dei mundatores cinquecenteschi della Sistina.
 
Gli affreschi furono anche ravvivati con del fiele di bue, una sostanza organica che l'azione del tempo ha scurito facendoci pervenire una tavolozza michelangiolesca dall'improponibile gamma cromatica. Le restituzioni grafiche degli anni Trenta relative al conteggio delle giornate (le porzioni d'intonaco umido sul quale il pittore dipinge nell'arco di alcune ore) ne segnalavano ottantacinque per la scena della conversione e ottantasette per quella della crocefissione.

Su quest'ultimo affresco lo studio compiuto nel corso dell'attuale restauro ha portato a individuarne altre, sfuggite alla precedente indagine; la più evidente riguarda il cielo, che, segnalato come dipinto in un'unica soluzione, è risultato invece realizzato su due grandi stesure d'intonaco.

Secondo la prassi pittorica in uso fino al XVII secolo era buona norma far coincidere quanto più possibile le cesure di fine giornata con il contorno dei soggetti da rappresentare. Sorprende invece che un artista cimentatosi con la vastità di ben altre estensioni d'intonaco, nel caso degli affreschi paolini - dalla superficie relativamente ridotta - frazioni alcune zone dell'impianto compositivo con stesure d'intonaco dai contorni approssimativi e oggettivamente fuori contesto.

Si può comprendere il perché Michelangelo non abbia "personalizzato" l'andamento di alcuni soggetti solo in considerazione del fatto che si sarebbe riservato di armonizzare il tutto a opera compiuta. La conferma è giunta nel corso del restauro con il recupero di pigmenti applicati a secco in prossimità dei confini tra le giornate e sulle vaste campiture del cielo e dei terreni. La pulitura ha fatto quindi conoscere un Michelangelo che si avvale di una tecnica di pittura murale molto vicina a quella dei suoi maestri quattrocenteschi.

Infatti, oltre a dipingere su intonaco umido, quindi "a fresco", l'artista campisce le sue giornate di lavoro anche con la tecnica del "mezzo fresco", applicando cioè i colori mescolati alla calce su un intonaco parzialmente asciutto, per terminare, come sopra accennato, con l'armonizzazione sulla malta ormai completamente secca. Su alcune aree delle due scene, e in special modo su quella di san Pietro, sono stati individuati anche dei sottofondi di colore omogeneo sui quali il pittore dipinge contestualmente i soggetti da rappresentare:  è questo il "fare" quotidiano dell'anziano artista toscano nel praticare gli impalcati della Cappella per otto lunghi anni.

Michelangelo corregge se stesso, sia con limitate modifiche, sia con veri e propri mutamenti d'intenzione. Il più rilevante riguarda la scena della crocefissione, sulla quale decide di correggere l'impostazione prospettica della croce ruotandone il braccio orizzontale di qualche grado verso l'alto sul quale esegue una nuova mano sinistra dell'apostolo del quale modifica anche il capo facendogli assumere l'attuale postura quasi frontale.

Ma mentre Michelangelo si limita a ricoprire la prima redazione della croce e della mano sinistra, per realizzare la nuova testa del santo il pittore gratta letteralmente via il colore di quanto già dipinto, del quale si sono ritrovati ancora i lacerti che hanno permesso di stabilire come l'originaria posizione del capo fosse quasi completamente riversa all'ingiù.

Osservando un disegno e alcune copie a stampa di artisti tardo cinquecenteschi, si è potuto anche comprendere come Michelangelo non avesse previsto alcun panneggio censorio e soprattutto nessun chiodo infisso nel corpo di san Pietro; infatti, i colori con i quali furono realizzate le suddette aggiunte, sono risultati applicati su una superficie pittorica originale già sporca e lacunosa. L'assenza dei chiodi potrebbe così ricondurre al momento immediatamente prima del martirio, quando cioè l'apostolo esprime la volontà di non essere crocefisso come Nostro Signore e la sua richiesta viene appunto sottolineata dal gesto di uno dei carnefici che punta il dito verso il basso.

Tra le altre numerose informazioni che hanno reso l'attuale intervento denso di spunti per nuovi argomenti di studio, non si può non sottolineare la ricostituita possibilità di apprezzare a pieno tutto il luminoso impianto della Conversione.

Aldilà della salvaguardia delle opere d'arte, il restauro rappresenta un momento di conoscenza della materia pittorica che favorisce una sorta di intima complicità tra il restauratore e il pittore. Il distinguere lo scorrere sicuro di un pennello, dagli indugi o dai ripensamenti di momenti meno felici avvicina e riconduce a una dimensione più umana anche il più grande degli artisti.

Questo contatto di quotidianità condivisa ha portato a individuare nel gruppo delle "dolenti" della Crocifissione di san Pietro la zona dove per l'ultima volta Michelangelo ha posato quel pennello che non impugnerà mai più per il resto della sua vita. E anche questo è un privilegio per il restauratore.



(©L'Osservatore Romano - 30 giugno 1 luglio 2009)

In this photo made available by the Vatican newspaper L' Osservatore Romano, Tuesday, June 30, 2009, a detail of Michelangelo's Crucifixion of St. Peter, is seen after the restoration of the fresco. The Vatican says the restoration of a chapel that includes two Michelangelo frescoes has been completed. The Cappella Paolina, or the Pauline Chapel, in the Apostolic Palace is used by the pope and is not open to the general public. It contains Michelangelo frescoes depicting the Conversion of St. Paul and the Crucifixion of St. Peter. Officials said Tuesday that the five-year euro3. 2 million (US$4.5 million) restoration was privately funded. Pope Benedict XVI will inaugurate the restored chapel with a prayer service Saturday.




Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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13/09/2010 22:12
 
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La salvaguardia della Sistina

Stiano tranquilli
i consiglieri troppo zelanti


di Antonio Paolucci
 

"Signora, sono cattolico anch'io!". Pare che una volta Papa Pio XII abbia risposto così alla mitica Clare Boothe Luce l'ambasciatrice statunitense ultracattolica e maccartista che con fervoroso eloquio voleva convincere il Pontefice dei pericoli del comunismo ateo e materialista e della necessità per la Chiesa di approntare con ogni urgenza le opportune contromisure.

La battuta di Papa Pacelli mi è venuta in mente leggendo su "Il Messaggero" del 10 settembre, a proposito della Cappella Sistina, le minuziose descrizioni e raccomandazioni di Pippo Basile e di Francesco Buranelli sulla manutenzione, sulla prevenzione, sul controllo climatico, sulla troppa gente che fa male ai dipinti, e via dicendo.

"Sono cattolico anch'io, cari amici" avrei voglia di dire. Nel senso che queste cose le so da quaranta anni. Le ho imparate e sperimentate in molti luoghi e in molte occasioni, a tutti i livelli di responsabilità.

La mia lunga esperienza di pubblico funzionario al servizio della tutela mi ha però insegnato che i principi, anche i più sacrosanti, le teorie anche quelle più rigorose ed eleganti inventate dal nostro Istituto centrale per il restauro devono essere calati nella realtà, devono rendersi compatibili con le attese e con le esigenze del contesto di cui sono al servizio.

Cerchiamo, prima di tutto, di entrare nella "fisiologia" della Cappella Sistina, costantemente monitorata, giorno dopo giorno, dai nostri tecnici.
Si è detto (ed è vero) che il problema principale per la buona conservazione di duemilacinquecento metri quadrati di pitture murali - l'antologia di figure più famosa e più visitata del mondo - è l'eccessiva pressione antropica.

L'impianto di condizionamento che esiste ed è in funzione da quasi venti anni, impiega un certo numero di ore a smaltire le perturbazioni portate dalle migliaia di visitatori presenti nelle ore più calde della giornata e a riportare l'ambiente alle condizioni desiderate. L'aumento di umidità e di temperatura prodotto dal pubblico (dalle quindici alle ventimila unità, in media, ogni giorno) mette in crisi quella "costanza dei valori" che è l'obiettivo di ogni intervento climatologico finalizzato alla corretta conservazione del patrimonio.

Altro fattore di rischio è rappresentato dalla fluttuazione all'interno dell'ambiente, di polveri sottili di varia natura chimica. Le frazioni più leggere delle polveri fini, trasportate dai moti convettivi, finiscono con il depositarsi sulle superfici affrescate dando origine ai dannosi "nuclei di condensazione".

Gradienti elevati e soprattutto instabili di umidità, di anidride carbonica, di temperatura; sedimenti importanti di polveri indotti dal flusso turistico. Se questi sono i fattori di rischio (posto, e la cosa andrà verificata, che non vi siano apporti di umidità imputabili alle murature esterne), la soluzione più semplice e più efficace sarebbe quella di contingentare il numero dei visitatori.
È evidente, infatti, che meno gente entra in Sistina e meno vistosi e pericolosi sono i fenomeni che ho prima illustrato.

Io non intendo percorrere questa strada. Spiego subito perché. La Cappella Sistina, pur facendo parte di un percorso museale, non è un museo. È uno spazio consacrato. Di più essa è il vero e proprio luogo identitario della Chiesa romano cattolica. Qui si celebrano le grandi liturgie, qui i cardinali riuniti in conclave eleggono il pontefice.

La Sistina è allo stesso tempo la sintesi della teologia cattolica. La storia del mondo (dalla cosmogonia all'Ultimo Giudizio) vi è qui rappresentata insieme al destino dell'Uomo redento da Cristo. La Sistina è la storia della Salvezza per tutti e per ognuno, è l'affermazione del primato del Papa di Roma, è il tempo sub gratia che assorbe, trasfigura e fa proprio il tempo sub lege dell'Antico Testamento. È l'arca della nuova e definitiva alleanza che Dio ha stabilito con il popolo cristiano.
Non a caso l'architetto Baccio Pontelli ebbe dal Papa l'ordine di dare alla cappella le dimensioni del perduto Tempio di Gerusalemme così come ci sono riferite dalla Bibbia.

Tutto questo per dire che la Sistina è un luogo d'arte di assoluta eccellenza ma è anche uno spazio di altissima catechesi, è "Parola dipinta" oggi come ieri perfettamente eloquente. Tenerla aperta a tutti perché tutti vedano e capiscano è dovere e missione di chi amministra i Musei della Santa Sede. Garantire condizioni accettabili all'ambiente Sistina senza per questo contingentare il numero dei visitatori. Questo è dunque l'obiettivo che mi sono prefisso e che potrà essere raggiunto in questo modo.

Occorrerà rivedere (restaurandolo o sostituendolo se necessario) l'attuale impianto di condizionamento e di depurazione dell'aria. Era un sistema tecnologicamente all'avanguardia diciassette anni fa quando fu messo in opera. Oggi, anche a seguito dell'aumento cospicuo di visitatori verificatosi negli ultimi tempi, chiede di essere tarato e riprogettato per far fronte alle nuove esigenze.

Occorrerà inoltre (questo è un problema di disciplina dei flussi turistici e di opportuna attrezzatura dei percorsi) che i visitatori arrivino in Sistina già almeno in parte "depurati" e "raffreddati". È piuttosto paradossale che il luogo che si vuole tutelare sia in realtà quello più termodinamicamente attivo, quello dove avvengono i maggiori scambi di temperatura, di umidità, di polveri volatili. Per rendere l'ambiente Sistina più stabile sarà necessario dotare gli  ambienti  di  accessi  di  sistemi attivi e passivi che consentano "a monte" l'abbattimento delle polveri portate dai visitatori e una ragionevole diminuzione almeno del loro calore corporeo.

Quanto sia difficile realizzare interventi di questo tipo all'interno dei Musei Vaticani, luogo in assoluto fra i più intoccabili del mondo, lo sappiamo bene. Tuttavia questa è, a mio giudizio, la strada da percorrere. È già all'opera, estensibile a ulteriori cooperazioni interne ed esterne, una ristretta commissione formata da Arnold Nesselrath storico dell'arte Direttore dell'ultimo cantiere sui murali quattrocenteschi della Sistina, da Ulderico Santamaria Responsabile del Laboratorio Diagnostico dei Musei, dall'Ispettore ai Restauri Maurizio De Luca, un uomo che conosce come nessuno gli affreschi vaticani, da Vittoria Cimino titolare dell'Ufficio del Conservatore e coordinatrice del controllo microclimatico dell'ambiente.

Et surtout pas trop de zèle insegnava il grande Talleyrand ai suoi giovani addetti d'ambasciata. Stiano tranquilli i miei troppo zelanti consiglieri. Dopo l'indagine sugli affreschi (la prima davvero minuziosa e radicale, portata con le attrezzature prescritte dalle nuove normative sulla sicurezza, fino al culmine della volta) la Cappella Sistina potrà contare su un progetto di studi e di intervento finalmente efficace.


(©L'Osservatore Romano - 13-14 settembre 2010)
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Nella Cappella Paolina l'ultima fatica di Michelangelo pittore

Il sacrificio di Pietro
a imitazione del Maestro


 

Domenica 27 febbraio all'Auditorium Parco della Musica di Roma, per il ciclo "Lezioni d'arte sul museo a cielo aperto di Roma", il direttore dei Musei Vaticani tiene la conferenza "La Cappella Paolina dei Palazzi Apostolici". Dello stesso relatore pubblichiamo sull'argomento alcuni stralci dal volume Roma, Musei Vaticani (Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2010, pp. 1114-1117).

di ANTONIO PAOLUCCI

Tutti conoscono la Cappella Sistina visitata ogni anno da più di quattro milioni di persone. Pochi, al contrario, possono dire di aver sostato all'interno della Paolina, l'altra cappella papale all'interno dei Palazzi Apostolici. È esclusa dai percorsi museali, ci si può entrare solo per autorizzazione della Prefettura della Casa Pontificia, è il luogo di culto riservato al Papa, ai suoi ospiti, alla sua corte. Recentemente la Cappella Paolina è stata oggetto di un lungo e delicato restauro durato sette anni (2002-2009), curato dai tecnici dei Musei Vaticani sotto la guida di Maurizio De Luca e di Maria Pustka, inaugurata da Papa Benedetto XVI il 4 luglio 2009.
Non è facile (non però impossibile) visitare questo luogo eminente della storia dell'arte universale. Tuttavia il restauro recente è stato rivelatore di tali e tante novità e la pittura dell'ultimo Michelangelo è a tal punto decisiva per intendere il percorso artistico spirituale e umano di quel Grande, che accennare alla "nuova" Paolina è necessario.

La cappella è conosciuta nei documenti come parva perché le sue dimensioni sono relativamente piccole. È affrescata con gli episodi salienti della vita dei protoapostoli Pietro e Paolo. Quando sull'altare viene esposto il Santissimo Sacramento, il ruolo del Papa di Roma, custode del Corpus Christi nella legittimità della successione apostolica e nella fedeltà all'ortodossia vi è perfettamente significato. Questo spiega perché i romani pontefici hanno sempre custodito la cappella parva con ogni cura, modificandola e arricchendola nei secoli. Il fuoco dell'attenzione critica va da sempre ai due murali raffiguranti la Conversione di san Paolo e la Crocifissione di san Pietro, capolavori ultimi di Michelangelo pittore, e va al loro committente, Paolo III Farnese, il grande Papa che inaugurò il Giudizio in Sistina (1541) e aprì il concilio di Trento (1545). Ma molti sono i pontefici che si sono occupati della Paolina negli ultimi cinque secoli, molti gli artefici - pittori, decoratori, plasticatori, doratori - che si sono succeduti al suo interno. La Cappella Paolina è dunque una realtà plurima, stratificata e tuttavia omogenea e coerente. Alla base della filosofia che ha ispirato l'ultimo restauro, c'è stata la consapevolezza di questi fondamentali caratteri distintivi: la delicata e complessa orditura simbolica e iconografica che governa lo spazio sacro e gli dà significato, la coerente unità di tono, di colore, di stile, di omogeneo invecchiamento che i secoli ci hanno consegnato.

Ed ora alcune notizie essenziali sulla storia della Cappella Paolina. All'inizio c'è Paolo III Farnese. Fu lui a commissionarne la edificazione all'architetto Antonio da Sangallo (1537-1539) mentre affidava a Michelangelo l'esecuzione dei due celebri murali contrapposti.

Il Buonarroti che negli anni Quaranta del XVI secolo lavora in Paolina, è un uomo ormai avanzato negli anni, in cattiva salute, amareggiato e scontento. Era uscito spossato dalla immane fatica del Giudizio inaugurato alla vigilia di Ognissanti del 1541. A partire dal 1547, quando il Papa gli affida la responsabilità del nuovo San Pietro, la progettazione della Cupola assorbe tutte le sue energie, mentre lo angustiano le invidie, le gelosie, i continui contrasti con i Soprastanti alla Fabbrica.
Il cantiere della Paolina impegnò Michelangelo, con lunghe interruzioni fino al 1550. Prima dipinse il riquadro con la Conversione di Saulo, poi la Crocifissione di san Pietro. Quest'ultimo eseguito negli anni che videro dissolversi il suo universo intellettuale ed affettivo perché nel 1547 moriva Vittoria Colonna, l'amica e la confidente degli anni tardi, e nel 1549 lasciava questo mondo il "suo" Papa, Paolo III Farnese. Ora, dopo la rimozione della scura camicia di sporco e di ritocchi alternati e incongrui che li opprimeva, i murali del Buonarroti sono stati restituiti al meglio delle loro condizioni conservative e quindi al meglio della leggibilità e del godimento possibili. Gli affreschi di Michelangelo ci appaiono ora segnati dal tempo, logorati e consumati in più parti e tuttavia ancora terribilmente vivi ed eloquenti. Non li abbiamo riportati al "primitivo splendore" come scrivono i cattivi giornalisti, ma semplicemente consegnati a una possibilità di lettura finalmente oggettiva e allo stesso tempo gradevole. È tutto quello che si può e si deve chiedere a un buon restauro. Niente di più e niente di meno.

Il Michelangelo che affresca in Paolina negli anni Quaranta del Cinquecento, procede per giornate piccole, con lunghe interruzioni e molti pentimenti nella stesura pittorica. Le somiglianze con il Giudizio sono strettissime: stessa gamma cromatica, stessa imperiosa saldezza plastica, spesso stesse idee e stessi disegni riutilizzati nell'occasione. C'è semmai di più e di diverso, rispetto al Giudizio, una visione se possibile ancora più tragica e pessimistica della Umanità e della Grazia.
Quel Cristo che scende in picchiata da un cielo catastrofico ad afferrare, a "tirar su" Saulo disarcionato e accecato, precipita su gente terribile, violenta, stolida, disperata. Si ha l'impressione che il mistero della Grazia offerta a una umanità immeritevole angosci l'anima dell'artista che vive e testimonia, da cristiano, la crisi religiosa della sua epoca, divisa e lacerata dalla Riforma.

Questioni dottrinali e teologiche di grande momento sfiorano il murale con la Crocifissione di san Pietro, ultima sua opera in Cappella Paolina. Penso all'idea formidabile - non a caso ripresa, mezzo secolo dopo, da un altro Michelangelo, il Merisi da Caravaggio, nella Crocifissione della Cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo - dell'Apostolo che nel momento di stendersi sulla croce ci guarda corrucciato, quasi dubbioso della utilità del suo martirio. Perché è quello sguardo terribile? Per tutti noi, certo, indegni di portare il nome di cristiani. Ma anche per i cardinali che un tempo qui si riunivano in Conclave e soprattutto per il Papa che entrando in Paolina non poteva sfuggire allo sguardo di san Pietro. Come se l'apostolo, disteso sulla croce, intendesse dire al suo successore: Tu es Petrus (Matteo, 16, 18) e ancora: "ricordati che il tuo è il mio destino, sii degno della mia testimonianza".

E che dire dei chiodi ben visibili sulle mani e sui piedi dell'Apostolo? Il restauro ha dimostrato, senza possibilità di dubbio, che i chiodi in origine non c'erano. Michelangelo non li aveva dipinti. Sono stati aggiunti in un tempo successivo. Nell'idea di Michelangelo, san Pietro si consegna volontariamente al sacrificio. Il suo corpo non toccato ancora dai segni del supplizio, è una specie di spirituale offertorio. Un offertorio che va al di là delle contingenze della storia, che deve essere continuo e sempre presente nella vita della Chiesa. La Crocifissione di san Pietro secondo Michelangelo è il monito del Vicario ai suoi successori nella sequela apostolica.
Abbiamo detto che Michelangelo, in Cappella Paolina, è coprotagonista di un insieme iconografico e stilistico unitario. Nel 1550 la decorazione pittorica era rimasta interrotta ai due murali con la Conversione di Saulo e la Crocifissione di san Pietro. Bisognava completarla con gli altri episodi della vita dei principi degli apostoli.
Dopo una interruzione lunga più di vent'anni, i lavori in Paolina ripresero sotto il pontificato di Gregorio XIII Boncompagni, uomo di profondi studi e di grande cultura, il committente della Galleria delle Carte Geografiche e della Torre dei Venti, il riformatore del calendario civile.
Papa Boncompagni chiamò i pittori Lorenzo Sabatini e Federico Zuccari perché completassero il ciclo iconografico, mentre decine di decoratori, di doratori, di stuccatori i cui nomi affollano i registri di pagamento, lavoravano al minuzioso e sontuoso arredo interno della Cappella.

Immaginate a questo punto i due pittori - Sabatini e Zuccari - chiamati a confrontarsi con Michelangelo, a dieci anni dalla sua morte, a quaranta dalla inaugurazione del Giudizio, quando era ancora fresca di stampa l'ultima edizione delle Vite di Giorgio Vasari, l'autore che aveva consegnato il nome di Buonarroti all'aura del genio ineguagliato e ineguagliabile e, quasi, allo statuto della "divinità".

I due, lusingati certo ma anche intimoriti dal confronto, vollero tenersi saggiamente sottotono, per nulla competitivi e anzi per quanto possibile mimetici del supremo modello (Sabatini nella Caduta di Simone Mago, lo stesso Zuccari nei modi allegorici della volta), attenti a non creare disarmonie nel contesto stilistico generale. Non diversamente si comportarono i molti artisti, artigiani, decoratori, restauratori che intervennero nel tempo all'interno della Cappella. Perché non c'è stato si può dire Papa che negli ultimi quattro secoli non si sia occupato in maniera più o meno rilevante della Cappella Paolina. L'ultimo intervento significativo, nel Novecento, è stato quello di Paolo VI Montini che realizzò (1974-1975) un discusso riordino della parte presbiteriale. Con il consenso di Papa Benedetto XVI quell'assetto è stato rimosso e il presbiterio restituito alla situazione precedente.



(©L'Osservatore Romano - 27 febbraio 2011)

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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